giovedì 31 marzo 2011

Accoglienza e difesa della identità nazionale

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In questi giorni drammatici per il continuo arrivo di barconi di immigrati a Lampedusa, si sono sentiti e letti molti discorsi anche contrastanti sull'accoglienza e sul dovere di solidarietà, soprattutto riferiti al compito dei cattolici. Io credo sia il caso anzitutto di confrontarsi con quanto dice su questo tema il Catechismo della Chiesa cattolica, cercando di capirne le implicazioni. Per questo propongo ai lettori di questo blog un passaggio del capitolo dedicato all'immigrazione tratto dal libro scritto da monsignor Luigi Negri e Riccardo Cascioli, "Perché la Chiesa ha ragione", Lindau 2010 (pp.151-156). 
Mentre le singole soluzioni politiche possono essere opinabili, il magistero della Chiesa indica chiaramente i criteri con cui affrontare i vari problemi legati alla questione della migrazione. E non è corretto insistere su uno dimenticando gli altri. Troviamo una sintesi importante del magistero nel Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc) al paragrafo 2241 che fissa tre criteri fondamentali.

Il primo è il dovere delle nazioni ricche ad accogliere lo straniero «alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Di fronte al povero e al sofferente non è lecito per nessuno girare la testa altrove o lasciarlo morire in nome di principi astratti. È dunque importante, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza, magari favorendo – in base al principio di sussidiarietà – quelle organizzazioni della società civile impegnate su questo fronte che dimostrano competenza ed efficienza in materia. Non c’è dubbio che questo sia l’ambito proprio per l’azione delle organizzazioni ecclesiali e di volontariato. E allo Stato è lecito chiedere di non ostacolare questa azione di carità.

È giustizia anche la rapidità nelle procedure di «screening» per stabilire chi abbia il diritto, e chi non, di rimanere sul suolo del Paesi di accoglienza. E per chi diventa regolare non si possono creare artificiosamente altre difficoltà alla permanenza, o intralci burocratici che lo trattano sempre e comunque da intruso. D’altra parte, chi non ha il diritto di rimanere deve essere rimpatriato, sempre in condizioni di sicurezza ma senza ambiguità e tentennamenti. La politica del chiudere un occhio, o il foglio di via senza controllo, favoriscono oggettivamente clandestinità e criminalità danneggiando anche gli immigrati regolari. Anche la certezza del diritto è un modo per rispettare i diritti umani.

In ogni caso, restando all’articolo del catechismo, il fondamentale diritto di accoglienza incontra due limiti.

Il primo è definito dall’inciso
che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Vale a dire che l’ingresso di immigrati non può essere a briglie sciolte, anzi è dovere dello Stato regolare il flusso migratorio secondo le possibilità del Paese di accoglienza. Si stabilisce qui un’importante distinzione tra la persona del migrante – nei confronti del quale va sempre rispettato il «diritto naturale» e va protetto – e la politica migratoria che, nel regolare i flussi, deve stabilire un limite alla permanenza di stranieri in un determinato Paese. Di più: le politiche migratorie devono tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza quanto di quelle dei Paesi di origine dei migranti.

Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste siciliane, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza in Italia, che va invece regolata in base ai flussi decisi dal governo e da altre norme di diritto internazionale, quali quella sull’asilo politico.
Su questo punto ci si deve giustamente chiedere quali siano però i criteri con cui stabilire la «misura del possibile». Ci soccorre in questo il Compendio della Dottrina Sociale (Cds) che, al n. 298, parla di flussi migratori da regolare «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti
avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana». L’obiettivo è quello di facilitare l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Il Cds fa riferimento esplicito al Messaggio di Giovanni Paolo Il per la Giornata Mondiale della Pace 2001, secondo cui si tratta di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (n. 13).

Le politiche migratorie, dice ancora il Catechismo, vanno definite «in vista del bene comune». Quest’ultimo concetto, «il bene comune», non va ristretto alle questioni implicate nell’accoglienza o meno di un immigrato, ma deve avere un orizzonte ampio, che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che il problema dell’immigrazione si pone in quanto un precedente diritto fondamentale è stato violato. Quello di poter vivere nella propria terra. Non stiamo ovviamente parlando di chi «sceglie» di andare all’estero per cogliere migliori opportunità professionali, ma di chi è «costretto» ad abbandonare il proprio Paese spinto dalla fame. A questo aspetto si deve dedicare maggiore attenzione, tenendo anche conto che la migrazione priva i paesi di origine di una importante forza lavoro, in genere delle migliori energie e professionalità. Un fenomeno che tende a rendere questi paesi ancora più poveri e fragili, come ha chiaramente detto il demografo e rettore dell’Università della Sorbona di Parigi, Gérard- François Dumont, in risposta a chi vede l’immigrazione come una risposta al calo demografico dei paesi europei: «Se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo»

Non a caso il già citato articolo del Compendio invita esplicitamente a «favorire tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine». Se è vero che la migrazione è un fenomeno naturale – tanto più in questa epoca di globalizzazione – ciò non toglie che parte integrante di una politica migratoria debba essere quella di eliminare o ridurre le cause che stanno all’origine della migrazione: siano esse cause di sottosviluppo o di atteggiamenti criminali di singoli governi o tutte e due le cose insieme (ricordiamo quando Turchia e Albania incoraggiavano l’afflusso di clandestini sulle coste italiane).

Parte di una seria politica migratoria è dunque anche la revisione dei meccanismi della cooperazione internazionale – italiana ed europea – e dell’economia mondiale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.

Un secondo limite posto dal Catechismo attiene ai doveri dell’immigrato che «è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». L’accoglienza non è dunque una strada a senso unico e lo Stato ha il dovere di vigilare sull’osservanza di questa indicazione. La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella nostra cultura, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo alla permanenza in Italia e, più in generale, in Europa. Integrarsi non vuoi dire ovviamente omologarsi, assumere in tutto e per tutto la nostra cultura, ma conoscerla e rispettarla. Imparare la lingua italiana, ad esempio, è il primo passo in questo senso. L’integrazione nella scuola italiana, per i bambini, è altrettanto essenziale e a questo non contribuiscono certo classi della scuola pubblica dove i bambini italiani sono in minoranza.

Ma questo impone che il Paese di accoglienza sia chiaro nella propria identità o la riscopra, facendo rispettare con decisione i valori – culturali, spirituali, sociali e giuridici – che lo fondano. Come ha spiegato nel 2000 l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, in una nota pastorale:

"I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte".

Lo Stato ha il dovere quindi di far rispettare le sue leggi, che nascono da una ben precisa cultura: non ci può essere spazio per la poligamia, per l’applicazione della sharìa (la legge coranica) anche se limitata ad alcuni casi, per il burkha laddove la legge vieta di circolare con il volto coperto, men che meno per la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici o per il reclutamento di terroristi.