domenica 28 agosto 2011

Gesù porta la croce di tutti gli uomini


CASTEL GANDOLFO, domenica, 28 agosto 2011 .- Di seguito l'intervento pronunciato da Papa Benedetto XVI questa domenica affacciandosi a mezzogiorno al balcone del Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo per recitare la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini giunti per l'occasione.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nel Vangelo di oggi, Gesù spiega ai suoi discepoli che dovrà «andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). Tutto sembra capovolgersi nel cuore dei discepoli! Com’è possibile che «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16), possa patire fino alla morte? L’apostolo Pietro si ribella, non accetta questa strada, prende la parola e dice al Maestro: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (v. 22). Appare evidente la divergenza tra il disegno d’amore del Padre, che giunge fino al dono del Figlio Unigenito sulla croce per salvare l’umanità, e le attese, i desideri, i progetti dei discepoli. E questo contrasto si ripete anche oggi: quando la realizzazione della propria vita è orientata solamente al successo sociale, al benessere fisico ed economico, non si ragiona più secondo Dio, ma secondo gli uomini (v. 23). Pensare secondo il mondo è mettere da parte Dio, non accettare il suo progetto di amore, quasi impedirgli di compiere il suo sapiente volere. Per questo Gesù dice a Pietro una parola particolarmente dura: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo» (ibid.). Il Signore insegna che «il cammino dei discepoli è un seguire Lui, il Crocifisso. In tutti e tre i Vangeli spiega tuttavia questo seguirlo nel segno della croce … come il cammino del "perdere se stesso", che è necessario per l’uomo e senza il quale non gli è possibile trovare se stesso» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 333).

Come ai discepoli, così anche a noi Gesù rivolge l’invito: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). Il cristiano segue il Signore quando accetta con amore la propria croce, che agli occhi del mondo appare una sconfitta e una "perdita della vita" (cfr vv. 25-26), sapendo di non portarla da solo, ma con Gesù, condividendo il suo stesso cammino di donazione. Scrive il Servo di Dio Paolo VI: "Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore dell'uomo il peccato di presunzione e manifestare al Padre un'obbedienza integra e filiale, accetta … di morire su di una croce" (Es. ap. Gaudete in Domino(9 maggio 1975), AAS 67, [1975], 300-301). Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. Commenta San Cirillo di Gerusalemme: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B).

Affidiamo la nostra preghiera alla Vergine Maria e a Sant’Agostino, di cui oggi ricorre la memoria, perché ciascuno di noi sappia seguire il Signore sulla strada della croce e si lasci trasformare dalla grazia divina, rinnovando il modo di pensare «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Sono lieto di rivolgere un augurio cordiale a Mons. Marcello Semeraro, Vescovo di questa Diocesi di Albano, in occasione del suo 40° anniversario di Ordinazione sacerdotale; e lo estendo, per la medesima ricorrenza, a Mons. Bruno Musarò, che ho da poco nominato Nunzio Apostolico a Cuba, e a Mons. Filippo Santoro, Vescovo di Petropolis, in Brasile, come pure a 17 sacerdoti oggi presenti. Il Signore vi colmi di grazie, cari Confratelli!

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare gli aderenti al movimento laicale somasco, con il Superiore Generale dell’Ordine, che celebra il quinto centenario della liberazione dal carcere del Fondatore, san Girolamo Emiliani; come pure le Suore Mantellate Serve di Maria di Pistoia, insieme con alcuni collaboratori della loro missione nello Swaziland. Saluto i fedeli di Cremona, Pomezia, Gela e Chieve, e della parrocchia romana di Santa Margherita Maria Alacoque, i ragazzi di Bergamo e i cresimandi di Bassano del Grappa e della Val Liona, i catechisti di Varedo, e la squadra di calcio della città di Marino. Saluto anche i membri dell’Associazione "Amici di Papa Luciani", che ci seguono da Piazza San Pietro.

Auguro a tutti buona Domenica.

sabato 27 agosto 2011

Agostino - "Le Confessioni"




AGOSTINO DI IPPONA


Confessioni


Libro primo

NASCITA, INFANZIA E FANCIULLEZZA


Invocazione a Dio

Come invocare Dio?

1. 1. Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l’annunzio?. Loderanno il Signore coloro che lo cercano?, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore.


Perché invocare Dio?

2. 2. Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora nelle profondità degli inferi, sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque t’invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: “Cielo e terra io colmo”?


La presenza di Dio nell’universo

3. 3. Ma cielo e terra ti comprendono forse, perché tu li colmi? o tu li colmi, e ancora sopravanza una parte di te, perché non ti comprendono? E dove riversi questa parte che sopravanza di te, dopo aver colmato il cielo e la terra? O non piuttosto nulla ti occorre che ti contenga, tu che tutto contieni, poiché ciò che colmi, contenendo lo colmi? Davvero non sono i vasi colmi di te a renderti stabile. Neppure se si spezzassero, tu ti spanderesti; quando tu ti spandi su di noi, non tu ti abbassi, ma noi elevi, non tu ti disperdi, ma noi raduni. Però nel colmare, che fai, ogni essere, con tutto il tuo essere lo colmi. E dunque, se tutti gli esseri dell’universo non riescono a comprendere tutto il tuo essere, comprendono di te una sola parte, e la medesima parte tutti assieme? oppure i singoli esseri comprendono una singola parte, maggiore i maggiori, minore i minori? Dunque, esisterebbero parti di te maggiori, altre minori? o piuttosto tu sei intero dappertutto, e nessuna cosa ti comprende per intero?


Qualità inesprimibili di Dio

4. 4. Cosa sei dunque, Dio mio? Cos’altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio?. O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla. Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri.


Aspirazione dell’anima a Dio

5. 5. Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, perché tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l’assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo.

5. 6. Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: “Purificami, Signore, dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri”? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s’inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà?.

Nascita e infanzia

Il mistero della nostra origine

6. 7. Eppure lasciami parlare davanti alla tua misericordia. Sono terra e cenere, eppure lasciami parlare. Vedi, è alla tua misericordia, e non a un uomo che riderebbe di me, ch’io parlo. Forse ridi anche tu di me, ma ti volgerai e avrai misericordia di me. Non voglio dire, se non questo: che ignoro donde venni qui, a questa, come chiamarla, vita mortale o morte vitale. Lo ignoro, ma mi accolsero i conforti delle tue misericordie, per quanto mi fu detto dai genitori della mia carne, dall’uno dei quali ricavasti, mentre nell’altra mi desti una forma nel tempo; io non ricordo. Mi accolsero dunque i conforti del latte umano, ma non erano già mia madre o le mie nutrici a riempirsene le poppe, bensì eri tu, che per mezzo loro alimentavi la mia infanzia, secondo il criterio con cui hai distribuito le tue ricchezze sino al fondo dell’universo. Tu, anche, mi davi di non desiderare più di quanto davi, e a chi mi nutriva di darmi quanto le davi. Per un sentimento ben ordinato le donne desideravano darmi ciò di cui ridondavano per grazia tua, e il bene che io traevo da loro era un bene per loro, che procedeva non da loro, ma per mezzo loro. Tutti i beni derivano da te, Dio, dal mio Dio deriva l’intera mia salute. Me ne accorsi più tardi, quando la tua voce me lo gridò proprio attraverso i doni che elargisci al nostro corpo e alla nostra anima. Allora sapevo soltanto succhiare e bearmi delle gioie o piangere delle noie della mia carne, null’altro.


Natura dei bambini

6. 8. Poi cominciai anche a ridere, prima nel sonno, quindi nella veglia. Così almeno mi fu riferito sul mio conto, e vi ho creduto, perché vediamo gli altri bambini comportarsi così; infatti non ricordo nulla di questi tempi miei. Ed ecco che a poco a poco incominciai ad avere anche coscienza del luogo ove mi trovavo; volevo manifestare i miei desideri alle persone che erano in grado di soddisfarli, senza esito alcuno, poiché i primi stavano nel mio interno, le seconde all’esterno e con nessuno dei loro sensi potevano penetrare nel mio animo. Perciò mi dibattevo e strillavo, esprimendo così per analogia i miei desideri, quanto poco potevo, e come potevo, in maniera, difatti, irriconoscibile. Eppure, se non ero accontentato, o per non essermi fatto intendere, o per il danno che ne avrei avuto, mi stizzivo e mi vendicavo strillando contro persone maggiori di me che non si piegavano alla mia volontà, e persone libere che non mi si facevano schiave. Tale è la natura dei bambini. La scoprii più tardi, conoscendoli. E che tale fosse anche la mia, me lo insegnarono meglio essi inconsapevolmente, che i miei educatori consapevoli.


Eternità di Dio

6. 9. Ed ora, ecco la mia infanzia da gran tempo morta, e me vivo. Tu però, Signore, sempre vivo e di cui nulla muore perché prima dell’inizio dei secoli e prima di ogni cosa cui pure si potesse dare il nome di “prima” tu sei e sei Dio e Signore di tutte le cose, create da te, e in te perdurano stabili le cause di tutte le cose instabili, e di tutte le cose mutabili si conservano in te immutabili i princìpi, e di tutte le cose irrazionali e temporali sussistono in te sempiterne le ragioni; dimmi dunque, ti supplico, Dio misericordioso verso questa tua creatura miserabile, dimmi: la mia infanzia succedette a un’altra mia età, allora già morta? A quella forse da me trascorsa nelle viscere di mia madre? Su questa mi fu dato invero qualche ragguaglio, e io stesso, del resto, vidi qualche donna incinta. Ma prima ancora di questa, o mia dolcezza, mio Dio? Fui da qualche parte, fui qualcuno? Chi potrebbe rispondermi? Non ho nessuno; né mio padre né mia madre poterono dirmelo, né l’esperienza altrui né la memoria mia. O tu ridi di me, che ti pongo tali domande, e mi ordini di lodarti piuttosto e confessarti per quanto so?


Prime forme di vita

6. 10. Ti confesso, Signore del cielo e della terra, dandoti lode per i primordi e l’infanzia della mia vita, che non ricordo. Tu però concedesti all’uomo di ricostruire il proprio passato dal comportamento altrui e di credere sul proprio conto molte cose persino in base alle asserzioni di alcune donnicciuole. Io dunque ero già vivo allora, e sul finire dell’infanzia cominciai a ricercare qualche segno, con cui manifestare agli altri i miei sentimenti. Un essere vivente di tal fatta da chi poteva derivare, se non da te, Signore? Potrebbe mai qualcuno essere autore della propria creazione? O fra i rigagnoli da cui fluisce a noi l’esistenza e la vita, qualcuno deriva mai da fonte diversa dalla tua creazione, Signore? Per te esistere e vivere non sono due atti distinti, poiché la massima esistenza e la massima vita sono la medesima cosa. Tu, Essere massimo, non muti, la giornata odierna non si consuma in te, sebbene in te si compia, poiché anche tutte le cose di questo mondo sono in te; non avrebbero vie per cui passare se tu non le contenessi. E poiché i tuoi anni non finiscono, i tuoi anni sono l’oggi. Per quanto numerosi, i giorni nostri e dei nostri padri passarono nel tuo oggi e di lì ricevettero la misura e il modo della loro esistenza. Altri ancora ne passeranno, e tutti riceveranno di lì ancora il modo della loro esistenza. Tu invece sei sempre il medesimo, e tutti gli atti di domani, e oltre, tutti gli atti di ieri, e addietro, li compirai oggi, li compisti oggi. Che posso fare io, se altri non capisce? Anch’egli si rallegri, dicendo: “Che è ciò?”; si rallegri anche così e goda di non trovarti mentre ti trova, anziché di trovarti mentre non ti trova.


I peccati dell’infanzia

7. 11. Ascolta, Dio: maledetti i peccati degli uomini!. Lo dice un uomo, di cui hai pietà, perché tu lo hai creato senza creare in lui il peccato. Chi mi rammenta i peccati della mia infanzia, se nessuno innanzi a te è mondo di peccato, neppure il bimbo, che ha un giorno solo di vita sulla terra? Chi me li rammenta, se non un piccino ora grande soltanto così, in cui vedo ciò che non ricordo di me stesso? Qual era dunque il mio peccato di allora? Forse l’avidità con cui cercavo piangendo le poppe? Se oggi facessi altrettanto, cercando avidamente non più le poppe, s’intende, ma il nutrimento conveniente alla mia età, mi farei deridere e riprendere a buon diritto. Ossia, a quell’età commettevo atti riprovevoli, ma, poiché non avrei potuto comprendere i rimproveri, si evitava, come fanno tutti ragionevolmente, di rimproverarmi. Tanto è vero, che noi estirpiamo ed eliminiamo quei difetti durante la crescita, e non ho mai visto nessuno gettar via deliberatamente il buono mentre vuole estirpare il cattivo. O forse erano anche quelle azioni buone, in rapporto all’età: le implorazioni, cioè, con cui chiedevo piangendo persino doni nocivi, le aspre bizze contro persone di libera condizione e di età più grave della mia, che non si assoggettavano alla mia volontà; gli sforzi per colpire con tutte le mie forze chi mi aveva dato la vita e molte altre persone più prudenti di me, che non ubbidivano ai miei cenni, percuotendole perché non eseguivano certi ordini che si sarebbero eseguiti con mio danno? Dunque l’innocenza dei bambini risiede nella fragilità delle membra, non dell’anima. Io ho visto e considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte. È cosa nota, e le madri e le nutrici pretendono di saper eliminare queste pecche con non so quali rimedi; ma non si può ritenere innocente chi innanzi al fluire ubertoso e abbondante del latte dal fonte materno non tollera di condividerlo con altri, che pure ha tanto bisogno di soccorso e che solo con quell’alimento si mantiene in vita. Ciò nonostante si tollerano con indulgenza questi atti, non perché siano inconsistenti o da poco, ma perché destinati a sparire col crescere degli anni. Lo prova il fatto che gli stessi atti, sorpresi in una persona più attempata, non si possono più tollerare con indifferenza.

7. 12. Perciò tu, Signore Dio mio, che desti al bimbo con la vita un corpo, che lo fornisti, come si vede, di sensi e di una compagine di membra e di un aspetto grazioso e dell’istinto a compiere tutti gli sforzi possibili a un essere animato per preservare l’incolumità del proprio organismo, tu mi ordini di lodarti per questi doni, di confessare te e inneggiare al tuo nome, Altissimo. Tu sei Dio, onnipotente e buono se anche solo avessi fatto queste cose, che nessun altro può fare all’infuori di te; unico, da cui deriva ogni norma; forma suprema, che forma ogni cosa e ordina ogni cosa secondo la propria norma. Ebbene, Signore, questa età che non ricordo di aver vissuto, di cui credo ciò che mi dicono gli altri, e che suppongo di aver trascorso solo perché la vedo negli altri infanti, per una supposizione, dunque, sebbene assai fondata, l’annovero con riluttanza fra le età della vita che vivo in questo mondo. Per oscurità e oblio non è da meno di quella che vissi nel grembo di mia madre; ma se fui concepito nell’iniquità, e mia madre mi nutrì nel suo grembo fra i peccati, dove mai, di grazia, Dio mio, dove, Signore, io, servo tuo, dove o quando fui innocente? Ma ecco, tralascio quel tempo. Che ho da spartire oggi con lui, se nessuna traccia ne ritrovo?

