domenica 26 giugno 2011

All'ombra della Madonnina...

Oggi, domenica 26 giugno, Milano festeggia tre nuovi beati: padre Clemente Vismara, il missionario del Pime che per 65 anni fu apostolo nel Paese asiatico;  suor Enrichetta Alfieri, l'angelo di San Vittore che aiutò i partigiani e don serafino Morazzone, il "nostro" Curato d'Ars.



Padre Clemente Vismara, missionario  in Birmania.
La grande festa di Milano per i suoi tre nuovi beati – padre Clemente Vismara, suor Enrica Alfieri e don Serafino Morazzone – si tiene in piazza Duomo domenica 26 giugno, per la Messa presieduta dal cardinale Tettamanzi e dal legato pontificio, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. La varietà di questi modelli di fede e di virtù cristiane«li rende affascinanti e preziosi per noi: davvero infinita è la fantasia di Dio e infiniti sono i sentieri sui quali egli ci chiama a seguirlo», ha scritto nel manifesto d’invito il cardinale Dionigi Tettamanzi.

Della tradizione missionaria lombarda è testimone, in particolare, padre Clemente Vismara, del Pontificio istituto missioni estere (Pime), per 65 anni apostolo del Vangelo in Birmania (l’attuale Myanmar). Nato il 6 settembre 1897 ad Agrate Brianza, vicino a Milano, dopo una prima esperienza nel seminario diocesano milanese e la partecipazione alla prima Guerra mondiale, entrò nel Pime e fu ordinato sacerdote il 26 maggio 1923.

La partenza per l’Estremo Oriente fu immediata e l’unico rientro in Italia avvenne per qualche mese nel 1957. Infatti, nel 1966, quattro anni dopo la salita al potere del regime militare, venne impedita la permanenza nel Paese ai missionari stranieri in Myanmar dopo l’indipendenza (1948): perciò Vismara decise di restarvi definitivamente fino alla morte, avvenuta il 15 giugno 1988.

Il suo biografo ufficiale, padre Piero Gheddo, andò a visitarlo nel 1983. «Aveva 86 anni ed era ancora parroco a Mongping», racconta,«e quando gli chiedevo di intervistarlo sulle sue avventure mi rispondeva: “Lascia perdere il mio passato e pensiamo piuttosto al futuro!”. E cominciava a parlarmi dei villaggi da visitare, delle scuole e cappelle da costruire, delle richieste di conversioni che gli giungevano da varie parti».

Padre Angelo Campagnoli, confratello di Vismara e per alcuni anni in missione nella medesima zona, ha raccontato nel processo diocesano che la caratteristica del novello beato fu la fedeltà alla propria vocazione: «L’impressione che dava era quella di una ruota che continuava a girare: quando i bambini che aveva raccolto orfani diventavano grandi, si sposavano e uscivano dalle sue cure, altri erano già pronti a ricominciare il giro. La sua frase famosa, “sei vecchio quando non sei più utile a nessuno”, nasce dal fatto che lui è rimasto utile a tutti fino a 91 anni».

Il suo metodo apostolico era semplice e concreto. Visitava sistematicamente i villaggi e in ognuno di essi dava avvio all’insegnamento della dottrina cristiana, lasciando quindi a dei catechisti locali il compito di proseguire questo impegno. Al ritorno nella missione centrale portava con sé centinaia di orfani e di bambini abbandonati, che educava insegnando loro un mestiere. Al momento della sua morte, in casa ne aveva oltre 250. Nel corso degli anni sono scaturite fra loro numerose vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.

Proverbiale era, in tutta la diocesi di Kengtung, la sua fiducia nella provvidenza. Padre Vismara trascorreva le sue serate scrivendo lettere agli amici in ogni parte del mondo, per sollecitare l’invio di aiuti materiali e preghiere. E, grazie ai tanti benefattori che gli vennero sempre incontro, nessuno dei suoi ragazzi restò mai digiuno o a mani vuote. Per rendergli omaggio, quando compì 90 anni la Chiesa locale lo proclamò “patriarca della Birmania”.

Dopo la morte, la venerazione per il missionario si è sempre più intensificata. Ha scritto il vescovo emerito di Kengtung, Abramo Than: «Abbiamo avuto tanti santi missionari del Pime, ma per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararlo santo». E in effetti il processo di beatificazione, avviato dal cardinale Carlo Maria Martini nel 1996 sulla scia dell’impegno del Gruppo missionario di Agrate Brianza, si è concluso in tempi rapidissimi.

Conferma il direttore editoriale della rivista del Pime Mondo e missione, Gerolamo Fazzini, appena rientrato da un viaggio in quelle terre: «Ho raccolto moltissime testimonianze di affetto da persone che hanno potuto conoscere personalmente Vismara e sperimentare la sua capacità di educatore e di formatore, insieme con l’attenzione a promuovere la dignità umana dei più disagiati. In un villaggio nel Nord della Thailandia abitato da profughi dalla Birmania ho visto una cappella con un suo ritratto, intitolata però a san Clemente papa per poter invocare lo stesso nome di Vismara. Ora, finalmente, non sarà più necessario questo stratagemma, poiché si potrà dedicare la chiesetta direttamente al beato missionario».

