sabato 30 aprile 2011

Eterna è la Sua Misericordia!


culto Gesù confido in Te
























Siamo giunti alla seconda Domenica di Pasqua, dedicata alla Divina Misericordia.
Di seguito:

1- Il testo della novena per oggi sabato in Albis: preghiamo per le anime tiepide, nè fredde nè calde, una situazione pericolosissima, come dice Gesù a Suor Faustina;

2. - I modi per ottenere l'indulgenza plenaria legata alla celebrazione di questa festa.


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1- Nono giorno (Sabato in Albis)
Meditare sulla Madonna ed in particolare sull’Ecce, Fiat, Magnificat e Adveniat, caratteristiche indispensabili per vivere un’autentica vita sacerdotale, tutta amore verso Dio e prestazione misericordiosa verso il prossimo, comunque bisognoso.
Parole di nostro Signore: "Oggi portami le anime tiepide e immergile nell’oceano della mia Misericordia. Sono esse che feriscono il mio Cuore nella maniera più dolorosa. Nell’Orto degli ulivi la mia anima provo verso di loro una grande avversione. Fu per causa loro che pronunciai quelle parole: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22,42). Il ricorso alla mia Misericordia resta per loro l’ultima ancora di salvezza".
Preghiamo per le anime tiepide
Misericordiosissimo Gesù, che sei la Bontà stessa, accogli nella dimora del tuo Cuore le anime tiepide. Fa’ che si riscaldino al fuoco del tuo puro Amore queste anime gelide, che sono simili a cadaveri e ti ispirano tanta avversione. Gesù pietosissimo usa l’onnipotenza della tua Misericordia e attirale nelle fiamme più ardenti del tuo Amore, affinché, accese di nuovo zelo, siano esse pure al tuo servizio.
Pater... Ave... Gloria...
Eterno Padre, guarda con occhio pietoso le anime tiepide che sono oggetto d’amore del Cuore di tuo Figlio. Padre di Misericordia, per i meriti della dolorosa Passione di tuo Figlio e delle tre ore di agonia sulla Croce, permetti che, accese d’amore, esse glorifichino di nuovo la grandezza della tua Misericordia. Amen.
Preghiamo: O Dio, infinitamente pietoso, moltiplica in noi l’azione della tua Misericordia, affinché nelle prove della vita non disperiamo, ma ci conformiamo con una fiducia sempre più grande alla tua santa Volontà e al tuo Amore. Per nostro Signore Gesù Cristo, Re di Misericordia nei secoli. Amen.
Segue coroncina alla Divina Misericordia


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2. Indulgenza plenaria

Si annettono Indulgenze ad atti di culto compiuti in onore della Divina Misericordia

«La tua misericordia, o Dio, non conosce limiti e infinito è il tesoro della tua bontà...» (Orazione dopo l'Inno "Te Deum") e «O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono...» (Orazione della Domenica XXVI del Tempo Ordinario), umilmente e fedelmente canta la Santa Madre Chiesa. Infatti l'immensa condiscendenza di Dio, sia verso il genere umano nel suo insieme sia verso ogni singolo uomo, splende in modo speciale quando dallo stesso Dio onnipotente sono rimessi peccati e difetti morali e i colpevoli sono paternamente riammessi alla sua amicizia, che meritatamente avevano perduta.
I fedeli con intimo affetto dell'animo sono da ciò attratti a commemorare i misteri del perdono divino ed a celebrarli piamente, e comprendono chiaramente la somma convenienza, anzi la doverosità che il Popolo di Dio lodi con particolari formule di preghiera la Divina Misericordia e, al tempo stesso, adempiute con animo grato le opere richieste e soddisfatte le dovute condizioni, ottenga vantaggi spirituali derivanti dal Tesoro della Chiesa. «Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell'ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e mediante l'uomo, nel mondo» (Lett. enc. Dives in Misericordia, 7).
Invero la Misericordia Divina sa perdonare anche i peccati più gravi, ma nel farlo muove i fedeli a concepire un dolore soprannaturale, non meramente psicologico, dei propri peccati, così che, sempre con l'aiuto della grazia divina, formulino un fermo proposito di non peccare più. Tali disposizioni dell'animo conseguono effettivamente il perdono dei peccati mortali quando il fedele riceve fruttuosamente il sacramento della Penitenza o si pente dei medesimi mediante un atto di perfetta carità e di perfetto dolore, col proposito di accostarsi quanto prima allo stesso sacramento della Penitenza: infatti Nostro Signore Gesù Cristo nella parabola del figliuol prodigo ci insegna che il peccatore deve confessare la sua miseria a Dio dicendo:«Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (Lc 15, 18-19), avvertendo che questo è opera di Dio: «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15; 32).
Perciò con provvida sensibilità pastorale il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, per imprimere profondamente nell'animo dei fedeli questi precetti ed insegnamenti della fede cristiana, mosso dalla dolce considerazione del Padre delle Misericordie, ha voluto che la seconda Domenica di Pasqua fosse dedicata a ricordare con speciale devozione questi doni della grazia, attribuendo a tale Domenica la denominazione di "Domenica della Divina Misericordia" (Congr. per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Decr. Misericors et miserator, 5 Maggio 2000).
Il Vangelo della seconda Domenica di Pasqua narra le cose mirabili compiute da Cristo Signore il giorno stesso della Risurrezione nella prima apparizione pubblica: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: 'Pace a voi!'.
Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: 'Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi'. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: 'Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi'»(Gv 20, 19-23).
Per far sì che i fedeli vivano con intensa pietà questa celebrazione, lo stesso Sommo Pontefice ha stabilito che la predetta Domenica sia arricchita dell'Indulgenza Plenaria, come più sotto sarà indicato, affinché i fedeli possano ricevere più largamente il dono della consolazione dello Spirito Santo e così alimentare una crescente carità verso Dio e verso il prossimo, e, ottenuto essi stessi il perdono di Dio, siano a loro volta indotti a perdonare prontamente i fratelli.
Così i fedeli osserveranno più perfettamente lo spirito del Vangelo, accogliendo in sé il rinnovamento illustrato e introdotto dal Concilio Ecumenico Vaticano II: «I cristiani, ricordando le parole del Signore: 'da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri' (Gv 13, 35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con sempre maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo... Il Padre vuole che noi riconosciamo ed efficacemente amiamo in tutti gli uomini Cristo fratello, tanto con la parola che con l'azione» (Cost. past. Gaudium et spes, 93).
Il Sommo Pontefice pertanto, animato da ardente desiderio di favorire al massimo nel popolo cristiano questi sensi di pietà verso la Divina Misericordia, a motivo dei ricchissimi frutti spirituali che da ciò si possono sperare, nell'Udienza concessa il giorno 13 giugno 2002 ai sottoscritti Responsabili della Penitenzieria Apostolica, Si è degnato di largire Indulgenze nei termini che seguono:
Si concede l'Indulgenza plenaria alle consuete condizioni (Confessione sacramentale, Comunione eucaristica e preghiera secondo l'intenzione del Sommo Pontefice) al fedele che nella Domenica seconda di Pasqua, ovvero della "Divina Misericordia", in qualunque chiesa o oratorio, con l'animo totalmente distaccato dall'affetto verso qualunque peccato, anche veniale, partecipi a pratiche di pietà svolte in onore della Divina Misericordia, o almeno reciti, alla presenza del SS.mo Sacramento dell'Eucaristia, pubblicamente esposto o custodito nel tabernacolo, il Padre Nostro e il Credo, con l'aggiunta di una pia invocazione al Signore Gesù Misericordioso (p.e. «Gesù Misericordioso, confido in Te»).
Si concede l'Indulgenza parziale al fedele che, almeno con cuore contrito, elevi al Signore Gesù Misericordioso una delle pie invocazioni legittimamente approvate.
Inoltre i naviganti, che compiono il loro dovere nell'immensa distesa del mare; gli innumerevoli fratelli, che i disastri della guerra, le vicende politiche, l'inclemenza dei luoghi ed altre cause del genere, hanno allontanato dal suolo patrio; gli infermi e coloro che li assistono e tutti coloro che per giusta causa non possono abbandonare la casa o svolgono un'attività non differibile a vantaggio della comunità, potranno conseguire l'Indulgenza plenaria nella Domenica della Divina Misericordia, se con totale detestazione di qualunque peccato, come è stato detto sopra, e con l'intenzione di osservare, non appena sarà possibile, le tre consuete condizioni, reciteranno, di fronte ad una pia immagine di Nostro Signore Gesù Misericordioso, il Padre Nostro e il Credo, aggiungendo una pia invocazione al Signore Gesù Misericordioso (p.e. «Gesù Misericordioso, confido in Te»).
Se neanche questo si potesse fare, in quel medesimo giorno potranno ottenere l'Indulgenza plenaria quanti si uniranno con l'intenzione dell'animo a coloro che praticano nel modo ordinario l'opera prescritta per l'Indulgenza e offriranno a Dio Misericordioso una preghiera e insieme le sofferenze delle loro infermità e gli incomodi della propria vita, avendo anch'essi il proposito di adempiere non appena possibile le tre condizioni prescritte per l'acquisto dell'Indulgenza plenaria.
I sacerdoti, che svolgono il ministero pastorale, soprattutto i parroci, informino nel modo più conveniente i loro fedeli di questa salutare disposizione della Chiesa, si prestino con animo pronto e generoso ad ascoltare le loro confessioni, e nella Domenica della Divina Misericordia, dopo la celebrazione della Santa Messa o dei Vespri, o durante un pio esercizio in onore della Divina Misericordia, guidino, con la dignità propria del rito, la recita delle preghiere qui sopra indicate; infine, essendo «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7), nell'impartire la catechesi spingano soavemente i fedeli a praticare con ogni possibile frequenza opere di carità o di misericordia, seguendo l'esempio e il mandato di Cristo Gesù, come è indicato nella seconda concessione generale dell'"Enchiridion Indulgentiarum".
Il presente Decreto ha vigore perpetuo. Nonostante qualunque contraria disposizione.
Roma, dalla sede della Penitenzieria Apostolica, il 29 giugno 2002, nella solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo 2002.
LUIGI DE MAGISTRIS
Arcivescovo tit. di Nova
Pro-Penitenziere Maggiore
GIANFRANCO GIROTTI,
O.F.M. Conv.
Reggente