Fanciullezza

L’acquisto della parola

8. 13. Dall’infanzia, procedendo verso l’età in cui mi trovo ora, passai dunque nella fanciullezza, se non fu piuttosto la fanciullezza a raggiungermi succedendo all’infanzia. Quest’ultima non si ritrasse certamente: dove svanì? Tuttavia ormai più non era. Io non ero più un infante senza favella, ma ormai un fanciullo loquace, ben lo ricordo. Del modo come appresi a parlare mi resi conto solo più tardi. Non mi ammaestrarono gli anziani, suggerendomi le parole con un insegnamento metodico, come poco dopo per la lettura e la scrittura; ma fui io stesso il mio maestro con l’intelligenza avuta da te, Dio mio, quando con gemiti e molteplici grida e molteplici gesti degli arti volevo manifestare i moti del mio cuore, affinché si ubbidisse alla mia volontà; ma ero incapace di manifestare tutta la mia volontà e a tutti coloro che volevo. Afferravo con la memoria: quando i circostanti chiamavano con un certo nome un certo oggetto e si accostavano all’oggetto designato, io li osservavo e m’imprimevo nella mente il fatto che, volendo designare quell’oggetto, lo chiamavano con quel suono. Che quella fosse la loro intenzione, lo arguivo dal movimento del corpo, linguaggio, per così dire, comune di natura a tutte le genti e parlato col volto, con i cenni degli occhi, con i gesti degli arti e con quelle emissioni di voce, che rivelano la condizione dell’animo cupido, pago, ostile o avverso. Così le parole che ricorrevano sempre a un dato posto nella varietà delle frasi, e che udivo di frequente, riuscivo gradatamente a capire quali oggetti designassero, finché io pure cominciavo a usarle, dopo aver piegato la bocca ai loro suoni, per esprimere i miei desideri. Giunsi così a scambiare con le persone tra cui vivevo i segni che esprimevano i desideri, e m’inoltrai ulteriormente nel consorzio procelloso della vita umana, dipendendo dall’autorità dei genitori e dai cenni degli adulti.


A scuola: busse e derisioni degli adulti

9. 14. Dio, Dio mio, quali inganni soffrii allora, quando, fanciullo, mi veniva indicata come norma di vita retta l’ubbidienza a chi voleva rendermi prospero nel mondo ed eminente nelle arti linguacciute, provveditrici di onori e ricchezze false tra gli uomini! Fui affidato alla scuola per impararvi le lettere, di cui, meschinello, ignoravo i vantaggi; eppure erano busse, se ero pigro a studiarle. Era un sistema raccomandato dai grandi, e molti fanciulli prima di noi, menando quella vita, avevano aperte le vie penose ove eravamo costretti a passare, moltiplicando la fatica e la sofferenza dei figli di Adamo. Vi trovammo per altro, Signore, alcuni uomini che ti pregavano, e da loro venimmo a conoscere, per il poco che potevamo intenderti, la tua esistenza, quale di un essere grande, che può darci ascolto e soccorso anche senza manifestarsi ai nostri sensi. Così, fanciullo, incominciai a pregarti, soccorso e rifugio mio. Scioglievo per invocarti i nodi della mia lingua, ti pregavo, piccoletto ma con non piccolo affetto, che tu mi evitassi le busse del maestro; e se non mi esaudivi, non certo, riguardo a me, per un fine stolto, gli adulti e persino i miei genitori, i quali non volevano che mi toccasse alcun male, ridevano dei colpi che ricevevo e che costituivano allora per me una sofferenza ingentee grave.

9. 15. Esiste, Signore, un cuore così grande, unito a te da straordinario amore, esiste, dico, un uomo, poiché a tanto si può anche giungere per una sorta di follia; esiste dunque alcuno, che, per essere unito devotamente a te, provi un’emozione così intensa, da fare poco conto di cavalletti e unghioni e altri simili strumenti di tortura, che in ogni parte della terra la gente atterrita ti scongiura di poter evitare; eppure nutra dell’amore verso questi altri, che ne provano un aspro terrore? Non altrimenti i nostri genitori ridevano dei castighi inflitti a noi fanciulli dai maestri. Noi infatti non li temevamo meno delle torture, né meno t’imploravamo di risparmiarceli; eppure mancavamo o nello scrivere o nel leggere o nello studiare meno di quanto si esigeva da noi. Non che mi difettasse, Signore, la memoria o l’intelligenza: tu me ne volesti dotare a sufficienza per quell’età; ma mi piaceva il gioco e ne ero punito da chi, a buon conto, non si baloccava meno di me. Senonché i balocchi degli adulti sono chiamati affari, mentre quelli dei fanciulli, per quanto simili, sono puniti dagli adulti. E alla fine non c’è pietà per i fanciulli, o per gli altri, o per entrambi. Un giudice onesto potrebbe approvare le busse che mi si davano, poiché, se da fanciullo giocavo alla palla, il gioco m’impediva di apprendere rapidamente le lettere, grazie a cui da grande avrei eseguito più tristi giochi. Ma proprio chi mi dava le busse, agiva diversamente? Se un collega d’insegnamento lo superava in qualche futile discussione, si rodeva dalla bile e dall’invidia più di me, quando rimanevo sconfitto dal mio compagno di gioco in una partita alla palla.


Disubbidienza dello scolaro per amore del gioco

10. 16. Con tutto ciò io peccavo, Signore Dio, ordinatore e creatore di quante cose esistono nella natura, dei peccati ordinatore soltanto. Signore Dio mio, peccavo contravvenendo ai precetti dei miei genitori e dei miei maestri di allora, perché più tardi avrei potuto giovarmi in bene dell’istruzione letteraria a cui i miei, qualunque motivo li ispirasse, volevano che attendessi; né allora disubbidivo scegliendo di meglio, ma per amore del gioco, amando le vittorie esaltanti nelle gare e lo strisciare di favole irreali nelle mie orecchie, che vi eccitava un più ardente prurito. La stessa curiosità mi sfavillava ogni giorno più negli occhi e mi trascinava agli spettacoli, giochi di adulti, che pure, chi li organizza, eccelle e fruisce di tale considerazione, da auspicarla solitamente anche per i propri figli senza per questo rammaricarsi della punizione che toccano, se dagli stessi spettacoli si lasciano distrarre dallo studio, il mezzo con cui sperano di condurli a organizzare gli spettacoli. Guarda, Signore, con misericordia a queste incoerenze e libera noi che ora t’invochiamo; liberane pure coloro che ancora non t’invocano, sì che possano invocarti ed esserne liberati.


Una grave malattia

11. 17. Avevo udito parlare sin da fanciullo della vita eterna, che ci fu promessa mediante l’umiltà del Signore Dio nostro, sceso fino alla nostra superbia; e già ero segnato col segno della sua croce, già insaporito col suo sale fino dal primo giorno in cui uscii dal grembo di mia madre, che sperò molto in te. Tu, Signore, vedesti, ancora durante la mia fanciullezza, un giorno che per un’occlusione intestinale mi assalì improvvisamente la febbre e fui lì lì per morire, vedesti, Dio mio, essendo fin d’allora il mio custode, con quale slancio di cuore e quanta fede invocai dalla pietà di mia madre e dalla madre di noi tutti, la tua Chiesa, il battesimo del tuo Cristo, mio Dio e Signore. E già tutta sconvolta la madre della mia carne, avendo più caro di partorire dal suo cuore, casto nella tua fede, la mia salvezza eterna, si preoccupava di affrettare la mia iniziazione ai sacramenti della salvezza, da cui fossi mondato confessando te, Signore Gesù, per la remissione dei peccati, quando improvvisamente mi ripresi. Così la mia purificazione fu differita, quasi fosse inevitabile che la vita m’insozzasse ancora, e certamente col pensiero che dopo il lavacro del battesimo più grande e rischiosa sarebbe stata la mia colpa nelle sozzure dei peccati. Dunque allora io credevo, come mia madre e tutta la casa, eccettuato soltanto mio padre. Questi non sopraffece però nel mio cuore i diritti dell’amore materno al punto di togliermi la fede in Cristo, fede che ancora non aveva. Lei si adoperava a fare di te, mio Dio, il mio padre in vece sua, e tu l’aiutavi a prevalere sul marito, cui pure serviva, sebbene fosse migliore di lui, perché anche in ciò serviva te, che imponi comunque alla donna una condizione servile.


Il differimento del battesimo

11. 18. Dio mio, ti prego, vorrei sapere, se pure tu lo volessi, per quale disegno fu differito allora il mio battesimo. Fu un bene per me che mi siano state allentate, per così dire, le briglie al peccato, o sarebbe stato bene il contrario? Per questa ragione dunque ancor oggi si sente dire da ogni parte dell’uno e dell’altro: “Lascialo fare: non è ancora battezzato”. Eppure riguardo alla salute fisica non diciamo: “Lascia che si produca altre ferite: non è ancora guarito”. Dunque sarebbe stato molto meglio per me guarire subito; che, per me, tanto io quanto i miei parenti avessimo posto ogni diligenza a ricuperare e a mettere la salute della mia anima al riparo sotto il tuo riparo, che non le avresti rifiutato. Sarebbe stato meglio davvero. Invece, conoscendo i flutti delle tentazioni che già in gran numero e misura si profilavano minacciosi dietro la fanciullezza, mia madre, e quella madre, preferì avventurarvi la terra da cui mi sarei poi formato, che subito la compiuta figura.


Avversione allo studio

12. 19. Tuttavia proprio nella fanciullezza, che suscitava al mio riguardo apprensioni minori dell’adolescenza, non amavo lo studio e odiavo di esservi costretto. Vi ero però costretto, e per il mio bene, ma io non compivo del bene, perché non avrei studiato senza costrizione, e chi agisce suo malgrado non compie del bene, per quanto sia bene quello che compie. Neppure coloro che mi costringevano compivano del bene, ma il bene mi veniva da te, Dio mio. Essi non vedevano altro scopo, cui potessi rivolgere quanto mi costringevano a imparare, se non l’appagamento delle brame inappagabili di una miseria che sembra ricchezza e di una infamia che sembra gloria. Ma tu, che conosci il numero dei nostri capelli, sfruttavi a mio vantaggio l’errore di tutti coloro che insistevano per farmi studiare, come sfruttavi anche il mio, che non volevo studiare, per impormi un castigo di cui non era immeritevole quel così piccolo fanciullo e così grande peccatore. Così mi procuravi del bene non da chi compiva del bene, e del mio stesso peccato mi ripagavi equamente. Hai stabilito infatti, e avviene, che ogni anima disordinata sia castigo a se stessa.


Greco e latino

13. 20. Quale fosse poi la ragione per cui odiavo il greco che mi veniva insegnato da fanciullo, non lo so esattamente nemmeno ora. Invece mi ero appassionato al latino, non già quello insegnato dai maestri dei primi corsi, ma dagli altri, i cosiddetti maestri di grammatica. Le prime nozioni, con cui s’impara a leggere, a scrivere e a computare, mi procuravano noia e pena non minori di quelle che mi procurò in ogni sua parte il greco; ma non era anche questa una conseguenza del peccato e della vanità della vita, per cui ero carne e un soffio passeggero, che non torna? Quei primi studi, che via via mi mettevano, come mi misero e mi mettono tuttora in grado di leggere se trovo uno scritto, e di scrivere io stesso se voglio scrivere, erano migliori, perché più sicuri, degli altri, ove mi si costringeva a mandare a memoria gli errori di un certo Enea dimenticando i miei propri errori, e a gemere su Didone, morta suicida per amore, mentre io mi lasciavo morire tra queste fole senza di te, Dio, vita mia, ad occhi asciutti, miserrimo.

13. 21. C’è in verità cosa più misera di un misero che non commisera se stesso e piange la morte di Didone, che avveniva per amore di Enea, mentre non piange sulla morte propria, che avveniva per non amare te, Dio e lume del mio cuore, pane della interiore della mia anima, virtù fecondatrice della mia intelligenza, grembo del mio pensiero? Io non amavo te, trescavo lontano da te, e alle mie tresche si applaudiva da ogni parte: “Bravo, bravo”. L’amicizia verso questo mondo è davvero un trescare lontano da te, cui si applaude: “Bravo, bravo”, cosicché si ha vergogna a non essere come gli altri. Ebbene, io non piangevo per questo, e piangevo per Didone morta cercando col ferro il giorno estremo; anch’io cercavo le cose estreme della tua creazione, dopo aver abbandonato te, terra che si piegava verso terra; e se qualcuno mi proibiva quelle letture, mi affliggevo di non poter leggere ciò che mi affliggeva. Tali deliri si apprezzano come studi più nobili e fruttuosi di quelli che mi insegnarono a leggere e scrivere.


La lettura dei poeti

13. 22. Ma ora nell’anima mia gridi il mio Dio, la tua verità mi dica che non è così, che non è così. È certamente migliore l’altro insegnamento, il primo. Infatti eccomi ora disposto a scordare gli errori di Enea e ogni racconto del genere, piuttosto che il modo di scrivere e leggere. Sull’ingresso delle scuole di grammatica pendono alcune cortine. Esse non simboleggiano tanto la solennità dei misteri che si svolgono all’interno, quanto velano gli errori che si commettono. E non schiamazzino contro di me, che più non li temo, mentre ti confesso le aspirazioni dell’anima mia, Dio mio, e trovo pace nel condannare le mie storte vie per innamorarmi delle tue diritte, non schiamazzino contro di me i venditori e i compratori di grammatica. Perché se io chiederò loro: “Venne mai davvero Enea a Cartagine, come asserisce il poeta?”, gli indotti risponderanno di ignorarlo, i più dotti affermeranno addirittura che no davvero; se invece domanderò con quali lettere si scrive il nome di Enea, tutti coloro che hanno appreso l’alfabeto mi risponderanno esattamente, secondo le norme con cui gli uomini convennero tra loro di fissarne i segni. Così pure, se domanderò quale di queste due conoscenze sarebbe più dannoso per la vita dimenticare, se la lettura e la scrittura oppure le invenzioni dei poeti citate sopra, chi non sa quale sarebbe la risposta di chiunque non abbia perduto completamente il senno? Io peccavo dunque da fanciullo nel prediligere le vacuità dei poeti alle arti più utili, o meglio, nell’odiare decisamente le seconde e nell’amare le prime. L’”uno più uno due, due più due quattro” era una cantilena odiosa per me, mentre era spettacolo dolcissimo, eppur vano, il cavallo di legno pieno di armati, l’incendio di Troia e l’ombra di lei, di Creusa.


Difficoltà nello studio del greco

14. 23. Come mai, dunque, provavo avversione per le lettere greche, ove pure si cantano i medesimi temi? Omero, ad esempio, è un abile tessitore di favolette del genere, dolcissimo nella sua vanità; eppure per me fanciullo era amaro. Credo avvenga altrettanto di Virgilio per i fanciulli greci, quando sono costretti a impararlo come io il loro poeta. Era cioè la difficoltà, proprio la difficoltà d’imparare una lingua straniera ad aspergere, dirò così, di fiele tutte le squisitezze greche contenute in quei versi favolosi. Io non conoscevo alcuna di quelle parole, e mi s’incalzava furiosamente per farmele imparare con minacce e castighi crudeli. Prima, durante l’infanzia, anche di latino non conoscevo nessuna parola, ma con un poco di attenzione le imparai senza bisogno d’intimidazioni e torture, anzi fra carezze di nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi. Dunque le imparai senza il peso di castighi e sollecitazioni, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla luce i suoi pensieri. Ma non ne avrebbe avuto la via, se non avessi imparato qualche vocabolo, più che a scuola da chi insegnava, dalla voce di chi parlava, nelle cui orecchie a mia volta deponevo i miei sentimenti. Ne emerge in modo abbastanza chiaro che per imparare queste nozioni vale più la libera curiosità che la pedante costrizione; ma il flusso della prima è contenuto dall’altra secondo le tue leggi, o Dio, le tue leggi. Dalle verghe dei maestri fino alle torture dei martiri le tue leggi sanno combinare amari salubri, che ci richiamano a te dopo le dolcezze pestifere che da te ci hanno allontanato.


