mercoledì 12 gennaio 2011

Non più mondo, non più peccati.



Di seguito la catechesi del Papa di stamane e il "Trattato sul Purgatorio" di santa Caterina da Genova. Buona lettura!

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlarvi di un’altra Santa che porta il nome di Caterina, dopo Caterina da Siena e Caterina da Bologna; parlo di Caterina da Genova, nota soprattutto per la sua visione sul purgatorio. Il testo che ne descrive la vita e il pensiero venne pubblicato nella città ligure nel 1551; esso è diviso in tre parti: la Vita propriamente detta, la Dimostratione et dechiaratione del purgatorio - più nota come Trattato - e il Dialogo tra l’anima e il corpo[1]. L’estensore finale fu il confessore di Caterina, il sacerdote Cattaneo Marabotto.
Caterina nacque a Genova, nel 1447; ultima di cinque figli, rimase orfana del padre, Giacomo Fieschi, quando era in tenera età. La madre, Francesca di Negro, impartì una valida educazione cristiana, tanto che la maggiore delle due figlie divenne religiosa. A sedici anni, Caterina venne data in moglie a Giuliano Adorno, un uomo che, dopo varie esperienze commerciali e militari in Medio Oriente, era rientrato a Genova per sposarsi. La vita matrimoniale non fu facile, anche per il carattere del marito, dedito al gioco d’azzardo. Caterina stessa fu indotta inizialmente a condurre un tipo di vita mondana, nella quale, però, non riuscì a trovare serenità. Dopo dieci anni, nel suo cuore c’era un senso profondo di vuoto e di amarezza.
La conversione iniziò il 20 marzo 1473, grazie ad una singolare esperienza. Recatasi alla chiesa di san Benedetto e nel monastero di Nostra Signora delle Grazie, per confessarsi, e inginocchiatasi davanti al sacerdote, “ricevette - come ella stessa scrive - una ferita al cuore, d’un immenso amor de Dio”, con una visione così chiara delle sue miserie e dei suoi difetti e, allo stesso tempo, della bontà di Dio, che quasi ne svenne. Fu toccata nel cuore da questa conoscenza di se stessa, della vita vuota che conduceva e della bontà di Dio. Da questa esperienza nacque la decisione che orientò tutta la sua vita, espressa nelle parole: “Non più mondo, non più peccati” (cfr Vita mirabile, 3rv). Caterina allora fuggì, lasciando in sospeso la Confessione. Ritornata a casa, entrò nella camera più nascosta e pianse a lungo. In quel momento fu istruita interiormente sulla preghiera ed ebbe coscienza dell’immenso amore di Dio verso di lei peccatrice, un’esperienza spirituale che non riusciva ad esprimere a parole (cfr Vita mirabile, 4r). E’ in questa occasione che le apparve Gesù sofferente, carico della croce, come spesso è rappresentato nell’iconografia della Santa. Pochi giorni dopo, tornò dal sacerdote per compiere finalmente una buona Confessione. Iniziò qui quella “vita di purificazione” che, per lungo tempo, le fece provare un costante dolore per i peccati commessi e la spinse ad imporsi penitenze e sacrifici per mostrare a Dio il suo amore.
In questo cammino, Caterina si andava avvicinando sempre di più al Signore, fino ad entrare in quella che viene chiamata “vita unitiva”, un rapporto, cioè, di unione profonda con Dio. Nella Vita è scritto che la sua anima era guidata e ammaestrata interiormente dal solo dolce amore di Dio, che le dava tutto ciò di cui aveva bisogno. Caterina si abbandonò in modo così totale nelle mani del Signore da vivere, per circa venticinque anni - come ella scrive - “senza mezzo di alcuna creatura, dal solo Dio instrutta et governata” (Vita, 117r-118r), nutrita soprattutto dalla preghiera costante e dalla Santa Comunione ricevuta ogni giorno, cosa non comune al suo tempo. Solo molti anni più tardi il Signore le diede un sacerdote che avesse cura della sua anima.
Caterina rimase sempre restia a confidare e manifestare la sua esperienza di comunione mistica con Dio, soprattutto per la profonda umiltà che provava di fronte alle grazie del Signore. Solo la prospettiva di dar gloria a Lui e di poter giovare al cammino spirituale di altri la spinse a narrare ciò che avveniva in lei, a partire dal momento della sua conversione, che è la sua esperienza originaria e fondamentale. Il luogo della sua ascesa alle vette mistiche fu l’ospedale di Pammatone, il più grande complesso ospedaliero genovese, del quale ella fu direttrice e animatrice. Quindi Caterina vive un’esistenza totalmente attiva, nonostante questa profondità della sua vita interiore. A Pammatone si venne formando attorno a lei un gruppo di seguaci, discepoli e collaboratori, affascinati dalla sua vita di fede e dalla sua carità. Lo stesso marito, Giuliano Adorno, ne fu conquistato tanto da lasciare la sua vita dissipata, diventare terziario francescano e trasferirsi nell’ospedale per dare il suo aiuto alla moglie. L’impegno di Caterina nella cura dei malati si svolse fino al termine del suo cammino terreno, il 15 settembre 1510. Dalla conversione alla morte non vi furono eventi straordinari, ma due elementi caratterizzarono l’intera sua esistenza: da una parte l’esperienza mistica, cioè, la profonda unione con Dio, sentita come un’unione sponsale, e, dall’altra, l’assistenza ai malati, l’organizzazione dell’ospedale, il servizio al prossimo, specialmente i più bisognosi e abbandonati. Questi due poli – Dio e il prossimo – riempirono totalmente la sua vita, trascorsa praticamente all’interno delle mura dell’ospedale.