venerdì 29 aprile 2011

Meditatio mortis: gli apoftegmi dei Padri - 5

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Il pensiero della morte viene spesso strettamente unito al timore del giudizio e dell’eventuale castigo finale. Riporto qui di seguito i detti che esprimono in modo più significativo questo legame:

“Il padre Elia disse: ‘Io ho timore di tre cose: di quando l’anima uscirà dal corpo, di quando m’incontrerò con Dio, di quando la sentenza sarà proferita contro di me ’”.

“Disse ancora (Agatone): ‘Bisogna che l’uomo sia sempre intento al giudizio di Dio.

“Un giorno il padre Silvano, mentre sedeva con dei fratelli, andò in estasi e cadde con la faccia a terra. Quando, dopo molto tempo, si alzò, piangeva. I fratelli lo pregavano: ‘Che hai, padre?’ Ma egli taceva e piangeva. Poiché lo costringevano a parlare, disse: ‘Sono stato rapito e portato innanzi al giudizio. E ho visto molti di noi andare al castigo, e molti laici entrare nel regno’. L’anziano entrò in stato di lutto e non voleva più uscire dalla sua cella (…)”.

In un lungo detto, Teofilo, arcivescovo di Alessandria, descrive il momento drammatico del giudizio finale.

“Lo stesso padre Teofilo disse: ‘Con quanto timore, tremore e angustia dobbiamo pensare al momento in cui il corpo si separerà dall’anima".

“(...) Se subisci queste cose tu che sei peccatore, ricordati del castigo futuro e del fuoco eterno e delle pene che il giudizio comporta, e non perderti d’animo di fronte alle cose presenti.”.

“Disse anche: ‘Nel mondo, se commettiamo un fallo anche senza volere, siamo gettati in prigione; e noi, imprigioniamo dunque noi stessi a causa dei nostri peccati, affinché questo atto volontario della memoria allontani il castigo futuro’”.

Nell’ultimo detto che analizzo stasera, ritroviamo il legame tra il pensiero della morte e l’attenzione che già abbiamo visto presente in altri testi della tradizione filosofica e monastica.

“Un fratello chiese al padre Ammone: ‘Dimmi una parola’. L’anziano gli disse: ‘Ecco, poniti in mente ciò che pensano i malfattori in prigione: essi domandano sempre a tutti dov’è il giudice e quando verrà, e piangono nell’attesa del castigo. Allo stesso modo il monaco deve sempre essere attento, e accusare l’anima sua dicendo: ‘Guai a me, come potrò presentarmi al tribunale di Cristo? Come potrò giustificarmi dinanzi a lui?’ Se tu ripeti questo incessantemente, potrai salvarti’”.


Dolce sentire...

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Dopo la pausa pasquale, riprendo la presentazione della Dottrina della Grazia. L'ultimo post pubblicato su questo importante tema è del 19 aprile scorso e l'ho intitolato "Quando i bambini fanno oooooooh!".

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"Quantunque l'assenso della fade non sia affatto un moto cieco dello spirito, nessuno, tuttavia, può prestare il suo assenso alla predicazione del Vangelo, come è necessario per ottenere la salvezza, senza l'illuminazione e l'ispirazione dello Spirito Santo, che dà a tutti la dolcezza nell'aderire e nel credere alla verità" (Concilio ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius, cap. III).

"A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, per la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà. Perchè si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente e dia a tutti la dolcezza nell'aderire e nel credere alla verità" (Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n.5).

