lunedì 24 gennaio 2011

Come andare sicuramente all'inferno

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E' una forma di "arte" che può forse anche fruttare dei benefici in termini economici, ma che sicuramente porta dritti all'inferno. Questa forma di "arte" si chiama: parlare di niente. Basta accendere la televisione, non importa il canale, sono tutti uguali: quale che sia il talk-show, quale che sia la fascia oraria (protetta o no), quale che sia il conduttore/ice, dopo qualche minuto mi rendo conto che sto ascoltando parole inutili, che non servono a niente. Mons. Ravasi ha fatto senza dubbio la mia stessa esperienza prima di scrivere il piccolo ma prezioso testo che riporto (da "Avvenire" del 21 gennaio). Di seguito una meditazione su ciò che significa per la Bibbia "parola inutile"

C'è gente che ama parlare di niente. È l'unico argomento di cui sa tutto. «Non dice nulla, ma lo afferma con grande autorevolezza». Così, un giorno mi sussurrò con ironia un amico, mentre ascoltavamo a una cerimonia ufficiale una personalità che stava infliggendoci con solennità un discorso di circostanza. Bisogna, però, subito dire che basta salire su un mezzo pubblico e lasciarsi avvolgere dal cicaleccio degli utenti dei cellulari, per rimanere basiti di fronte a quel flusso di chiacchiere, vane e vacue, che vengono riversate in questo oggetto di culto del nostro tempo. Forse aveva ragione quella mala lingua dello scrittore inglese ottocentesco Oscar Wilde, straordinario "battutista", con la sferzante considerazione sul vaniloquio che abbiamo sopra proposto. Non c'è bisogno di ripetere il famoso detto della tradizione ebraica: «Il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa». La dotazione di molti, purtroppo, è fatta solo di niente, di banalità, di ovvietà, di superficialità e, non di rado, di volgarità. Interi programmi televisivi si reggono su questa inconsistenza e il fatto che siano così seguiti fa solo sospettare che si diffonda sempre più quel modello di gente che Wilde bollava tanto impietosamente. Non ho mai dimenticato ciò che mi disse, l'unica volta in cui lo incontrai, lo scrittore Riccardo Bacchelli: «Reverendo, si ricordi: gli stupidi impressionano non foss'altro che per il numero!». Detto questo, però, non dimentichiamo che qualche schizzo di stoltezza e di vacuità può raggiungere anche le nostre menti e le nostre anime. Bisogna, allora, essere molto sorvegliati e autocritici e ripetere col Salmista: «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua, metterò un morso alla mia bocca» (39,2).


Pubblico la bellissima meditazione che il p. Cantalamessa ha tenuto a Rimini in occasione della XXXI Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito sul tema: "La testimonianza di Gesù è lo Spirito di profezia" (Ap. 19,10). Leggendola si vedono bene due cose:


1. che cosa è la profezia cristiana;
2. che cosa è la "parola inutile" nella Sacra Scrittura.



Pensavo in questi giorni che io ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino. I miei nonni materni avevano un grande campo in collina, seminato a grano. La mietitura si faceva ancora tutta a mano, con la falce, nella calura estiva. Io e una schiera di cuginetti eravamo incaricati di portare acqua ai mietitori. Era un continuo andare e venire dalla fonte al campo. Gli operai di rialzavano, tracannavano caraffe d’acqua con uno spicco di limone dentro e si rimettevano a mietere cantando.

È quello che ho continuato a fare, dicevo, tutta la vita: portare acqua ai mietitori, l’acqua della parola di Dio, ai mietitori del campo del Signore che siete voi! Altri sostengono il peso della fatica e del caldo, io faccio quello che fanno i bambini: portare il refrigerio di un po’ d’acqua. Oso fare mie le parole che il mio padre Francesco d’Assisi scriveva in una lettera a tutti i fedeli: “Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare le fragranti parole del mio Signore” [1]. Lui parla di pani, non di acqua, ma è la stessa realtà.

Molti, mi è stato detto, non hanno trovato posto in questo pur immenso padiglione della fiera di Rimini e sono in un altro padiglione davanti al video. È comprensibile che si sentano un po’ delusi. Io però ho una buona notizia per loro. Il libro dei Numeri narra cosa successe quando Mosè, nella tenda del convegno, trasmetteva lo Spirito profetico ai settanta anziani: due uomini, Eldad e Medad, non erano con gli altri nella tenda, ma lo Spirito Santo scese su di loro in maniera ancora più visibile che su quelli che erano nella tenda e cominciarono a profetare (cf. Num 11, 24-30).

“Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15, 26-27). È il testo evangelico proposto alla nostra meditazione per questo incontro.