Cari amici, non dobbiamo mai dimenticare che quanto più amiamo Dio e siamo costanti nella preghiera, tanto più riusciremo ad amare veramente chi ci sta intorno, chi ci sta vicino, perché saremo capaci di vedere in ogni persona il volto del Signore, che ama senza limiti e distinzioni. La mistica non crea distanza dall’altro, non crea una vita astratta, ma piuttosto avvicina all’altro, perché si inizia a vedere e ad agire con gli occhi, con il cuore di Dio.
Il pensiero di Caterina sul purgatorio, per il quale è particolarmente conosciuta, è condensato nelle ultime due parti del libro citato all’inizio: il Trattato sul purgatorio e il Dialogo tra l’anima e il corpo. E’ importante notare che Caterina, nella sua esperienza mistica, non ha mai rivelazioni specifiche sul purgatorio o sulle anime che vi si stanno purificando. Tuttavia, negli scritti ispirati dalla nostra Santa è un elemento centrale e il modo di descriverlo ha caratteristiche originali rispetto alla sua epoca. Il primo tratto originale riguarda il “luogo” della purificazione delle anime. Nel suo tempo lo si raffigurava principalmente con il ricorso ad immagini legate allo spazio: si pensava a un certo spazio, dove si troverebbe il purgatorio. In Caterina, invece, il purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra: è un fuoco non esteriore, ma interiore. Questo è il purgatorio, un fuoco interiore. La Santa parla del cammino di purificazione dell’anima verso la comunione piena con Dio, partendo dalla propria esperienza di profondo dolore per i peccati commessi, in confronto all’infinito amore di Dio (cfr Vita mirabile, 171v). Abbiamo sentito del momento della conversione, dove Caterina sente improvvisamente la bontà di Dio, la distanza infinita della propria vita da questa bontà e un fuoco bruciante all’interno di se stessa. E questo è il fuoco che purifica, è il fuoco interiore del purgatorio. Anche qui c’è un tratto originale rispetto al pensiero del tempo. Non si parte, infatti, dall’aldilà per raccontare i tormenti del purgatorio - come era in uso a quel tempo e forse ancora oggi - e poi indicare la via per la purificazione o la conversione, ma la nostra Santa parte dall’esperienza propria interiore della sua vita in cammino verso l’eternità. L’anima - dice Caterina - si presenta a Dio ancora legata ai desideri e alla pena che derivano dal peccato, e questo le rende impossibile godere della visione beatifica di Dio. Caterina afferma che Dio è così puro e santo che l’anima con le macchie del peccato non può trovarsi in presenza della divina maestà (cfr Vita mirabile, 177r). E anche noi sentiamo quanto siamo distanti, quanto siamo pieni di tante cose, così da non poter vedere Dio. L’anima è consapevole dell’immenso amore e della perfetta giustizia di Dio e, di conseguenza, soffre per non aver risposto in modo corretto e perfetto a tale amore, e proprio l’amore stesso a Dio diventa fiamma, l’amore stesso la purifica dalle sue scorie di peccato.
In Caterina si scorge la presenza di fonti teologiche e mistiche a cui era normale attingere nella sua epoca. In particolare si trova un’immagine tipica di Dionigi l’Areopagita, quella, cioè, del filo d’oro che collega il cuore umano con Dio stesso. Quando Dio ha purificato l’uomo, egli lo lega con un sottilissimo filo d’oro, che è il suo amore, e lo attira a sé con un affetto così forte, che l’uomo rimane come “superato e vinto e tutto fuor di sé”. Così il cuore dell’uomo viene invaso dall’amore di Dio, che diventa l’unica guida, l’unico motore della sua esistenza (cfr Vita mirabile, 246rv). Questa situazione di elevazione verso Dio e di abbandono alla sua volontà, espressa nell’immagine del filo, viene utilizzata da Caterina per esprimere l’azione della luce divina sulle anime del purgatorio, luce che le purifica e le solleva verso gli splendori dei raggi fulgenti di Dio (cfr Vita mirabile, 179r).
Cari amici, i Santi, nella loro esperienza di unione con Dio, raggiungono un “sapere” così profondo dei misteri divini, nel quale amore e conoscenza si compenetrano, da essere di aiuto agli stessi teologi nel loro impegno di studio, di intelligentia fidei, di intelligentia dei misteri della fede, di approfondimento reale dei misteri, per esempio di che cosa è il purgatorio.
Con la sua vita, santa Caterina ci insegna che quanto più amiamo Dio ed entriamo in intimità con Lui nella preghiera, tanto più Egli si fa conoscere e accende il nostro cuore con il suo amore. Scrivendo sul purgatorio, la Santa ci ricorda una verità fondamentale della fede che diventa per noi invito a pregare per i defunti affinché possano giungere alla visione beata di Dio nella comunione dei santi (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1032). Il servizio umile, fedele e generoso, che la Santa prestò per tutta la sua vita nell’ospedale di Pammatone, poi, è un luminoso esempio di carità per tutti e un incoraggiamento specialmente per le donne che danno un contributo fondamentale alla società e alla Chiesa con la loro preziosa opera, arricchita dalla loro sensibilità e dall’attenzione verso i più poveri e i più bisognosi. Grazie.