"Quando si tratta di fede, il grande regista è Dio, perchè Gesù ha detto "Nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira" (Papa Giovanni Paolo I, udienza generale, mercoledi 13 settembre 1978).

"La nostra fede non nasce da un mito nè da un'idea, bensì dall'incontro con il Risorto nella vita della Chiesa" (Papa Benedetto XVI, udienza generale, mercoledi 24 settembre 2008).

"La dolcezza non si può imparare se non dona piacere" (Sant'Agostino, Enarrationes in Psalmos, 118, 17, 3).

Concilio di Orange del 529

La dolcezza della fede

Canone 7. Se qualcuno afferma che per il vigore della natura si può convenientemente pensare o scegliere qualche bene che riguarda la salvezza della vita eterna, o aderire alla predicazione che ci salva, quella cioè del Vangelo, senza l'illuminazione o l'ispirazione dello Spirito Santo, che dà a tutti la dolcezza nell'aderire e nel credere alla verità, si inganna con spirito eretico, poichè non intende la voce di Dio, che dice nel Vangelo: "Senza di me non potete far nulla"; e ciò che dice l'Apostolo: "Non però che siamo in grado di pensare da noi qualcosa come se provenisse da noi, ma la nostra capacità viene da Dio" (2Cor. 3,5).

Caterina, il diavolo e il Buon Dio

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Siamo al Venerdi in Albis, ottavo giorno della novena alla Divina Misericordia, festa liturgica di santa Caterina da Siena. Di seguito il testo della preghiera della novena per oggi e un testo preziosissimo di Caterina sulla Misericordia.

Ottavo giorno (Venerdi in Albis).


Meditare sulle parabole della Divina Misericordia (cfr. Lc 10,29-37;15,11-32;15,1-10) puntualizzando sia il sollievo della sofferenza verso i vivi e i defunti, come anche la promozione integrale dell’uomo e la necessità di avvicinare i lontani.
Parole di nostro Signore: "Oggi portami le anime che si trovano nel Purgatorio ed immergile nell’abisso della mia Misericordia, affinché gli zampilli del mio sangue ristorino la loro arsura. Tutte queste povere anime sono da me immensamente amate; esse soddisfano la Giustizia Divina. È in tuo potere portar loro sollievo offrendo tutte le indulgenze e le offerte espiatorie prese dal tesoro della mia Chiesa. Se tu conoscessi il loro tormento, non smetteresti di offrire l’elemosina delle tue preghiere e di pagare i debiti che esse hanno contratto con la mia Giustizia".

Preghiamo per le anime del Purgatorio.
Misericordiosissimo Gesù, che hai detto: "Misericordia io voglio" (Mt 9,13), accogli, ti preghiamo, nella dimora del tuo Cuore infinitamente pietoso le anime del Purgatorio, che ti sono molto care, ma che devono tuttavia soddisfare alla Giustizia Divina. I torrenti di sangue e di acqua, che sgorgano dal tuo Cuore, spengano le fiamme del fuoco del Purgatorio, affinché anche là si manifesti la potenza della tua Misericordia.
Pater... Ave... Gloria...

Eterno Padre, dà uno sguardo compassionevole alle anime che soffrono nel Purgatorio. Per i meriti della dolorosa Passione di tuo Figlio e per l’amarezza che riempì il suo Cuore sacratissimo abbi pietà di quanti si trovano sotto lo sguardo della tua Giustizia.
Ti chiediamo di guardare queste anime solo attraverso le Piaghe del tuo Figlio prediletto, perché siamo convinti che la tua Bontà e Misericordia non hanno limiti. Amen.

Segue coroncina alla Divina Misericordia

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Dalle "Lettere" di santa Caterina da Siena (Il neretto e le sottolineature sono mie)

Lettera 189, ai monaci di Cervaia.
Epistolario, Firenze, 1939, a cura di P. Misciatelli,vol.3°, 138-140.

Il dolce e buon Dio ha posto nell'uomo, mentre vive nel carcere corruttibile del suo corpo, un continuo rimedio che fortifica la ragione e la libertà dell'uomo, cioè la conti­nua medicina del fuoco dello Spirito Santo, che non gli è mai tolto. Adopera anche continuamente la grazia e i doni suoi. Così ogni giorno tu puoi e devi adoperare questo dolce battesimo, che ti è dato per grazia e non per debito.
Quando dunque l'anima vede in sé tanta eccellenza e fuoco di Spirito Santo, si inebria talmente dell'amore del suo Creatore, che perde tutta se stessa, e vivendo vive come morta alle cose di quaggiù, e non sente alcun diletto o gusto per le creature. Infatti la memoria è già piena dell'affetto del suo Creatore, e l'intelletto non intende né vede nessuna cosa se non in Dio e per Dio.
A questa perfezione, carissimi fratelli, voi siete invitati dallo Spirito Santo, che vi ha tratti dallo stato del secolo allo stato monastico; e siete legati con la guida della vera e santa obbedienza, condotti a mangiar favi di miele nel giardino della santa Chiesa.
Vi prego dunque, poiché questo dà tanta gioia, di non mai volgere il capo all'indietro per qualsiasi fatica o tenta­zione del demonio. E non soggiaccia mai a tristezza o confu­sione l'anima vostra, perché il demonio non vorrebbe altro. Infatti egli spesse volte, darà molte molestie e varie batta­glie, e vi farà falsamente giudicare contro l'obbedienza che vi fosse imposta.
E non fa questo perché creda che di primo colpo noi cadiamo, ma solo perché l'anima venga a disordinata tristez­za e confusione di mente. In questo stato, essa tralascia per tedio gli esercizi spirituali che faceva, parendole che le sue opere non debbano essere accette né piacevoli a Dio, poiché in tante tenebre e freddezza di cuore le sembra esser priva del calore della carità; ed allora crede meglio di lasciarle che di farle.
Ma non si deve far così poiché se tutti i peccati si radunassero nel corpo di un uomo, ma gli rimanesse la vera speranza e la viva fede nella infinita misericordia divina, non gli si potrà impedire di partecipare e ricevere il frutto del sangue del Figliuolo di Dio, il sangue che il dolce Gesù sparse, volendo compiere la volontà del Padre e la nostra salvezza.

A muso duro.

http://www.albanesi.it/Mente/Religione/Giovanni_Paolo_II.jpg
Riporto da "Libero" di oggi, 29 aprile, a firma di Renato Farina. Assolutamente da leggere!


