mercoledì 5 gennaio 2011

Siamo venuti per adorarLo...


Ecco la seconda meditazione sul tema della ricerca di Dio, tenuta dal predicatore della casa pontificia ai docenti universitari cattolici. Ottima come prepazione alla solennità della Epifania.



In questo secondo momento di riflessione lasciamo da parte la ridda delle opinioni umane e filosofiche, per accostarci da credenti, senza più preoccupazioni apologetiche, al Dio vivente. Dei Re Magi si legge che, dopo essersi lasciati alle spalle la città di Gerusalemme, con le discussioni dei dottori della legge e gli intrighi di Erode, con grande gioia ripresero a seguire la stella, trovarono il Bambino e "prostratisi, lo adorarono" (Mt 2,11). Noi dobbiamo fare un po' come loro.

Se infatti, come dice S. Paolo, il peccato che rende gli uomini "inescusabili" è non riconoscere Dio come Dio (cf. Rom 1, 18 ss), allora il suo antidoto specifico è solo l'adorazione, perché solo l'adorazione, essendo riservata esclusivamente a Dio, attesta adeguatamente che si riconosce Dio "come Dio". L'adorazione è l'unico atto religioso che non si può offrire a nessun altro, nell'intero universo, neppure alla Madonna, ma solo a Dio. E' qui la sua dignità e forza unica.

Ma in che consiste propriamente e come si manifesta l'adorazione? L'adorazione può essere preparata da lunga riflessione ma termina con una intuizione e, come ogni intuizione, essa non dura a lungo. E' come un lampo di luce nella notte. Ma di una luce speciale: non tanto la luce della verità, quanto la luce della realtà. E' la percezione della grandezza, maestà, bellezza, e insieme della bontà di Dio e della sua presenza che toglie il respiro. E' una specie di naufragio nell'oceano senza rive e senza fondo della maestà di Dio. Ma "il naufragar è dolce in questo mare", direbbe il nostro Leopardi.

Un'espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Esso infatti dice da solo che la realtà è troppo al di là di ogni parola. Alta risuona nella Bibbia l'intimazione: "Taccia davanti a lui tutta la terra!" (Ab 2, 20) e: "Silenzio alla presenza del Signore Dio!" (Sof 1, 7). Quando "i sensi sono avvolti da uno sconfinato silenzio e con l'aiuto del silenzio invecchiano le memorie", allora non resta che adorare.

Secondo alcuni, la parola stessa "adorare" indicherebbe, nel latino, il gesto di mettersi la mano sulla bocca, come ad imporsi silenzio. Se ciò è vero, fu un gesto di adorazione quello di Giobbe quando, venutosi a trovare a tu per tu con l'Onnipotente, alla fine della sua vicenda, dice: "Ecco, son ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca" (Gb 40,4). In questo senso, il versetto di un salmo, ripreso poi dalla liturgia, nel testo ebraico diceva: "Per te è lode il silenzio", Tibi silentium laus! (cf Sal 65,2, testo Mas.). Adorare -secondo la stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno - significa elevare a Dio un "inno di silenzio". Come a mano a mano che si sale in alta montagna l'aria si fa più rarefatta, così a mano a mano che ci si avvicina a Dio la parola deve farsi più breve, fino a diventare, alla fine, completamente muta e unirsi in silenzio a colui che è l'ineffabile (Ps-Dionigi Areopagita).

L'adorazione esige dunque che ci si pieghi e che si taccia. Ma è, un tale atto, degno dell'uomo? Non lo umilia, derogando la sua dignità? Anzi, è esso veramente degno di Dio? Che Dio è se ha bisogno che le sue creature si prostrino a terra davanti a lui e tacciano? E' forse, Dio, come uno di quei sovrani orientali che inventarono per sé l'adorazione? Così pensava Nietzsche che definisce il Dio biblico "quell'orientale avido di onori nella sua sede celeste".

E' inutile negarlo, l'adorazione comporta per le creature anche un aspetto di radicale umiliazione, un farsi piccoli, un arrendersi. Fu proprio questo, si è visto, a trattenere i pagani dall'adorare Dio come Dio. Proprio così essa attesta che Dio è Dio e che niente e nessuno ha diritto di esistere davanti a lui, se non in grazia di lui. Con l'adorazione si immola e si sacrifica il proprio io, la propria gloria, la propria autosufficienza. Ma questa è una gloria falsa e inconsistente, ed è una liberazione per l'uomo disfarsene.