[1] cfr Libro de la Vita mirabile et dottrina santa, de la beata Caterinetta da Genoa. Nel quale si contiene una utile et catholica dimostratione et dechiaratione del purgatorio, Genova 1551.


Trattato del Purgatorio

di Santa Caterina da Genova
edizione a cura di Padre Cassiano da Langasco




Come Santa Caterina, per comparazione del divin fuoco il quale in sé sentiva, comprendeva com’era il Purgatorio, e in che modo vi stanno l’anime contente e tormentate.


1. Quest’anima santa ancora in carne, trovandosi posta nel Purgatorio dell’affocato divino Amore, il quale tutta la bruciava e purificava di quanto era in lei da purificare, acciocché, passando di questa vita, potesse esser presentata innanzi al cospetto del suo dolce Amore Iddio, per mezzo di questo amoroso fuoco, comprendeva nell’anima sua come stavano l’anime de’fedeli nel luogo del Purgatorio, per purgare ogni ruggine e macchia di peccato, che in questa vita ancora non avessero purgato. E così come essa posta nel Purgatorio amoroso del divin fuoco stava unita a esso divino Amore, e contenta di tutto quello ch’egli in lei operava, così comprendeva delle anime che sono nel Purgatorio. E diceva:

2. L’anime che sono nel Purgatorio (secondo che mi par comprendere) non possono avere altra elezione che di essere in esso luogo; e questo è per l’ordinazione di Dio, il quale ha fatto questo giustamente.
Né si possono più voltare verso se stesse, né dire: Io ho fatto tali peccati per li quali merito di star qui. Né possono dire: Io non li vorrei aver fatti, perché me n’andrei ora in Paradiso. Né dire: Quegli n’esce più presto di me; ovvero: Io n’uscirò più presto di quello. Non possono avere alcuna memoria propria, né d’altri parimente, in bene o in male, che in loro faccia maggior afflizione del suo ordinario. Ma hanno un tanto contento di essere nell’ordinazione di Dio, e ch’egli adoperi tutto quello che gli piace, e come gli piace, che di lor medesime non possono pensare con maggior loro pena. E solamente veggono l’operazione della divina bontà, la quale ha tanta misericordia all’uomo per condurlo a sé, che di pena o di bene che possa accadere in proprietà, non si può da esse niente vedere; e se’l potesser vedere, non sarebbero in carità pura. Non possono vedere altresì che sieno in quelle pene per li loro peccati, e non possono tener quella vista nella mente; imperciocché ciò sarebbe una imperfezione attiva, la qual non può essere in detto luogo, perché non vi si può attualmente più peccare. La causa del Purgatorio che hanno in loro, la veggono una sol volta nel passare di questa vita: e poi mai più non la veggono; perché altrimenti vi sarebbe una proprietà.

3. Essendo perciò quell’anime in carità, e da quella non potendo più deviare con attual difetto, non possono più volere né desiderare se non il puro volere della pura carità; ed essendo in quel fuoco purgatorio, sono nell’ordinazione divina. La qual’è carità pura; e non possono più in alcuna cosa da quella deviare, perché son private così di attualmente peccare, come il sono di attualmente meritare.

4. Non credo che si possa trovar contentezza da comparare a quella di un’anima di Purgatorio, eccetto quella de’Santi del Paradiso. E questa contentezza cresce ogni giorno, per l’influsso di Dio in esse anime; il quale va crescendo siccome va consumando l’impedimento dell’influsso. La ruggine del peccato è l’impedimento; e il fuoco va consumando la ruggine: e così l’anima sempre più si va discoprendo al divino influsso. Siccome appunto una cosa coperta non può corrispondere alla riverberazione del sole, non per difetto del sole, che di continuo luce, ma per l’opposizione della copertura, se si consumerà dunque la copertura, si discoprirà la cosa al sole. E tanto più corrisponderà alla riverberazione, quanto la copertura più s’andrà consumando. Così la ruggine (cioè il peccato) è la copertura delle anime; e nel Purgatorio si va consumando per lo fuoco; e quanto più si consuma, tanto sempre più corrisponde al vero sole Iddio. Però tanto cresce la contentezza, quanto manca la ruggine, e si discopre l’anima al divin raggio. E così l’un cresce e 1’altro manca, sin che sia finito il tempo. Non manca però la pena, ma solo il tempo di stare in essa pena. E per quanto s’aspetta alla volontà di quell’anime, esse non possono mai dire che quelle pene sien pene: tanto si contentano dell’ordinazione di Dio, colla quale è unita la lor volontà in pura carità.

5. Dall’altra parte poi hanno una pena tanto estrema, che non si trova lingua che il possa narrare, né intelletto che possa capirne una minima scintilla, se Dio non gliela mostrasse per grazia speciale. La quale scintilla Dio per grazia la mostrò a quest’anima; ma colla lingua io non la posso esprimere. E questa vista che mi mostrò il Signore, mai più non s’è partita dalla mia mente. Io ve ne dirò quello ch’io potrò; e intenderanno quelli a quali il Signore si degnerà l’intelletto aprire.

6. Il fondamento di tutte le pene si è il peccato, originale od attuale. Dio ha creata l’anima pura, semplice, e netta d’ogni macchia di peccato, con un certo istinto beatifico verso di lui; dal quale istinto il peccato originale, ch’essa trova, l’allontana. Poi quando vi si aggiunge l’attuale, ancora più ella se ne allontana; e, quanto più se ne discosta, tanto più diventa maligna; imperciocché Dio meno le corrisponde. E perché tutte le bontà che possano essere, sono per participazione di Dio. Il quale corrisponde nelle creature irrazionali, come vuole e come ha ordinato, e non manca loro mai; all’anima poi razionale corrisponde più e meno, secondo che la trova purificata dall’impedimento del peccato. Perciò, quando si trova un’anima che si accosti alla sua prima creazione pura e netta, quell’istinto beatifico se le va discoprendo, e crescendo tuttavia, con tanto impeto, e con tal veemenza di fuoco di carità (il quale la tira al suo ultimo fine) che le par cosa insopportabile l’essere impedita, e quanto più vede, tanto l’è più estrema pena.

7. E perché l’anime, che sono nel Purgatorio, sono senza colpa di peccato, perciò non hanno impedimento tra Dio e loro, se non quella pena, la quale le ha ritardate, sicché l’istinto non ha potuto aver la sua perfezione. Così veggendo esse per certezza quanto importi ogni minimo impedimento, ed esser per necessità di giustizia ritardato esso istinto, quindi nasce in loro un estremo fuoco, simile a quello dell’Inferno, se si eccettui la colpa, la qual’è quella che fa la volontà maligna a’dannati dell’Inferno, a’quali Dio non corrisponde colla sua bontà. E perciò essi restano in quella disperata maligna volontà contra la volontà di Dio.

8. Quindi vedesi esser manifesto, che la perversa volontà contra la volontà di Dio è quella che fa la colpa e, perseverando la mala volontà, persevera la colpa. E, per esser quelli dell’Inferno passati da questa vita colla mala volontà, la loro colpa non è rimessa, né si può rimettere; perché più non si possono mutare di volontà, poiché con quella son passati da questa vita. Nel qual passo si stabilisce l’anima in bene o in male, come si trova colla volontà deliberata; siccom’è scritto: Ubi te invenero, cioè, nell’ora della morte, con qual volontà, o di peccare o malcontento e pentito del peccato, ibi te iudicabo. Al qual giudizio non è poi remissione, imperciocché, dopo la morte, la libertà del libero arbitrio non è più convertibile, ma sta fermata in quello, in ch’ella si trova al punto della morte. Quelli dell’Inferno, per esser trovati al punto della morte colla volontà di peccare, hanno con seco la colpa infinitamente, e la pena. Non però tanta quanta meritano, ma pur quella che hanno è senza fine. Ma quelli del Purgatorio han solamente la pena, perciocché la colpa fu cancellata nel punto della morte, essendo stati essi trovati malcontenti e pentiti de’lor peccati. E così essa pena è finita, e va sempre mancando, quanto al tempo, com’è detto. Oh miseria sopra ogni miseria! E tanto più quanto non è considerata dall’umana cecità.

