venerdì 17 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 9. - Pregare: respirare al ritmo della grazia



PREGARE: RESPIRARE AL RITMO DELLA GRAZIA

Nei capitoli precedenti, ogni volta che abbiamo accennato al­la grazia, siamo istintivamente sfociati nella preghiera. Difficil­mente avremmo potuto fare diversamente: quando preghiamo non cessiamo di camminare con la grazia, o meglio, è la grazia che ci scorta e cammina con noi. Pregare significa molto sempli­cemente vivere e respirare al ritmo della grazia. In quest'ultimo capitolo vorremmo ritornarci in modo più esplicito.



A

proposito della preghiera

È forse opportuno ricordare innanzitutto cosa intendiamo per preghiera. Esistono infatti molte forme di preghiera: preghiera vocale o silenziosa, preghiera esteriore o interiore, preghiera li­turgica o personale. Con il movimento carismatico sono anche emerse nuove forme di preghiera come, per esempio, la preghiera in lingue. Non è mia intenzione operare una scelta o esprimere prefe­renze. Ci sono infatti molti cammini che conducono alla pre­ghiera: l'importante è che tutti sfocino nell'evento che si impa­dronisce dell'uomo intero quando la preghiera profonda sgorga in lui. Ogni forma di preghiera deve pervenire a questa preghie­ra profonda che è l'unica autentica. La preghiera suppone che qualcosa accada in colui che prega: è sempre un evento nel senso forte del termine, è l'evento della preghiera. Cosa succede esattamente nella preghiera? Dobbiamo rinun­ciare momentaneamente a date una definizione della preghiera e cercate innanzitutto di descriverne l'evento esterno, con l'aiuto di alcune immagini familiari. Immagini e simboli possono esse­re più suggestivi di una definizione. Per prima cosa, l'evento della preghiera ci prende alla sprovvi­sta, ci coglie impreparati. Quello che ci sorprende non è qualco­sa di estraneo, di profano, bensì qualcosa di familiare: ci sentia­mo sorpresi da ciò che era già da tempo in noi, che portavamo senza saperlo e che all'improvviso appare in superficie e si im­possessa interamente di noi. Eccoci presi da lui: sulle prime, ci appare un estraneo, ma ben presto ci accorgiamo che è proprio cosa nostra, che gli apparteniamo, che è addirittura un altro aspet­to - un aspetto ancora sconosciuto - del nostro io. Non un aspetto oscuro, ma un aspetto luminoso; non un lato addormentato, bensì il lato più dinamico, una fonte di forza viva e vitale. E’ il nostro lato più profondo e migliore, il nostro fondo di eternità che si annuncia e si manifesta. Una seconda immagine che permette di cogliere meglio que­sta preghiera-evento potrebbe essere quella di una presa di co­scienza. Pregare significa diventare coscienti di qualcosa rima­sto a lungo inconscio in noi. Per ogni uomo c'è un lungo perio­do in cui la preghiera rimane inconscia: era già presente ma egli non lo sapeva. Pregare significa rendere cosciente in noi questa preghiera inconscia. Diventare coscienti di quanto era inconscio in noi costituirà sempre una tappa importante nella nostra vita, come in ogni terapia. Una terapia infatti punta proprio a far emer­gere ciò che era inconscio in noi: dapprima siamo confrontati con questo, poi dobbiamo accettarlo e incorporarlo per integrarlo in modo equilibrato nella nostra vita quotidiana, nelle nostre azio­ni e nei nostri gesti, nei pensieri come negli affetti. La preghie­ra è il lato divino in noi che diventa cosciente e deve lentamen­te integrarsi nella nostra vita. Un'altra immagine che potrebbe descrivere la preghiera-evento è quella della sorgente, una sorgente che è stata a lungo ostruita da una pietra: la sorgente era là da sempre, ma era provvisoria­mente sigillata, chiusa. Non appena si toglie la pietra, l'acqua sgorga spontaneamente. Si tratta d'altronde di una fonte di ac­qua viva, secondo l'immagine usata da Gesù nell'evangelo per descrivere la vita dello Spirito (cf. Gv 4,10). L'acqua viva sgor­ga senza sforzo e possiede una rara potenza: trasporta, spinge, scava. Quando una diga si rompe o ha luogo un'inondazione, si deve temere il peggio. Una diga che si rompe: la preghiera-evento ha anche qualcosa a che vedere con una rottura improvvisa, con qualcosa che cede o si apre con violenza. E’ qualcosa di violento e di tenerissimo insieme: più che di rottura bisognerebbe parlare di sboccio. Tut­tavia l'evento ha anche a che fare con la violenza dell'uragano di Pentecoste. Nel suo olandese antico, a volte così lirico, Ruus­broec paragona la preghiera a un oerwoet, l'impeto ardente del­le origini simile a un uragano irresistibile. Non possiamo far al­tro che abbandonarci a una simile tempesta, cedere di fronte a lei e lasciare che segua il suo corso. Infine la preghiera è paragonabile a una nascita, alla venuta al mondo di una nuova vita. La nascita è accompagnata dai do­lori del parto, ma anche dalla gioia profonda perché un nuovo essere