Adorando, si "libera la verità che era prigioniera dell'ingiustizia". Si diventa "autentici" nel senso più profondo della parola. Nell'adorazione si anticipa già il ritorno di tutte le cose a Dio. Ci si abbandona al senso e al flusso dell'essere. Come l'acqua trova la sua pace nello scorrere verso il mare e l'uccello la sua gioia nel seguire il corso del vento, così l'adoratore nell'adorare.

Adorare Dio non è dunque tanto un dovere, un obbligo, quanto un privilegio, anzi un bisogno. "Anche se, per ipotesi, tu, o Dio, non fossi amore, ma solo infinita, distaccata, maestà, io non potrei fare a meno di amarti. Ho bisogno di qualcosa di maestoso da amare. C'è, nella mia anima, il bisogno di una maestà che mai e poi mai mi stancherò di adorare" (Diario, XI 2 A, 154).

Non è dunque Dio che ha bisogno di essere adorato, ma l'uomo di adorare. “L’uomo –scrive ancora Kierkegaard -, il cui corpo sta eretto verso il cielo, è un essere che adora. La sua statura è il segno che lo contraddistingue, ma la capacità di prostrarsi in adorazione è una caratteristica ancora più alta. La gloria suprema consiste nell’essere niente adorando. Certuni individuano la rassomiglianza con Dio nel potere della dominazione. Ma non è dominando come Dio che l’uomo è simile a Dio. La rassomiglianza non si trova che all’interno d’un’infinita differenza. Mi spiego: l’uomo e Dio si rassomigliano in un rapporto non direttamente ma inversamente proporzionale: perché tra loro ci sia rassomiglianza bisogna che Dio diventi l’oggetto eterno e onnipresente dell’adorazione e che l’uomo diventi una creatura incessantemente adorante. Se l’uomo pretende di rendersi simile a Dio mediante la dominazione, egli dimentica Dio e, scomparso Dio, gioca in sua assenza a fare il sovrano. Questo appunto è il paganesimo: la vita dell’uomo nell’assenza di Dio”(Discorsi edificanti, n.2).

L'adorazione deve però essere libera. Ciò che rende l'adorazione degna di Dio e insieme degna dell'uomo è la libertà, intesa, questa, non solo negativamente come assenza di costrizione, ma anche positivamente come slancio gioioso, dono spontaneo della creatura che esprime così la sua gioia di non essere lui stesso Dio, per poter avere un Dio sopra di sé da adorare, ammirare, celebrare.

Anche per Dio il pregio dell'adorazione è nella libertà. "Io stesso sono libero -dice Dio - e ho creato l'uomo a mia immagine e somiglianza... Questa libertà di questa creatura è il più bel riflesso che ci sia nel mondo della libertà del creatore...Quando una volta si è provato ad essere amati liberamente, le sottomissioni non hanno più nessun gusto. Quando si è provato ad essere amati da uomini liberi, il prosternarsi degli schiavi non vi dice più nulla" (Il mistero dei Santi Innocenti).

Desiderio di Dio

C'è un altro sentimento, oltre l'adorazione, che possiamo coltivare nei confronti del Dio vivente ed è il desiderio. So bene che fede, speranza e carità sono i tre modi essenziali con cui ci si rapporta a Dio e si stabilisce con lui una specie di "contatto spirituale". Ma l'importanza e la bellezza del desiderio consiste proprio nel fatto che esso è il risultato e la sintesi di tutte e tre queste cose: fede, speranza e carità. E' come la fiamma unica che arde su un tripode. E' il risvolto esistenziale delle tre virtù teologali, quasi un rivelatore della loro presenza e della loro attività.

Per sapere cos'è il desiderio di Dio, bisogna sapere anzitutto cos'è il desiderio. Nel desiderio vi sono due componenti distinte: una negativa e una positiva. La parola latina, da cui deriva il termine italiano, mette maggiormente in evidenza la componente negativa; quella greca, usata nel Nuovo Testamento, la componente positiva. Nel linguaggio dell'arte divinatoria dei latini, desiderare significava notare la mancanza delle stelle (sidera) necessarie per trarre auspici. Da qui, nel linguaggio ordinario, il termine passò a significare "sentire la mancanza di qualcosa". Di ciò che è mancante in qualche aspetto, diciamo che “lascia a desiderare”.