Dopo la Pentecoste vediamo questo annuncio di Gesú perfettamente realizzato nella Chiesa. Pietro conclude il suo discorso davanti al Sinedrio, dicendo: “Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5, 30-32). Non si tratta però di due testimonianze distinte e indipendenti, ma di una sola testimonianza. Il senso è: il Paraclito mi renderà testimonianza attraverso di voi. Lo Spirito Santo è il testimone interiore invisibile; gli apostoli e, dopo di loro, i vescovi e, in modo diverso, tutti i discepoli sono i testimoni esteriori, visibili. Prestano la voce allo Spirito.

Riflettiamo su questo compito che oggi è anche il nostro: che genere di testimonianza si aspetta Gesú da noi? Una frase dell’Apocalisse sembra rispondere direttamente a questa domanda: “La testimonianza di Gesú, dice, è lo spirito di profezia” (Ap 19,10). Uno studioso ha commentato così questa frase lapidaria: “Il possesso dello Spirito profetico, che costituisce il vero profeta, si manifesta in una vita di testimonianza a Gesú...Ogni vero profeta è testimone di Gesú; e chiunque ha la testimonianza di Gesú è profeta nel senso più alto del termine” [2].

1. Cos’è la profezia?

Cos’è la profezia? Una prima idea, vaga ma suggestiva, è contenuta nella formula con cui Balaam introduce i suoi oracoli nel libro dei Numeri:

“Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
oracolo dell'uomo dall'occhio penetrante,
oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell'Altissimo,
di chi vede la visione dell'Onnipotente,
e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi.
(Num 24, 15-16).

Profeta è uno a cui è dato un occhio penetrante che gli permette di avere accesso alla mente di Dio e di vederne i segreti progetti. Einstein diceva di volere conoscere il pensiero di Dio, perché tutto il resto non era ai suoi occhi che dettagli. Quello che non è concesso allo scienziato è concesso al profeta.

All’origine della profezia troviamo le due grandi forze che insieme creano e muovono il mondo secondo la Bibbia: lo Spirito e la Parola, la ruach e il dabar. I profeti sono visti ora come gli uomini della parola, ora come gli uomini dello Spirito. Ora è la parola che “viene” su di essi e li costituisce profeti, ora è lo “Spirito del Signore” (Is 61,1). “Il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno mai dalla tua bocca”, dice Dio a Isaia (Is 59,21).

Alla profezia si applica in modo eminente ciò è scritto dell’ispirazione biblica in genere. Nella seconda lettera a Timoteo è contenuta la celebre affermazione: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (2 Tm 3, 16). L'espressione che viene tradotta con “ispirata da Dio”, o “divinamente ispirata”, nella lingua originale, è una parola unica, theopneustos, che contiene insieme i due vocaboli di Dio (Theos) e di spirare (pneo). Tale parola ha due significati fondamentali: uno molto noto e un altro invece abitualmente trascurato, sebbene non meno importante del primo.

Il significato più noto è quello passivo, messo in luce in tutte le traduzioni moderne: la Scrittura è “ispirata da Dio”. Un altro passo del Nuovo Testamento spiega così questo significato: “Mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2 Pt 1, 21). È, insomma, la dottrina classica dell'ispirazione divina della Scrittura, quella che proclamiamo come articolo di fede nel Credo, quando diciamo che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti”.

Possiamo rappresentarci con immagini umane questo evento in sé misterioso dell'ispirazione: Dio “tocca” con il suo dito divino - cioè con la sua vivente energia che è lo Spirito Santo - quel punto recondito, dove lo spirito umano si apre all'infinito e da lì quel tocco - in sé semplicissimo e istantaneo come è Dio che lo produce - si diffonde come una vibrazione sonora in tutte le facoltà dell'uomo -volontà, intelligenza, fantasia, cuore -, traducendosi in concetti, immagini, parole.

Così arriviamo all'altro significato, quello meno noto, dell'ispirazione biblica. Per sé, grammaticalmente, il participio theopneustos è attivo, non passivo. La Scrittura, diceva sant’Ambrogio, è theopneustos non solo perché è “ispirata da Dio”, ma anche perché è “spirante Dio”, traspira Dio! [3]

La costituzione conciliare “Dei Verbum” riunisce i due significati quando dice che “le sacre Scritture ispirate da Dio (ispirazione passiva!) e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo” (ispirazione attiva!) [4].

2. Lingue come di fuoco

Della ispirazione biblica è messo in luce, di solito, quasi solo un effetto: l'inerranza, cioè il fatto che la Bibbia non contiene errori. Ma l'ispirazione biblica fonda molto di più che la semplice inerranza della parola di Dio (che è qualcosa di negativo); fonda, positivamente, la sua efficacia e vitalità divina.

È qui la principale differenza tra la parola di Dio e la parola degli uomini. Nel vangelo di Matteo è riportata una parola di Gesù che ha fatto tremare i lettori del Vangelo di tutti i tempi: “Ma io vi dico che di ogni parola inutile gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36).

