martedì 10 maggio 2011

Meditatio mortis: la Scala di Giovanni Climaco - 5.




Nel corso della Scala ci imbattiamo in alcuni passi in cui Climaco afferma la necessità di aiutare i monaci a praticare il ricordo della morte: la meditazione della morte e del castigo è uno degli atteggiamenti fondamentali che il monaco deve imparare, anche con la costrizione se occorre.

“Conforta con amore gli anziani che hanno praticato le virtù e che hanno logorato il loro corpo nell’ascesi, accordando loro un po’ di riposo, ma costringi i giovani che hanno logorato le loro anime nei peccati a praticare l’astinenza, ricordando loro il castigo.

Nel Discorso al pastore, che conclude la Scala, Climaco offre diversi consigli a Giovanni di Raito, elencando le caratteristiche fondamentali del vero pastore. Tra i vari consigli, due riguardano il pensiero della morte.

“È una vergogna per un pastore temere la morte, se è vero che l’obbedienza si definisce proprio come serenità nei confronti della morte” (Discorso al Pastore 67).



“Una pianura erbosa è ciò che ci vuole per delle pecore; ma l’insegnamento e il ricordo della morte sono ancora più appropriati per tutte le pecore dotate di ragione, perché sono in grado di curare ogni genere di scabbia” (Discorso al Pastore 81).

Insieme a questi consigli, allo stesso tempo Climaco mette in guardia da chi, peccando di incoerenza, vuole insegnare il ricordo della morte senza viverlo nella propria vita.
Il primo avvertimento in questo senso lo troviamo nel gradino XV, dedicato alla purezza e alla castità. Con il demone della lussuria il monaco deve sempre tenere gli occhi aperti: tale demone ci può illudere di averlo sconfitto e, tra gli altri inganni, ci porta ad istruire gli altri - in particolare le donne - sul ricordo della morte, quando ancora noi non lo pratichiamo. Così facendo il monaco torna ben presto a ricadere nel peccato.

“... spesso il demone della lussuria si ritira completamente dal monaco, ispirando grandissima devozione e forse facendogli versare torrenti di lacrime, proprio nel momento in cui è seduto a parlare con delle donne, suggerendogli di istruirle sul ricordo della morte, sul giudizio e sulla castità; e ciò affinché, grazie a quei discorsi e a quella sua finta devozione, le sventurate accorrano verso il lupo come se fosse un pastore, e poi, quando ormai i rapporti son diventati familiari e confidenziali, il pover’uomo cada nel peccato” (XV,64).

Il secondo avvertimento si trova invece al capitolo XVII, dedicato all’insensibilità o indolenza.
L’insensibilità è una delle nemiche più agguerrite del pensiero della morte. L’indolente è “un cieco che vuole insegnare agli altri a vedere” (XVII,3): parla molto ma non fa nulla. Questo suo atteggiamento si manifesta anche nei confronti del pensiero della morte:

“L’indolente è un filosofo privo di senno, un maestro che si condanna da sé (…). Filosofeggia sulla morte, e vive come se fosse immortale. Parla con gemiti e sospiri della separazione dell’anima dal corpo, e se ne sta in ozio come se fosse eterno” (XVII,3).

Climaco continua così la sua pungente critica:

“Ho visto molte persone di questa risma piangere sentendo parlare della morte e dei terribili giudizi di Dio e poi, ancora con le lacrime agli occhi, correre in fretta a mettersi a tavola; e sono rimasto sbalordito vedendo come quel fetido tiranno - intendo il ventre - rafforzato da un bel po’ d’indolenza, riuscisse a vincere perfino l’afflizione” (XVII,4).