Wojtyla, grande e duro. Ecco, di questo forse ancora non si è scritto di questi giorni, anche perché - per una specie di contaminazione del cristianesimo con la new age - la santità è intesa come caramelle-per-tutti. Bugia. Essa è dramma, anche quando attinge l’amore, che neanche lui peraltro è un pasticcino da tè. Vorrei anch’io scrivere della bontà del Papa, del fatto che pregava perché i malati guarissero sdraiato ai piedi dell’Ostia prima dell’alba, della sua capacità di perdono e della tenera misericordia di Dio che sgorgava dai suoi occhi eccetera. Ma la sua bontà aveva le nocche dure, era una bontà tremenda, da soldato come lo fu suo padre. Bastava guardare i suoi piedi per capire come fossero nati per camminare dove c’era bisogno ma anche per sfondare a calci le porte del regno delle tenebre per conquistarlo. Sin dalla prima enciclica è stato chiaro. Nella “Redemptor hominis” introdusse una definizione dei cristiani poco usata e mai citata nelle rievocazioni di maniera: «i violenti di Dio». L’aveva trovata in san Paolo, il quale lo precedette nel definire la vita un combattimento.
Cattivo con il male, questo sì. Cattivissimo. Su Libero nel settembre del 2001 raccontai di come avesse affrontato in San Pietro il diavolo in persona, cacciandolo via da una povera ragazza con parole che avevano impaurito il maligno. Non ci fu smentita. San Bernardo di Chiaravalle era giunto non ad autorizzare ma a spingere alla violenza, coniando il termine di “malicidio”: se annichili il malvagio che assalta il debole e lo abbatti, non uccidi un uomo ma il male. Io credo abbia applicato questa durezza, questa cattiveria da monaco-guerriero nei confronti di se stesso. Non si è mai riguardato. Mi disse un giorno di se stesso: «Sono un vecchio Papa ma cammino nelle montagne». Nelle montagne, non sulle montagne. Dentro le montagne. Nella roccia. I suoi funerali non sono stati color ciclamino, con la rugiada sulla bara. C’era un vento gagliardo, il cielo scompigliava le pagine del Vangelo come fosse la chioma di una vedova disperata.
Conviene raccontare alcuni momenti di questa cattiveria. Per piccoli episodi in cui c’è tutto lui.
1) Nessuna delicatezza con il comunismo. Andò in Polonia e non obbedì in nulla al regime che voleva spazi limitati, prediche gentili. Era il 1979. Aveva 59 anni ed era definito “l’atleta di Dio”. Più che altro era un Arcangelo Michele con la spada contro gli oppressori. Si inginocchiava commosso dinanzi alla Madonna Nera, e incoraggiava la resistenza in nome della fede e della libertà. Per questo - con ogni probabilità, lo si evince anche dal dossier Mitrokhin - Breznev e gli altri capi di Stato del Patto di Varsavia decisero che bisognava eliminarlo. Scrisse a Mosca dicendo che se i sovietici avessero invaso la Polonia si sarebbero trovati davanti lui in persona.
2) Non tollerava il dissenso in tema dottrinale. La fede era il tesoro dei poveri, guai a chi lo depreda e ci mette perle false. Era da poco Papa e mise subito fuori gioco Hans Küng, negandogli la possibilità di chiamarsi e di insegnare come “teologo cattolico”. Questo svizzero era il numero uno (e si sostiene lo sia ancora) nel ramo. Ovvio: ci pensò il suo pupillo cardinal Ratzinger a sistemare la questione. Ma l’input fu di Wojtyla, che non volle vedere Küng neanche dipinto. Lo stesso fece con i teologi della liberazione. Era andato a Puebla in Messico. Spiego che era «Cristo e ciò che da Lui deriva» la liberazione degli uomini e dei popoli, e che il marxismo impugnato dai vari Boff e Gutierrez era la negazione della giustizia. Ebbe mano pesante anche con l’arcivescovo Lefebvre, che da destra lo accusava di difendere un Concilio eretico.
3) Si schierò contro le dittature dovunque nel mondo. Incontrava tutti, ma dicendo il fatto loro. Il caso più clamoroso fu in Nicaragua, nel 1983. Il regime sandinista (cattocomunista e guerrigliero) gli organizzò uno scenario per la messa da paura. Con le immagini non di Cristo ma dei soldati rivoluzionari e la folla che gli urlava contro nelle prime file. Lui tirò dritto. Al prete-ministro Ernesto Cardenal, che gli si era buttato platealmente in ginocchio davanti, e che il Papa aveva già sanzionato per aver disobbedito, rifiutò in mondovisione ogni benevolenza. Si vide il suo dito che redarguiva. Il labiale è stato decifrato: «Usted tiene que arreglar sus asuntos con la Iglesia!», lei deve regolare i suoi conti con la Chiesa! Lo considerarono per questo tradizionalista, reazionario.
4) Anche con i giovani, specie quelli occidentali, non mollò mai nulla in tema di morale sessuale. Di aborto e di metodi contraccettivi neanche a parlarne. A chi lo invocava di essere più accomodante, più vicino allo spirito dei tempi, rispose che «Non sono io a inventare la dottrina della Chiesa, non cambio le parole di Gesù».
5) Gentile ma fino a un certo punto con i giornalisti. Era sempre disponibile, ma non a costo della offesa. La Repubblica nel 1984 fece un’inchiesta in cui giunse a paragonarlo con il diavolo. A questo punto il vaticanista Domenico Del Rio fu squalificato per un turno dal volo papale. Navarro, il portavoce, non approvò ma obbediente riferì la parola del papa: «Vogliamo evitargli l’imbarazzo di viaggiare in compagnia del diavolo». Poi Domenico Del Rio testimoniò di aver imparato da Wojtyla a pregare e giunse a paragonarlo a un “Nuovo Mosè”.
6) Finemente duro in difesa delle donne, e mi si scusi se scivolo nell’aneddotica. Bisognerebbe parlare in positivo del suo modo di intendere il rapporto uomo-donna. Mi limito a un episodio. India, 1986. A Goa Wojtyla constatò che il vescovo locale, molto macho, aveva confinato le suore fuori della chiesa (sotto l’altare c’è il corpo imbalsamato di san Francesco Saverio), e di aver ospitato solo i frati. Il Papa guarda storto, non dice niente. Ci fu la cena. Ci invitò la giornalista Palma Gomez Borrero, e per tutta la cena si rivolse solo a lei e alle suore. Non le vuole sacerdotesse, ma donne sì. Il prete è un lavoro da uomini, con molte ragioni teologiche. Ma, a costo di sfidare le contestazioni in America, neanche un filo di possibilità ha mai concesso.
7) Ultimo. È stato duro con la morte e con la malattia. Durissimo. Cattivo. Più cattivo della malattia e della morte. Le ha maltrattate. Non ha accettato il loro dominio. Andò in Azerbaigian e in Bulgaria (2003) facendosi calare dall’aereo come una statua bianca con imbragature da cantiere edile. Negli ultimi tempi non riusciva a pronunciare le parole, non deglutiva più. E allora davanti al mondo batté sul leggio un pugno con tutta la sua povera forza di moribondo. Era un pugno forse anche a Dio. Io così l’ho amato tanto.

Coincidenze.