9. La pena de’dannati non è già infinita in quantità, imperciocché la dolce bontà di Dio spande il raggio della sua misericordia ancora nell’Inferno. Perché l’uomo, morto in peccato mortale, merita pena infinita, e tempo infinito di essa pena. Ma la misericordia di Dio ha fatto solo il tempo della pena infinito, e la pena terminata in quantità: imperciocché giustamente gli avrebbe potuto dar molto maggior pena che non gli ha dato. Oh quanto è pericoloso il peccato fatto con malizia! Perché l’uomo con difficoltà se ne pente; e non pentendosi esso, sempre sta la colpa; la quale tanto persevera, quanto l’uomo sta nella volontà del peccato commesso, o di commetterlo.

10. Ma l’anime del Purgatorio hanno in tutto conforme la lor volontà con quella di Dio. E però Dio corrisponde loro colla sua bontà, ed esse restan contente, quanto per volontà, e purificate dal peccato originale ed attuale, quanto alla colpa. Restan così purificate quell’anime come quando Dio le creò. E per esser passate da questa vita malcontente e confessate di tutti i loro peccati commessi, con volontà di più non commetterne, Iddio subito perdona loro la colpa; e non resta loro se non la ruggine del peccato, della quale poi si purificano nel fuoco con pena. E così, purificate d’ogni colpa e unite a Dio per volontà, veggiono chiaramente Dio secondo il grado ch’egli fa lor conoscere; e veggiono ancora quanto importi la fruizione di Dio, e che l’anime sono state create a questo fine. Trovano ancora una tanta conformità unitiva con esso lor Dio, la qual tira tanto a sé (per l’istinto naturale dell’anima verso Dio), che non possono addursi ragioni, figure od esempi che sieno sufficienti a chiarir questa cosa, in quel modo che la mente la sente in effetto e comprende per interior sentimento. Nondimeno io ne dirò uno, che alla mente mi s’appresenta.

11. Se, in tutto il mondo, non vi fosse se non un pane, il qual dovesse levar la fame a tutte le umane creature, e che solamente veggendolo, le creature si saziassero; avendo l’uomo per natura, quando è sano, istinto di mangiare, se non mangiasse, e non si potesse infermare né morire, quella fame sempre crescerebbe; perché l’istinto di mangiare mai non gli manca. E sapendo l’uomo allora, che solo il detto pane il può saziare, e, non avendolo, la fame non si potrebbe levare, e perciò resterebbe l’uomo in pena intollerabile. Ma quanto più se gli avvicinasse non potendolo vedere, tanto più in lui s’accenderebbe il desiderio naturale, il quale per suo istinto sarebbe tutto raccolto verso esso pane, dove consisterebbe tutto il contento suo. E se fosse certo di non aver giammai a vedere il pane, in quel punto avrebbe l’Inferno compito, a somiglianza dell’anime dannate, le quali son prive d’ogni speranza di mai poter vedere il pane Dio, vero Salvatore. Ma l’anime del Purgatorio hanno speranza di veder esso pane, e in tutto saziarsene. Perciò tanto solamente patiscono fame, e tanto stanno in pena, quanto staranno a potersi saziare di quel pane, Gesù Cristo, vero Dio Salvatore, Amor nostro.

12. Siccome lo spirito netto e purificato non trova luogo, eccetto Dio, per suo riposo, per essere stato a questo fine creato, così l’anima in peccato non ha altro luogo se non l’Inferno, avendole ordinato Dio quel luogo per fin suo. Però, in quell’istante che lo spirito vien separato dal corpo, l’anima va all’ordinato luogo suo senz’altra guida, eccetto quella che ha la natura del peccato; partendosi però l’anima dal corpo in peccato mortale. E se l’anima non trovasse in quel punto quella ordinazione, procedente dalla giustizia dì Dio, rimarrebbe in maggiore Inferno che non è quello, per ritrovarsi fuori di essa ordinazione, la quale partecipa della divina misericordia, perché non dà all’anime condannate tanta pena, quanta esse meritano. Perciò, non trovando luogo più conveniente, né di minor male per loro, spinte dall’ordinazione di Dio, vi si gettan dentro, come nel suo proprio luogo.

13. Così, al proposito nostro del Purgatorio, l’anima separata dal corpo, la quale non si trova in quella nettezza in cui fu creata, veggendosi avere l’impedimento, e che non le può esser levato, se non per mezzo del Purgatorio, presto vi si getta dentro, e volentieri. Che se non trovasse questa ordinazione atta a levarle quell’impaccio, in quell’istante in lei si genererebbe un Inferno peggiore del Purgatorio, veggendo essa di non poter giungere (per l’impedimento) al suo fine Dio. Il quale tanto importa che, in comparazione di un tal fine, il Purgatorio non è da stimare: benché, siccome si è detto, sia simile all’Inferno. Ma in quella comparazione è quasi niente.

14. Più ancora dico. Ch’io veggio, quanto per parte di Dio, il Paradiso non abbia porta: ma chi vuole entrare vi entra, perché Dio è tutto misericordia, e sta verso noi colle braccia aperte per riceverne nella sua gloria. Ma ben veggio, altresì, quella divina essenza esser di tanta (e molto più che immaginar si possa) purità e nettezza, che l’anima, la quale in sé abbia tanta imperfezione quanto sarebbe un minimo bruscolo, si getterebbe più presto in mille Inferni, che trovarsi in presenza della divina maestà con quella macchia. E perciò, veggendo essa il Purgatorio ordinato per levarle esse macchie, vi si getta dentro; e le par trovare una gran misericordia, per potersi levare quell’impedimento.