Tutto al servizio di Dio

15. 24. Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine. Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare. Mentre io imparavo delle vanità, tu mi davi una disciplina, e i diletti peccaminosi che in quella vanità io trovai, tu me li hai perdonati. Sì, se appresi per loro mezzo molti vocaboli utili, è possibile apprenderli anche attraverso materie meno vane, e questa è la via sicura, per cui i fanciulli dovrebbero camminare.


La poesia corrotta e corruttrice

16. 25. Ma guai a te, fiumana delle consuetudini umane! Chi ti resisterà? fino a quando non ti seccherai, fino a quando travolgerai i figli di Eva nel vasto e terribile mare, che appena riescono a traversare coloro che si sono imbarcati sul legno? Non ho letto fra le tue onde di un Giove tonante e adultero? due atti che non poteva davvero compiere simultaneamente, eppure glieli fecero compiere, perché ottenesse credito il modello di un adulterio vero col lenocinio di un tuono falso. Chi però fra i maestri paludati ascolta senza alterarsi un uomo che dalla sua stessa lizza proclama ad alta voce: “Queste sono invenzioni di Omero, il quale trasferiva qualità umane agli dèi. Io preferirei avesse trasferito qualità divine a noi”? Più esattamente si potrebbe però dire: Omero nell’immaginare queste vicende attribuiva qualità divine a uomini viziosi, per ottenere che i vizi non fossero ritenuti vizi, e chiunque vi si abbandonasse, sembrasse imitare non già la corruzione umana, ma la celestialità divina.

16. 26. Ciò nonostante i figli degli uomini sono gettati nelle tue onde, o fiumana tartarea, e si paga perché apprendano queste nozioni; e si tratta di cosa seria, se viene compiuta ufficialmente, sulla piazza principale della città, sotto gli occhi delle leggi, che assegnano ai maestri un salario pubblico in aggiunta alla mercede dei privati. Battendo contro le tue rocce, sembri dire col tuo fragore: “Qui dentro s’imparano le parole, di qui si attinge l’eloquenza, assolutamente necessaria per convincere e spiegare il proprio pensiero”. Certo noi non conosceremmo parole quali “pioggia aurea”, “grembo”, “trucco”, “templi celesti”, e le altre che si trovano nel passo seguente di Terenzio, se il poeta non avesse portato in scena un giovinastro, che si propone per il proprio stupro l’esempio di Giove, mentre osserva sopra la parete un dipinto, ove era raffigurata questa scena: Giove che, come si narra, fa cadere una pioggia aurea in grembo a Danae, truccato per una donna. Guarda poi come, dietro il magistero celeste, diremmo, egli si ecciti al piacere:

E qual dio! dice: quello che i templi celesti
con immenso fragor sconquassa. Ed io,
un povero mortal, non lo farei?
Ma io l’ho fatto, e molto volentieri
”.

Non è affatto vero, non è affatto vero che sconcezze simili agevolino l’apprendimento delle parole; piuttosto, grazie alle parole si eseguono più leggermente le sconcezze. Io non accuso le parole, che direi vasi eletti e preziosi, ma il vino del peccato, che in esse ci veniva propinato da maestri ebbri, e che dovevamo sorbire, pena le busse, senza possibilità di appellarci a un giudice sobrio. Eppure io, Dio mio, davanti a cui evoco ormai pacatamente questi ricordi, imparai volentieri quelle nozioni. Esse costituivano per me, sventurato, un diletto, e perciò venivo definito un fanciullo di belle speranze.


Impiego vano di un’intelligenza eccellente

17. 27. Permettimi, Dio mio, di spendere qualche parola anche sul mio intelletto, tuo dono; di dire in quali vaneggiamenti si logorava. Mi veniva assegnato il compito, piuttosto inquietante al mio spirito per l’allettamento degli elogi e il timore delle mortificazioni e delle busse, di riferire le parole di Giunone adirata e crucciata perché non può stornare dall’Italia il re dei teucri, parole che da Giunone non avevo mai sentito pronunciare. Eppure eravamo costretti a perderci sulle orme di queste invenzioni poetiche, riferendo in prosa quanto il poeta aveva riferito in versi; e i maggiori elogi nella dizione toccavano a chi esprimeva sentimenti d’ira e cruccio più adeguati al rango del personaggio rappresentato, e rivestiva i concetti di parole più convenienti. Quale vantaggio mi recavano, o vera vita, Dio mio, gli applausi tributati alla mia recitazione più che a quella dei miei molti coetanei e condiscepoli? Non era, ecco, tutto fumo e vento? non esisteva nessun’altra materia, ove esercitare il mio intelletto e la mia lingua? Le tue lodi, Signore, le tue lodi disseminate nelle tue Scritture avrebbero ben potuto reggere il tralcio del mio cuore. Così non sarebbe stato travolto nei vuoti delle frivolezze, né sconciato da uccelli rapaci. In molti modi si sacrifica agli angeli ribelli.


Vanità degli uomini

18. 28. Ma che c’è di strano, se mi lasciavo attrarre fra le vanità e mi sviavo lontano da te, Dio mio, quando mi venivano proposti a modello certi uomini, i quali, rimproverati di essere caduti, nell’esporre alcune loro azioni non malvagie, in un barbarismo o solecismo, si turbavano; mentre, lodati per aver narrato le proprie sregolatezze con facondia ed eleganza, facendo uso di vocaboli puri e armonizzandoli a dovere, se ne gloriavano? Tu vedi queste cose, Signore, e longanime, misericordiosissimo, veritiero, taci: ma sempre tacerai? ed ora trai da questo baratro spaventoso l’anima che ti cerca, assetata delle tue gioie, il cuore che ti dice: “Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, ricercherò”, perché lontani dal tuo volto si è nelle tenebre della passione. Da te ci allontaniamo e a te torniamo senza muovere i piedi, senza attraversare spazio di luoghi; oppure bisogna intendere che il tuo figlio secondogenito, di cui parla la parabola, dovette procacciarsi davvero un cavallo, un carro, una nave, o s’involò con ali visibili, o percorse la strada col moto delle gambe per dissipare da prodigo, vivendo in un paese lontano, ciò che alla partenza gli avevi dato, padre amabile per i tuoi doni, più amabile al suo desolato ritorno. No, gli bastò vivere nella sregolatezza della passione, perché questo è davvero un vivere tenebroso, ed è vivere lontano dal tuo volto.

18. 29. Guarda, Signore Dio, e pazientemente, come guardi, guarda il rigore con cui da un lato i figli degli uomini osservano le leggi delle lettere e delle sillabe, ricevute da chi prima di loro usò le parole; e la noncuranza che dall’altro dimostrano verso le leggi eterne della salvezza perpetua, ricevute da te. Così se uno di coloro che conoscono e insegnano le antiche convenzioni dei suoni, pronuncia homo senza aspirare la prima sillaba a dispetto delle regole grammaticali, gli uomini ne sono urtati più che se, uomo, odia un altro uomo a dispetto dei tuoi precetti: quasi che il peggiore dei nemici potesse danneggiarlo più dell’odio stesso che lo eccita contro di lui, o si potesse rovinare un estraneo perseguitandolo, più di quanto si rovini il proprio cuore inasprendolo. Certo la scienza delle lettere non è impressa più addentro in noi di ciò che sta scritto nella nostra coscienza, cioè che agli altri facciamo quanto non vorremmo subire. Come sei nascosto tu, che abiti tacito nei cieli più alti, Dio solo grande, che con legge instancabile spargi tenebre punitrici sulle passioni illecite, mentre un uomo in cerca di gloria nell’eloquenza, innanzi a un altro uomo in veste di giudice e in mezzo a una moltitudine di uomini che lo attorniano, si accanisce con odio bestiale contro un suo nemico ed evita con la massima circospezione di cadere in un fallo di pronuncia, dicendo “inter omines”, ma non evita di sottrarre al consorzio umano un uomo per i furori della propria mente!


I peccati del fanciullo

19. 30. Sulla soglia di una simile scuola di moralità io, povero fanciullo, ero disteso; e in una tale arena si svolgeva il mio addestramento, ov’ero più timoroso di cadere in un’improprietà di linguaggio, che attento a evitare, nel cadervi, l’invidia verso chi non vi cadeva. Dico questo, Dio mio, e ti confesso di che mi lodavano le persone, il cui compiacimento costituiva allora per me l’onore della vita. Non scorgevo la voragine d’ignominia in cui mi ero proiettato lontano dai tuoi occhi. Al loro sguardo nulla ormai doveva essere più deforme di me, se giunsi a dispiacere persino a quella gente con le innumerevoli menzogne usate per ingannare il pedagogo e i maestri e i genitori, tanto era grande il mio amore per il gioco, la mia passione per gli spettacoli frivoli e la smania d’imitare gli attori. Commisi persino qualche furto dalla dispensa e dalla tavola dei miei genitori, ora spinto dalla gola, ora per procurarmi qualcosa da distribuire agli altri fanciulli, che vendevano i loro giochi, sebbene vi trovassero un diletto pari al mio. Nel gioco stesso, dominato dal vano desiderio di eccellere, spesso carpivo arbitrariamente la vittoria con la frode. Eppure nulla ero così restio a sopportare, e nulla redarguivo così aspramente negli altri, se li sorprendevo, come ciò che facevo loro; mentre, se ero io ad essere sorpreso e redarguito, preferivo infierire, piuttosto di cedere. E questa sarebbe l’innocenza dei fanciulli? No, Signore, non lo è, dimmelo tu, Dio mio. È sempre la stessa cosa, che dai pedagoghi e dai maestri, dalle noci e dalle pallottoline e dai passeri si trasferisce ai governatori e ai re, all’oro, ai poderi, agli schiavi, assolutamente la stessa cosa, pur nel succedersi di età più gravi, come succedono alle verghe più gravi supplizi. Perciò tu, re nostro, nella statura dei fanciulli hai approvato soltanto il simbolo dell’umiltà, quando hai detto: “Di chi assomiglia a costoro è il regno dei cieli”.


Ringraziamento a Dio per tutti i suoi doni

20. 31. Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell’universo, a te Dio nostro, grazie, anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l’istinto interiore sull’integrità dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, m’intenerivo all’amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l’ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non io li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, precipitando così nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere.

Libro secondo

IL SEDICESIMO ANNO


L’adolescenza inquieta

Scopo di un ricordo disgustoso

1. 1. Voglio ricordare il mio sudicio passato e le devastazioni della carne nella mia anima non perché le ami, ma per amare te, Dio mio. Per amore del tuo amore m’induco a tanto, a ripercorrere le vie dei miei gravi delitti. Vorrei sentire nell’amarezza del mio ripensamento la tua dolcezza, o dolcezza non fallace, dolcezza felice e sicura, che mi ricomponi dopo il dissipamento ove mi lacerai a brano a brano. Separandomi da te, dall’unità, svanii nel molteplice quando, durante l’adolescenza, fui riarso dalla brama di saziarmi delle cose più basse e non ebbi ritegno a imbestialirmi in diversi e tenebrosi amori. La mia bella forma si deturpò e divenni putrido marciume ai tuoi occhi, mentre piacevo a me stesso e desideravo piacere agli occhi degli uomini.


Fermenti oscuri

2. 2. Che altro mi dilettava allora, se non amare e sentirmi amato? Ma non mi tenevo nei limiti della devozione di anima ad anima, fino al confine luminoso dell’amicizia. Esalavo invece dalla paludosa concupiscenza della carne e dalle polle della pubertà un vapore, che obnubilava e offuscava il mio cuore. Non si distingueva più l’azzurro dell’affetto dalla foschia della libidine. L’uno e l’altra ribollivano confusamente nel mio intimo e la fragile età era trascinata fra i dirupi delle passioni, sprofondata nel gorgo dei vizi. La tua collera si era aggravata su di me senza che me ne avvedessi. Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza.

2. 3. Chi avrebbe potuto temperare il mio affanno, volgere in un bene per me le fugaci bellezze delle creature più basse, proporre una meta ai piaceri che ne traevo, in modo che i flutti della mia età non montassero oltre il lido del matrimonio, contenendosi, se non potevano placarsi, entro i termini della procreazione di una prole secondo il precetto della tua legge? Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te. Oh, almeno fossi stato più desto ad ascoltare i tuoni delle tue nubi: In questo stato soffriranno tuttavia le tribolazioni della carne che io vorrei invece risparmiarvi; e: È bene per l’uomo non toccare donna; e: Chi non ha moglie, pensa alle cose di Dio, come piacere a Dio; chi invece è vincolato dal matrimonio, pensa alle cose del mondo, come piacere alla moglie. Più desto ad ascoltare queste voci e mutilato per amore del regno dei cieli, avrei atteso più lietamente i tuoi amplessi.

2. 4. Invece mi scatenai, sventurato, abbandonandomi all’impeto della mia corrente e staccandomi da te; superai tutti i limiti della tua legge senza sfuggire, naturalmente, alle tue verghe: e quale mortale vi riuscirebbe? Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l’avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te. Dove ero, in quale esilio remoto dalle dolcezze della tua casa trascorsi quel sedicesimo anno di età della mia carne, quando prese il dominio su di me, ed io mi arresi a lei totalmente, la follia della libidine, ammessa dall’onorabilità pervertita degli uomini, ma non dalle tue leggi? I miei genitori non si curarono di contenere quella frana col matrimonio; si curarono unicamente che imparassi a comporre i migliori sermoni e a convincere con belle parole.


Interruzione degli studi

3. 5. Quell’anno però i miei studi erano stati interrotti. Richiamato da Madaura, una città vicina, ove in precedenza mi ero trasferito per studiare letteratura ed eloquenza, ora si andavano raccogliendo i fondi necessari al mio trasferimento in una sede più remota, Cartagine, secondo le ambizioni, piuttosto che le possibilità di mio padre, cittadino alquanto modesto del municipio di Tagaste. Ma a chi narro questi fatti? Non certo a te, Dio mio. Rivolgendomi a te, li narro ai miei simili, al genere umano, per quella piccolissima particella che può imbattersi in questo mio scritto. E a quale scopo? All’unico scopo che io ed ogni lettore valutiamo la profondità dell’abisso da cui dobbiamo lanciare il nostro grido verso di te. Eppure cos’è più vicino alle tue orecchie di un cuore che si confessa e di una vita sostanziata di fede? Chi non faceva allora alti elogi di un uomo, mio padre, il quale per mantenere agli studi suo figlio in una città lontana spendeva più di quanto permettesse il patrimonio familiare? Molti cittadini assai più ricchi di lui non affrontavano per i loro figli un sacrificio simile. Eppure quello stesso padre non si preoccupava di conoscere intanto come crescessi ai tuoi occhi o quanto fossi casto, purché fossi forbito nel parlare, o piuttosto, sfornito della tua scienza, o Dio, unico vero e buon padrone del tuo campo, il mio cuore.