Questi inglesi sono davvero fantastici. Riescono ad intercettare sempre la Misericordia. Oggi 29 aprile nel calendario romano e in quello anglicano ricorre la memoria di Caterina (Kate) Benincasa, nata a Siena nel 1347; dopo aver scritto un cantico d'Amore di rara bellezza nel suo "Dialogo sulla Divina Provvidenza", fu proclamata Dottore della Chiesa da Papa Paolo VI nel 1968, titolo che le è riconosciuto anche dalla Chiesa d'Inghilterra (!). In questo giorno del lontano 1380 Caterina "Kate" Benincasa salì al Cielo e ripetè per l'ultima volta il suo SI' a quello Sposo che aveva amato tutta la sua vita. Questa mattina Kate "Caterina" Middleton ha detto sì al suo principe azzurro. Guarda le combinazioni!

giovedì 28 aprile 2011

Quando le donne si chiamavano Madonne...




Oggi 29 APRILE la Chiesa festeggia:

SANTA CATERINA DA SIENA (f)
Vergine e Dottore della Chiesa, Patrona d'Europa e d'Italia
(1347-1380)
Particolarmente in questi tempi così tristi, affidiamo la nostra Italia alla protezione di santa Caterina...

Nel calendario romano e in quello anglicano ricorre oggi la memoria di Caterina da Siena, terziaria domenicana e maestra della fede. Caterina Benincasa nacque a Siena nel 1347, ventiquattresima di venticinque figli. Nutrendo fin da piccola una particolare propensione per la vita interiore, a quindici anni si fece terziaria domenicana, attratta dall'attività caritativa verso i poveri e i malati. Il suo amore per Cristo, alimentato da un costante dialogo interiore, e la radicale vita evangelica che conduceva, le attirarono un piccolo cenacolo di discepoli, che la seguiranno ovunque per partecipare dei suoi doni e del suo ministero. Caterina votò tutta la propria vita alla causa della pace e dell'unità, operando - fatto del tutto inusuale per una giovane donna del suo tempo - per la riconciliazione delle città in lotta e per la riforma della chiesa, afflitta dalla corruzione e dallo scisma. Caterina visitò i poveri per portare loro conforto e i potenti per indicare loro la via della riconciliazione esigita dall'Evangelo. Ebbe un'intensa corrispondenza, grazie alla quale elargiva consigli spirituali a tutti coloro che le chiedevano una parola, e lasciò un cantico d'amore di rara bellezza nel suo Dialogo sulla divina provvidenza. Caterina fu proclamata dottore della chiesa da Paolo VI nel 1968, titolo che le è riconosciuto anche dalla Chiesa d'Inghilterra. Essa morì in questo giorno, nel 1380, e pur avendo vissuto un lasso di tempo così breve ci ha lasciato con la sua vita una delle pagine più belle della spiritualità cristiana.



TRACCE DI LETTURA


Dio eterno, padre compassionevole e misericordioso,

abbi pietà e misericordia di noi,

dato che siamo ciechi, senza alcuna luce,
e io più di tutti, povera miserabile,
e così sono stata sempre crudele nei riguardi di me stessa.
Con quell'occhio di pietà
con il quale creasti noi e tutte le cose,
considera le necessità del mondo e provvedi.
Tu ci hai donato l'essere dal nulla:
illumina dunque quest'essere che è tuo.
Con il velo della tua misericordia
chiudi e copri l'occhio della tua giustizia,
e apri l'occhio della tua pietà.
Con il legame della carità, lega te stesso
e placa la tua ira.

Caterina da Siena, dalle Orazioni


PREGHIERA

Signore della chiesa,
ricordando Caterina da Siena,
ardente di amore per te,
noi ti ringraziamo per il suo servizio
alla verità e alla pace ecclesiale:
concedici sul suo esempio di vivere la comunione
con franchezza e carità,
guidati dalla dolcezza dello Spirito di Cristo,
benedetto nei secoli dei secoli.


* * *


Dal «Dialogo della Divina Provvidenza» di santa Caterina da Siena, vergine

(Cap. 167, Ringraziamento alla Trinità; libero adattamento; cfr. ed. I. Taurisano, Firenze, 1928, II pp. 586-588)

O Deità eterna, o eterna Trinità, che, per l'unione con la divina natura, hai fatto tanto valere il sangue dell'Unigenito Figlio! Tu. Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile; e l'anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trinità eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce.
Io ho gusto e veduto con la luce dell'intelletto nella tua luce il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura. Per questo, vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata della tua potenza, o Padre eterno, e della tua sapienza, che viene appropriata al tuo Unigenito Figlio. Lo Spirito Santo poi, che procede da te e dal tuo Figlio, mi ha dato la volontà con cui posso amarti.
Tu infatti, Trinità eterna, sei creatore ed io creatura; ed ho conosciuto perché tu me ne hai data l'intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del Figlio che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura.
O abisso, o Trinità eterna, o Deità, o mare profondo! E che più potevi dare a me che te medesimo? Tu sei un fuoco che arde sempre e non si consuma. Sei tu che consumi col tuo calore ogni amor proprio dell'anima. Tu sei fuoco che toglie ogni freddezza, e illumini le menti con la tua luce, con quella luce con cui mi hai fatto conoscere la tua verità.
Specchiandomi in questa luce ti conosco come sommo bene, bene sopra ogni bene, bene felice, bene incomprensibile, bene inestimabile. Bellezza sopra ogni bellezza. Sapienza sopra ogni sapienza. Anzi, tu sei la stessa sapienza. Tu cibo degli angeli, che con fuoco d'amore ti sei dato agli uomini.
Tu vestimento che ricopre ogni mia nudità. Tu cibo che pasci gli affamati con la tua dolcezza. Tu sei dolce senza alcuna amarezza. O Trinità eterna!

Vedi per il testo del Dialogo:

Meditatio mortis: gli apoftegmi dei Padri - 4

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C'è una serie di detti in cui i padri invitano i loro discepoli a morire al prossimo per potere imparare ad amare gli altri. Ci troviamo qui di fronte ad un’ulteriore prospettiva con cui i padri considerano il pensiero della morte.
‘Divenire morti’ è uno dei temi dominanti per esempio nella dottrina di Mosè l’etiope:

“Il padre Poemen raccontò di un fratello che chiese al padre Mosè in che modo si diviene morti al prossimo. L’anziano gli disse: ‘Se l’uomo non si pone nel cuore di essere già da tre giorni nella tomba, non giunge a questo stato’”.

Lo stesso Mosè ci spiega il senso di questa espressione in altri due detti: morire al prossimo significa sospendere ogni giudizio sul fratello, evitare ogni azione malvagia e, infine, portare i propri peccati, senza giudicare gli altri.

“Bisogna che l’uomo sia morto al suo prossimo, per non giudicarlo in nulla”.
“(…) Morire al prossimo significa che tu porti i tuoi peccati e non ti preoccupi di nessuno, se questo è buono, o quest’altro cattivo (...)”.