15. Di quanta importanza sia il Purgatorio, né lingua il può esprimere, né mente capire; se non ch’io il veggio essere di tanta pena come l’Inferno. E nientedimeno, io veggio l’anima, la qual’in sé sente una minima macchia d’imperfezione, riceverlo per misericordia (come si è detto), non facendone in un certo modo stima, in comparazione di quella macchia impeditiva del suo amore. E parmi vedere la pena dell’anime del Purgatorio esser più per vedersi avere in sé cosa che dispiaccia a Dio, e averla fatta volontariamente contra tanta bontà, che per niun altro tormento che sentano in esso Purgatorio. Questo è perché, essendo quell’anime in grazia, veggiono la verità e l’importanza dell’impedimento, il quale non le lascia approssimare a Dio.

16. Tutte queste cose, che si son dette per comparazione di quello ch’io ne son certificata nella mente mia (per quanto io n’ho potuto comprendere in questa vita), son di tanta estremità, che ogni vista, ogni parola, ogni sentimento, ogn’immaginazione, ogni giustizia, ogni verità, mi paion bugie, e cose da niente. Resto ancora confusa, per non saper trovare vocaboli più estremi. Io veggio sì gran conformità di Dio coll’anima, che quando egli la vede in quella purità in cui Sua Maestà la creò, le dà un certo modo attrattivo d’affocato amore, sufficiente per annichilarla, bench’ella sia immortale. E la fa stare tanto trasformata in sé suo Dio, che non si vede esser altro che Dio, il qual continuamente la va tirando e affocando, né mai la lascia, sin che l’abbia condotta a quell’essere nel qual’è uscita dalle mani di lui, cioè in quella pura nettezza che fu creata.

17. Quando l’anima, per interior vista, si vede così da Dio tirare con tanto amoroso fuoco, allora per quel calore dell’affocato amore del suo dolce Signore e Dio, che sente ridondare nella sua mente, tutta si liquefà. Veggendo poi nel divin lume siccome Dio non cessa mai di tirarla e condurla all’intera sua perfezione, con tanta cura e continua provvisione; che il fa solo per puro amore; ed essa, per aver l’impedimento del peccato, non poter seguire quell’attrazione fatta da Dio, cioè quell’unitivo sguardo che Dio le ha dato per tirarla a sé; veggendo ancora quanto le importi l’esser ritardata da non poter vedere il divin lume: aggiuntovi l’istinto dell’anima la qual vorrebbe esser senza impedimento, per esser tirata da esso unitivo sguardo: dico, la vista delle predette cose esser quella che genera all’anime la pena la quale hanno nel Purgatorio. Non che facciano stima della lor pena (benché sia però grandissima), ma fanno più stima assai dell’opposizione che si trovano aver contra la volontà di Dio, il quale veggiono chiaramente acceso d’un estremo e puro amore verso di loro. Questo amore, con quell’unitivo sguardo, tira sì forte di continuo, come se altro che questo non avesse a fare. Perciò l’anima, questo veggendo, se trovasse un altro Purgatorio sopra quello, per potersi levar più presto tanto impedimento, ben tosto visi getterebbe dentro, per l’impeto di quell’amor conforme tra Dio e l’anima.

18. Veggio, ancora, procedere da quel divino amore verso l’anima certi raggi e lampi affocati, tanto penetranti e forti, che pare debbano annichilare non solo il corpo, ma ancor essa anima, se fosse possibile. Questi raggi fanno due operazioni: per la prima purificano; colla seconda annichilano. Vedi l’oro: quanto più tu il fondi, tanto più divien migliore: e tanto il potresti fondere, che annichileresti in esso ogn’imperfezione. Questo effetto fa il fuoco nelle cose materiali. Ma l’anima non si può annichilare in Dio, ma sibbene in se stessa: e quanto più la purifichi, tanto più in essa l’annichili; ed al fine in Dio resta purificata. L’oro quando è purificato per fino a ventiquattro carati, non si consuma poi più, per fuoco che tu gli possa dare; perché non si può consumare se non la sua imperfezione. Così fa il divin fuoco nell’anima. Dio la tiene tanto al fuoco, che le consuma ogn’imperfezione e la conduce alla perfezione di ventiquattro carati (ognuno però in suo grado): e quando ella è purificata, resta tutta in Dio, senza alcuna cosa in sé propria. Ed il suo esser è Dio. Il quale, quando ha condotta a sé l’anima così purificata, allora ella resta impassibile, perché più non le resta da consumare. E se, pur così purificata, ella fosse tenuta al fuoco, questo non le sarebbe penoso; anzi le sarebbe fuoco di divino amore, come vita eterna, senz’alcuna contrarietà.

19. L’anima è stata creata con tutte quelle buone condizioni, delle quali ella era capace, per arrivare alla perfezione. Vivendo però come Dio le ha ordinato, non contaminandosi d’alcuna macchia di peccato. Ma, essendosi contaminata per lo peccato originale, perde i suoi doni e le grazie, e resta morta; né si può risuscitare se non da Dio. E quando ella è risuscitata per lo Battesimo, le resta la mala inclinazione, la quale l’inclina e conduce (s’ella non fa resistenza) al peccato attuale; per lo quale di nuovo muore. Dio poi ancora la risuscita con un’altra grazia speciale, imperciocché ella resta così imbrattata, e conversa verso se stessa, che per rivocarla al suo primo stato, come Dio la creò, le bisognano tutte le sopraddette divine operazioni, senza le quali giammai ella non vi potrebbe ritornare. E quando l’anima si trova in via di ritornarvi, tanto è l’accendimento di doversi trasformare in Dio, che quello è il suo Purgatorio. Non che ella possa guardare al Purgatorio siccome a Purgatorio; ma quell’istinto acceso ed impedito è quello che le fa il Purgatorio. Quest’ultimo atto d’amore è quello che fa quest’opera senza l’uomo; trovandosi nell’anima tante imperfezioni occulte, che s’ella le vedesse, vivrebbe disperata: ma quest’ultimo stato le va consumando tutte. E poiché son consumate, Dio le mostra e lei, acciocché l’anima vegga l’operazion divina, che le causa il fuoco d’amore, il qual consuma quelle imperfezioni che son da consumare.