Il termine greco corrispondente, potheo, indica, all'origine, il movimento di allungarsi, protendersi verso qualcosa, sospirare, bramare. Accentua maggiormente l'aspetto positivo e dinamico del desiderio. L'anima, mediante il desiderio, per così dire, si allunga, si distende nel tempo, impaziente di attingere ciò che brama. Questo è il senso che il termine ha nel passo biblico dove si dice che, in questa vita, noi siamo come esiliati che "anelano"(epipotheo) alla dimora eterna (cf 2 Cor 5,2). (La distinzione tra i due sensi, negativo e positivo, di desiderare corrisponde, come si vede, più o meno a quella che esiste oggi, in inglese, tra i due verbi to miss e to long for).

Entrambe queste valenze di significato sono presenti nella Bibbia quando si parla del desiderio di Dio, a volte l'una di seguito all'altra: "Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio" (Sal 42, 2). Qui il desiderio è espresso in positivo, con l'immagine della cerva che, udendo il rumore di una sorgente, si slancia a precipizio, giù per i dirupi, per raggiungerlo. Ma, a quel versetto, seguono subito queste altre parole: "L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente" che esprimono lo stesso desiderio in negativo, come un sentire la sete, cioè la mancanza, di Dio.

Con queste poche nozioni sul desiderio in genere, eleviamoci ora alla considerazione specifica del desiderio di Dio, che è il più profondo tra i desideri del cuore umano, anche se tanto spesso ignorato. Come la notte -dice una bella poesia di Tagore- nasconde nella sua oscurità il desiderio che ha della luce e come la tempesta cerca segretamente la pace nella calma che seguirà alla sua furia, così nelle profondità inconsce del cuore umano risuona il grido: "Io desidero Te, soltanto Te!" (Gitanjali, 38) .

Viene però da chiedersi: esiste ancora questo desiderio naturale di Dio nell'uomo moderno secolarizzato? Vale ancora l'argomento agostiniano del "cuore inquieto"? A me pare che in una certa parte della cultura moderna è scomparso l'elemento positivo del desiderio, ma ne è rimasto l'elemento negativo. Caduto l'anelito, il protendersi verso Dio, con la fede e la preghiera, è rimasto solo il vuoto lasciato dalla sua scomparsa. E' rimasto il sentimento della sua mancanza, cioè la nostalgia di Dio, che qualcuno ha chiamato "nostalgia del totalmente altro"(M. Horkheimer).

Sant'Agostino è stato talvolta definito il dottore del desiderio di Dio, per l'importanza che accorda a questo tema e per gli accenti con cui ne parla. "Il desiderio -dice- è il recesso più intimo del cuore. Quanto più il desiderio dilata il nostro cuore, tanto più diventeremo capaci di accogliere Dio". "La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio...Attraverso il desiderio, ti dilati, cosicché potrai essere riempito quando giungerai alla visione...Dio, con l'attesa, allarga il nostro desiderio, con il desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque , fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti".

La stessa preghiera è viva quanto è vivo il desiderio che vi scorre dentro: "Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera...Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessare mai di desiderare ". "Pregare a lungo consiste nel suscitare un continuo e devoto impulso del cuore verso colui che invochiamo". "Noi -dice una preghiera della liturgia- brilliamo agli occhi di Dio per il desiderio di lui" . Come se Dio si affacciasse dal cielo e scorgesse sulla terra punti più o meno luminosi, a seconda dell'intensità del desiderio che ognuno ha di lui.

Come, dunque, il mare non si stanca di spingere, notte e giorno, le sue onde, ora potenti ora calme, verso la riva, così noi non dovremmo stancarci mai di spingere verso Dio questi impulsi silenziosi del cuore. E se, durante questo lavoro, la tua mente petulante vuole intromettersi con domande, come: "Ma che cosa è Dio e come faccio a pensare a lui?", rispondi: "Non ne sono niente, e, in questo momento, non ne voglio sapere niente. Dio lo si deve amare, più che pensare".