sta per venire al mondo. La preghiera-evento è sempre come una nuova nascita: una vita profonda, che portavamo in noi da tempo, che germinava e cresceva in noi, si rivela all'im­provviso e a volte in modo sconvolgente. In che cosa consiste questa vita finora sconosciuta che si ma­nifesta improvvisa? Chi è quest'uomo nuovo che viene al mon­do, questo nostro lato inconscio che diventa cosciente? Per tut­ti i mistici c'è una sola risposta a questa domanda. Pregare si­gnifica percepire la nostra realtà più profonda, quel punto preciso del nostro essere in cui - inconsciamente, insensibilmente, sen­za mai averlo visto - noi giungiamo a Dio, scortiamo in Dio, toc­chiamo Dio; o meglio, quel punto in cui, a ogni istante, mentre non cessa di crearci, Dio ci tocca. Gli scrittori bizantini chia­mano a volte questo punto il topos tou theou, il luogo in cui Dio è presente in noi. L'unica differenza tra i mistici è il nome che danno a questo logo: nous, mens, cor, il fondo dell'essere, l'inti­mo, il nucleo, l'abisso dell'anima, la vetta dell'anima, la sommi­tà dello spirito. Mi vengono in mente spontanei i celebri versi di un poeta fiammingo, Guido Gezelle: Sono lontano da te, mentre tu, dolce sorgente di tutto ciò che è vita, o di tutto ciò che fa vivere, tu sei per me il prossimo a me più prossimo, mentre tu mandi, o sole amato, nel mio intimo più profondo il tuo fuoco divorante che tutto penetra. Dio ci tocca mentre ci crea, come l'ha raffigurato Michelan­gelo nella sua celebre Creazione: il dito del Padre sfiora appena il dito di Adamo, ma per non lasciarlo mai più. Possiamo allora chiederci: sarà possibile captare nella coscienza umana questo contatto creatore tra Dio e l'uomo? Ma Dio, ricreandoci dopo la caduta, ci tocca in modo ancor più profondo nel Figlio che dimora in noi e con noi, e nello Spi­rito che è stato effuso nei nostri cuori e il cui mormorio o gemi­to nel nostro intimo precede ogni nostra preghiera, ben prima che iniziamo a pregare coscientemente. La forza dei testi di Paolo a questo riguardo non lascia il minimo dubbio (cf. Rm 8,26). Sorge di nuovo la stessa domanda: questa preghiera concessa in anticipo nel nostro profondo, è percepibile? Può diventare co­sciente? Se sì, come?



Pregare nell'impotenza

La risposta a questa domanda non è facile: l'esperienza che abbiamo della preghiera è generalmente limitata e piuttosto sfor­tunata; a un dato momento, diventa addirittura profondamen­te frustrante. Allora ci rendiamo conto di non sapere come pre­gare: abbiamo tentato diversi metodi ma, nella maggior parte dei casi, senza risultato. Alcuni di questi metodi usano l'immaginazione: raccomanda­no di raffigurarsi scene ispirate dagli evangeli oppure immagini dell'iconografia tradizionale. E un metodo eccellente. Un posto preminente va riservato all'icona di Gesù, con i tratti dell'oriente o dell'occidente: il Volto santo del Redentore, figura sacramen­tale del Kyrios glorificato. Come Dio ha lasciato a nostra dispo­sizione la sua Parola sotto la forma delle parole umane della Bib­bia, così il suo Essere invisibile si è reso visibile nei tratti umani del volto di Gesù: "Chi ha visto me, ha visto il Padre", dice Gesù stesso (Gv 14,9). Secondo una tradizione secolare, l'arte cristiana avrebbe conservato fedelmente i lineamenti autentici del volto di Gesù, che ha mantenuto l'invisibile forza spirituale del mistero della salvezza. Ne consegue il ruolo importante ri­coperto dalle icone e dai quadri nella liturgia e nell'esperienza spirituale, per lo meno fino all'inizio di questo secolo. La litur­gia un po' rattrappita precedente al Vaticano Il, unitamente al­la crisi delle arti figurative, ci ha disabituato all'esperienza con­creta e vivificante delle immagini sacre. Comunque sia, il cuore di questa esperienza ha le sue radici nella forza spirituale racchiusa nell'icona o nella sacra imago, l'im­magine sacra, come dice l'occidente. Questa permette a chi con­templa l'icona di non fermarsi all'immagine in se stessa o alla propria fantasia. Al contrario: attraverso l'immagine, è il cuore che viene toccato, così come la Parola di Dio nella Bibbia non si rivolge innanzitutto alla nostra intelligenza ma deve ferire il nostro cuore. E quindi estremamente importante che l'uso del­le immagini non ci rinchiuda nell'immaginario: le immagini po­trebbero distoglierci dall'essenziale. Se, per esempio, ho fatto un pellegrinaggio in Israele e cerco di rappresentarmi i luoghi santi durante la preghiera, non sono mai sicuro di non andare al di là dei semplici ricordi di un viaggio, per quanto istruttivo. Ma sono sicuro che, così facendo, raggiungo la persona di Gesù? Ogni immagine deve condurci a un'esperienza. E qui rispun­ta la domanda: che tipo di esperienza? Con l'aiuto di un'imma­gine si può destare dentro di sé ogni sorta di sentimenti: di gioia, di amore, di fiducia, di riconoscenza, almeno