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Suor Enrichetta Alfieri, "angelo" di San Vittore.
Per i detenuti milanesi e i loro familiari era “l’angelo di San Vittore”.Ma all’impegno in carcere suor Enrica Alfieri c’era arrivata per caso, o meglio, per provvidenza. Poiché, in realtà, la sua vocazione era la missione educativa nell’asilo infantile curato a Vercelli dalle Suore della carità di santa Giovanna Antida Thouret, fra le quali era entrata nel 1911, a vent’anni di età. Era, infatti, nata a Borgo Vercelli il 23 febbraio 1891. A soli 28 anni si ritrovò ammalata del morbo di Pott e fu costretta a lasciare la scuola.

Per quattro anni restò immobile a letto, soffrendo «con dignità, amore, dolcezza e fortezza», come scriveva alle consorelle. Da un viaggio a Lourdes riportò a casa una bottiglia di acqua benedetta, che iniziò a bere quotidianamente con fiducia. E il 25 febbraio 1923, dopo aver invocato la Madonna, sentì l’ordine: «Alzati».La voce della prodigiosa guarigione si diffuse in tutto il circondario e la superiora della comunità preferì allontanarla da Vercelli e inviarla presso il carcere di San Vittore a Milano, dove resterà sino alla morte, avvenuta il 23 novembre 1951.

Con la sua presenza, hanno raccontato i testimoni del processo di beatificazione, «accoglie, illumina e riscalda; con l’amore stempera le rabbie, le prepotenze, le volgarità e porta anche alla conversione».Durante l’occupazione nazifascista a Milano, accanto ai detenuti comuni vennero rinchiusi in carcere prigionieri politici, partigiani, ebrei. Suor Enrica riuscì a stabilire contatti clandestini e a passare informazioni e messaggi, e per questo motivo fu anche lei arrestata, il 23 settembre 1944. Per interessamento del cardinale Ildefonso Schuster le fu risparmiata la fucilazione, ma venne comunque internata nel campo di Grumello al Monte (Bergamo).

Il 7 maggio 1945 i responsabili del Comitato di liberazione nazionale la riaccompagnarono con tutti gli onori alla sua missione a San Vittore. Qui iniziò a occuparsi soprattutto delle detenute, cercando di migliorarne le condizioni di reclusione e di offrire prospettive per il loro rientro in società. Quando morì, per le conseguenze di una frattura al femore, esclamò:«Non credevo fosse così dolce morire». L’eroicità delle virtù è stata riconosciuta il 19 dicembre 2009, mentre il miracolo è stato approvato il 2 aprile 2011.           
L’eroicità delle sue virtù è stata riconosciuta il 15 marzo 2008, mentre il miracolo è stato approvato il 2 aprile 2011. Si tratta della prodigiosa guarigione di un bambino birmano di 10 anni che, cadendo da un albero, riportò la rottura della scatola cranica e venne considerato in fin di vita. Dopo quattro giorni di coma profondo, improvvisamente si risvegliò perfettamente risanato.

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Alessandro Manzoni, che lo ebbe anche come confessore, nella prima stesura dei Promessi sposi citò per nome don Serafino Morazzone e lo descrisse così: «Era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale; la sua cura continua di fare il suo dovere e la sua idea del dovere era tutto il bene possibile». E fu soltanto l’evidente anacronismo con l’ambientazione seicentesca della vicenda a convincerlo a cancellare l’accenno esplicito.

Il famoso scrittore non fu l’unico fra quanti conobbero don Morazzone a considerarlo un santo sacerdote, come in seguito affermerà anche l’arcivescovo Ildefonso Schuster definendolo «il nostro Curato d’Ars». Nato a Milano il 1° febbraio 1747, Serafino era entrato a 13 anni in Seminario e, dopo gli studi superiori, era stato ammesso alla frequenza della Teologia. Le sue qualità spirituali e culturali vennero a tal punto apprezzate da consentirgli, ancor prima di essere ordinato sacerdote, di concorrere alla parrocchia di Chiuso (Lecco), dove poi nel 1773 celebrò la sua prima Messa.

Da quel momento non si allontanò più da questo paese. Agli appena 185 abitanti della parrocchia si dedicò assiduamente per 49 anni, sostenendoli nella vita di fede e nella devozione all’Eucaristia. Per i fanciulli diede vita in casa a una scuola elementare gratuita, con la collaborazione del fratello Antonio. La sua grande sollecitudine in favore dei poveri di quel territorio mostrò un particolare eroismo in occasione del saccheggio che l’esercito austro-russo compì a Chiuso il 26 aprile 1799.

Già da vivo ebbe fama di taumaturgo, ma da parte sua attribuiva ogni grazia e guarigione all’intercessione di san Girolamo Emiliani, il cui santuario di Somasca confinava con il territorio parrocchiale. Dopo la morte, il 13 aprile 1822, ebbe subito per il suo popolo la fama di santo. Il processo di canonizzazione, avviato sin dal 1864 ma sospeso per le difficili condizioni della diocesi di Milano, fu ripreso dal cardinale Schuster nel 1951. L’eroicità delle virtù è stata riconosciuta il 17 dicembre 2007, mentre il miracolo è stato approvato il 2 aprile 2011.