Un desiderio da coltivare

Il desiderio di Dio va coltivato. Nella scultura, bisogna far cadere i pezzi inutili perché emerga, a poco a poco, l'opera d'arte che si ha in mente. Per questo Leonardo da Vinci definisce la scultura “l’arte di levare”. Allo stesso modo, bisogna far cadere i desideri inutili, i desideri terreni, perché si irrobustisca il desiderio di Dio.
C'è una grande differenza tra i desideri terreni e il desiderio di Dio. Quelli non sempre si realizzano, per quanto intensi possano essere; questo si realizza sempre, perché Dio non manda a vuoto nessun desiderio di lui. Inoltre, quelli, realizzati, generano sazietà e insoddisfazione; questo, realizzato, fa avere ancor più fame e sete di Dio: "Quanti bevono di me avranno ancora sete" (Sir 24, 20).

Ma allora perché i desideri terreni sono tanto più vivi e potenti in noi e attirano tanto più facilmente che non il desiderio di Dio? E' perché ci presentano oggetti più immediati, che fanno presa diretta sui sensi e sulla voglia di godimento insita nell'uomo. Il sole è molto più grande della terra e la forza di attrazione della sua massa è tale da tenere legati a sé pianeti e satelliti lontanissimi, eppure noi non siamo attirati sul sole, ma i nostri piedi restano incollati alla terra. Questa è capace di neutralizzare l'attrazione del sole perché più vicina. Così avviene tra il desiderio di Dio e quello delle cose e dei piaceri della terra.

Anche la spiritualità cristiana, come si vede, conosce la lotta per lo spegnimento dei desideri, per la impassibilità, o come preferiscono dire i maestri di spirito cristiani, per la "santa indifferenza". Ma c'è una grande differenza rispetto ad analoghi ideali fuori del cristianesimo. Nel cristianesimo lo spegnimento dei desideri non è fine a se stesso; il suo movente non è quello negativo di "arrestare la ruota del dolore". Lo spegnimento dei desideri deve servire al potenziamento di quell'unico desiderio che, soddisfatto, appaga pienamente e in eterno. Non è in vista del Nulla, ma del Tutto.

Ma più che il mezzo ascetico della mortificazione dei desideri terreni, conta, per il cristiano, il mezzo positivo che è lo Spirito Santo. E' lui che suscita nelle profondità del cuore il desiderio di Dio. "Colui che scruta i cuori (cioè Dio) sa quali sono i desideri dello Spirito" (Rom 8, 27). E' lo Spirito che sospira in noi, cioè che ci fa sospirare, con gemiti inesprimibili. Lui che crea la vera e profonda nostalgia di Dio. Parlando di quell'anelito e di quel sospiro verso la patria celeste che caratterizza la nostra condizione di viatori, l'Apostolo conclude: "E' Dio che ci ha fatti per questo e ci ha dato la caparra dello Spirito" (2 Cor 5,5).

È stato inventato un metodo per riportare a galla navi e oggetti caduti in fondo al mare. Consiste nell'immettere in essi dell'aria, che stacca il relitto dal fondo e piano piano lo sospinge in su, rendendolo più leggero dell'acqua. Noi uomini d'oggi, anche noi cristiani, siamo questi corpi caduti in fondo al mare. Siamo sprofondati nella temporalità e nella mondanità. Solo il soffio potente dello spirito Santo ci riportare “a riveder le stelle”.

Si capisce perché san Bonaventura ha potuto scrivere quelle parole lapidarie e fortemente allusive, che si leggono alla fine del suo Itinerario della mente a Dio:"Questa sapienza mistica segretissima nessuno la conosce se non chi la riceve; nessuno la riceve se non chi la desidera; nessuno la desidera se non chi è infiammato nell'intimo dallo Spirito Santo mandato da Cristo sulla terra" .

Termino la mia riflessione con la preghiera con cui S. Agostino, nelle Confessioni (X, 27), riassume tutto il suo travagliato viaggio alla scoperta del Dio vivente:

"Tardi ti ho amato, Bellezza così antica e così nuova.
Tardi ti ho amato!
Deforme com'ero,
mi gettavo sulle cose belle che tu hai create.
Tu eri con me, ma io non ero con te.
Mi hai chiamato, hai gridato, e hai trapassato la mia sordità.
Hai brillato, hai rifulso, e hai vinto la mia cecità.
Hai emesso il tuo profumo, l'ho respirato e ora anelo a te.
Ho gustato e ora ho fame e sete di te.
Mi hai toccato e ora ardo del desiderio della tua pace" .