Nell’ozio

3. 6. Quando però nel corso di quel sedicesimo anno tornai presso i miei genitori e dalle strettezze della mia famiglia fui ridotto all’ozio, senza alcun impegno scolastico, i rovi delle passioni crebbero oltre il mio capo senza che fosse là una mano a sradicarli. Anzi quel mio padre, al vedermi un giorno ai bagni ormai cresciuto e già ricoperto dai segni dell’adolescenza inquieta, fu come colto da una gioia smaniosa per i nipoti che gliene potevano nascere e lo riferì festante a mia madre, festante, dico, dell’ebbrezza in cui il mondo ha affogato il ricordo di te, suo creatore, per amare in tua vece la tua creatura, ebbrezza del vino occulto della sua volontà perversamente inclinata alle bassezze. Ma nel cuore di mia madre avevi già posto mano all’erezione del tuo tempio e alle fondamenta della tua santa casa, mentre il padre era ancora catecumeno, e da poco per di più. Essa quindi trasalì in un’apprensione e trepidazione pia, paventando per me, sebbene non ancora battezzato, le vie storte in cui cammina chi volge a te la schiena e non il volto.


Ammonimenti e sollecitudini della madre

3. 7. Ahimè, come oso dire che tu, Dio mio, tacesti mentre mi allontanavo da te? Tacevi davvero per me in quei momenti? Di chi erano dunque, se non tue, le parole che facesti risuonare alle mie orecchie per la bocca di mia madre, tua fedele? Ma nessuna scese di là nel mio cuore per tradursi in pratica. Essa mi chiedeva - come ricordo dentro di me l’incalzante sollecitudine dei suoi ammonimenti! - di astenermi dagli amorazzi e specialmente dall’adulterio con qualsiasi donna. Io li prendevo per ammonimenti di donnicciuola, cui mi sarei vergognato di ubbidire. Invece venivano da te: io ignaro pensavo che tu tacessi e lei parlasse, mentre tu non tacevi per me con la sua voce, sebbene in lei io disprezzassi te, io, io, figlio suo, figlio dell’ancella tua e servo tuo. Nella mia ignoranza procedevo a capofitto verso l’abisso, tanto cieco da vergognarmi fra i miei coetanei di non essere spudorato quanto loro. Al sentirli esaltare le loro dissolutezze e tanto più gloriarsene quanto più erano indegne, cercavo di fare altrettanto, non solo per il piacere dell’atto in sé, ma altresì della lode che ne ottenevo. Che altro merita biasimo, se non il vizio? E io per evitare il biasimo m’immergevo nel vizio. Quando mancavo di colpe che mi uguagliassero ai malvagi, inventavo fatti che non avevo fatto per timore di apparire tanto più vile quanto più ero innocente e di essere giudicato tanto più spregevole quanto più ero casto.

3. 8. In tale compagnia percorrevo la mia strada fra le piazze di Babilonia, avvoltolandomi nel suo fango come fosse cinnamomo e unguenti preziosi. E per impantanarmi più tenacemente nel suo mezzo, il nemico invisibile mi calcava, seducendomi poiché mi lasciavo facilmente sedurre. La donna che era già fuggita dal centro di Babilonia, ma ancora si attardava negli altri quartieri, la madre della mia carne, mi raccomandò, sì, il pudore, ma non si curò di rinserrare nei limiti dell’affetto coniugale, se non si poteva reciderla fino al vivo, la mia virilità, di cui suo marito le aveva parlato, e che, lo sentiva, già allora funesta, sarebbe divenuta pericolosa in avvenire. Non se ne curò per timore che le pastoie coniugali inceppassero le mie prospettive, non la prospettiva della vita futura, che mia madre fondava in te, ma le prospettive degli studi, ove entrambi i miei genitori ambivano troppo che io progredissi, l’uno perché di te non pensava quasi nulla e di me pensava delle vacuità, l’altra perché riteneva che la formazione culturale allora in voga non solo sarebbe nessun detrimento, ma anzi alcun giovamento a portarmi fino a te. A queste conclusioni, almeno, giungo oggi rievocando come posso l’indole dei miei genitori. Essi allentavano anche le briglie ai miei divertimenti oltre il tenore di una severità ragionevole, dando sfogo alle mie varie passioni; e così tutt’intorno a me si stendeva una grande foschia, che mi toglieva, Dio mio, la visione del sereno della tua verità. E come da adipe rampollava la mia iniquità.

Un furto di pere

L’impresa

4. 9. La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nei cuori degli uomini, che nemmeno la loro malvagità può cancellare. Quale ladro tollera di essere derubato da un ladro? Neppure se ricco, e l’altro costretto alla miseria. Ciò nonostante io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non forse dalla penuria e disgusto della giustizia e dalla sovrabbondanza dell’iniquità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità; né mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in se stessi. Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d’aspetto e sapore per nulla allettanti. In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell’ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell’abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù, tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità. Era laida e l’amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l’oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in se stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà.


Natura e moventi del peccato

5. 10. Le belle forme nei corpi e l’oro e l’argento e ogni cosa simile attraggono gli occhi col loro aspetto; nel senso del tatto importa moltissimo la consonanza della carne e del suo oggetto, come gli altri sensi ricevono dagli oggetti una loro specifica e conveniente modificazione. Anche l’onore mondano, il potere, il dominio posseggono una loro dignità, origine fra l’altro nell’uomo del desiderio di vendetta. Tuttavia per ottenere tutti questi beni non occorre allontanarsi da te, Signore, né deviare dalla tua legge. La vita stessa che viviamo qui sulla terra possiede un suo fascino, che le deriva da una certa misura di grazia sua propria e dall’armonia con tutte le altre minime bellezze dell’universo. E l’amicizia fra gli uomini non è forse deliziosa per l’amabile nodo con cui unifica molte anime? Tutte queste cose e le altre ad esse simili sono fonte di peccato soltanto nel caso che ad esse tendiamo smoderatamente e per esse, che sono beni infimi, trascuriamo gli altri migliori e sommi: te, Signore Dio nostro, e la tua verità e la tua legge. Perché, sì, anche questi infimi beni dilettano, ma non quanto il mio Dio, autore di ogni cosa, in cui appunto gode l’uomo giusto e che appunto è la delizia dei cuori retti.

5. 11. Perciò nella ricerca del movente di un delitto non si è paghi di solito, se non quando si scopre la brama di ottenere l’uno o l’altro dei beni che abbiamo definito minimi, oppure il timore di perderlo, perché essi, sebbene abietti e vili a paragone dei beni superiori e beatificanti, posseggono una loro bellezza e grazia. Qualcuno ha ucciso: perché l’ha fatto? Vagheggiava la moglie o il podere del morto, oppure cercò di predare per vivere, oppure temeva di perdere uno di questi beni per mano del morto, oppure era arso dal desiderio di vendicare un affronto subito. Avrebbe mai perpetrato un omicidio senza ragione, per il solo piacere di uccidere un uomo? Chi lo crederebbe? Persino alle follie e alle crudeltà estreme di un uomo, del quale fu detto che sfogava abitualmente per nulla la propria malvagità e crudeltà, fu premessa una ragione: “perché nell’inattività - dice il suo storico - non s’intorpidisse la mano o lo spirito”. Domandati anche questo: a che scopo? perché questo? Evidentemente per ottenere mediante la pratica dei delitti e una volta padrone della città onori, potere, ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dalle angustie che gli derivavano dall’esiguità del patrimonio e dal rimorso dei delitti. Dunque neppure Catilina amò i propri delitti, ma altro: lo scopo, cioè, per cui li commetteva.


I peccati, simulazione della potenza di Dio

6. 12. Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto? Non vi trovo davvero bellezza alcuna, non dico la bellezza insita nella giustizia e nella saggezza, o nell’intelletto umano, nella memoria, nella sensibilità, nella vita vegetativa, o la bellezza e la grazia propria nel loro ordine agli astri e alla terra e al mare, popolati di creature che si succedono nella nascita e nella morte, e nemmeno quella difettosa e irreale con cui ci seducono i vizi.

6. 13. Infatti l’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira, se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore; ma chi è davvero temibile, se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando o dove o come o da chi? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore? Il lusso vuol essere chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino? o qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? e dove si è saldamente sicuri, se non al tuo fianco? L’uggia si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse cogliere.

6. 14. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova, se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te. Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell’universo e quindi non è possibile allontanarsi in alcun modo da te. Cosa amai dunque in quel furto e in che cosa imitai, sia pure in male e alla rovescia, il mio Signore? Mi compiacqui di violare la sua legge con la malizia, non potendolo fare con la potenza? Il prigioniero voleva imitare una libertà monca, compiendo a man salva un’azione illecita con una simulazione oscura di onnipotenza? Eccolo questo servo fuggitivo dal suo padrone, che ha raggiunto un’ombra. Oh marciume, oh mostruosità di vita, oh abisso di morte! Poté mai piacermi l’illecito per l’illecito, e null’altro?


Perdono e pietà per il peccatore

7. 15. Come rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso. Quale uomo conscio della propria debolezza osa attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell’innocenza che serba, e quindi ti ama meno, quasi che meno abbia avuto bisogno della misericordia con cui condoni i peccati a chi si rivolse a te? Chi dunque alla tua chiamata seguì la tua voce ed evitò le colpe che qui mi vede ricordare e confessare, non mi schernisca se, malato, fui guarito dal medico che lo preservò dai malanni, o meglio, da più gravi malanni. Perciò dovrà amarti altrettanto, anzi più davvero di me, poiché vede come da tanta prostrazione di peccati io mi libero ad opera di Colui che, come vede, in tanta prostrazione di peccati non lo lasciò avviluppare.


Le attrattive del furto

8. 16. Quale frutto raccolsi allora, miserabile, da ciò che ora rievoco non senza arrossire, e specialmente da quel furto ove amai solo il furto e null’altro? E anch’esso era nulla, quindi maggiore era la mia miseria. Tuttavia non l’avrei compiuto da solo. Ricordo bene qual era il mio animo a quel tempo, da solo non l’avrei assolutamente compiuto. In quell’azione mi attrasse anche la compagnia di coloro con cui la commisi. Dunque non amai null’altro che il furto. Ma sì, null’altro, poiché anche una tale società non è nulla. Cos’è in realtà? Chi può istruirmi in merito, se non Colui che illumina il mio cuore e ne squarcia le tenebre? Come accade che mi viene in mente d’indagare, di discutere, di considerare questi fatti? Se in quel momento avessi amato i frutti che rubai e ne avessi desiderato il sapore, avrei potuto compiere anche da solo, se si poteva da solo, quel misfatto, appagando il mio desiderio senza sfregarmi a qualche complice per infiammare il prurito della mia brama. Senonché i frutti non avevano nessuna attrattiva per me; dunque ne aveva soltanto l’impresa e a suscitarla era la compagnia di altri che peccavano insieme con me.


Il sapore della complicità

9. 17. Quale sentimento provavo allora in cuore? Senza dubbio un sentimento proprio molto turpe, ed era una sventura per me il provarlo. Ma pure in che cosa consisteva? I peccati, chi li capisce?. Era il riso che ci solleticava, per così dire, il cuore al pensiero di ingannare quanti non sospettavano un’azione simile da parte nostra e ne sarebbero stati fortemente contrariati. Perché dunque godevo di non agire da solo? Forse perché non è facile ridere da soli? Certo non è facile, però avviene talvolta di essere sopraffatti dal riso anche stando soli, tra sé e sé, alla presenza di nessuno, se appare ai nostri sensi o al pensiero una cosa troppo ridicola. Invece io quell’atto da solo non l’avrei compiuto, non l’avrei assolutamente compiuto da solo. Ecco dunque davanti a te, Dio mio, il ricordo vivente della mia anima. Da solo non avrei compiuto quel furto in cui non già la refurtiva ma il compiere un furto mi attraeva; compierlo da solo non mi attraeva davvero e non l’avrei compiuto. Oh amicizia inimicissima, seduzione inesplicabile dello spirito, avidità di nuocere nata dai giochi e dallo scherzo, sete di perdita altrui senza brama di guadagno proprio o avidità di vendetta! Uno dice: “Andiamo, facciamo”, e si ha pudore a non essere spudorati.


Desiderio d’innocenza e di pace

10. 18. Chi può districare un nodo così tortuoso e aggrovigliato? È sudicio, non voglio più riflettervi, non voglio guardarlo. Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entra nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria.

Libro terzo

STUDENTE A CARTAGINE


Svaghi studenteschi

Desiderio e godimento d’amore

1. 1. Giunsi a Cartagine, e dovunque intorno a me rombava la voragine degli amori peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo di amare e con più profonda miseria mi odiavo perché non ero abbastanza misero. Amoroso d’amore, cercavo un oggetto da amare e odiavo la sicurezza, la strada esente da tranelli. Avevo dentro di me un appetito insensibile al cibo interiore, a te stesso, Dio mio, e quell’appetito non mi affamava, bensì ero senza desiderio di cibi incorruttibili, né già per esserne pieno; anzi, quanto più ne ero digiuno, tanto più ne ero nauseato. Malattia della mia anima: coperta di piaghe, si gettava all’esterno con la bramosia di sfregarsi miserabilmente a contatto delle cose sensibili, che pure nessuno amerebbe, se non avessero un’anima. Amare ed essere amato mi riusciva più dolce se anche del corpo della persona amata potevo godere. Così inquinavo la polla dell’amicizia con le immondizie della concupiscenza, ne offuscavo il chiarore con il Tartaro della libidine. Sgraziato, volgare, smaniavo tuttavia, nella mia straripante vanità, di essere elegante e raffinato. Quindi mi gettai nelle reti dell’amore, bramoso di esservi preso. Dio mio, misericordia mia, nella tua infinita bontà di quanto fiele non ne aspergesti la dolcezza! Fui amato, raggiunsi di soppiatto il nodo del piacere e mi avvinsi giocondamente con i suoi dolorosi legami, ma per subire i colpi dei flagelli arroventati della gelosia, dei sospetti, dei timori, dei furori, dei litigi.


L’insana passione del teatro

2. 2. Mi attiravano gli spettacoli teatrali, colmi di raffigurazioni delle mie miserie e di esche del mio fuoco. Come avviene che a teatro l’uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche? e che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere? Strana follia, non altro, è questa. A quei casi si commuove infatti di più chi è meno immune dalle passioni che agitano; eppure, mentre di solito si definisce miseria la propria sofferenza, le sofferenze per gli altri si definiscono misericordia. Ma infine, dov’è la misericordia nella finzione delle scene? Là non si è sollecitati a soccorrere, ma soltanto eccitati a soffrire, e si apprezza tanto più l’attore di quelle figurazioni, quanto più si soffre, e se la rappresentazione di sventure remote nel tempo oppure immaginarie non lo fa soffrire, lo spettatore si allontana disgustato e imprecando; se invece soffre, rimane attento e godendo piange.