20. E sappi che quello che l’uomo giudica in sé perfezione, innanzi a Dio resta difetto: imperciocché tutto ciò che l’uomo opera di cose, le quali abbiano apparenza di perfezione, come pur le vede, le sente, le intende, le vuole, ovvero ne ha memoria, senza riconoscerle da Dio, in tutto si contamina egli ed imbratta. Perché, dovendo l’operazioni esser perfette, bisogna che sieno operate in noi senza noi, quanto come agenti principali, e che l’operazione di Dio sia in Dio, senza l’uomo primo operante. Queste tali operazioni son quelle che fa Dio nell’ultima operazione dell’amor puro e netto, da sé solo, senza merito nostro: le quali sono tanto penetranti ed affocate all’anima, che il corpo, il quale è intorno ad essa, par che vada arrabbiando. In quel modo come chi stesse in un gran fuoco, poiché non s’acqueterebbe giammai fino alla morte. È vero che l’amor di Dio, il qual ridonda nell’anima (secondo ch’io veggio), le dà una contentezza sì grande, che non si può esprimere, ma questa contentezza, all’anime che sono in Purgatorio, non leva scintilla di pena. Anzi quell’amore, il quale si trova ritardato, è quello che fa loro la pena: e tanto lor fa pena maggiore, quanta è la perfezione dell’amore del quale Iddio l’ha fatte capaci. Sicché l’anime in Purgatorio han contento grandissimo, e pena grandissima: e l’una cosa non impedisce l’altra.

21. Se l’anime di Purgatorio potessero purgarsi per contrizione, in un istante pagherebbero tutto il debito loro. Tanto affocato impeto di contrizione verrebbe ad esse, e questo per lo chiaro lume che hanno dell’importanza di quell’impedimento, che non le lascia congiungere col fine loro ed Amor Dio. E sappi certo che, del pagamento a quelle anime, pur un minimo danaro non si perdona, essendo così stabilito dalla divina giustizia. E questo è quanto per parte di Dio. Per parte poi dell’anime, esse non hanno più propria elezione, e non possono più vedere se non quanto vuol Dio; né altro vorrebbero, imperciocché così sono stabilite.

22. E se alcuna limosina è fatta loro da quelli che sono al mondo, la quale minuisca loro il tempo, quanto ad esse, non si possono più voltare con affetto per vederle; eccetto sotto quella giustissima bilancia della volontà divina, in tutto lasciando fare a Dio, il quale si paga, come alla sua infinita bontà piace. E se si potessero voltare in vedere esse limosine fuori di essa divina volontà, ciò sarebbe loro una proprietà, che lor leverebbe la vista del divin volere; il che sarebbe ad esse un Inferno. Perciò stanno immobili a tutto quello che Dio dà loro, così di piacere e contentezza, come di pena: e mai più a se stesse proprie non si posson voltare. Tanto son’intime e trasformate nella volontà di Dio e si contentano in tutto dell’ordinazione sua santissima.

23. E quando un’anima fosse presentata alla visione di Dio, avendo ancora un poco da purgare, se le farebbe una grande ingiuria, e ciò le sarebbe maggior passione che dieci Purgatori. Perciocché quella pura bontà e somma giustizia non la potrebbe sopportare: sarebbe cosa inconveniente per parte di Dio; ed a quell’anima, ch’ella vedesse Iddio non essere pienamente ancora da lei satisfatto, in modo che le mancasse pure un sol batter d’occhio di purgazione. Ciò le sarebbe cosa intollerabile e, per levarsi quella poca ruggine, andrebbe più presto in mille Inferni (quando se li potesse eleggere), che star innanzi alla divina presenza non purificata in tutto ancora.

24. E così quell’anima benedetta, veggendo le sopraddette cose nel divin lume, disse: Viemmi voglia di gridare un sì forte grido che spaventasse tutti gli uomini che sono sopra la terra, e dir loro: O miseri, perché vi lasciate così accecare da questo mondo, che a una tanta e così importante necessità, come troverete al punto della morte, non date provvisione alcuna? Tutti state coperti sotto la speranza della misericordia di Dio, la qual dite esser tanto grande, ma non vedete che tanta bontà di Dio vi sarà in giudizio, per aver fatto contra la volontà d’un tanto buon Signore. La sua bontà vi dovrebbe costringere a far tutta la sua volontà e non darvi speranza di far male impunemente: perciocché la sua giustizia ancora non può mancare, ma bisogna che in alcun modo sia satisfatta appieno. Non ti confidare dicendo: Io mi confesserò, e poi prenderò la Indulgenza plenaria, e sarò in quel punto purgato di tutti i miei peccati; e così sarò salvo. Pensa che la confessione e contrizione, la qual’è di bisogno per essa Indulgenza plenaria, è cosa tanto difficile ad avere che, se tu il sapessi, tremeresti per gran paura, e saresti più certo di non averla, che di poterla avere.

25. Io veggio quelle anime star nelle pene del Purgatorio colla vista di due operazioni. La prima è che patiscono volentieri quelle pene, e pare ad esse vedere che Dio abbia fatta loro gran misericordia, considerando quello che meritavano, e conoscendo quanto Dio importa. Imperciocché se la sua bontà non temperasse la giustizia colla misericordia, satisfacendola col prezioso sangue di Gesù Cristo, un sol peccato meriterebbe mille perpetui Inferni. E perciò patiscono questa pena così volentieri, che non se ne leverebbero un sol carato, parendo loro di giustamente meritarla, e ch’essa sia ben’ordinata. In modo che tanto si lamentano di Dio (quanto alla volontà) come se fossero in vita eterna. L’altra operazione è un contento, il qual’hanno veggendo l’ordinazione di Dio, coll’amore, e colla misericordia che opera verso l’anime. Queste due viste Iddio le imprime in quelle menti in un istante; e, perch’elle sono in grazia, le intendono e capiscono così come sono, secondo la loro capacità. E perciò ne ricevono un gran contento, il quale non manca lor mai, anzi va in esse crescendo tanto, quanto più si approssimano a Dio. E quelle anime non lo veggiono in loro, né per lor proprie, ma il veggiono in Dio; nel quale sono assai più intente, che nelle pene da lor patite, e del quale fanno assai più stima, senza comparazione. Perciocché ogni poca vista, che si possa aver di Dio, eccede ogni pena e ogni gaudio che l’uomo può capire: e benché la ecceda, non leva però ad esse una scintilla di gaudio, o di pena.