fino a un certo pun­to. Ci si può addirittura compiacere in simili sentimenti e tro­varvi una certa soddisfazione; ma si può anche, in breve tempo, annoiarsi abbondantemente, magari non alla prima volta, ma alla seconda o alla terza: i nostri sentimenti non sono inesauribili, sono limitati e in stretto rapporto con il nostro umore, i nostri buoni propositi e quanto assomiglia a desideri spirituali. Anche quando questo metodo ha successo perché si è dotati di una ric­ca affettività, cosa si ottiene? E Dio che mi ferisce, che tocca il fondo della mia affettività quando sono tutto intento ad at­tizzare i miei sentimenti come farei con dei carboni ardenti che stanno per spegnersi? Ben presto sarei saturo, non perché man­chi di generosità o di perseveranza, ma per il semplice motivo che i miei sentimenti non sono inesauribili. Solo Dio è inesauri­bile in me, ma, per l'appunto, come raggiungere in noi quel Dio inesauribile? Altri pensano di riuscire meglio nella preghiera imboccando un itinerario razionale: lasciano parlare soprattutto la propria intelligenza. Il termine ancora in uso di meditazione indica que­sta pista. Nel peggiore dei casi si tratterà di considerazioni astratte sulla verità, nel migliore, queste riflessioni sfoceranno in una vi­sione più chiara delle cose o in una convinzione più forte; con­vinzione che sarà forse capace di ridestare i nostri sentimenti religiosi. Tuttavia le parole della Scrittura non sono destinate principalmente a essere meditate intellettualmente: sono là per ferirci e aprirsi così un varco verso il nostro intimo più profon­do. Si rivolgono innanzitutto al nostro cuore e non alla nostra intelligenza. Se si fermassero alla nostra intelligenza, sarebbero solo una pacca incoraggiante sulla spalla, come per dire: "Vedi, abbiamo la situazione in pugno, continua a fare del tuo meglio!". Esagero, ma avrete indovinato che seguendo questa strada ri­schiamo di scivolare in un attimo verso un moralismo sospetto. Fino a quel momento infatti non è successo niente e continua a non succedere niente: la strada è semplicemente sbarrata e noi la manteniamo tale e quale, ci accontentiamo di sforzarci di fa­re del nostro meglio e proprio questo è sterile. Se soltanto fa­cessimo un po' meno di sforzo, troveremmo più facilmente l'u­nico luogo in cui Gesù ci aspetta e in cui è possibile l'autentico incontro. Possiamo definire questo luogo come un'impasse, un vicolo cieco, un punto morto, una strada senza uscita. Impasse inevi­tabile e necessaria! È là che impariamo a nostre spese che non succede nulla attraverso la ragione, né attraverso l'immagina­zione e nemmeno attraverso i nostri sentimenti. Qualcosa suc­cederà, certo, ma altrove: l'impasse deve portarci ad abbando­nare tutte queste piste finora così familiari. Allora diventa im­portante fermarsi, restare in un profondo silenzio interiore e là aspettare, con estrema semplicità, che qualcosa sopraggiunga nella nostra vita dall'interno. Non un'idea, non un sentimento, non un immagine, ma qualcosa di diverso: una presenza silenziosa, inavvertita, senza immagine, senza pensieri; non tanto qualco­sa di diverso, ma piuttosto Qualcuno di diverso, un Altro, l'Al­tro assoluto. Cerchiamo di descrivere qui una tappa molto importante del­la preghiera, tappa che in realtà tutti quanti temiamo: l'inutili­tà dei nostri sforzi ci fa finalmente prendere coscienza, a nostre spese, che la preghiera è impossibile per noi! Alcuni allora si agi­tano come possono e si sforzano di fare del loro meglio in gene­rosità, fervore o dedizione agli altri. Tutte cose in fondo più fa­cili che fare esperienza della nostra radicale impotenza di fron­te a Dio. Che fare allora in questa impasse? La risposta a questa do­manda è una delle più semplici: soprattutto non agitarsi, ma sem­plicemente dimorare nell'impasse, che significa non fuggire con nessun pretesto. E’ proprio lì, in questa impasse in cui ci dibat­tiamo ingloriosamente, che dovremo essere liberati e guariti dal­la nostra impotenza. Abbiamo detto essere liberati, al passivo: è essenziale. Non si tratta mai di liberarsi da soli, ma proprio di essere liberati da un altro. Questo vuol dire non essere più in grado di gestire la situazione, restare nella nostra impotenza affinché proprio lì, e non altrove, venga a prenderci la forza di Dio. La preghiera infatti è anche esperienza di salvezza e deve diventare illustrazione concreta delle parole di Paolo: "Quando sono debole, è allora che sono forte perché la potenza di Dio si manifesta nella debolezza" (cf. 2Cor 12,9-10). A volte questo processo è molto lungo. Si tratta di imparare progressivamente ad abbandonarsi in profondità: il nostro pro­getto personale di preghiera deve, in modo impercettibile ma certo, essere rimpiazzato dall'azione di Dio in persona e, in un modo o nell'altro, perdersi in essa. A questo punto spetta a Dio