Il termine tradotto con “inutile nell’originale è argòn che vuol dire “senza effetto (a privativo più ergos, opera). Alcune traduzioni moderne, tra cui quella italiana della CEI, rendono il termine con “infondata”, quindi con valore passivo: parola che non ha fondamento: quindi, calunnia. È un tentativo per dare un senso più rassicurante alla minaccia di Gesù. Non c'è nulla di nuovo infatti se Gesù dice che di ogni calunnia si deve rendere conto a Dio! Ma il significato di argòn è piuttosto attivo e vuol dire: parola che non fonda niente, che non produce nulla: quindi, vuota, sterile, senza efficacia [5].

Basta, per rendersene conto, confrontare questo aggettivo con quello che, nella Bibbia, caratterizza costantemente la parola di Dio: l'aggettivo energes, efficace, che opera, che è seguita sempre da effetto (ergos), lo stesso aggettivo da cui deriva la parola “energico”. San Paolo loda i Tessalonicesi, perché hanno accolto la parola divina della predicazione, non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale “parola di Dio che opera (energeitai) in coloro che credono” (cf. 1 Ts 2, 13). Anche la Lettera agli Ebrei definisce “viva ed efficace (alla lettera, energica,energes) è la parola di Dio” (Eb 4, 12).

La parola inutile, di cui gli uomini dovranno rendere conto nel giorno del giudizio, non è dunque ogni e qualsiasi parola inutile; è la parola inutile, vuota, pronunciata da colui che dovrebbe invece pronunciare le “energiche” parole di Dio. È, insomma, la parola del falso profeta, che non riceve la parola da Dio e tuttavia induce gli altri a credere che sia parola di Dio. Di ogni parola inutile su Dio, dovrà rendere conto l'uomo!: ecco dunque il senso del grave ammonimento di Gesù. Gli “uomini che dovranno rendere conto di ogni parola inutile sono gli uomini di Chiesa; quelli che sono chiamati a essere testimoni di Gesú, siamo noi.
I falsi profeti sono coloro che non presentano la parola di Dio nella sua purezza, ma la annacquano ed estenuano in mille parole umane. Gesù, a Cana di Galilea, trasformò l'acqua in vino, cioè la morta lettera nello Spirito che vivifica (così interpretano spiritualmente il fatto i Padri); i falsi profeti sono coloro che fanno tutto l'opposto e cioè trasformano il vino puro della parola di Dio in acqua che non inebria nessuno, in lettera morta, o in parole di sapienza umana (cf. 1 Cor 2,4).

Ma vediamo invece come si attua un parlare profetico e come lo si riconosce. Mentre l’annunciatore sta parlando, a un certo momento non deciso da lui, avverte una interferenza, come se un’onda di diversa frequenza si inserisse nella sua voce. Egli se ne accorge per via di una commozione che lo investe, una forza e una convinzione che riconosce chiaramente come non sue. La parola si fa più ferma, incisiva. Sperimenta un riflesso di quella “autorità” che tutti percepivano quando ascoltavano parlare Gesù.

Se sta parlando, per esempio, del peccato, sente uno zelo per Dio, uno sdegno tale, come se Dio in persona l’avesse designato suo avvocato di fronte al mondo. Gli pare che, con quella forza, potrebbe resistere al mondo intero e far davvero “impazzire i colpevoli e tremare gli innocenti” [6]. Se parla dell’amore di Dio o della passione di Cristo, la sua voce trasmette qualcosa del pathos stesso di Dio. L’apostolo Paolo descrive benissimo questo fatto:

“La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor 2, 4-5); “Il nostro vangelo non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete” (1 Ts 1,5).

L’Apostolo parla di un’esperienza comune a lui e agli ascoltatori. Difatti, quando è lo Spirito che mette sulle labbra una parola, gli effetti, anche se di natura squisitamente spirituale, sono ben percepibili. L’ascoltatore è raggiunto in un punto dell’essere, dove non giunge nessun’altra voce; si sente “toccato” e non di rado un brivido, o una sensazione di calore, lo attraversa in tutto il corpo. L’uomo e la sua voce, a questo punto, scompaiono per far posto a un’altra voce.

Si costata la verità del detto di Filone Alessandrino, un autore ebreo contemporaneo degli apostoli: “Il vero profeta, quando parla, tace” [7]. Tace perché, in quel momento, non è più lui che parla, ma un altro. Si è fatto dentro di lui un misterioso silenzio; come quando ci si fa rispettosamente da parte per far passare il re. Lui stesso è trascinato dalla parola che pronuncia, e se delle considerazioni umane cercano di trattenerlo dall’esternare un certo pensiero, sente nelle ossa “un fuoco ardente che non riesce a contenere” (cf. Ger 20,9) e pronuncia quella frase in tono ancor più alto del resto. Si rimane confusi e intimoriti davanti a Dio che dice al suo annunciatore, povera creatura peccatrice: “Tu sarai come la mia bocca” (Ger 15,19).