La compassione

2. 3. Dunque amiamo anche la sofferenza. Indubbiamente qualsiasi uomo vuole godere, e misero non piace esserlo a nessuno, però ci piace di essere pietosi: forse perché, non essendovi misericordia senza sofferenza, per ciò solo amiamo di soffrire? Anche questo è un rivo che sgorga dall’amicizia, ma dove diretto? dove corre? perché sfocia in un fiume di pece bollente, in gorghi immani di oscuri piaceri, ove si muta e trasforma per proprio impeto, deviando e decadendo dalla sua limpidezza celeste? Bisogna dunque ripudiare la misericordia? Niente affatto. Amiamo talvolta la sofferenza, ma, anima mia, guàrdati dall’impurità tenendoti sotto la protezione del Dio mio, il Dio dei padri nostri, degno di lode ed esaltato per tutti i secoli. Guardati dall’impurità. Ancora oggi infatti provo misericordia; ma allora, nei teatri, partecipavo alla gioia degli amanti allorché si godevano l’un l’altro immondamente, anche se ciò avveniva soltanto nell’illusione del gioco scenico, e viceversa, quasi misericordioso, mi contristavo allorché si lasciavano, in entrambi i casi provando diletto tuttavia. Oggi invece provo maggior compassione di chi gode nell’immondezza, che non di chi si crede sventurato per la privazione di un piacere dannoso o la perdita di una triste felicità. Qui si ha certamente una misericordia più vera; ma la sua sofferenza non produce diletto. Se si loda chi soffre della miseria altrui perché compie un dovere di carità, tuttavia una misericordia genuina preferirebbe che mancassero i motivi di sofferenza. Soltanto se esistesse una bontà maligna, che non può esistere, potrebbe anche, chi prova una misericordia vera e sincera, desiderare l’esistenza dei miseri per provarne misericordia. Si può dunque approvare il dolore in alcune circostanze, mai amarlo. Tu, Signore Dio, che ami le anime, ne provi una misericordia infinitamente più pura e incorruttibile della nostra, perché nessun dolore ti ferisce. Ma chi è capace di tanto?.


Ricerca di sensazioni

2. 4. Io allora, misero, amavo soffrire e cercavo occasioni di sofferenza. Nelle afflizioni altrui, e sia pure le afflizioni fittizie di un mimo, il gesto del commediante mi piaceva e attraeva tanto più violentemente, quante più lacrime mi strappava. E che c’è di strano, se, pecora infelice, errabonda lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, un’orrenda scabbia mi deturpava? Di qui il mio amore per il dolore, non già tale da incidere troppo profondamente nel mio animo, perché non amavo patire le pene che amavo contemplare; ma da graffiarmi, per così dire, la pelle in superficie all’ascolto e alla vista di una finzione. Senonché, come avviene al grattare delle unghie, ne seguivano gonfiori brucianti, e infezioni e un orrendo marciume. Ma quella vita era vita, Dio mio?


Misericordia di Dio

3. 5. Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell’abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso.


Intemperanze dei compagni di scuola

3. 6. Anche gli studi nobili, com’erano chiamati, avevano il loro sbocco nel foro litigioso, cioè miravano a rendermi eccellente ove tanto più si è lodati, quanto più si è frodatori. La cecità degli uomini è così grande, che persino della propria cecità si gloriano. Ormai ero il primo alla scuola di retorica e ne provavo una gioia altera, mi gonfiavo di vento, sebbene fossi molto più quieto, Signore, tu lo sai, e rimanessi affatto estraneo ai disordini provocati dai “perturbatori dell’ordine”, epiteto sinistro e diabolico che pure equivale a un’insegna di buona educazione, fra i quali vivevo. Nella mia impudenza serbavo dunque un certo pudore, se non ero come loro. Mi trovavo con loro, mi piaceva talvolta la loro compagnia, ma le loro imprese mi ripugnavano sempre, i disordini in cui perseguitavano spavaldamente la timidezza dei novellini e li atterrivano con le loro burle non ad altro intese, che a pascere la loro maligna festevolezza. Nessun’altra è più somigliante alla condotta dei demòni, perciò non potevano ricevere appellativo più giustificato che quello di perturbatori dell’ordine, perturbati com’erano essi per primi e disturbati da spiriti beffardi, che occultamente li deridevano e seducevano proprio nell’atto di godere delle derisioni e delle beffe altrui.

Prime impressioni di studio

La lettura dell’Ortensio di Cicerone

4. 7. Fu in tale compagnia che trascorsi quell’età ancora malferma, studiando i testi di eloquenza. Qui bramavo distinguermi, per uno scopo deplorevole e frivolo quale quello di soddisfare la vanità umana; e fu appunto il corso normale degli studi che mi condusse al libro di un tal Cicerone, ammirato dai più per la lingua, non altrettanto per il cuore. Quel suo libro contiene un incitamento alla filosofia e s’intitola Ortensio. Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te. Non usavo più per affilarmi la lingua, per il frutto cioè che apparentemente ottenevo con il denaro di mia madre: avevo allora diciotto anni e mio padre era morto da due; non per affilarmi la lingua dunque usavo quel libro, che mi aveva del resto conquistato non per il modo di esporre, ma per ciò che esponeva.

4. 8. Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa tu volessi fare di me. La sapienza sta presso di te, ma amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con quel nome grande, fascinoso e onesto i propri errori. Ebbene, quasi tutti coloro che sia al suo tempo, sia prima agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. Così vi è illustrato l’ammonimento salutare che ci diede il tuo spirito per bocca del tuo servitore buono e pio: Attenti che nessuno v’inganni mediante la filosofia e la vana seduzione propria della tradizione umana, propria dei princìpi di questo mondo, ma non propria di Cristo, perché in Cristo sussiste tutta la pienezza della divinità corporeamente. A quel tempo, lo sai tu, lume della mia mente, io ignoravo ancora queste parole dell’Apostolo; pure, una cosa sola bastava a incantarmi in quell’incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m’infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l’una o l’altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov’era. Così una sola circostanza mi mortificava, entro un incendio tanto grande: l’assenza fra quelle pagine del nome di Cristo. Quel nome per tua misericordia, Signore, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva devotamente succhiato e conservava nel suo profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente.


Incontro deludente con le Sacre Scritture

5. 9. Perciò mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l’ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto l’impressione di un’opera indegna del paragone con la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell’opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.

Adesione al manicheismo

Verità e menzogna

6. 10. Così finii tra uomini orgogliosi e farneticanti, carnali e ciarlieri all’eccesso. Nella loro bocca si celavano i lacciuoli del diavolo e un vischio confezionato mescolando le sillabe del tuo nome con quelle del Signore Gesù Cristo e del Paracleto, lo Spirito Santo nostro consolatore. Questi nomi erano sempre sulle loro labbra, ma soltanto come suoni e strepito della lingua; per il resto il loro cuore era vuoto di verità. Ripetevano: verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano, e dicevano il falso non su te soltanto, che sei davvero la verità, ma altresì su questi princìpi di questo mondo, che da te sono creati, un argomento su cui avrei dovuto superare i filosofi anche quando dicevano il vero, in nome del tuo amore, Padre mio sommamente buono, bellezza di ogni bellezza. O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz’altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l’anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell’anima mia.

6. 11. Dov’eri dunque allora, e quanto lontano da me? Io lontano da te vagavo escluso persino dalle ghiande dei porci che di ghiande pascevo. Quanto sono preferibili le favolette dei maestri di scuola e dei poeti, che quelle trappole! I versi, la poesia, Medea che vola, sono certo più utili dei cinque elementi variamente trasformati per le cinque caverne delle tenebre, mere invenzioni, che però uccidono chi vi crede. Dai versi, dalla poesia, posso anche trarre reale alimento. Se allora declamavo la storia di Medea che vola, non la davo per vera, come non vi credevo io stesso sentendola declamare. Invece alle altre ho creduto, per mia sventura; lungo quei gradini fui tratto sino agli abissi infernali, febbricitante, tormentato dall’arsura della verità, mentre, Dio mio, lo riconosco davanti a te, che avesti misericordia di me quando ancora non ti riconoscevo, mentre cercavo te non già con la facoltà conoscitiva della mente, per la quale volesti distinguermi dalle belve, ma col senso della carne. E tu eri più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta. M’imbattei in quella donna avventata e sprovvista di saggez-za, che nell’indovinello di Salomone sta sulla porta, seduta sopra una seggiola, e dice: “Assaporate i pani riposti e gustate l’acqua rubata, così dolce”. Costei mi sedusse poiché mi trovò fuori, insediato nell’occhio della mia carne e intento a ruminare fra me le cose che per quella via avevo ingerito.


La polemica manichea

7. 12. Ignaro infatti dell’altra realtà, la vera, ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano quale fosse l’origine del male, se Dio fosse circoscritto da una forma corporea e avesse capelli e unghie, se si dovesse stimare giusto chi teneva contemporaneamente più mogli, uccideva uomini e sacrificava animali. Io, ignorante in materia, ne rimanevo scosso. Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto. Dove, per altro, avrei potuto vedere la verità, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi, l’intelletto oltre i fantasmi? E non sapevo che Dio è spirito, non un essere dotato di membra estese in lunghezza e larghezza, e di massa: perché le parti di una massa sono ciascuna minore dell’insieme, e se pure la massa sia infinita, è minore nelle parti definite entro un certo spazio che nell’insieme infinito, né una massa è tutta intiera dovunque, come lo spirito, come Dio. Cosa poi vi sia in noi che ci fa essere e ci fa dire giustamente nella Scrittura fatti a immagine di Dio, lo ignoravo totalmente.


Sviluppo della moralità

7. 13. Non conoscevo nemmeno la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle usanze, ma in base alla legge rettissima di Dio onnipotente; cui si devono informare i costumi dei paesi e dei tempi, paese per paese, tempo per tempo, mentre essa non muta in ogni paese e in ogni tempo, non è diversa in luoghi diversi, né diversamente stabilita in circostanze diverse; secondo la quale furono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti gli altri uomini lodati dalla bocca di Dio, mentre sono giudicati disonesti dagli ignoranti, che giudicano secondo la giornata umana e misurano i costumi del genere umano lungo tutta la sua storia sulla base dei propri costumi parziali e particolari. Così farebbe un tale, che, inesperto di armature, non conoscendo le membra per cui ogni pezzo fu predisposto, volesse coprire con un gambale la testa e calzare ai piedi l’elmo, brontolando perché non si accomodano; oppure che, in un giorno dichiarato festivo al pomeriggio, si adirasse perché non gli concedono di esporre in vendita qualche merce, mentre era concesso al mattino; oppure, vedendo che nella stessa casa un servo maneggia un oggetto che al coppiere non si permette di toccare, o dietro la stalla si compiono certe faccende, che davanti alla mensa sono vietate, s’indignasse perché, unica essendo l’abitazione e unico il servizio, non dappertutto e non tutti hanno le medesime attribuzioni. Non diversi sono costoro, che s’indignano all’udire come in quell’antica età erano lecite ai giusti certe azioni, che in questa non sono lecite ai giusti; e come Dio desse precetti diversi a quegli uomini e a questi per motivi contingenti, mentre sia gli uni che gli altri ubbidiscono alla medesima giustizia. Non vedono dunque come nella stessa persona nella stessa giornata nello stesso edificio ad ognuna delle membra conviene una certa cosa, alle altre un’altra; e come una cosa lecita da gran tempo non lo è più dopo un’ora, un atto permesso o comandato in quel certo angolo, in quest’altro pur così vicino è vietato o punito? Diremo che la giustizia è varia e mutevole? No, ma è il tempo da essa regolato che non procede sempre col medesimo passo: non per nulla è il tempo. Ora, gli uomini, la cui vita è breve sulla terra, incapaci di rapportare col discernimento i motivi validi nei secoli precedenti e fra gli altri popoli di cui non hanno esperienza, a quelli di cui hanno esperienza; capaci invece di vedere prontamente in un corpo o una giornata o una casa ciò che conviene a un certo membro, a un certo momento, a un certo luogo o persona, nel primo caso si disgustano, nel secondo subiscono.

7. 14. Io stesso ignoravo allora queste verità e non le percepivo. Esse dardeggiavano da ogni lato i miei occhi e non le vedevo. Nel declamare una poesia non mi era lecito collocare un piede qualsiasi in un punto qualsiasi, bensì dovevo usare diversi piedi secondo i diversi metri, ed anche nel medesimo verso non sempre il medesimo piede; ciò nonostante l’arte stessa che regolava la mia declamazione non seguiva princìpi diversi nei diversi punti, ma costituiva un sistema unitario. Non scorgevo però che la giustizia, cui ubbidivano uomini dabbene e santi, costituiva essa pure un sistema unitario di precetti in una sfera ben più eccellente e sublime; che, immutabile in ogni sua parte, non li assegna né impone tutti simultaneamente a tempi diversi, ma quelli soltanto che sono appropriati a ciascuno; e nella mia cecità rimproveravo ai pii patriarchi non soltanto di aver agito secondo i comandi e le ispirazioni di Dio nel presente, ma di avere anche preannunziato il futuro, secondo le rivelazioni avute da lui.

Stabilità della legge di natura e varietà delle convenienze

8. 15. C’è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, e amare il prossimo come te stesso? Dunque si devono detestare e punire dappertutto e sempre i vizi contrari alla natura, per esempio i vizi dei sodomiti, che se pure tutti i popoli della terra li praticassero, la legge divina li coinvolgerebbe in una medesima condanna per il loro misfatto, poiché non ha creato gli uomini per un tale uso di se stessi. È infatti una violazione del vincolo che deve sussistere tra noi e Dio la contaminazione della natura medesima, di cui egli è l’autore, per una passione perversa. Quanto alle azioni che sono viziose perché contravvengono alle usanze umane, si devono evitare, uniformandosi alla diversità delle usanze stesse, per non violare con la brama capricciosa del singolo, cittadino o straniero, il patto stabilito dalla consuetudine o dalla legge fra gli abitanti di una medesima città o nazione: la discordanza infatti di qualsiasi parte col tutto è una deformità. Ma quando è Dio stesso a dare un ordine contrario a un’usanza o a un patto qualsiasi, bisogna metterlo in pratica, anche se in quel luogo non fu mai praticato; e se fu trascurato, bisogna restaurarlo, se non fu stabilito, bisogna stabilirlo. A un re è lecito impartire nella città di cui ha il regno un ordine mai impartito da nessuno prima di lui né da lui stesso prima di allora. L’ubbidirvi, poi, non è un atto contrario alla convenzione su cui si regge la città; sarebbe anzi contrario alla convenzione il non ubbidirvi, dal momento che la convenzione su cui si regge ogni umana società è l’ubbidienza al proprio re. Quanto più dunque si dovrà servire senza esitazione Dio, re di tutto il creato, in ciò che comanda! Come fra i poteri della società umana il maggiore precede il minore quanto all’ubbidienza dovuta, così Dio precede tutti.