assumere l'iniziativa, a noi lasciarlo agire e abbandonarci alla sua azione in noi. Un tale abbandono non è facile: a volte gli opponiamo resistenza a lungo, spesso anche con una certa osti­nazione, con uno zelo benintenzionato ma perfettamente inuti­le e addirittura nefasto. Dio, che ci conosce meglio di noi stessi, ci lascia fate per un po', tollera le nostre resistenze nei suoi con­fronti, a volte ci lascia addirittura credere che stiamo facendo progressi nella preghiera... Ma solo per un po' di tempo. In realtà quello che Dio ci chiede adesso è particolarmente faticoso: ci toglie la preghiera, in modo che abbiamo l'impres­sione di perdere tutto quello che pensavamo di aver conquista­to. Indubbiamente avevamo forse acquisito un certo risultato di preghiera, o almeno così ci sembrava, ma adesso tutto è im­provvisamente bloccato, appare nullo, come se non fosse mai avvenuto: non c’è più risposta. Segniamo il passo, senza più spe­ranze. Non è necessario attribuire questa disavventura a una colpa o a una mancanza di generosità da parte nostra: è Dio stesso, nella maggior parte dei casi, che ha disposto così perché vuol farci sapere che ormai ci attende altrove. La preghiera ci viene ancora e sempre donata in anticipo, ma altrove, a un livello molto più profondo. Prima desideravamo indubbiamente questo dono di Dio chiamato grazia, per essere in grado di pregare; pero ave­vamo nello stesso tempo l'impressione di possedere già in parte questa preghiera, di esserne padroni: i nostri sforzi non erano stati inutili! Ormai Dio preferisce porre il problema in modo completamente diverso. La preghiera alla quale ci invita adesso è la sua preghiera: è pura grazia, noi non abbiamo alcun potere su di lei. L'unico gesto che possiamo ancora compiere è quello di aprire le mani e il cuore affinché la preghiera ne scaturisca come un dono del Signore, là dove gli piacerà concedercela. Perseverare nell'impasse significa anche non ritornare sui no­stri passi, non aggrapparci ai metodi con i quali avevamo tenta­to, con più o meno successo, di pregare. Più precisamente: non rimanere ancorati alla nostra intelligenza, alla nostra immagina­zione, ai nostri sentimenti. Queste facoltà dovranno passare at­traverso un digiuno, calmarsi, riposarsi, starsene tranquille, es­sere, per così dire, disinserite. Più ci sforziamo, meno sono le possibilità che la preghiera ha di sgorgare in noi: il percorso è ostruito da un ostacolo, continua a esserci una pietra che blocca la sorgente. Il termine perseverare ha una sfumatura di volontarismo che non esprime esattamente quello che deve avvenire nell'impas­se. Il linguaggio biblico e dei padri utilizzava il verbo hypome­nein e il sostantivo hypomoné: letteralmente "stare sotto". Po­tremmo quasi tradurre "rannicchiarsi" e star fermi, aspettando che ci capiti qualcosa. Il fatto di essere così staccati da ogni altra attività interiore è normalmente causa di una certa oscurità, di una sensazione di aridità, di desolazione, forse anche di un'impressione di vuo­to, di profondità vertiginosa, a volte abbiamo la sensazione di soffrire la fame e la sete. Queste sensazioni apparentemente ne­gative sono segnali estremamente positivi perché ci fanno capi­re che abbiamo un accesso parziale a qualcosa al di là del nostro piccolo mondo familiare. Ma a nostra insaputa, dal momento che non vi siamo assolutamente abituati: tutto appare ancora così strano, tutto sembra andare a rovescio. Buon segno: dimo­rando nell'impasse penetriamo già, senza saperlo, al di là. Or­mai l'evento può accaderci. Quando Gesù vuole parlare della vita dello Spirito in noi, usa l'immagine della sorgente che sgorga: la paragona all'acqua viva che deve diventare in noi come "una sorgente zampillante per la vita eterna" (Gv 4,14). La preghiera è questa sorgente pro­fonda in noi: è lì da sempre, come il soffio dello Spirito santo che prega incessantemente in noi, solo che noi non ne eravamo coscienti, senza saperlo avevamo accumulato una montagna di pietre attorno alla sorgente. Ogni sorgente ha in sé la propria pressione che si può ostacolare in modo artificiale; oppure si può lasciarle libero corso e abbandonarvisi. Questa pressione infatti diventa la nostra forza, mentre i nostri sforzi più intensi non possono aggiungere nulla a questa forza. Dobbiamo anzi fare at­tenzione, perché proprio i nostri sforzi potrebbero essere le pie­tre che impediscono alla sorgente di sgorgare naturalmente. Per pregare di più e meglio, dobbiamo spesso fare meno da noi stessi, rinunciare alle nostre buone intenzioni e limitarci al­l'abbandono alla corrente interiore dello Spirito, non appena que­sta sgorga in noi e cerca di trascinarci. Tutti i nostri sforzi e i nostri metodi di preghiera devono, in fin dei conti, rivelarsi inutili e sparire perché lo Spirito di Gesù possa offrire una pos­sibilità alla sua preghiera in noi.