Questo non avviene con la stessa intensità nel corso di un intero discorso o predica. Sono momenti; a Dio basta una frase, una parola. Annunciatore e ascoltatori hanno la sensazione come di gocce di fuoco che, a un certo punto, si mescolano alle parole del predicatore, rendendole incandescenti. Il fuoco è l’immagine che meno imperfettamente esprime la natura di questa azione dello Spirito. Per questo, a Pentecoste, egli si manifestò sotto forma di “lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro”. Di Elia si legge che era “simile al fuoco e la sua lingua bruciava come fiaccola” (Sir 46, 1) e in Geremia Dio stesso dichiara: “La mia parola non è forse come il fuoco -oracolo del Signore- e come un martello che spacca la roccia?” (Ger 23, 29).

3. La nuova profezia

Ma adesso voltiamo pagina, passiamo dall’Antico al Nuovo Testamento. Annunciando la nascita del Precursore, il padre Zaccaria dice: “E tu, bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo” (Lc 1, 76) e Gesú dice di lui che è “più che un profeta” ( Mt 11, 11). Ma dov'è la profezia nel caso di Giovanni Battista? I profeti antichi annunciavano una salvezza futura; ma il Precursore non è uno che annuncia una salvezza futura; egli indica uno che è presente. In che senso allora si può chiamare profeta?

Qui sta la novità. Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie, dello scandalo, della banalità e povertà con cui l'ora fatidica si manifesta.

E' facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito: "in quei giorni", "negli ultimi giorni", in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. È più difficile quando si deve dire: "Eccolo! E' lui!" e questo di un uomo di cui si sa tutto: di dove viene, che mestiere ha fatto, chi ha avuto per madre. L’altro giorno, nella festa di san Giuseppe operaio abbiamo ascoltato nel vangelo, la reazione della gente di Nazareth: “Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria?...Da dove gli vengono tutte queste cose? E si scandalizzavano di lui” (Mt 13, 54 s.).

Con le parole: "In mezzo a voi c'è uno che voi non conoscete!" (Gv 1,26), Giovanni Battista ha inaugurato la nuova profezia, quella del tempo della Chiesa, che non consiste nell'annunciare una salvezza futura e lontana, ma nel rivelare la presenza nascosta di Cristo nel mondo.

La novità della profezia cristiana non sta nella natura del parlare profetico che resta la stessa di prima; sta nel suo contenuto che è la persona di Cristo. Il contenuto non è più il futuro, ma il presente. Balaam diceva: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num 24, 17). Giovanni Battista non lo contempla da lontano, ma lo addita presente. Nel suo grido: “Ecco l’Agnello di Dio!” c’è la massima concentrazione profetica, un lampo come da corto circuito. Vuole dire: “Ricordate l’agnello che i vostri padri immolarono in Egitto e l’agnello mansueto condotto al macello che non apre bocca? Ebbene quello di cui tutto questo era figura è qui davanti a voi.

È avvenuta la svolta escatologica, cioè definitiva. Gesú stesso lo mette in luce parlando del Battista: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui… La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni” (Mt 11, 11-14).

Tra la missione di Giovanni Batista e quella di Gesú è avvenuto qualcosa di così decisivo da costituire uno spartiacque tra due epoche. Il baricentro della storia si è spostato: la cosa più importante non è più in un futuro più o meno imminente, ma è “ora e qui”, nel regno che è già operante nella persona di Cristo. Tra le due predicazioni è avvenuto un salto di qualità: il più piccolo del nuovo ordine è superiore al più grande dell’ordine precedente.

Questo tema del compimento e della svolta epocale trova conferma in molti altri contesti del vangelo. Basta ricordare alcune parole di Gesù come: “Ecco, ora qui c'è più di Giona! […]. Ecco, ora qui c'è più di Salomone!” (Mt 12 41-42). “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!” (Mt 13, 16-17). Tutte le cosiddette “parabole del regno”, -si pensi a quelle del tesoro nascosto e della perla preziosa - esprimono la stessa idea di fondo: con Gesú è scoccata l’ora decisiva della storia, davanti a lui si impone la decisione dalla quale dipende la salvezza.

In Gesú si ha la identificazione tra il soggetto e l’oggetto della profezia. Il Gesú che annuncia la buona novella durante la sua vita terrena (il “Gesú che predica”) è il soggetto della profezia, cioè il profeta per eccellenza, definitivo, “il profeta di Nazareth”, come lo chiamano nei vangeli (Mt 21,11); il Gesú annunciato dagli apostoli (il "Gesú predicato”) è l’oggetto della profezia.
L’inaugurazione solenne della nuova profezia che ha per oggetto Cristo si ha nel discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte…Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (At 2, 22-36).