8. 16. Le stesse considerazioni valgono per le offese al prossimo, ove opera la brama di nuocere con ingiuria o con danno, e in entrambi i casi o per vendicarsi, come avviene tra nemici; o per ottenere un bene altrui, come avviene al ladrone che assale un viandante; o per evitare un danno, come avviene per l’uomo che è temuto; oppure per invidia, come avviene al più povero verso chi è più fortunato, o a chi ebbe successo in qualcosa e teme o geme di avere un uguale; oppure per il semplice gusto del male altrui, come avviene agli spettatori degli incontri gladiatori o a chi deride e si beffa del prossimo. Queste le tre fonti dell’ingiustizia. Esse rampollano dalla libidine del potere, della curiosità e del senso, ora da una sola, ora da due, ora da tutte tre insieme. Allora si vive male, contro i primi tre e gli altri sette comandamenti, lo strumento a dieci corde, il tuo decalogo, Dio altissimo e dolcissimo. Quali vizi possono toccare te, invece, che non sei soggetto a corruzione, quali delitti offendere te, cui nessuno può nuocere? Tu punisci le colpe che gli uomini commettono a proprio danno. Essi anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro la propria anima, e la loro iniquità s’inganna, guastando e pervertendo la propria natura creata e ordinata da te; facendo un uso smoderato del lecito, oppure bramando ardentemente l’illecito per farne un uso contrario alla natura. Sono anche rei in cuor loro quanti imprecano contro di te e scalciano al tuo pungolo, oppure godono di aver infranto audacemente le barriere della società umana con private consorterie e rapine secondo i propri gusti e le proprie avversioni. Ciò avviene quando ti si abbandona, fonte della vita, unico vero creatore e regolatore dell’universo, amandone per orgoglio individuale una parziale falsa unità. E così si ritorna in te con la pietà umile, e tu ci purifichi dalla cattiva abitudine, indulgente verso i peccati che si confessano, incline ad ascoltare i gemiti di chi è inceppato ai piedi, ci sciogli dai lacci che ci siamo da noi stessi applicati, affinché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà per ingordigia di possedere dell’altro e col pericolo di perdere tutto per colpa di un amore più grande verso il nostro bene particolare che verso te, bene universale.


Complessità degli atti umani

9. 17. Ma accanto ai vizi personali, ai misfatti e alle molte offese recate al prossimo, esistono i peccati di chi procede sulla retta via, biasimati dai buoni giudici secondo la legge della perfezione, ma pure apprezzati per la speranza del frutto futuro, come è apprezzata l’erba per il grano. Esistono poi certe azioni che assomigliano a vizi o a misfatti e tuttavia non sono peccati, poiché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio umano. È il caso di chi si procura qualche bene per usarne nella vita a tempo opportuno, ma forse agisce per il gusto di possedere; o di chi, avendone legittimamente la potestà, punisce un reo per correggerlo, ma forse agisce per il gusto di nuocere. Esistono dunque molte azioni che sembrano riprovevoli agli uomini, mentre le approva la tua testimonianza, e molte che gli uomini lodano, e tu con la tua testimonianza condanni. Spesso sono diversi l’aspetto di un’azione e le intenzioni di chi agisce, come pure il groviglio delle circostanze, a noi ignote. Ma se tu imponi all’improvviso un’azione inusitata e imprevista, addirittura vietata da te stesso in precedenza, chi dubiterà dell’obbligo di compierla, anche se non riveli al momento la causa della tua imposizione e se contrasta col patto sociale di un gruppo di uomini? Unica giusta società umana è infatti quella che serve a te; ma beati quanti comprendono che da te viene l’ordine, perché ogni atto dei tuoi servitori o realizza quanto richiede il presente o preannunzia quale sarà il futuro.


Ridicole credenze manichee

10. 18. Ignaro di tutto ciò, io deridevo i tuoi santi servi e profeti; e cosa ottenevo con la mia derisione se non la tua derisione? Poco alla volta, ma percettibilmente, mi ero lasciato indurre a credere scempiaggini come queste: che il fico, quando viene colto, si mette a piangere lacrime di latte, e così pure sua madre la pianta; se però mangia il fico, da altri naturalmente, e non da lui, delittuosamente colto, un santone, da quel fico egli impasta nelle viscere e fra i gemiti dell’orazione erutta degli angeli, che dico, delle particelle addirittura di Dio, particelle del sommo e vero Dio, che sarebbero rimaste prigioniere nel frutto, se il dente e il ventre dell’eletto santone non le avessero liberate. Ed io, misero, ho creduto doveroso usare maggior misericordia verso i frutti della terra, che verso gli uomini, a cui sono destinati. Se un affamato non manicheo avesse chiesto di che sfamarsi, un boccone a lui offerto sembrava sufficiente per essere condannati al supplizio capitale.


Un sogno di Monica

11. 19. Ma tu stendesti la tua mano dall’alto e traesti la mia anima da un tale abisso di tenebre, mentre per amor mio piangeva innanzi a te mia madre, tua fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli. Grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te essa vedeva la mia morte; e tu l’esaudisti, Signore. L’esaudisti, non spregiasti le sue lacrime, che rigavano a fiotti la terra sotto i suoi occhi dovunque pregava. Tu l’esaudisti: perché, da chi le venne il sogno consolatore, per il quale accettò di vivere con me e avere con me in casa la medesima mensa, che da principio aveva rifiutata per avversione e disgusto del mio traviamento blasfemo? Le sembrò, dunque, di essere ritta sopra un regolo di legno, ove un giovane radioso e ilare le andava incontro sorridendole, mentre era afflitta, accasciata dall’afflizione. Il giovane le chiedeva i motivi della sua mestizia e delle lacrime che versava ogni giorno, più con l’intento di ammaestrarla, come suole accadere, che d’imparare; ed ella rispondeva di piangere sulla mia perdizione. Allora l’altro la invitava, per tranquillizzarla, e la esortava a guardarsi attorno: non vedeva che là dov’era lei ero anch’io? Ella guardò e mi vide ritto al suo fianco sul medesimo regolo. Quale l’origine del sogno, se non il tuo orecchiare al suo cuore, o bontà onnipotente, che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno?

11. 20. E quale l’origine di quest’altro fatto: che dopo avermi narrato il suo sogno, appunto, e mentre io m’ingegnavo a trarlo a questo significato: che era lei piuttosto a non dover disperare di essere un giorno come me; ebbene, subito, senza un attimo di esitazione, esclamò: “No, non mi fu detto: là dov’è lui sarai anche tu; ma: là dove sei tu sarà anche lui”. Ti confesso, Signore, questo mio ricordo, in quanto mi rammento, né mai ne feci mistero, che ancor più del sogno in sé mi scosse questa tua risposta per bocca di mia madre sveglia. Essa non si smarrì di fronte a una così sottile, ma falsa interpretazione e vide così presto ciò che si doveva vedere e io certo non avevo veduto prima delle sue parole. Così proprio in quel sogno e molto tempo prima del vero fu predetto alla pia il gaudio che avrebbe provato in un futuro lontano, per consolarla dell’ansia che la struggeva al presente. Passarono in seguito nove anni, durante i quali io mi avvoltolai in quel fango d’abisso e tenebre d’errore ove ad ognuno dei molti tentativi che feci per risollevarmi, più pesantemente mi abbattevo; eppure quella vedova casta, pia e sobria, quali tu le ami, dalla speranza, certo, resa ormai più alacre, ma al pianto e ai gemiti non meno pronta, persisteva a far lamento per me davanti a te in tutte le ore delle sue orazioni. Le sue preghiere penetravano sino al tuo sguardo, e nondimeno tu mi lasciavi ancora aggirare e raggirare nella caligine.


L’augurio di un vescovo

12. 21. Ricordo un secondo responso che desti nel frattempo, e tralascio molti altri episodi per la fretta di giungere a quelli che più mi urgono perché li confessi, senza dire che molti li ho dimenticati. Dunque ci fu un secondo responso, che desti per bocca di un tuo sacerdote, certo vescovo nutrito nella chiesa ed esperto nei tuoi libri. Pregato da quella donna che si degnasse di trattenersi con me per confutare i miei errori, dissuadermi dai princìpi errati e persuadermi dei giusti, come del resto era solita fare quando per caso trovava una persona adatta, si rifiutò, saggiamente invero, come più tardi capii. Le risposte infatti che ero ancora indocile perché gonfiato dal contatto recente con quella tale eresia e perché avevo già confuso molte persone impreparate mediante certe polemichette, come, aveva saputo da lei. “Ma, soggiunse, lascialo stare dov’è. Prega soltanto il Signore per lui. Scoprirà da se stesso, leggendo, dove sia il suo errore e quanto sia grande la sua empietà”. Contemporaneamente le narrò come egli pure, fanciulletto, fosse stato affidato dalla madre, da loro lusingata, ai manichei e avesse non soltanto letto, ma altresì copiato via via quasi tutti i loro libri. Così aveva scoperto da solo, senza bisogno delle discussioni e delle persuasioni di nessuno, quanto si debba fuggire dalla loro setta, da cui infatti fuggì. Queste parole non bastarono ad acquietare mia madre. Essa anzi insisteva ancor più con implorazioni e lacrime copiose, perché acconsentisse a vedermi, a discutere con me; finché il vescovo, un po’ stizzito e un po’ annoiato, esclamò: “Vattene: possa tu vivere come non può essere che il figlio di tante lacrime perisca”. Queste parole ella accolse, come ricordava poi spesso nei nostri colloqui, quasi fossero risuonate dal cielo.

Libro quarto

INSEGNANTE PER NOVE ANNI A TAGASTE E CARTAGINE


Vanità di retore

Nove anni di superbia e superstizione manichea

1. 1. Trascorremmo questo periodo di nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, cadendo e traendo in agguati, fra inganni subìti e attuati, in preda a diverse passioni, pubblicamente praticando l’insegnamento delle discipline cosiddette liberali, occultamente una religione spuria, superbi nel primo, superstiziosi nella seconda, in entrambi vani; attraverso il primo inseguendo una fama popolare vuota fino agli applausi teatrali, ai certami poetici, a gare per una corona di fieno, a spettacoli frivoli e passioni sregolate; attraverso la seconda cercando la purificazione da queste macchie mediante le vivande che portavamo agli eletti e ai santoni, come li chiamavano, affinché nell’officina del loro ventricolo ne fabbricassero per noi gli angeli e gli dèi nostri liberato-ri. Io seguivo queste pratiche, le compivo insieme ai miei amici, ingannandoli e ingannandomi con loro. Subirò la derisione dei presuntuosi, coloro che non hai ancora prostrati e schiacciati per il loro bene, Dio mio; ma ti confesserò ugualmente le mie infamie a tua lode. Permettimi, ti scongiuro, concedimi di percorrere col ricordo presente gli antichi percorsi del mio errore e di immolarti una vittima di giubilo. Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? e chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te.


Vita pubblica e privata di Agostino in quegli anni

2. 2. In quegli anni insegnavo retorica: vinto cioè dalla mia passione, vendevo chiacchiere atte a vincere cause. Tuttavia preferivo, Signore, tu sai, avere allievi buoni nel vero senso della parola, e a loro senza inganno insegnavo inganni utili non a perdere un innocente, ma a salvare talvolta un reo. E tu, Dio, di lontano vedesti vacillare sul viscidume la mia buona fede ed emettere tra denso fumo qualche sprazzo di luce. Io la offrivo nel mio insegnamento a persone che amavano la vanità e cercavano la menzogna, senza essere diverso da loro. Ancora in quegli anni tenevo con me una donna, non posseduta in nozze, come si dicono, legittime, ma scovata nel vagolare della mia passione dissennata; una sola, comunque, e a cui prestavo per di più la fedeltà di un marito. Sperimentai tuttavia di persona in questa unione l’enorme divario esistente fra l’assetto di un patto coniugale stabilito in vista della procreazione, e l’intesa di un amore libidinoso, ove pure la prole nasce, ma contro il desiderio dei genitori, sebbene imponga di amarla dopo nata.


Avversione per le pratiche degli aruspici

2. 3. Ricordo pure che, avendo voluto partecipare a un concorso di poesia teatrale, un oscuro aruspice mi fece chiedere quale ricompensa ero disposto a dargli, perché mi facesse vincere. Risposi che detestavo e aborrivo le sue luride pratiche, e neppure se la corona fosse stata d’oro indistruttibile avrei permesso che s’immolasse una mosca per la mia vittoria. Era infatti evidente che si preparava a immolare nei suoi sacrifici alcuni animali nell’intento di attrarre su di me con tali omaggi i favori dei demòni. Rifiutai dunque un simile misfatto, ma ancora una volta non in nome della tua illibatezza, Dio del mio cuore, perché non sapevo amarti, non sapendo pensare a uno splendore privo di corpo: e un’anima che sospira dietro a simili immaginazioni non tresca forse lontano da te, non poggia su falsità, non nutre i venti? Non volevo certamente che s’immolassero vittime per me ai demòni; io stesso però m’immolavo a loro mediante la mia superstizione: e che altro è “nutrire i venti”, se non nutrire i demòni, offrire cioè ad essi col proprio errore motivi di godimento e derisione?


Ostinata devozione per l’astrologia

3. 4. Perciò quegli altri vagabondi, che chiamano matematici, non desistevo dal consultarli tranquillamente, pensando che non praticavano nessun sacrificio e non pregavano nessuno spirito per divinare il futuro. La religiosità cristiana, la vera, respinge e condanna però coerentemente ogni pratica del genere. È bene confessare te, Signore, e dirti: “Abbi pietà di me, sana la mia anima, perché ho peccato contro di te”; ed è bene non abusare della tua indulgenza per darsi licenza di peccare, ricordando le parole divine: Eccoti guarito, non peccare più, se non vuoi che ti avvenga di peggio. Dono di salvezza, costoro si sforzano di distruggerlo interamente dicendo: “Dal cielo ti viene la causa inevitabile del peccato” e: “È opera di Venere”, oppure di Saturno, oppure di Marte. Evidentemente mirano con ciò a rendere senza colpa l’uomo, che è carne e sangue e superbo marciume, e colpevole il creatore e regolatore del cielo e degli astri. Ma chi è costui, se non tu, nostro Dio, dolcezza e fonte di giustizia, che renderai a ciascuno secondo le proprie opere, e non sprezzi il cuore contrito e umiliato?


Due avversari dell’astrologia: Vindiciano e Nebridio

3. 5. Viveva in quel tempo un personaggio intelligente, versatissimo e reputatissimo in medicina, il quale da proconsole aveva posto di sua mano sul mio capo malsano la corona vinta nelle gare poetiche, ma non come medico, poiché il guaritore di quella specie di malattie sei tu, che resisti ai superbi, mentre agli umili accordi favore. Eppure mancasti o cessasti forse di medicare la mia anima anche per il tramite di quel vecchio? Entrato dunque in una certa dimestichezza con lui, ne ascoltavo assiduamente e attentamente i discorsi, piacevoli e austeri, poveri di vocaboli ricercati ma ricchi di pensieri vividi. Allorché da un nostro colloquio venne a conoscenza del mio interesse per i libri degli oroscopi, mi consigliò con amorevolezza paterna di buttarli e di non impiegare vanamente in futilità l’attenzione e la fatica necessaria per le cose utili. Egli stesso, mi disse, aveva studiato la materia, tanto che in gioventù avrebbe voluto farsene il proprio mestiere, di cui campare: se aveva capito Ippocrate, avrebbe ben potuto capire anche quei testi. Eppure più tardi li abbandonò per darsi alla medicina solo perché aveva scoperto la loro completa falsità e non avrebbe voluto, persona seria qual era, guadagnare il pane gabbando il prossimo. “Tu, soggiunse, possiedi un’arte che ti offre una posizione sociale solida, la retorica, e coltivi questo imbroglio per libera passione, non per necessità economiche. A maggior ragione devi fidarti di me in questa materia, che ho cercato d’imparare compiutamente così come avevo deciso di farne il mio unico sostentamento”. Io gli chiesi allora come mai avvenisse che molte predizioni si realizzano. Rispose come poteva, che è un effetto del caso disseminato dovunque in natura. Consultando a casaccio, spiegava, le pagine di un qualsiasi poeta, che ben altro canta e pensa, spesso ne esce un verso, mirabilmente consono col fatto proprio; non è dunque strano se per un misterioso impulso dall’alto l’anima umana, pur ignara di quanto avviene nel suo interno, non per abilità, ma per accidente, faccia echeggiare alcune parole, che si armonizzano con la situazione e le faccende dell’interrogante.