La preghiera: un grido

Finché dimoriamo nell'impasse avvertiamo incertezza, ango­scia, addirittura disperazione. A che punto siamo? Chi verrà a tirarci fuori? L'invocazione di aiuto nasce spontanea: Dal pro­fondo grido a te, Signore!" (Sal 130,1). Ed è così che sale alle nostre labbra la forma più primitiva e più elementare di preghiera: il grido. Sono tentato di gridare la mia disperazione, ma posso arrischiarmi? Non sarebbe meglio non cedere a quella che può sembrare una debolezza? Nient'affatto! Ecco un momento estre­mamente importante: quando, pregando, oso esprimere davan­ti al volto di Dio la mia disperazione con un grido. Gridare è un'attività profondamente umana: è stata la prima che abbiamo imparato appena venuti al mondo. I nostri polmo­ni erano ancora chiusi e, al primo contatto con l'aria, appena usciti dal grembo materno, rischiavamo di soffocare. A quel punto abbiamo gridato, inventato il grido. Era un grido vitale, che ci salvava per la vita: infatti, nel gridare la nostra disperazione, abbiamo aperto i polmoni permettendo così all'aria di irrompervi. È stato il grido delle nostre origini, il nostro primo grido, il gri­do primale secondo una certa scuola, che ci ha salvato dalla morte e ci ha dato la vita. Il ricordo di questo primo grido è rimasto impresso nella no­stra psiche e nel nostro corpo, ne siamo segnati per sempre: ogni volta che ci troviamo in una situazione difficile l'eco di questo grido ritorna a galla. Poter gridare la nostra disperazione è allora un grande sollievo e, in certi casi, rappresenta già il primo passo verso la guarigione. Una recente scuola di psicanalisi ne ha addirittura tratto una tecnica terapeutica che consiste nel la­sciar gridare e piangere il paziente per dargli l'occasione di espri­mersi e di liberare la sofferenza inconscia che lo paralizza da anni. Nasciamo in un grido, viviamo anche gridando, anche se spesso in modo inconscio. Gesù morì gridando: "Gridò a gran voce Gridò di fronte al Padre il suo dolore mortale, ma anche il suo amore e il suo abbandono: "Nelle tue mani consegno il mio spi­rito" (Lc 23,46). La sua morte fu un appello di angoscia e di fiducia insieme, un'autentica preghiera. Fu anche una Penteco­ste, come suggerisce Giovanni, che usa "effuse lo spirito" in un duplice significato: rendere l'ultimo respiro e, nel contempo, do­nare lo Spirito ai discepoli. L'ultimo grido di Gesù è stato la sorgente di ogni preghiera. La Bibbia contiene numerosissime grida lanciate verso Dio, nel salterio per esempio. Ma è soprattutto il libro di Giobbe che è un immenso grido di disperazione e di rivolta. Giobbe è nel­l'impasse e nessuno, neanche un amico, può tirarlo fuori. Giob­be grida per protestare contro Dio; protesta che si trasforma poco alla volta in maledizione: Giobbe maledice Dio per avergli dato la vita con tutte le sofferenze. L'impasse può portarci così lon­tano nella preghiera! Notiamo come Dio non ha esitato a racco­gliere queste grida di maledizione di Giobbe, dal momento che fanno parte delle Scritture ispirate: queste maledizioni sono di­ventate Parola di Dio per noi. Dio conosce la nostra disperazio­ne e, attraverso Giobbe, vuole ascoltare un'altra volta questo grido e darci così l'occasione di esprimerglielo. Dio agisce così per compatire la nostra disperazione; aspetta il nostro grido, così come aspettava quello di Giobbe e quello del suo Figlio diletto, Gesù Cristo. Questo grido e questa impasse, infatti, sono l'uni­ca via mediante la quale può salvarci. Se si ripercorre la letteratura monastica, si è colpiti dal vede­re che queste grida erano la preghiera normale dei primi mona­ci. Le loro grida erano in massima parte tratte dall'evangelo: "Ab­bi pietà di noi; salvaci; guariscici; fa' che io veda; abbi pietà di me, povero peccatore". Erano anch'esse grida che sgorgavano da un'impasse e da un profondo sconforto. Saper gridare questa disperazione è una tappa importante: così facendo ci familiarizziamo poco alla volta con lei, il che è asso­lutamente positivo. Non rifiutiamo più la nostra miseria, al con­trario, ci identifichiamo così bene con lei che siamo diventati capaci di esprimerla con un grido che è già preghiera. Ogni bisogno, dolore o desiderio è un dato umano tra i più preziosi. Ognuno dei nostri desideri è degno di essere ascoltato ed esaudito. Per quanto strano possa apparire sulle prime, con­tiene un bisogno molto più profondo, che è urgente esaudire: ecco