Ogni volta che leggo queste parole mi vengono i brividi. Siamo davanti al culmine del parlare profetico. Si sta realizzando la parola di Gesú: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza”. Ora soltanto è tolto interamente “ il velo dagli occhi”, perché il velo, ci dice Paolo, non cade se non quando c’è la conversione al Signore” (cf. 2 Cor 3, 15-16).

Quando Pietro dice: “Accade ora quello che predisse il profeta Gioele”, si ha di nuovo un corto circuito, come nella predicazione di Giovanni Battista, ma immensamente più potente perché c’è stata di mezzo la Pasqua e la Pentecoste. È come se Pietro dicesse: Tutto quello che i patriarchi hanno atteso, i profeti hanno annunciato, i salmi hanno cantato è diventato realtà, “accade ora”. “Per voi è la promessa e per i vostri figli” (At 2, 39).

4. Il Rinnovamento carismatico, movimento profetico

Ora ci domandiamo: Come si situa il Rinnovamento carismatico in rapporto a quello che abbiamo detto della profezia in genere e della profezia cristiana in specie? Qual è il suo significato e la sua responsabilità? Diamo un breve sguardo alla storia di questo carisma per rispondere a queste domande.

Stando alle parole di san Pietro nel discorso di Pentecoste, la Chiesa nasce tutta quanta come realtà profetica. Tutti - figli e figlie, giovani e anziani - sono profeti (cf. Atti 2, 14 ss.). Questa accezione estensiva non annulla, tuttavia, quella più specifica, tanto che Paolo può affermare: “Forse che tutti sono profeti?“ (1 Cor 12,29). Ci sono dunque, all'inizio della Chiesa, alcune persone particolarmente dotate del carisma che vengono abitualmente chiamate profeti (cf. Atti 11,27; 13,1; 15,32; 21, 9-10).

In questa accezione più ristretta, i profeti, insieme con gli apostoli e, talvolta, con i dottori o maestri, costituiscono una funzione costitutiva della Chiesa (cf. Atti 13,1-3; 1 Cor 12,29). Tale profetismo specifico conobbe due realizzazioni: la forma comunitaria, costituita dai profeti che vivono stabilmente in una comunità e quella dei profeti itineranti che conosciamo soprattutto dalla Didachè.

Dopo la metà del II secolo il profetismo va rapidamente in crisi, cominciando proprio dai profeti itineranti. Il fattore determinante della crisi fu il fenomeno del Montanismo scoppiato in Asia Minore. I montanisti rivendicavano ai loro profeti e alle loro profetesse una autonomia assoluta, cadendo in eccessi che squalificarono il carisma agli occhi del resto della Chiesa (eccetto Tertulliano che fu il loro accanito difensore!).

La crisi del primitivo profetismo non portò a una sua scomparsa dalla Chiesa, ma piuttosto ad una sua istituzionalizzazione, cioè a un suo assorbimento nell'orbita della gerarchia. Il carisma profetico - come del resto quello dell'insegnamento - viene sempre più spesso messo in connessione con l'ufficio, cioè con l'episcopato e con la gerarchia. Quando non indica il dono di alcuni santi di predire il futuro, la profezia, specie in seguito alla polemica con i protestanti, si riduce alla prerogativa del magistero di interpretare autenticamente la Scrittura e insegnare la vera dottrina.

Se nell’ambito ecclesiastico la profezia viene istituzionalizzata, nel campo laico essa viene secolarizzata. Rifacendosi a certi profeti dell’Antico Testamento che avevano esercitato una funzione critica nei confronti delle strutture sociali e religiose del loro tempo, il titolo di profeta viene dato a chiunque abbia rotto con le convenzioni comuni e aperto nuovi orizzonti alla coscienza umana, anche se atei dichiarati. Profeti sono stati definiti Marx, Nietzsche, e molti altri in questa linea. È caduto ormai ogni connotato religioso della profezia e ogni riferimento allo Spirito Santo.

La riscoperta della profezia biblica, come in quella dei carismi in genere, si ha con il Concilio Vaticano II. Con il suo accento sulla Chiesa-popolo di Dio, il concilio ha ricreato uno spazio per la dialettica fra istituzione e carisma e ha rimesso in luce il carattere profetico di tutto il popolo cristiano. Cristo, dice un testo conciliare, compie il suo ufficio profetico nella Chiesa “non solo per mezzo della gerarchia, la quale insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo dei laici che perciò costituisce suoi testimoni” [8].