Troviamo ancora altri tre detti che esprimono lo stesso insegnamento in forma narrativa, utilizzata nei due detti di Mosè. In questi due racconti la morte al prossimo è la condizione indispensabile per poter vivere insieme ad altri fratelli.
Il primo detto di Anub ci informa innanzitutto sul fatto che Anub era il maggiore di sette fratelli e che uno di questi era il famoso Poemen. I sette fratelli, dopo aver abbandonato il deserto di Scete “in seguito a un’invasione dei Mazici”, una volta giunti nella località di Terenuti, prendono dimora nell’antico tempio. Anub compie davanti a loro un gesto simbolico: al mattino si mette a gettare sassi contro una statua di pietra e alla sera le chiede perdono. Davanti alla domanda di Poemen che gli chiede spiegazioni, Anub risponde:

“‘(…) Se volete che viviamo insieme, dobbiamo diventare come questa statua che non si turba né quando è offesa né quando è lodata. Se non siete disposti a diventare così, ecco, nel tempio ci sono quattro porte, ognuno se ne vada dove vuole’. Essi si gettarono a terra dicendo al padre Anub: ‘Faremo ciò che tu vuoi, padre, e ascolteremo quello che ci dici’”.

Il secondo detto che consideriamo è attribuito ad Ammone: presenta una forte somiglianza con la storia di Anub, con alcune piccole variazioni.

“A questo padre Ammone, il padre Antonio profetizzò che doveva fare progressi nel timore di Dio; lo condusse fuori dalla cella e gli mostrò una pietra dicendogli: ‘Insultala e colpiscila!’. Dopo che ebbe fatto così, il padre Antonio gli chiese: ‘Forse che la pietra ha detto qualcosa?’ L’altro disse: ‘No’. E il padre Antonio a lui: ‘Ecco, anche tu devi arrivare a questo punto’. E così avvenne: il padre Ammone fece tali progressi che per la sua grande bontà ignorava completamente il male (…)”.

Il terzo detto si trova in Macario l’Egiziano e ci offre un’ulteriore ed interessante variazione del tema presente nei detti di Anub e di Ammone. In questa terza tipologia, l’anziano invita il suo discepolo a compiere la stessa duplice azione simbolica compiuta da Anub davanti a Poemen e agli altri suoi fratelli. Questa volta però l’insulto e la lode vengono rivolti non ad una statua di pietra, ma ai morti sepolti in un cimitero:

“Un fratello si recò dal padre Macario l’Egiziano e gli disse: ‘Padre, dimmi una parola: come posso salvarmi?’. Gli disse l’anziano: ‘Va’ al cimitero e insulta i morti’. Il fratello vi andò, li insultò e li prese a sassate. Quindi ritornò a dirlo all’anziano e questi gli disse: ‘Non ti hanno detto nulla?’ Ed egli: ‘No’. Gli dice l’anziano: ‘Ritorna domani e lodali’. Il fratello vi andò e li lodò chiamandoli apostoli santi e giusti. Quindi ritornò dall’anziano e gli disse: ‘Li ho lodati’. Ed egli: ‘Non ti hanno risposto nulla?’. ‘No’. ‘Tu sai quanto li hai insultati - dice l’anziano - e non hanno risposto nulla, e quanto li hai lodati e non ti hanno detto nulla; diventa anche tu morto in questo modo, se vuoi salvarti. Non far conto né dell’ingiuria né della lode degli uomini, come i morti; e potrai salvarti’”.

In uno degli ultimi detti di Poemen troviamo una breve sintesi di ciò che i tre detti precedenti hanno espresso in forma narrativa. Non è un caso che questo sintetico commento si trovi proprio fra i detti di Poemen, visto il suo legame con Anub e con Ammone.

“Disse anche: Un uomo che vive assieme ad altri, deve essere come una colonna di pietra: insultato, non si adira; glorificato, non si innalza”.

Pace a voi!



Non abbiate paura, sono proprio io. Vi ho chiamati per mezzo della grazia, vi ho scelti nel mio perdono, vi ho sostenuti con la mia compassione, vi ho portati nel mio amore, e vi accolgo oggi, a motivo della mia sola bontà.
San Pietro Crisologo Discorsi, 81

Il Vangelo di oggi Giovedi "in Albis" è per tutti quelli che cercano la pace del cuore...

Dal Vangelo secondo Luca 24,35-48.
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Parola del Signore.