perché ogni nostro bisogno sarà ascoltato con attenzione e amore. Poco alla volta i nostri bisogni saranno così svelati, li­berati fino a che il nostro desiderio più profondo verrà alla lu­ce. Poiché quest'ultimo ha sempre qualcosa a che fare con Dio, anche il brulichìo dei nostri desideri ha sempre a che fare con l'impasse della preghiera. Ogni desiderio è destinato ad essere ascoltato e guarito dalla Parola di Dio, alla quale ci apriamo, pieni di speranza, nel momento della preghiera. Un grido non è solo l'ostentazione di una disperazione: si ri­volge sempre a qualcuno. Ecco un elemento essenziale di ogni preghiera: se mi rivolgo a qualcuno, esco concretamente da me stesso per far appello a un altro. Non è così facile come potreb­be sembrare a prima vista, soprattutto quando sono occupato a pregare. Solo una situazione di emergenza ci forza per così di­re a uscire dal nostro guscio per invocare qualcun altro. Non è quanto avviene sempre nel momento della preghiera: posso infatti essere occupato in qualche pensiero molto edifi­cante - e di idee su Dio ne esistono a bizzeffe... Posso anche nutrire sentimenti, fare buoni propositi, elaborare progetti di santità o di impegno a servizio degli altri. Ed eccomi ancora e sempre a occuparmi di me stesso, dei miei sentimenti, delle mie decisioni. Solo un grido è capace di aprirmi. E un passo impor­tante nella direzione giusta. Anche se l'Altro sembra assente, anche se testo ancora per un po' a muovermi a tentoni nelle te­nebre, so tuttavia che mi ascolta e ho fiducia che mi esaudirà. Non ho bisogno di vederlo, il mio grido l'ha raggiunto e ciò ba­sta. In un certo senso, il mio grido me lo rende presente. Grazie all'invocazione che ho lanciato, non sono più ripiegato su me stesso, né sulla mia esperienza. Pur ancora immerso nell'oscuri­tà, sono ora in sintonia con lui, posso tenermi pronto, a disposi­zione della grazia. Nel mio profondo sono io stesso quel grido che chiede guari­gione e che nel contempo la ottiene. Nella mia invocazione ri­suonano molte altre grida: c'è il mio primo grido, quello della mia nascita; c'è il grido del mio peccato e della mia impotenza; ci sono le imprecazioni di Giobbe e i lamenti dal salmista; c'è infine il grido dell'angoscia e dell'abbandono di Gesù sulla cro­ce. Attraverso tutte queste grida, riesco a penetrare fino al gri­do più fondamentale in me, il grido che ancora non ho mai sa­puto ascoltare bene, quello dello Spirito santo: "Abba, Padre!". Paolo lo dice esplicitamente: in fondo al mio cuore lo Spirito di Dio, che è anche lo Spirito di Gesù, grida incessantemente: "Abba, Padre!" (Gal 4,6). Questo grido dello Spirito diventerà poco alla volta il mio grido personale: è la prova che sono vera­mente diventato figlio di Dio. Ho il diritto di farlo mio; mi è dato di balbettare con il Figlio: "Abba, Padre!" da qualche par­te nel cuore di Dio, al seno stesso delle tre persone della Trini­tà. La preghiera è forse altro da questa tentazione di unirci allo Spirito e di lasciar sgorgare incessantemente il suo mormorio in noi? Beato colui che ha potuto percepirne un eco e l'ha saputa assumere nella propria preghiera. Non appena siamo realmente all'ascolto di Dio, ogni pericolo di ripiegamento su noi stessi, di fusione tra Dio e noi è effetti­vamente sventato. Dio infatti non è ripiegato su se stesso, né su di noi: resta aperto a tutta la sua creazione. Paolo interpreta il mormorio dello Spirito in noi anche come il gemito dell'inte­ra creazione che soffre per i dolori del parto, mentre è sul punto di venir ricreata e di passare al mondo nuovo della resurrezio­ne. Nella preghiera raccogliamo un'eco di questo gemito crea­turale: lo Spirito intercede per il mondo intero, per il mondo materiale come per quello spirituale. Pregare significa lasciarsi trascinare nella nuova creazione che, in Gesù Cristo, cresce len­tamente ma sicuramente fino alla sua pienezza. Pregare signifi­ca identificarsi con lo zampillare di questa vita nuova in noi, che è la vita della resurrezione. Pregare significa attendere con impazienza che si apra un varco e mi raggiunga: Usquequo Domine? Fino a quando, Signore? Marana tha! Vieni, Signore Gesù! Il grido migliore, la migliore preghiera è il nome di Gesù, rias­sunto per eccellenza della Parola di Dio. Ben presto i monaci presero l'abitudine di usare questo nome come giaculatoria: "Ge­sù, aiutami! Gesù, salvami! Gesù, misericordia!". L'uso orien­tale, di