3. 6. Questo ammaestramento tu mi facesti avere da quell’uomo o per mezzo di quell’uomo, tracciando nella mia memoria le linee di una ricerca, che poi avrei svolto per conto mio. Al momento né lui né il mio carissimo Nebridio, giovane di grande bontà e accortezza, con i suoi dileggi verso ogni sorta di presagi, poterono indurmi a respingerli. Aveva più influenza sul mio animo l’autorità dei miei autori, né avevo trovato ancora una prova sicura, quale cercavo, che mi mostrasse senza ambiguità come le predizioni degli astrologhi consultati predices-sero il vero per fortuna o sorte, non per l’arte di osservare le stelle.

Morte di un carissimo amico

Storia di un’amicizia

4. 7. In quegli anni, all’inizio del mio insegnamento nella città natale, mi ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell’adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti non c’è vera amicizia, se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato. Ma quanto era soave, maturata com’era al calore di gusti affini! Io lo avevo anche traviato dalla vera fede, sebbene, adolescente, non la professasse con schiettezza e convinzione, verso le funeste fandonie della superstizione, che erano causa delle lacrime versate per me da mia madre. Con me ormai la mente del giovane errava, e il mio cuore non poteva fare a meno di lui. Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle vendette e fonte insieme di misericordie, che ci rivolgi a te in modi straordinari; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena che mi era amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora.


Malattia e morte dell’amico

4. 8. Chi può da solo enumerare i tuoi vanti, che in sé solo ha conosciuto?. Che facesti tu allora, Dio mio? Imperscrutabile abisso delle tue decisioni! Tormentato dalle febbri egli giacque a lungo incosciente nel sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo, fu battezzato senza che ne avesse sentore. Io non mi preoccupai della cosa nella presunzione che il suo spirito avrebbe mantenuto le idee apprese da me, anziché accettare un’azione operata sul corpo di un incosciente. La realtà invece era ben diversa. Infatti migliorò e uscì di pericolo; e non appena potei parlargli, e fu molto presto, non appena poté parlare anch’egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo legati l’uno all’altro, tentai di ridicolizzare ai suoi occhi, supponendo che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto assente col pensiero e i sensi, ma ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si guarda un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza che, se volevo essere suo amico, avrei dovuto smettere di parlare in quel modo con lui. Sbalordito e sconvolto, rinviai a più tardi tutte le mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze convenienti per poter trattare con lui a mio modo. Senonché fu strappato alla mia demenza per essere presso di te serbato alla mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira.


Lo sconforto di Agostino

4. 9. L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: “Spera in Dio”, a ragione non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito.


Misterioso conforto del pianto

5. 10. Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall’amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te: ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite?


Le ragioni della vita di fronte alla morte

6. 11. Ma perché parlo di queste cose? Non è tempo, questo, di porti domande, bensì di farti le mie confessioni. Sì, ero infelice, e infelice è ogni animo avvinto d’amore alle cose mortali. Solo quando la loro perdita lo strazia, avverte l’infelicità, di cui però era preda anche prima della loro perdita. Così avveniva allora per me. Piangevo amarissimamente, e riposavo nell’amarezza; mi sentivo infelicissimo, e avevo cara la stessa vita infelice più dell’amico perduto. Avrei voluto mutarla, ma non avrei voluto perderla in sua vece. Non so se avrei accettato di fare anche per lui come Oreste e Pilade, i quali, secondo la tradizione, se non è un’invenzione, avrebbero accettato di morire uno per l’altro o insieme, essendo per loro peggio di quella morte il vivere non insieme. In me era sorto un sentimento indefinibile decisamente contrario a questo, ove la noia, gravissima, della vita, in me si associava al timore della morte. Quanto più lo amavo, io credo, tanto più odiavo e temevo la morte, nemica crudelissima che me lo aveva tolto e si apprestava a divorare in breve tempo, nella mia immaginazione, tutti gli uomini, se aveva potuto divorare quello. Tale certamente era il mio stato d’animo, mi ricordo. Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall’impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi. Mi stupivo che gli altri mortali vivessero, se egli, amato da me come non avesse mai a morire, era morto; e più ancora, che io vivessi se era morto colui, del quale ero un altro se stesso, mi stupivo. Bene fu definito da un tale il suo amico la metà dell’anima sua. Io sentii che la mia anima e la sua erano state un’anima sola in due corpi; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a mezzo, e perciò forse temevo di morire, per non far morire del tutto chi avevo molto amato.


Partenza per Cartagine in cerca di sollievo

7. 12. Oh follia, incapace di amare gli uomini quali uomini! Oh stoltezza dell’uomo, insofferente della condizione umana! Tali erano i miei sentimenti di allora, e di lì nascevano i miei furori, i miei sospiri, le mie lacrime, i miei turbamenti e l’irrequietudine e l’incertezza. Mi portavo dentro un’anima dilaniata e sanguinante, insofferente di essere portata da me; e non trovavo dove deporla. Non certo nei boschi ameni, nei giochi e nei canti, negli orti profumati, nei conviti sfarzosi, fra i piaceri dell’alcova e delle piume, sui libri infine e i poemi posava. Tutto per lei era orrore, persino la luce del giorno; e qualunque cosa non era ciò che lui era, era triste e odiosa, eccetto i gemiti e il pianto. Qui soltanto aveva un po’ di riposo; ma appena di lì la toglievo, la mia anima, mi opprimeva sotto un pesante fardello d’infelicità. Per guarirla avrei dovuto sollevarla verso di te, Signore, lo capivo, ma non volevo né valevo tanto, e ancora meno perché non eri per la mia mente un essere consistente e saldo, ossia non eri ciò che sei. Un vano fantasma e il mio errore erano il mio dio. Se tentavo di adagiarvi la mia anima per farla riposare, scivolava nel vuoto, ricadendo nuovamente su di me; e io ero rimasto per me stesso un luogo infelice, ove non potevo stare e donde non potevo allontanarmi. Dove poteva fuggire infatti il mio cuore via dal mio cuore, dove fuggire io da me stesso, senza inseguirmi? Dalla mia patria però fuggii, perché i miei occhi meno cercavano l’amico dove non erano avvezzi a vederlo. Così dal castello di Tagaste mi trasferii a Cartagine.

A Cartagine

Nuove amicizie consolatrici

8. 13. Il tempo non è inoperoso, non passa oziosamente sui nostri sentimenti. Agisce invece sul nostro animo in modo sorprendente. Ecco, veniva e trascorreva di giorno in giorno, e venendo e trascorrendo insinuava dentro di me nuove speranze, nuovi ricordi con paziente restauro ove alle antiche forme di piacere cedeva il recente dolore. Ma succedevano, se non nuovi dolori, motivi almeno di nuovi dolori. Perché, d’altronde, quel primo dolore era penetrato con grande facilità nel mio intimo, se non perché avevo versato la mia anima sulla sabbia, amando una creatura mortale come fosse immortale? Massimo ristoro e sollievo mi veniva dai conforti degli altri amici, con i quali avevo in comune l’amore di ciò che amavo in tua vece, dell’enorme finzione, della lunga impostura, corruttrice, con le sue carezze spurie, del nostro pensiero smanioso di udire. Per me quella finzione non moriva, se anche uno dei miei amici moriva. Altri legami poi avvincevano ulteriormente il mio animo: i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l’uno dell’altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l’esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola.


Fortunati gli amici di Dio

9. 14. Tutto ciò si ama negli amici, e si ama in modo che la nostra coscienza di uomini si sente colpevole, se non risponde sempre con amore ad amore senza chiedere all’essere amato che prove di affetto. Vengono di qui il lutto alla morte degli amici, le tenebre del dolore, il mutarsi della dolcezza in amarezza, il cuore zuppo di pianto e la morte dei vivi per la perduta vita dei morti. Felice chi ama te, l’amico in te, il nemico per te. L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in chi non è mai perduto. E chi è costui, se non il Dio nostro, il Dio che creò il cielo e la terra e li colma, perché colmandoli li ha fatti? Nessuno ti perde, se non chi ti lascia, e poiché ti lascia, ove va, ove fugge, se non dalla tua benevolenza alla tua collera? Dovunque troverà la tua legge nella sua pena, e la tua legge è verità, e la verità sei tu.


Destino effimero delle creature

10. 15. Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L’animo dell’uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono. Nel nascere, dunque, e nel tendere all’esistenza, quanto più rapida è la loro crescita verso l’essere, tanto più frettolosa la loro corsa verso il non essere. Questa è la loro limitazione, non più di questo hai concesso loro, perché sono parte di altre entità che non esistono tutte simultaneamente, ma tutte formano con la loro scomparsa e comparsa l’universo, di cui sono parti. Così, ecco, anche i nostri discorsi si sviluppano fino alla loro conclusione attraverso una successione di suoni, e non si avrebbe un discorso completo, se ogni parola non sparisse per lasciare il posto a un’altra dopo aver espresso la sua parte di suono. Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall’amore, attraverso i sensi del corpo. Esse vanno ove andavano per cessare di esistere, e straziano l’anima con passioni pestilenziali, perché il suo desiderio è di esistere e di riposare fra le cose che ama. Ma lì non può trovare un punto fermo, perché le cose non sono stabili. Fuggono, e chi potrebbe raggiungerle con i sensi della carne, o afferrarle, anche quando sono vicine? I sensi della carne sono lenti, appunto perché sono della carne, e questa è la loro limitazione. Bastano ad altri scopi, per cui sono fatti, ma non bastano allo scopo di trattenere le cose che corrono dal debito inizio al debito fine. Nella tua parola, con cui sono create, si sentono dire: “Di qui e fin qui”.


Stabilità di Dio

11. 16. Non essere vana, anima mia, non assordare l’orecchio del cuore col tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l’amore non conosce abbandoni, se lui perprimo non abbandona. Qui invece, lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l’universo inferiore nella sua interezza. “Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte?”. Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d’inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole.

11. 17. Perché segui, pervertita, la tua carne? Essa piuttosto segua te, convertita. Attraverso le sue sensazioni tu hai conoscenze parziali, ma ignoranza del tutto, di cui pure le parti ti dànno diletto. Se i sensi della tua carne fossero capaci di abbracciare la totalità e non fossero stati giustamente limitati, per tuo castigo, a una parte del complesso, vorresti che le cose ora esistenti passassero, per gustarle maggiormente tutte insieme. Tu odi quanto diciamo, mediante la stessa sensibilità della carne, e certo non vuoi mai che le sillabe si arrestino, bensì che trascorrano a volo per far posto ad altre, in modo da udire l’intero discorso. Così sempre per tutte le parti che costituiscono un’unica sostanza e non esistono tutte simultaneamente per costituirla: si gustano maggiormente tutte, che ognuna per sé, qualora si possano percepire tutte. Molto migliore delle cose è però colui che le fece tutte, e questi è il Dio nostro, che mai si ritrae, poiché nulla gli sottentra.


Esortazione a cercare la felicità in Dio

12. 18. Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch’esse, ma in lui si fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di’ loro: “Amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov’è? dove si assapora la verità? È nell’intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è lì, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita?

12. 19. Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l’uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l’ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo ? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell’ascendere contro Dio”. Di’ loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t’ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità.

Il problema del bello

Composizione del trattato Sulla bellezza e la convenienza

13. 20. Ignaro di tutto ciò, e innamorato delle bellezze terrene, io allora camminavo verso l’abisso e dicevo ai miei amici: “Noi non amiamo che il bello. Cos’è il bello? e cos’è la bellezza? Cosa ci attrae e ci avvince agli oggetti del nostro amore? La convenienza e la grazia, perché se ne fossero privi non ci attirerebbero affatto”. Avvertivo cioè e notavo che nei corpi altra cosa è la bellezza, per così dire, complessiva, in quanto sono un complesso, e altra la convenienza, ossia l’armonia con altri corpi, come una parte del nostro corpo si armonizza col tutto, o un calzare col piede e così via. Questa considerazione scaturì nella mia mente dall’intimo del mio cuore, per cui scrissi alcuni libri sulla bellezza e la convenienza, credo due o tre: tu sai, Dio, io ne ho perso il ricordo, né più li possiedo. Per noi sono smarriti, chissà come.


Dedica del trattato all’oratore Gerio

14. 21. Cosa mi spinse, Signore Dio mio, a dedicare quei libri a un oratore romano, Gerio, che non conoscevo personalmente? Avevo preso ad amarlo per la chiara fama della sua erudizione e per alcune parole che di lui mi erano state riferite e mi erano piaciute. Ma soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri, ne era esaltato e lodato. La gente stupiva che da un siriano, già dotto nell’oratoria greca, fosse uscito anche un dicitore mirabile nella latina, versatissimo per di più negli studi relativi alla filosofia. Accade dunque di lodare un uomo e di amarlo anche da lungi; ma questo amore entra forse nel cuore di chi ascolta dalla bocca di chi loda? Lungi da me! È invece dall’amore dell’uno che si accende l’amore dell’altro. Nasce l’amore della lode quando si crede alla sincerità degli elogi di chi loda, cioè quando costui ama chi loda.

14. 22. Così appunto io allora amavo gli uomini, seguendo il giudizio degli uomini e non il tuo, Dio mio, in cui nessuno s’inganna. Perché tuttavia la mia lode non era qual è per un auriga celebre o un cacciatore esaltato dalla fama popolare, bensì molto differente, e seria e quale avrei voluto ricevere anch’io? Io non avrei voluto ricevere la lode e l’amore degli istrioni, per quanto li lodassi e amassi poi anch’io. Avrei preferito l’oscurità a una nomea di quel genere, l’odio addirittura a un simile amore. Come si distribuiscono in una medesima anima le forze di amori tanto vari e diversi? Come mi avviene di amare in altri ciò che invece non detesterei né respingerei da me, se non l’odiassi? Eppure siamo uomini entrambi. Sì, chi ama un buon cavallo, non vorrebbe esserlo, anche potendo, ma non si può dire altrettanto per un istrione, il quale partecipa della nostra natura. Io amerei dunque in un uomo ciò che non vorrei essere, pur essendo un uomo? Quale abisso l’uomo medesimo, di cui tu, Signore, conosci persino il numero dei capelli senza che nessuno manchi al tuo conto! Eppure è più facile contarne i capelli che i sentimenti e i moti del cuore.