Il Rinnovamento nello Spirito, insieme con altre realtà del post-concilio, rappresenta l’attuazione di questa riscoperta nella vita della Chiesa. Segna il passaggio dai documenti alla vita. Esso è un movimento profetico ancora prima che un movimento carismatico. È la riscoperta e la proclamazione della signoria di Cristo che, abbiamo visto, rappresenta la quintessenza della profezia cristiana. A trent’anni di distanza ancora ritrovo dentro di me l’emozione al sentire quarantamila persone intonare di sera, nello stadio di Kansas City: “He is Lord, He is Lord. He’s risen from the dead and He is Lord. Every kneel shall bow, every tongue confess that Jesus Christ is Lord”. Che cosa ci impedisce di ripetere qui quell’esperienza? Gesú non ha cessato nel frattempo di essere il Signore e noi lo vogliamo proclamare cantando quelle solenni parole, prima in inglese (chi lo sa) e poi in italiano…

Lo scorso Venerdì Santo, parlando dell’unità dei cristiani, nella Basilica di S. Pietro, alla presenza del Santo Padre, ho rievocato un momento di quell’incontro. Una sera, al microfono, uno degli animatori cominciò a parlare in un modo, per me, a quel tempo, strano: “Voi sacerdoti e pastori, piangete e fate lamento, perché il corpo del mio Figlio è spezzato… Voi laici, uomini e donne, piangete e fare lamento perché il corpo del mio Figlio è spezzato”.
Cominciai a vedere le persone cadere una dopo l’altra in ginocchio intorno a me e molte di esse singhiozzare di pentimento per le divisioni nel corpo di Cristo. E tutto questo mentre una scritta campeggiava da una parte all’altra dello stadio: “Jesus is Lord, Gesú è il Signore”. Io ero lì come un osservatore ancora assai critico e distaccato, ma ricordo che pensai tra me: Questa è una profezia per la Chiesa. Se un giorno tutti i credenti saranno riuniti a formare una sola Chiesa, sarà così: mentre saremo tutti in ginocchio, con il cuore contrito e umiliato, sotto la grande signoria di Cristo.

Paolo VI, ricevendo il Rinnovamento carismatico, nel 1975, disse che il suo motto avrebbe potuto essere la frase dell’inno di sant’Ambrogio: “Laeti bibamus sobriam profusionem Spiritus”: sperimentiamo con gioia la sobria ebbrezza dello Spirito. Io però ho sempre pensato che un motto ancora più pertinente è la frase del salmo che qualcuno applicò fin dagli inizi al Rinnovamento: Reddite Deo potentiam suam (Sal 67, 35): Restituire il potere a Dio!

C’è un contributo specifico del Rinnovamento alla riscoperta della dimensione profetica della Chiesa. Consiste nell’aver riportato alla luce, accanto ai molti significati della parola profezia, il significato e le manifestazioni che essa aveva nella primitiva comunità cristiana. Basta rileggere 1 Corinzi 14 per renderci conto di quanto simile alla loro è stata l’esperienza fatta nel Rinnovamento, nei suoi momenti migliori:

“Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia… Chi profetizza parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto...Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia…Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi? Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi”.

Quante volte questo che dice Paolo si è ripetuto qui a Rimini, o in altri incontri simili! Persone non credenti o scettiche, capitate per caso a una di queste convocazioni o perché spinte da qualcuno, si sono ritrovate ad esclamare tra sé: “Qui c’è Dio!” Successe anche a me. Era il 1975. Fui invitato a un gruppo di preghiera delle Comunità Maria a Roma. Ero lì come con atteggiamento assai critico tanto che il responsabile diceva alle persone: “Non andate da quel frate lì; è un nemico del Rinnovamento!”. Però vedendo tra loro un sacerdote, alcuni mi chiesero di ascoltare le loro confessioni. Fu il primo vero shock carismatico nella mia vita. Io non avevo mai visto un pentimento così genuino. I peccati sembravano cadere dalle anime come sassi, e alla fine lacrime di gioia. Non potei fare a meno di dire tra me: “Qui c’è Dio!”.

Ma, diceva già Origene, “ipsa novitas innovanda est” [9], anche la novità ha bisogno di essere rinnovata. Anche il Rinnovamento ha bisogno di essere rinnovato! Cosa resta della forte carica profetica dei primi tempi? Anche a noi è rivolta l’esortazione dell’Apostolo a Timoteo: ”Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani” (2 Tim 1, 6). “Ravvivare” (anazopurein): alla lettera soffiare sulla fiamma, rimuovere le ceneri per riportare alla luce il fuoco. Non passiamo alle nuove generazioni che si accostano alla realtà del Rinnovamento una fiamma smorta e un lucignolo fumigante…

5. I requisiti umani della profezia: umiltà e amore

A questo punto dovrei dire qualcosa sugli “ingredienti” umani della profezia, cioè sulle disposizioni d’animo che ne favoriscono l’esercizio. In altre parole, cosa dobbiamo fare perché il carisma profetico possa “ravvivarsi” in noi.