cui si trovano tracce anche in occidente, è oggi suffi­cientemente conosciuto e praticato da molti: "Signore Gesù Cri­sto, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!". Questo grido si leva dalla nostra disperazione più profonda, dalla presa di co­scienza del peccato che ci allontana dall'amore vero. Non esiste d'altronde preghiera possibile per il cristiano all'infuori di quel­la che nasce dalla coscienza del proprio peccato, coscienza che solo Dio può dare nel momento stesso in cui perdona il peccato e accoglie nel suo amore il peccatore. Così la preghiera di Gesù non è solo un primo passo sulla via della preghiera, ma è già un punto d'arrivo: ricordo del Padre misericordioso che non cessa di attenderci e che ci permette di cadere nelle sue braccia. Per alcuni, questa ripetizione accorata, ritmata con il respi­ro, della preghiera di Gesù basterà abbondantemente. Il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome abbreviato di Dio, esprime per loro tutti i sentimenti possibili: il pentimento come l'amore, la confessione della colpa come la comunione più inti­ma. Il nome di Gesù finisce per diventare dolce mormorio, che copre lentamente tutti gli altri rumori del cuore. Col tempo, l'o­rante vi pianta la tenda: abita nel Nome, dimora nell'amore, se­duto al bordo della sorgente, nel fondo del cuore, il cui abisso sfocia in Dio. La ripetizione incessante del nome di Gesù e un avventura che alla lunga diventa vertiginosa, ma la cui vertigine non è al­tro che Dio in persona, nascosto nel nostro cuore: basterà cede­re molto semplicemente a questa vertigine per cadere incessan­temente in Dio. La preghiera ci riconduce così al centro più profondo del no­stro essere, ci unifica, ci consegna a Gesù, ma nel contempo gua­risce il nostro io, restaura la nostra unità interiore. Mentre ripetiamo il nome di Gesù, impariamo il nostro nome, quel nome che solo lui conosce e che cerca continuamente di insegnarci. Quando, nella notte, cerchiamo di riconoscere i tratti del suo volto, noi ritroviamo i nostri; e mentre ci abbandoniamo al suo amore, impariamo ad amare noi stessi realmente e per sempre.



Unificarsi a partire dall'interno

Una volta trovato il nostro essere profondo grazie alla pre­ghiera, siamo subito in grado di vivere a partire da questa pro­fondità. Come Agostino, a lungo avevamo cercato il Signore fuori di noi, ma invano. Ora sappiamo per esperienza che è dentro di noi: intimior intimo meo. E il nostro oergrond, il nostro fondo primordiale, il nostro io nascosto: la sua vita sale in noi dall'in­terno. Gesù ci viene incontro "dall'interno verso l'esterno", di­ce Ruusbroec. E dunque là che dobbiamo cercarlo, nell'interio­re, è sempre là che dobbiamo attenderlo, rivolti, orientati verso l'interno. Dobbiamo imparare a vivere di fronte al nostro inte­riore, a raccoglierci. Non appena avremo instaurato un rapporto con la nostra interiorità, ci accorgeremo presto che questa real­tà intima di noi stessi è non solo il nucleo e il centro di gravità del nostro essere, ma anche la sorgente capace di ristrutturarlo interamente: una sorgente di forza, di luce, di vita. Tutto ci è dato a partire dall'interno, e l'insieme delle nostre facoltà potrà funzionare bene solo nella misura in cui esse sono collegate con questo mondo interiore. L'uomo nuovo è fecondato dalla sua interiorità a partire dal di dentro, così come è condotto dallo Spirito a partire dall'interno. Per descrivere questo processo di unificazione e di ristruttu­razione, la tradizione bizantina usa un'espressione figurata: la mente (il nous) scende nel cuore. Con questo vuol dire che l'in­telligenza abbandona momentaneamente le sue elucubrazioni in­dipendenti e viene a unirsi al cuore, dove si trovano le facoltà affettive e intuitive dell'uomo. Questa unione della mente e del cuore crea nell'uomo una pace profonda, già al semplice livello naturale. Non solo, ma, come abbiamo visto prima, il cuore è il luogo in cui Dio è presente nell'uomo. E lì che questi può, per così dire, toccare Dio e aderire a lui. Che la mente scenda nel cuore significa allora che l'essere tutto intero è entrato nella vita di Dio ed è integrato all'azione dello Spirito che diventa così il fat­tore di unificazione per eccellenza della totalità dell'essere. L'uomo può allora ritrovare tutte le proprie facoltà, senza ec­cezione alcuna. Prima abbiamo parlato di un digiuno delle po­tenzialità, delle facoltà che