venerdì 25 marzo 2011

Fino al sangue.


Ieri, 24 marzo, la Chiesa ha ricordato i testimoni della fede, ossia coloro che per l’adesione al Signore Gesù hanno versato il loro sangue.
Per l’occasione riporto un testo inedito di monsignor Luigi Padovese, frate cappuccino, vicario apostolico dell’Anatolia e testimone della fede, ucciso il 3 giugno 2010 – solennità del Corpus Domini – in Turchia. La frase evidenziata è ad opera di mons. Padovese stesso.



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Ci si può fare un’idea di come le sofferenze del Signore abbiano fortemente impressionato le prime generazioni cristiane. Fortemente colpiti da questo amore straripante che “scandalizza” e che mette a soqquadro la tradizionale concezione di Dio, i cristiani delle origini intenderanno la loro vita anzitutto come una risposta a Cristo.
Quel che importa per essi è vivere in modo degno di Lui, darGli lode. Nella vita, ormai, conta soltanto Lui: “Se uno o l’altro (cioè un circonciso o un incirconciso) – scrive Ignazio – non parlano di Gesù Cristo, essi sono, per me, dei monumenti funebri, dei sepolcri sui quali sono scritti solo nomi di uomini”. Dopo l’esperienza della passione di Cristo, ancora Ignazio può scrivere: “Come possiamo noi vivere senza di Lui, se gli stessi profeti, suoi discepoli in spirito, lo aspettavano come loro maestro?”. E altrove dichiara: “Fuori di Lui nulla mi giova; è per Lui che io porto queste catene, mie gemme spirtiuali”. L’aspirazione del vescovo d’Antiochia è fondamentalmente quella di ripagare Cristo con la sua stessa moneta: amandolo sino alla morte. Egli è perciò fiero di portare le catene per lui ed aspira a raggiungerlo: “Nessuna cosa visibile o invisibile mi impedisca di raggiungere Gesù Cristo. Il fuoco, le belve, la croce… i più malvagi tormenti del demonio vengano su di me, purché io raggiunga Gesù Cristo… Per me è meglio morire per Gesù Cristo…. Io cerco colui che morì per noi… lasciate che io imiti la passione del mio Dio”.
Nell’imitazione fino al martirio il cristiano opera la sua piena fusione con Cristo. La ‘sequela’ conduce all’‘unione’. La vita cristiana intesa come risposta a Dio, trova il senso pieno nella confessione di Lui. “Quale sarà la nostra riconoscenza (verso Cristo)? – si chiede l’autore della Seconda lettera di Clemente – Solo questo: evitare di rinnegarlo, anzi confessare la sua fede… Questa è dunque la nostra fede, se confesseremo colui che ci ha salvati”. La convinzione che i cristiani vivessero per Cristo e non per delle ‘dottrine’ che si richiamavano a Lui, era ben presente agli stessi persecutori i quali richiedevano dai martiri che avessero a rinnegare la loro fede maledicendo Cristo.