Il primo requisito è la preghiera. Abbiamo sentito cosa dice Gesú agli apostoli: “Anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio”. Bisogna prima essere stati “con Gesú”, in ascolto e in contemplazione del suo volto per percepire le sue parole e intravedere i suoi disegni. Senza preghiera, niente profezia!

Ma non insisto su questo tema che è pacifico. Dobbiamo accennare a due altri requisiti, anch’essi vitali: umiltà e amore. Il profeta, si diceva, è uno che “mentre parla, tace”, cioè scompare per far posto a un’altra voce. La ricerca della propria gloria spegne la profezia, come la sabbia e la polvere che si gettano sulle fiamme e le soffocano. Al contrario, la rinuncia alla propria gloria da via libera allo Spirito.

Ne abbiamo l’esempio più lampante negli stessi apostoli. Tutti sanno che con l’insistenza sul fenomeno delle lingue, l’autore degli Atti ha voluto stabilire un parallelismo e un’antitesi con Babele. A Babele tutti parlavano ancora una stessa lingue e a partire da un certo momento nessuno capisce più l’altro; a Pentecoste parlano tutti lingue diverse (per questo quel lungo elenco di popoli in Atti 2, 5 ss.), eppure tutti capiscono gli apostoli. Perché? Riascoltiamo cosa dicono i costruttori di Babele nell’accingersi all’opera: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Vogliono costruire un tempio alla divinità (tale era infatti la famosa torre, una ziccurat, un tempio a terrazze), ma per farsi un nome, per la propria gloria, non quella di Dio. Dio è strumentalizzato. Da qui la confusione delle lingue.

Adesso passiamo a Pentecoste. Tutti comprendono gli apostoli perché essi proclamano “le grandi opere di Dio” (At 2, 11). Prima della venuta dello Spirito anch’essi volevano farsi un nome e discutevano chi era il più grande. Adesso non più. Si sono dimenticati di se stessi, sono completamente presi e abbagliati dalla gloria di Dio. Questo conferisce quell’irresistibile forza profetica al loro annuncio: “Voi avete crocifisso Gesú di Nazareth, Dio l’ha risuscitato! Pentitevi, dopo riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2, 37). È tracciata la via alla profezia: decentrarsi da se stessi e ricentrarsi su Cristo.

Poi, dicevo, l’amore. Dio è amore e parla per amore. L’amore è la frequenza d’onda su cui si trasmette la sua parola. Amore, anzitutto, per il popolo a cui si è mandati. Ricordate l’episodio di Giona. C’è in esso un messaggio che spesso ci sfugge. Perché Giona cerca in tutti i modi di non andare a predicare a Ninive? Perché non ama i niniviti; erano i nemici d’Israele. Quando finalmente è costretto ad andare a Ninive comincia a predicare: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!” (Giona 3,4). E si capisce che la prospettiva non gli dispiace affatto.

Ma che succede? Dio si commuove e perdona i niniviti. Giona entra in crisi e Dio deve spiegargli, con pazienza, perché non poteva distruggere tutta quella povera gente ignorante che non sapeva distinguere la destra dalla sinistra. (Dio, a volte, fa più fatica a convertire il predicatore che tutto il popolo a cui lo manda!). Mancava l’amore. Quando non c’è amore, le parole che pronunciamo diventano pietre e la gente si difende dalle pietre.

Dio dice a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…; conosco le sue sofferenze” (Es 3,7); Cristo si commuove guardando le folle, perché le vede “stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9, 36). Il profeta è uno che condivide il pathos di Dio e la commozione di Cristo. Se non proviamo in noi questi sentimenti, c’è una sola cosa da fare: chiedere allo Spirito Santo di metterli nel nostro cuore, di parteciparci un po’ dell’amore di Cristo per gli uomini redenti dal suo sangue. “L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti” (2 Cor 5, 14).

6. Tutti profeti!

Nel Nuovo Testamento, dicevo, si parla di due tipi di profeti: quelli che nella comunità hanno un riconosciuto carisma profetico e i profeti in senso generale. Non tutti sono profeti nel primo senso, tutti lo sono invece nel secondo. Conosciamo la profezia di Gioele che Pietro vede realizzata a Pentecoste:

“Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
i vostri giovani avranno visioni
e i vostri anziani faranno dei sogni.
E anche sui miei servi e sulle mie serve
in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi
profeteranno” (At 2, 17-18).