dovrebbero momentaneamente ve­nir disinserite: e un esigenza solo temporanea. Nella preghiera, nulla di umano deve scomparire, anzi. L'intelligenza può ora ap­poggiarsi senza rischi su un cuore che è interamente afferrato dal fuoco dello Spirito e che ha ritrovato la propria profondità, terreno per la preghiera. L'intelligenza è illuminata dall'interno grazie alla preghiera e all'amore insieme: ne riceve una nuova perspicacia, perché è fecondata dall'amore. L'amore è così diventato inseparabile dalla conoscenza, e la conoscenza dall'amore. L'amore è diventato lui stesso conoscenza, perché l'amore è la fonte di ogni conoscenza autentica. La cele­bre formula: Ipse amor notitia est (l'amore stesso è conoscenza), così frequente nella letteratura mistica dell'occidente a partire da Gregorio Magno, ritrova così tutta la propria pregnanza. L'a­more non si sostituisce all'intelligenza, ma l'abbraccia dall'in­terno, come un fuoco che covava sotto la cenere. Questo vale anche per tutte le altre facoltà umane, e in parti­colare per l'amore del prossimo. Tutta la vita ora è retta da que­sta nuova realtà sprigionata dalla preghiera nelle profondità del nostro essere. La preghiera è divenuta ambiente discreto e caloroso, sottofondo musicale nel quale la vita di ogni giorno può continuare a scorrere con tutta la sua intensità. Forse anche in modo più intenso ed efficace, perché abbiamo finalmente rag­giunto la sorgente stessa del nostro essere e agiamo solo a parti­re da lei. E come una dolce e quasi impercettibile melodia che niente e nessuno può disturbare e che crea un clima dal quale non possiamo più staccarci. Una dulcis memoria, come la chia­mano i mistici: un ricordo dolce e caloroso dell'Amato, che im-pregna tutta la nostra esistenza e ne copre tutti, i rumori estranei.



Libertà nello Spirito

Solo chi fa l'esperienza di un amore perfetto può diventare perfettamente libero, perché l'autentica libertà è il riflesso atti­vo dell'amore di Dio nell'uomo. Quando la preghiera si riduce all'essenziale, a non essere altro che una progressiva presa di co­scienza della vita di Dio in noi, si trova allora vicinissima alla sorgente della nostra libertà. L'esperienza della preghiera diventa, giorno dopo giorno, la norma che determina le nostre parole e le nostre azioni, la legge spirituale che ci anima dall'interno. E’ come se portassimo in noi un fuoco di cui possiamo trasmettere il calore agli altri. Imparare ad agire così, a partire dall'interno, costituisce una svolta importante nella vita di un credente. Anche se fino a quel momento era sempre stato molto attivo, si trattava solo della sua generosità spontanea e naturale, e per esperienza sapeva che questa non lo avrebbe portato molto lontano e che avrebbe pre­sto dato segni di esaurimento. Per altri, un senso innato del do­vere ha potuto svolgere un ruolo importante. Anche il senso del dovere, il cui fattore determinante sarebbe la prescrizione mo­rale, dovrebbe essere analizzato attentamente. Cosa succede real­mente in me quando mi applico solo ad essere coscienzioso? Sap­piamo per esperienza che un simile sforzo può diventare, alla lunga, insopportabile e che la vita autentica non passa attraver­so queste cose. Chi invece ha ricevuto la grazia di essere all'ascolto del pro­prio cuore nella preghiera è immediatamente sensibile alla dol­ce spinta dello Spirito santo in lui. Senza che lo vediamo né lo sentiamo, lo Spirito ci tocca e ci spinge in avanti: sarà come un instinctus interiore in ciascuno di noi. Chi è così guidato dallo Spirito va d'istinto a cercare non ciò che è meglio o più virtuoso in sé, ma ciò verso cui lo Spirito lo spinge concretamente, ciò che lo Spirito gli chiede in quel preciso momento: niente di più, ma anche niente di meno. Sa ascoltare lo Spirito, vive libera­mente, inserito su questa lunghezza d'onda e capace di cogliere i segni dello Spirito, docile alla grazia. E’ quello che Agostino chiama il Magister interior, il Maestro interiore. Riconosciamo qui l'unzione interiore di cui parla Gio­vanni nella sua prima Lettera, unzione di cui nessun credente è sprovvisto: "Ora voi avete l'unzione ricevuta dal Santo e tut­ti avete la scienza. (...) Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di traviarvi. E quanto a voi, l'unzione che avete ri­cevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veri­tiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi inse­gna" (1Gv 2,20.26-27).