26. Questa forma purgativa ch’io veggio delle anime del Purgatorio, la sento nella mente mia, massime da due anni in qua; e ogni giorno la sento e veggio più chiara. Veggio star l’anima mia in questo corpo come in un Purgatorio, conforme e consimile al vero Purgatorio, colla misura però che il corpo possa sopportare, acciocché non muoia; sempre nondimeno crescendo a poco a poco, fino a tanto ch’esso pur muoia. Veggio lo spirito alienato da tutte le cose, anche spirituali, che gli possono dar nutrimento, come sarebbe allegrezza, dilettazione, o consolazione. Ed egli non ha possanza di gustare alcuna cosa, sia temporale o spirituale, per volontà, per intelletto, né per memoria; in tal modo ch’io possa dire: Mi contento più di questa cosa, che di quell’altra.

27. Trovasi l’interior mio in modo assediato, che di tutte quelle cose dove si refrigerava la vita spirituale, e la corporale, tutte a poco a poco gli sono state levate. E poiché gli son levate, esso conosce tutte essere state cose da pascersi e confortarsi: ma come sono dallo spirito conosciute, tanto sono odiate da esso ed abborrite, che se ne vanno tutte senza alcun riparo. Questo è perché lo spirito ha in sé l’istinto di levarsi ogni cosa impeditiva della sua perfezione, e con tanta crudeltà, ch’egli quasi lascerebbe mettersi nell’Inferno, per venire all’intento suo. E perciò va levando tutte le cose onde l’uomo interiore si possa pascere, e l’assedia tanto per sottile, che non vi può passare così minimo bruscolo d’imperfezione, il quale non sia da lui veduto ed abborrito.

28. Quanto alla parte esteriore, perché lo spirito non le corrisponde, resta ancor’essa tanto assediata, che non trova cosa in terra dove si possa refrigerare, secondo il suo umano istinto. Non le resta altro conforto che Dio, il qual’opera tutto questo per amore, e con gran misericordia, per satisfare alla sua giustizia. Questa vista a detta parte esteriore dà gran pace e contentezza; ma questa contentezza non minuisce però la pena, né l’assedio; né se le potrebbe dar si gran pena, ch’essa volesse uscire da quella divina ordinazione. Non si parte di prigione, né ancora cerca d’uscirne, fino a tanto che Dio faccia quello che sarà bisogno. Il mio contento è che Dio sia satisfatto; né potrei trovar maggior pena come di uscir fuori dell’ordinazione di Dio, tanto giusta la veggio, e con gran misericordia. Tutte le predette cose io le veggio e tocco, ma non so trovar vocaboli convenienti per esprimere quanto vorrei dire; e quello ch’io ne ho detto, il sento operar dentro spiritualmente; e però l’ho detto.

29. La prigione nella quale mi par d’essere, è il mondo; il legame, il corpo. E l’anima, illuminata dalla grazia, è quella che conosce la importanza di esser ritenuta o ritardata, per qualche impedimento, di non poter conseguire il fin suo: e però ciò le dà gran pena, per esser ella molto delicata. Riceve ancora da Dio, per grazia, una certa dignità, la quale la fa simile ad esso Dio; anzi la fa con seco una cosa medesima, per participazione della sua bontà. E siccome a Dio è impossibile che accader possa alcuna pena, così interviene all’anime, che si approssimano a lui; e quanto più gli si approssimano, tanto più della proprietà di lui ricevono. La ritardazione dunque che trova l’anima le causa pena intollerabile; la pena e il ritardo la fan difforme da quelle proprietà che essa ha per natura, e che per grazia le son mostrate. E non potendole avere, ed essendone capace, resta colla pena tanto grande, quanto ella stima Dio. La stima è poi tanto maggiore, quanto l’anima più conosce; e tanto più conosce, quanto è più senza peccato. Ma l’impedimento resta più terribile, massime che l’anima resta tutta raccolta in Dio e, per non avere alcun’esterno impedimento, conosce senza errore.

30. Siccome l’uomo, che si lascia ammazzare prima che offender Dio, sente il morire e gli dà pena, ma il lume di Dio gli dà uno zelo, il quale gli fa più stimare il divino onore che la morte corporale, così l’anima, conoscendo l’ordinazione di Dio, stima più quella ordinazione che non fa tutti i tormenti interiori ed esteriori, per terribili che possan’essere. E questo, perché Dio, per lo quale si fa quest’opera, eccede ogni cosa che sentire e immaginar si possa. E conciossiacché l’occupazione che Dio dà all’anima di sé, per poca che sia, la tenga tanto in Sua Maestà occupata, ch’ella d’altro non può fare stima, perciò perde ogni proprietà, né più vede, parla, né conosce, danno o pena in sé propria: ma il tutto (come di sopra si è detto) conosce in un istante quando passa da questa vita. E finalmente, per conclusione, intendiamo, che Dio fa perdere tutto quello ch’è dell’uomo; e che il Purgatorio lo purifica.


* * *

Di seguito un articolo che traggo da "La Bussola Quotidiana", a firma di
Pierluigi Vajra.



Ma che fine ha fatto il Purgatorio?





Vorrei condividere un tesoro della spiritualità e della mistica cattolica. Si tratta del Trattato del Purgatorio della mistica santa Caterina Fieschi Adorno, nobildonna genovese, vissuta a cavallo tra il XV ed il XVI secolo.

Il suo confessore, che ne ha compilato una biografia, ci dice che Santa Caterina aveva mostrato propensione alla vita spirituale fin dalla giovane età, pensando ad un certo punto di entrare in convento. La famiglia Fieschi, tuttavia, ne combinò il matrimonio con un rampollo di un'altra famiglia prominente nella società cittadina, gli Adorno. La giovane si sottomette di buona volontà alla ragion politica familiare, ma il matrimonio è tutt'altro che un successo, tanta è la differenza tra l'indole sua e quella del marito. Fa di necessità virtù, ma l'anelito spirituale resta accantonato. Finché un giorno, durante una confessione a cui era stata esortata dalla sorella monaca, le viene concessa un'esperienza spirituale particolare, che conferisce un nuovo slancio alla sua vita. Inizia un periodo di esperienze mistiche che l'accompagneranno, in crescendo, fino al giorno della morte. Il marito si lascerà in seguito coinvolgere dallo zelo dalla moglie, e la precederà nella vita eterna.