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IL COMMENTO
La Pasqua è l'accadere dell'impossibile nelle nostre giornate. E l'impossibile è la pace. Ciò che il cuore nostro anela e desidera più d'ogni altra cosa, la pace che sorpassa ogni intelligenza, come qualcosa che non scivoli via, più forte di gioia e dolore. "Pace a voi!", oggi. Shalom, il modo attraverso il quale la risurrezione di Gesù giunge a ciascuno di noi. Shalom, le prime parole di Gesù risuscitato, l'incipit della nuova creazione. Non siamo nel regno dell'utopia, popolato e agitato da sogni e chimere, ideali e fantasmi. Il combattimento scatenatosi nei discepoli all'apparire di Gesù è quello che sconvolge i nostri cuori ogni giorno. La stessa parola "dubbi" traduce in italiano l'originale greco che è letteralmente "pensieri", quelli che ci circondano e ci assalgono di continuo. La pace come una diga a proteggerci dai pensieri, la pace del Signore, non quella del mondo, a frantumare la ragnatela di pensieri che ci ingabbia la vita, e ce la rende triste, grigia, con quel solito retrogusto di insoddisfazione e di effimero che smorza anche gli eventi più gioiosi. I pensieri sono i veri dominatori di questo mondo, le traspirazioni della carne, vestigia di tutto quello che è destinato a corrompersi. Diceva un Padre del deserto:"“Un fratello interrogò un anziano: ‘Che devo fare poiché molti pensieri mi combattono e io non so come combatterli?’. Gli disse l’anziano: ‘Non combattere contro tutti, ma contro uno solo, perché tutti i pensieri del monaco hanno un capo. ‘E necessario osservare chi sia questo capo e di che genere, combatterlo e così si umiliano anche gli altri pensieri’” (Nau 219)". Ogni pensiero che combatte e toglie la pace nasconde il volto del nemico più pericoloso: la philautia, l’amore di sé che ci trasforma in ‘amici di sé contro sé stessi’ (Massimo il Confessore). E' o'orgoglio che imprigiona la carne e la rende impotente, ne umilia la capacità di aprirsi e accogliere lo Spirito di Vita che la può condurre a compiere l'impossibile. Per questo i Padri dicevano anche: "“Sii il portinaio del tuo cuore, affinché lo straniero non entri, chiedendo ad ogni pensiero che ti assale “Sei dei nostri o vieni dall’Avversario?”. Te lo dirà certamente! ‘Poni alla porta del tuo cuore un cherubino con la spada infuocata” (Nau 99). Antonio il Grande raccomandava ai suoi monaci di fronte ai pensieri e alle immagini che si avvicinano al cuore: “Qualunque immagine appaia, colui che la vede non cada in trepidazione, ma piuttosto interroghi con sicurezza dicendo dapprima: “Chi sei tu e da dove vieni?…Se si tratta di una potenza diabolica, subito si indebolirà vedendo un animo sicuro e vigoroso. La domanda “chi sei tu e da dove vieni?” è infatti segno di un animo non turbato. Così Giosuè di Nun imparò interrogando; e il nemico non rimase nascosto a Daniele che interrogava” (Vita Antonii, 43, 1-3).
Nel Vangelo di oggi è adombrato questo combattimento decisivo; nella vita appaiono sempre le due vie sulle quali ci si può incamminare: il bene ed il male, la verità o la menzogna. I dubbi sono i pensieri che attaccano al cuore la purezza capace di discernere per scegliere, liberamente, la via buona, quella della volontà di Dio. I dubbi-pensieri che si ergono come nemici della croce di Cristo, del suo amore che vince la morte, della sua risurrezione. Appare Cristo risorto e sorgono i dubbi-pensieri, e non può essere diversamente. Cristo risorto è la via della vita che non muore, accanto vi è sempre la via della morte, quella sulla quale i dubbi cercano di indirizzarci. E la via della morte è quella che non crede alla risurrezione del Signore, quella che lo identifica con un fantasma. Se Cristo non è risorto è vana la nostra fede e rimaniamo nei nostri peccati, nella morte! L'amore di sé, l'orgoglio è il pensiero che insinua l'incredulità.
L'apparizione del Signore nel Cenacolo inaugura un tempo decisivo per "con-siderare" quell'evento sconvolgente. La parola considerare significa letteralmene stare-con-le stelle (siderare, da sidus, siderare = costellazione di stelle). Alle origini significava "osservare gli astri alla ricerca di segni del destino. Per gli apostoli, come per ciascuno di noi
si tratta di fissare la Luce della Pasqua, la Luce di Cristo risorto come una stella che indichi il cammino da seguire, la via della vita. Fissando questa Luce, si comincia a de-siderare, smettere (de)-di-considerare. Dopo aver fissato la stella e la via che Dio ha preparato in Cristo, si può cominciare a desiderarla. Come portinai del proprio cuore fissare gli occhi della mente e del cuore su quella Luce, lasciare che ci attragga nel suo mistero, che i pensieri, i dubbi siano purificati e nel crogiulo incandescente del suo amore. E' il momento nel quale attaccare l'orizzonte che si apre davanti. E' il momento decisivo nel quale discernere se i pensieri che ci assalgono sono dei nostri o del nemico.
Discernere, infatti, deriva dal latino cernere, da cui la parola cernita o scelta tra diversi elementi. Senza discernimento non si può attuare. Si è agitati da pulsioni contrastanti, si cercano vie e possibilità, come soddisfare i propri progetti, il proprio piacere, spesso verniciato con idee che appaiono buonissime e santissime. Invece discernere è distinguere, scoprire, tra molti, il pensiero di Dio. Per poterlo scegliere e obbedire. Il fine del discernimento è acconsentire, sentire-con, a quello che viene da Dio, e dissentire, respingere quello che non viene da Lui.
Nel momento di discernee non siamo soli. Il Signore conosce i nostri limiti, e ci viene in aiuto mostrandoci le sue ferite, il segno del suo Amore. In quelle ferite vi è scritto il racconto dei nostri fallimenti, la mappa della via di morte che lo ha crocifisso. Nelle sue ferite vi è ciascuno di noi con il suo carico di peccati e l'amore sino alla fine che li ha presi e distrutti. In quelle ferite vi è la garanzia del perdono, che il suo amore ha vinto, è stato più forte di ogni peccato e della morte. Attraverso le sue ferite giunge agli apostoli e a ciascuno di noi la luce capace di aiutarci a considerare e a discernere, a rifiutare ogni pensiero del nemico, ad uscire dall'incredulità e a lanciarci sul cammino della Vita. Le sue ferite ed il suo corpo, risorto, trasfigurato, ma così vicino a noi, così intimo da prendere cibo con noi, di nutrirsi del nostro stesso alimento. Un segno inequivocabile della concretezza della sua risurrezione; Gesù mangia, Gesù non è un fantasma, si può acconsentire, sentire con Lui perchè Lui, risorto dai morti, sente con noi, acconsente a farci suoi fratelli, carne della sua carne e sangue del suo sangue. Si può credere, rigettando ogni dubbio, ogni pensiero come menzogna subdola e velenosa che ci spinge alla morte.
Incastonata nelle sue ferite, sigillata dalla sua carne che ha oltrepassato le barriere della morte, giunge agli apostoli la pace; shalom, secondo la Scrittura, è il dono del Messia, di Gesù, ed è la primizia del Regno eterno, il respiro della vita immortale; la pace dolce e succosa come il grappolo d'uva che Cristo ci porta quale segno della Terra promessa, la vera, l'eterna, che ha esplorato per noi entrandovi con la nostra stessa carne, dove ci ha preparato un posto; la pace di Gesù è tutt'altro che un pensiero. "Penso dunque sono" è l'approdo moderno del cammino all'emancipazione inauguratosi nel giardino dell'Eden davanti all'albero del bene e del male. Pensare non significa essere, ma, semplicemente, scivolare sull'essere, illudendosi di afferrare tutto attraverso il ragionamento, la libertà incatenata, con l'effetto certo d'una sofferenza senza limite, recata dai pensieri raggomitolati sull'io, per quanto intelligente e capace esso sia.
Per san Tommaso non è il pensare a decidere dell'esistenza, ma è l'esistenza, l'"esse", a decidere del pensare. L'esistenza nuova inaugurata da Cristo risorto diviene il criterio decisivo di ogni pensiero. Così il pensiero, da veicolo razionale del dubbio, diviene frutto libero della fede. Pensare lo stesso pensiero di Cristo, dimorare nella sua risurrezione che dà consistenza e autenticità ad ogni pensiero. Pensare pensieri di pace, perchè Lui è risorto! La pace messianica è, al contrario, semplicità, ordine e sobrietà, pienezza di vita, salute integrale dell'uomo, realizzazione completa d'ogni aspirazione più profonda. La pace è la stessa vita di Dio tradotta nel concreto dipanarsi del tempo. La pace di Gesù è un frammento di Cielo, il lievito eterno che informa di sé ogni grumo di vita. La pace è il gusto dell'eternità in ogni nostro istante. La pace sbriciola le costruzioni del pensiero umano, le torri di Babele dell'arroganza, i monumenti all'orgoglio nei quali ci cimentiamo ogni giorno. La pace è la pietra scartata da noi costruttori di effimere cattedrali al nostro ego. Dostoevskij affermava: "Tutta la legge dell'esistenza umana consiste in questo: che l'uomo possa inchinarsi sempre dinanzi all'infinitamente grande. Se gli uomini venissero privati dell'infinitamente grande, essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperazione".
La pace dunque è un miracolo perchè consiste, per grazia, nel lasciare ogni pensiero nella mente di Dio, arrendersi e pensare solo con il pensiero di Cristo. Ed esso ha il sapore della Croce. Non v'è altro pensiero in Gesù, ogni istante, ogni situazione, ogni relazione, ogni persona, tutto è visto, letto, tradotto con la grammatica della Croce. Le mani e i piedi crocifissi, le membra del Signore passate nel crogiuolo della morte e trasfigurate nella luce della risurrezione. La Croce è la porta della pace. Gesù giunge a porte chiuse proprio perchè la Croce ha scardinato la porta della morte, e nessun altro impedimento ormai lo può distogliere dai suoi fratelli. La pace oltrepassa i muri, ed è vera, reale, concreta, come mangiare un po' di pesce arrostito. "La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti - un realismo inaudito (Benedetto XVI). La pace che cerchiamo in tutto ci è donata oggi. L'impossibile avviene, e ci apre la mente alle Scritture, al disegno di Dio su ciascuno di noi e su ogni uomo, la salvezza impressa nelle stigmate di Gesù.
Il Signore risorto appare allora come il compimento di ogni profezia, di ogni Parola pronunciata da Dio. Gesù è oggi dinanzi a noi come la via della vita, l'unica verità cui consegnarsi, il fondamento autentico dell'esistenza. La pace che ci annuncia è il frutto di una vita santa; il Signore risorto è la fonte della gioia, l'infinitamente grande cui inchinarsi perchè prenda possesso di noi. E' immagine e compimento della Legge che governa nelle vie del bene autentico la vita dell'uomo. Essa è unica, oggettiva, al di fuori dei pensieri, de dubbi, delle alchimie razionali dell'orgoglio dell'uomo. Essa non muta, perchè è al di là della morte, e infonde a ciò che è mortale il seme dell'eternità. Cristo risorto è l'antidoto ad ogni relativismo che avvelena la società; la luce della sua Pasqua illumina il cammino quotidiano di ogni uomo perchè possa considerare e discernere il bene racchiuso nella volontà di Dio. "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (Benedetto XVI, Deus caritas est). L'avvenimento dell'incontro con il Signore risorto svela l'orizzonte nuovo e la direzione decisiva che conduce al compimento della volontà di Dio, alla gioia e alla pace. E la pace è il nome che si legge in filigrana nella morale. Essa non è mai moralismo, segue sempre l'essere di una persona, è il dono stesso di Cristo risorto; scriveva S. Agostino agli eretici pelagiani: "Questo è l'orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel Suo esempio e non nel dono della Sua Persona" (sant’Agostino, Contra Iulianum. Opus imperfectum).
E' Lui la nostra pace, il perdono di ogni peccato, la fine definitiva d'ogni male, la malizia strappata dai cuori, un nuovo sguardo, puro, sul mondo. Lo sguardo di Gesù dentro i nostri occhi, il più bello, il più autentico annuncio del Vangelo destinato, nel Suo Nome, a tutte le genti. "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». I nostri occhi testimoni della pace incarnata nel Signore risorto. La pace in Lui, in noi, per ogni uomo. "Vorrei mettere in chiaro che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello, ma sono ali». Vedere e riconoscere Cristo risorto significa volare in ogni luogo ad annunciare la sua Pace, il perdono dei peccati nel suo Nome, testimoniato nelle nostre vite.