Si realizza finalmente il desiderio espresso da Mosè nella circostanza ricordata all’inizio: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Num 11, 29). Il Concilio Vaticano II ha riaffermato la vocazione profetica di tutto il popolo di Dio:
“Ciascun membro della Chiesa, dice, deve rendere testimonianza a Gesù con spirito di profezia” [10]. Proprio in ciò sta la novità creata dalla venuta di Cristo e l’effusione del suo Spirito. Nell’Antico Testamento solo alcuni, e solo in circostanze particolari, erano profeti; ora tutti condividono tale vocazione.

La prospettiva non deve spaventarci. Non si è profeti solo parlando; meglio, sì, si è profeti parlando, ma parlando non solo con la bocca, ma anche con gli occhi, con le mani, con la vita. “La Chiesa, diceva Paolo VI, ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo” [11].

Profezia nello sguardo! Una volta, agli inizi del Rinnovamento, un sacerdote tornava in treno dopo avere partecipato a un ritiro carismatico: risuonavano ancora dentro di lui le note dei canti carismatici. A un certo punto una distinta signora che gli stava davanti chiuse il giornale che stava leggendo, lo fissò e disse: “Lo sa, Padre? Lei ha una faccia che fa credere in Dio”. Come vorrei che molti potessero dire o pensare la stessa cosa incontrando la gente che torna da Rimini!

Giovanni Battista ci insegna che per essere profeti, nel senso cristiano del termine, non occorre una grande dottrina ed eloquenza. Egli non è un grande teologo; ha una cristologia povera e rudimentale. Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo, Figlio dell'uomo... Ma come riesce a fare sentire la grandezza e unicità di Cristo! Usa immagini semplicissime, da contadino. “Non sono degno di sciogliere i legacci dei suoi sandali”. Il mondo e l'umanità appaiono, dalle sue parole, contenuti dentro un vaglio che egli, il Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde.

Ma attenti a non dimezzare il contenuto della profezia cristiana. È vero che essa consiste essenzialmente nell’annunciare la signoria di Cristo, ma lui stesso ci ha insegnato che questa signoria è inseparabile dall’attenzione ai poveri e ai sofferenti. “Lo Spirito del Signore, diceva, è du di me: mi consacrato con l’unzione per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Il lieto messaggio è: “Beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio…Ma guai a voi, ricchi perché avete già la vostra consolazione” (Lc 6, 20.24).

Non possiamo, per scendere al concreto della nostra situazione italiana, proclamare “Gesù è il Signore!” e poi gridare: “Via da noi tutti gli extra comunitari!” Non possiamo rimanere insensibili di fronte allo spettacolo di alcuni pochi fortunati (spesso solo furbi e spregiudicati) che hanno tutto e ne fanno sfoggio, e di centinaia di migliaia di famiglie che non hanno di che sfamare i propri figli e si presentano alla casa del supermercato con un solo pomodoro in mano, perché è tutto quello che possono permettersi.

È un episodio che ho raccontato altre volte, ma lo ripeto in questa occasione. Nel 1995 predicavo un ritiro in Messico a quasi duemila tra vescovi e sacerdoti dell’America latina. In una omelia parlai del bisogno vitale che la Chiesa ha di profeti. Dopo la comunione ci fu la preghiera per una nuova effusione dello Spirito. Vescovi, sacerdoti e laici, a piccoli gruppi pregavano gli uni per gli altri. Io ero rimasto seduto sul presbiterio. Un giovane sacerdote mi venne incontro, mi si inginocchio davanti e con uno sguardo che non dimenticherò mai, mi disse: “Bendígame, Padre, quiero ser profeta de Dios!”, Benedicimi, Padre, voglio essere un profeta di Dio!”.

Dopo che il profeta Isaia fu purificato dal carbone ardente e riconobbe di essere un uomo dalle labbra impure, udì una voce misteriosa che diceva: “Chi manderò e chi andrà per noi?” e ripose senza esitazione: “Eccomi, manda me!” (Is 6, 4-8). Quell’appello è ancora in atto. Gridiamo anche noi, ma solo se siamo decisi a prendere sul serio ciò che diciamo: “Eccomi, Signore, manda me!”.



[1] Lettera ai fedeli, 2 (Fonti Francescane, 180).
[2] J. Sweet, cit. da P. Prigent, L’Apocalisse di S. Giovanni, Borla, Roma 1985, p. 570.
[3] S. Ambrogio, De Spiritu Sancto, III, 112.
[4] Dei Verbum, 21.
[5] Cf. M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti Graeci, Romae 1953, ad loc.
[6] W. Shakespeare, Amleto, II, sc. 2.
[7] Filone Alessandrino, Quis rerum, 266 (Les Oeuvres de Philon d’Alexandrie, 15, Parigi 1966, p. 300).
[8] Lumen gentium, 35.
[9] Origene, In Rom. 5,8 (PG 14, 1042).
[10] Presbyterorum ordinis, 2.
[11] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).