Santa Caterina si occupò con grande energia degli ammalati, fino a diventare la “Rettora” del grande ospedale genovese Pammatone. Lasciò una traccia indelebile nella storia della città di Genova per le sue qualità organizzative ed il grande spirito di sacrificio, occupandosi personalmente degli ammalati, specialmente i più repellenti. Ma il suo servizio agli ammalati altro non era che l'espressione esteriore e concreta della sua intensa vita spirituale. E qui arriviamo al punto che vorrei condividere. Infatti l'esperienza mistica di Santa Caterina si può sintetizzare (lo fece lei stessa, stando alle testimonianze) come l'esperienza del Purgatorio già in questa vita, nel suo corpo mortale.

Interessante notare che il Purgatorio è un dogma della nostra fede decisamente meno esplorato di altri, ed in tempi recenti regolarmente assente dalla predicazione comune e dalla formazione alla fede delle nuove generazioni. E forse non poteva essere esplorato più a fondo se non per via mistica. Inoltre Santa Caterina visse nel periodo dell'eresia luterana, quando il Purgatorio veniva messo in dubbio, o meglio apertamente rinnegato. Di suo pugno, santa Caterina non ha scritto nulla delle sue esperienze mistiche. Tuttavia un notevole gruppo di persone della sua città, persone di non poco conto, iniziarono presto a far riferimento a lei come ad una guida spirituale sicura: come che accadde alla sua più famosa omonima di Siena.

Quattro suoi discepoli, tra cui il notaio di fama Ettore Vernazza, fondarono sotto la sua ispirazione l'Oratorio del Divino Amore, realtà di origine laicale, di piccole dimensioni ma di impatto tale che gli storici della Chiesa non esitano a riconoscere in esso una delle forze di propulsione della riforma cattolica che sfociò nel grande Concilio di Trento. L'Oratorio del Divino Amore divenne una fucina di santi. È molto probabile che la mano che stese gli appunti che ora vanno sotto il nome di Trattato del Purgatorio sia stata proprio quella del Vernazza, uomo di grande levatura umana e cristiana. Santa Caterina comprende la vita cristiana come totalmente pervasa dall'amore di Dio, a cui l'anima può aprirsi o resistere. E così è anche della vita dopo la morte. Quello che l'immaginario cattolico ha sempre chiamato “fuoco” dell'Inferno o del Purgatorio, Santa Caterina lo intende come il fuoco dell'amore ardente di Dio per l'anima.

Il Trattato (una serie di brevissimi capitoletti di qualche paragrafo l'uno) è zeppo di questa metafora del fuoco. Devo avvertire l'improbabile zelante lettore: occorre fendere con coraggio un testo di secoli orsono, e quindi superare qualche difficoltà iniziale. Ma poi si scoprono tesori. Non voglio togliere il gusto della sorpresa, ma mi permetto di condividere due perle, per stuzzicare l'appetito. La prima. I capitoletti del Trattato lasciano al lettore l'idea che Inferno, Purgatorio e Paradiso non siano altro che l'esperienza dell'amore di Dio. Dio non smette mai di amare l'anima, neppure all'Inferno. È la disposizione dell'anima che fa sperimentare diversamente il fuoco del Divino Amore. L'anima dannata, morta in condizione di separazione totale da Dio, separazione scelta e consapevole, sperimenta l'amore di Dio come un eterno tormento: la sua colpa la separa dalla comunione con Dio, che è il fine proprio dell'essere umano. L'amore di Dio, che l'anima ha rifiutato ma che ora comprende, diventa il suo tormento eterno. L'anima salvata, passata all'altra vita in comunione con Dio, ritrova spesso in sé una piccola o grande inadeguatezza alla comunione con Dio, alla presenza del quale – ci insegna la Scrittura – non si può trovare nulla di impuro. L'amore di Dio che l'avvolge è per essa un fuoco purificante, per nulla diverso da quello infernale, ma senza il tormento della colpa.

L'anima in Purgatorio è in pace, ma come l'oro nella fornace: la purificazione, la sofferenza, continua fintanto che permane la scoria. E quindi il Paradiso non è altro che lo stesso amore di Dio, che ormai è solamente beatitudine. Purificata da ogni ruggine proveniente da una vita tiepida ma non separata da Dio, l'anima non sperimenta più alcuna sofferenza, ma al contrario pienezza. Inferno, Purgatorio e Paradiso non sono quindi compresi da Santa Caterina come luoghi – se non metaforicamente – o come nature diverse, ma come stato individuale, come l'esperienza che l'anima fa del fuoco del Divino Amore, esperienza diversa perché diversa è la disposizione dell'anima individuale. Tutto, anche queste realtà ultime, si risolve per Santa Caterina nell'unica realtà dell'amore di Dio.

La seconda: cito direttamente dal Trattato. «Io veggio, quanto per parte di Dio, il Paradiso non abbia porta: ma chi vuole entrare vi entra, perché Dio è tutto misericordia, e sta verso noi colle braccia aperte per riceverne nella sua gloria. Ma ben veggio, altresì, quella divina essenza esser di tanta (e molto più che immaginar si possa) purità e nettezza, che l' anima, la quale in sé abbia tanta imperfezione quanto sarebbe un minimo bruscolo, si getterebbe più presto in mille Inferni, che trovarsi in presenza della divina maestà con quella macchia. E perciò, veggendo essa il Purgatorio ordinato per levarle esse macchie, vi si getta dentro; e le par trovare una gran misericordia, per potersi levare quell'impedimento».

Ormai sono alcuni anni
che il mese di novembre mi trova a rifar meditazione su questo trattatello. Sempre con grande profitto: perché tutto quel che conta, alla resa dei conti, sarà lo sviluppo della nostra capacità di amare ed essere amati, cioè la nostra carità. E allora la meditazione sul Purgatorio, lungi dall'estraniarmi dal mondo, mi spinge a vivere il presente così che quel momento mi trovi con una carità sufficientemente sviluppata per poter entrare direttamente in quel Paradiso che non ha porte. Conoscere il Purgatorio ci spinge a fare un body-building che tonifichi i muscoli dell'amore di Dio e dell'amore scambievole.