Paolo VI, papa dal 1963 al 1978
Allocuzione del 9/4/1975
« Pace a voi »


Fermiamo la nostra attenzione sull'improvviso saluto, tre volte ripetuto nel medesimo contesto evangelico, di Gesù risorto, apparso ai suoi discepoli, raccolti e chiusi nel Cenacolo per paura dei Giudei ; il saluto che doveva essere allora consueto, ma che nelle circostanze in cui è pronunciato acquista una pienezza stupefacente ; lo ricordate, è questo : « Pace a voi ! » Un saluto che era risuonato nel canto angelico del Natale (Lc 2, 14): « Pace in terra » ; un saluto biblico, già preannunciato come promessa effettiva del regno messianico (Gv 14, 27), ma ora comunicato come una realtà che è inaugurata da quel primo nucleo di Chiesa nascente : la pace, la pace di Cristo vittorioso della morte e delle sue cause vicine e lontane, dei suoi effetti tremendi ed ignoti.

Gesù risorto annuncia, anzi infonde la pace agli animi smarriti dei suoi discepoli. È la pace del Signore nel suo primo significato, quello personale, quello interiore, quello che S. Paolo iscrive nella lista dei frutti dello Spirito, dopo la carità e il gaudio, quasi confuso con essi (Ga 5, 22). Che cosa v'è di meglio per un uomo cosciente ed onesto ? La pace della coscienza non è il migliore conforto che noi possiamo trovare in noi stessi ? ...

La pace della coscienza è la prima autentica felicità. Essa aiuta ad essere forti nelle avversità; essa conserva la nobiltà e la libertà della persona umana nelle condizioni peggiori, in cui essa si può trovare; la pace della coscienza per di più rimane la fune di salvataggio, cioè la speranza, ... quando la disperazione dovrebbe avere il sopravvento nel giudizio di sé. ... È il primo dono fatto da Cristo risorto ai suoi, cioè il sacramento del perdono, un perdono che risuscita.

San Pietro Crisologo (circa 406-450), vescovo di Ravenna, dottore della Chiesa
Discorsi, 81 ; PL 52, 427
« Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse : ‘ Pace a voi ’ »

La Giudea nella ribellione aveva scacciato la pace via dalla terra... e gettato l’universo nel caos originale... Persino fra i discepoli, la guerra infieriva; la fede e il dubbio si davano assalti furiosi... I loro cuori, nei quali infuriava la tempesta, non potevano trovare nessun rifugio, nessun porto tranquillo.

A questa vista, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, che doma le tempeste, e con un solo segno muta il temporale in un cielo sereno, li ha stabiliti della sua pace dicendo: “Pace a voi! Sono io; non temete nulla. Sono io, il crocifisso, colui che era morto, che era sepolto. Sono io, il vostro Dio divenuto uomo per voi. Sono io. Non uno spirito rivestito di un corpo, bensì la verità stessa fatta uomo. Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto. Nel suo spavento, l’inferno mi ha proclamato Dio. Non avere paura, Pietro, che mi hai rinnegato, né tu, Giovanni, che ti sei dato alla fuga, né voi tutti che mi avete abbandonato, che non avete pensato ad altro che a tradirmi, che non credete ancora in me, neppure ora che mi vedete. Non abbiate paura, sono proprio io. Vi ho chiamati per mezzo della grazia, vi ho scelti nel mio perdono, vi ho sostenuti con la mia compassione, vi ho portati nel mio amore, e vi accolgo oggi, a motivo della mia sola bontà.