14. 23. Quel retore comunque apparteneva al genere d’uomini che io amavo al punto di voler essere come loro. La vanità mi portava fuori strada, ogni vento mi spingeva or qua or là, ma tu nell’ombra mi pilotavi. Da dove riconosco, da dove traggo la certezza nel confessarti che l’amai più per l’amore di chi lo lodava, che per le ragioni di tante lodi? Se, anziché lodarlo, le medesime persone lo avessero biasimato, avessero narrato di lui i medesimi fatti con accenti di biasimo e sprezzo, io non mi sarei acceso né esaltato per lui; eppure i fatti non sarebbero stati certamente diversi, egli medesimo un uomo diverso; soltanto i sentimenti di chi ne parlava lo sarebbero stati. Ecco qual è la condizione di un’anima inferma, non ancora aderente alle solide basi della verità. Secondo che spira l’aura delle parole dal petto di chi sentenzia, essa è trasportata e spinta, è torta e ritorta, le si offusca la luce, non scorge la verità che, ecco, ci sta davanti. Per me era poi molto importante che quel personaggio venisse a conoscere il mio stile e i miei studi. Una sua approvazione avrebbe accresciuto il mio ardore, una riprovazione avrebbe pugnalato il mio cuore vano e privo della tua fermezza. Intanto la Bellezza e convenienza, il trattato che gli avevo dedicato, io passavo e ripassavo nella mente, davanti allo sguardo compiaciuto della mia contemplazione, e l’ammiravo senza che avesse l’approvazione di nessuno.


Argomenti del trattato

15. 24. Non vedevo però ancora nella tua arte, onnipotente e unico autore di meraviglie, il cardine di una realtà così grande. Il mio spirito percorreva le forme corporee e io definivo bello ciò che è armonioso in sé, conveniente ciò che è armonioso in rapporto con altri oggetti, suffragando questa distinzione con esempi concreti. Poi mi volsi a considerare la natura dell’anima. Ma l’idea falsa che avevo delle sostanze spirituali m’impediva di scorgere il vero. Per quanto la verità mi balzasse agli occhi con tutta la sua forza, io non distoglievo la mente ansiosa dalla realtà incorporea verso le linee, i colori e le masse turgide; e giacché non potevo ritrovarne nell’anima, pensavo che non avrei potuto ritrovare l’anima stessa; e poiché nella virtù mi attraeva la pace, nel vizio mi ripugnava la discordia, scorgevo nella prima una specie di unità, nel secondo una specie di divisione. In quell’unità poi mi pareva risiedere l’anima razionale, l’essenza della verità e del bene supremo; nella divisione invece misero scorgevo una sostanza indefinibile di vita irrazionale e l’essenza del male supremo, che per me era non solo sostanza, ma vera vita, sebbene non provenisse da te, Dio mio, da cui provengono tutte le cose. Delle due, alla prima davo il nome di monade in quanto intelligenza asessuale, alla seconda di diade, ed è la collera nei delitti, la libidine nei vizi. Non sapevo cosa dicessi. Infatti ignoravo e non avevo imparato che il male non è una sostanza, e neppure la nostra intelligenza è il bene supremo e immutabile.


Orgoglio di un uomo corrotto

15. 25. Come si commettono delitti quando l’impulso spirituale che muove le nostre azioni è corrotto e si scatena con torbida arroganza; come si cade nel vizio quando l’anima non modera le inclinazioni di cui si alimentano i piaceri fisici, così gli errori e le opinioni false guastano la vita, se anche l’anima razionale è corrotta. Corrotta era la mia allora, poiché ignoravo che un’altra luce doveva illuminarla, se voleva godere della verità, poiché non era essa per sé l’essenza della verità. Tu infatti illuminerai la mia lucerna, Signore; tu, Dio mio, illuminerai le mie tenebre. Tutti abbiamo attinto dalla tua pienezza; tu sei il vero lume, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; perché non sei soggetto ad alterazione né ad ombra di mutamento.

15. 26. Io tendevo però verso di te, e tu mi respingevi via da te per farmi assaporare la morte, poiché resisti ai superbi: e può esservi atto più superbo del mio, quando affermavo con demenza inaudita di essere per natura ciò che sei tu? Ero mutevole, e ben lo capivo dal desiderio appunto di sapere per divenire da peggiore migliore; eppure preferivo credere mutevole anche te, piuttosto che me diverso da ciò che tu sei. Di qui le tue ripulse, la tua resistenza di fronte alla mia tronfia testardaggine. Fissavo la mia immaginazione su forme corporee, ero carne e accusavo la carne, ero un soffio passeggero e ancora non tornavo a te, passavo passeggero fra cose inesistenti in te, in me, nella materia, non create per me dalla tua verità, ma dalla mia vanità immaginate secondo la materia. E dicevo ai tuoi piccoli, ai tuoi fedeli, ai miei concittadini, da cui ero a mia insaputa in lontano esilio, dicevo loro con sciocca petulanza: “Perché dunque dovrebbe ingannarsi lo spirito, se creato da Dio?”, e non volevo sentirmi rispondere: “Perché dunque dovrebbe ingannarsi Dio”. Preferivo sostenere che la tua sostanza immutabile è costretta ad errare, anziché riconoscere che la mia mutabile aveva deviato spontaneamente e per castigo errava.

15. 27. Avevo forse ventisei o ventisette anni quando scrissi quei volumi, rivolgendo dentro di me le elucubrazioni materialistiche che rumoreggiavano alle orecchie del mio cuore. Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell’atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate.


Lettura delle Dieci categorie di Aristotele

16. 28. E a che mi giovava l’aver letto e capito da solo, sui vent’anni, un’opera aristotelica venutami fra mano, che chiamano Le dieci categorie? A pronunciarne soltanto il nome le gote del mio maestro cartaginese di retorica, e di altre persone che passavano per erudite, si gonfiavano fino a scoppiare; perciò io restavo là con la bocca aperta come davanti a cosa straordinaria e divina. Ne discussi poi con persone che dicevano di averla capita a fatica, pur sotto la guida di maestri coltissimi e con l’ausilio non solo delle loro parole, ma anche di molte figure tracciate sulla polvere; ma non riuscii a saperne più di quanto avevo imparato da me solo, leggendola per mio conto. Mi sembrava che l’opera parlasse abbastanza chiaramente delle sostanze, quale l’uomo, e delle loro proprietà, quale l’aspetto dell’uomo, come sia; la statura, di quanti piedi sia; la relazione, di chi sia fratello; oppure dove sia stabilito, quando nato, se stia ritto o seduto, se abbia i piedi calzati e armi indosso, se compia o subisca qualche azione, e insomma tutte le innumerevoli qualità comprese nelle nove categorie di cui ho dato qualche esempio e nella categoria stessa di sostanza.

16. 29. A che mi giovava ciò? Anzi, mi nuoceva addirittura. Convinto che quei dieci attributi comprendono perfettamente tutto ciò che esiste, mi sforzavo di capire anche te, Dio mio, essere mirabilmente semplice e immutabile, come condizionato dalla tua grandezza e bellezza. Queste qualità mi parevano sussistere in te come in un essere condizionato, come in un corpo, mentre tu medesimo sei la tua grandezza e bellezza, invece i corpi non sono grandi e belli per loro natura. Potrebbero infatti essere meno grandi e meno belli senza perdere per ciò la loro natura. Ogni mio concetto di te era falso, non vero; vana immaginazione della mia miseria, non solida visione della tua beatitudine. L’avevi voluto, e così accadeva in me che la terra producesse per me spine e triboli, e io ottenessi il pane a prezzo di fatiche.


Lettura di varie opere letterarie e scientifiche

16. 30. E a che mi giovava l’aver letto e capito da me tutti i trattati che potei delle arti cosiddette liberali, se allora ero schiavo disonestissimo delle male passioni? Trovavo diletto nella loro lettura senza conoscere la provenienza delle sicure verità in essi contenute, poiché volgevo il dorso al lume, il viso agli oggetti illuminati: così il mio viso, se li vedeva illuminati, non era però illuminato. Quante nozioni di eloquenza e dialettica, di geometria e musica e aritmetica intesi senza grande fatica e alcun ammaestramento umano lo sai tu, Signore Dio mio, poiché la prontezza dell’intelletto e l’acume del discernimento sono dono tuo. Ma non ne facevo offerta a te, quindi erano per me un potere più nocivo che utile. Infatti m’industriai di rivendicare a me stesso la parte migliore della mia sostanza; anziché preservare la mia forza presso di te, mi allontanai da te verso un paese lontano, ove dissiparla fra le meretrici passioni. A che mi giovava invero l’uso non buono di una cosa buona? Non mi rendevo conto delle grandi difficoltà che la comprensione di quelle dottrine presenta anche a studiosi d’ingegno, se non quando mi sforzavo di spiegarle a loro, e il più eccellente fra loro era il meno tardo a capire la mia spiegazione.


Inutilità dell’ingegno e della cultura separati da Dio

16. 31. A che mi giovava ciò, se, Signore Dio e verità, pensavo che tu fossi un corpo luminoso e immenso, e io un frammento di quel corpo? Smisurata perversione! Eppure era il mio stato e non arrossisco, Dio mio, di confessarti gli atti della tua misericordia verso di me e invocarti, come non arrossii allora di professare davanti agli uomini le mie bestemmie latrando contro di te. A che mi giovava allora l’abile destreggiarsi del mio ingegno attraverso le scienze, l’aver districato senza l’ausilio di maestri umani tanti libri intricatissimi, se poi erravo con mostruosa e sacrilega infamia nella dottrina della tua pietà? Oppure, perché tanto nuoceva ai tuoi piccoli un’intelligenza di gran lunga più tarda della mia, quando non si ritiravano lungi da te, e dunque mettevano sicuri le piume nel nido della tua Chiesa e sviluppavano le ali della carità con l’alimento di una fede sana? O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, ci sorreggerai da piccoli, e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te, allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell’avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità.

Libro quinto

DA CARTAGINE A ROMA E MILANO


Introduzione

Lodi al Signore

1. 1. Accetta l’olocausto delle mie confessioni dalla mano della mia lingua, formata e sollecitata da te alla confessione del tuo nome. Risana tutte le mie ossa, e ti dicano: “Signore, chi simile a te?”. Chi a te si confessa non ti rende nota la sua intima storia, poiché un cuore chiuso non esclude da sé il tuo occhio, né la durezza degli uomini respinge la tua mano, bensì tu la stempri a tuo piacere, con la pietà o la punizione; e nessuno si sottrae al tuo calore. La mia anima ti lodi per amarti, ti confessi gli atti della tua commiserazione per lodarti. L’intero tuo creato non interrompe mai il canto delle tue lodi: né gli spiriti tutti attraverso la bocca rivolta verso di te, né gli esseri animati e gli esseri materiali, attraverso la bocca di chi li contempla. Così la nostra anima, sollevandosi dalla sua debolezza e appoggiandosi alle tue creature, trapassa fino a te, loro mirabile creatore. E lì ha ristoro e vigore vero.


Presenza di Dio consolatore

2. 2. Vadano, fuggano pure lontano da te gli inquieti e gli iniqui. Tu li vedi, ne distingui le ombre fra le cose. Così l’insieme risulta bello anche con la loro presenza, con la loro deformità. Che male poterono farti? dove poterono deturpare il tuo regno, se è giusto e intatto dall’alto dei cieli fino ai lembi estremi della terra? Dove fuggirono fuggendo dal tuo volto? in quale luogo non li puoi trovare? Fuggirono per non vedere la tua vista posata su di loro e urtare, accecati, contro di te, che non abbandoni nulla di ciò che hai creato; per non urtare contro di te, e ricevere l’equo castigo della loro iniquità. Si sottrassero alla tua mitezza per urtare nella tua giustizia e cadere nella tua severità. Evidentemente ignorano che tu sei dovunque e nessun luogo ti racchiude, che tu solo sei vicino anche a chi si pone lontano da te. Dunque si volgano indietro a cercarti: tu non abbandoni le tue creature come esse abbandonano il loro creatore. Se si volgono indietro da sé a cercarti, eccoti già lì, nel loro cuore, nel cuore di chiunque ti riconosce e si getta ai tuoi piedi, piangendo sulle tue ginocchia dopo il suo aspro cammino. Tu prontamente ne tergi le lacrime, e più singhiozzano allora e si confortano al pianto perché sei tu, Signore, e non un uomo qualunque, carne e sangue, ma tu, Signore, il loro creatore, che le rincuori e le consoli. Anch’io dov’ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te.

Insufficienze ed errori del manicheismo

Il vescovo manicheo Fausto, lacciuolo del diavolo

3. 3. Esporrò al cospetto del mio Dio le vicende di quell’anno, ventinovesimo della mia vita. Poco prima era giunto a Cartagine un vescovo manicheo di nome Fausto, gran lacciuolo del diavolo, in cui si lasciava impigliare molta gente ammaliata dalla dolce favella, che anch’io elogiavo, però distinguendola dalla verità delle cose che ero avido di conoscere. Badavo cioè non tanto al recipiente delle parole, quanto alla vivanda del sapere che, nome altisonante fra quei tali, il grande Fausto mi metteva innanzi. Lo aveva preceduto la fama di uomo versatissimo in tutte le nobili discipline, ma particolarmente erudito nelle lettere. Io, che ricordavo, per averle lette e studiate, le opere di molti filosofi, confrontandone alcune con le favole prolisse dei manichei, trovavo più probabili le teorie di chi ebbe tanta perspicacia, da fare giusta stima del mondo, pur senza scoprirne affatto il Signore; perché tu sei grande, Signore, e volgi lo sguardo sugli umili, mentre gli eccelsi li vuoi conoscere da lontano e solo ai cuori contriti ti avvicini; non ti riveli ai superbi neppure se con la loro curiosa destrezza sappiano calcolare le stelle e l’arena, misurare gli spazi siderei ed esplorare le piste degli astri.


Facoltà e difetti della scienza

3. 4. Investigando questi misteri con l’intelligenza e l’ingegno da te ricevuti, essi fecero molte scoperte, predissero con anticipo di molti anni gli eclissi della luce del sole e della luna, con il giorno, l’ora e la misura in cui sarebbero avvenuti, senza errare nei calcoli. I fenomeni si verificarono puntualmente secondo le loro predizioni, ed essi misero per iscritto le leggi scoperte, tuttora consultate e usate per predire l’anno, il mese dell’anno, il giorno del mese, l’ora del giorno e la misura in cui la luce del sole e della luna scomparirà; e il fenomeno avverrà puntualmente secondo le predizioni. Il popolo ne è ammirato, gli ignari stupiti, gli esperti imbaldanziti ed esaltati. Ma se, lontani ed eclissati dalla tua luce per la loro empia superbia, prevedono con tanto anticipo l’offuscamento futuro del sole, non vedono però il loro, presente, poiché non ricercano con spirito religioso l’origine del proprio ingegno, con cui eseguono queste ricerche; o, se si scoprono tue creature, non si donano a te con slancio affinché tu conservi le tue creature. Quasi fossero essi i propri creatori, non si annientano per te, non abbattono come uccelli in volo le proprie vanità, come pesci del mare le proprie curiosità, che li spingono a percorrere i segreti sentieri dell’abisso, come bestie del campo le proprie lascivie, affinché tu, Dio, fuoco divoratore, distrugga i loro morti desideri e ricrei le loro persone a una vita immortale.

3. 5. Ignorano invece la via, il tuo Verbo, con cui creasti ciò che essi calcolano, loro stessi che calcolano, il senso con cui percepiscono ciò che calcolano, l’intelligenza per cui calcolano; mentre la tua sapienza è incalcolabile. L’Unigenito si è fatto lui stesso sapienza e giustizia e santificazione per noi, fu calcolato fra noi e pagò il tributo a Cesare. Ignorano questa via su cui discenderebbero da se stessi a lui, e per lui ascenderebbero a lui; ignorano questa via e si credono eccelsi e luminosi come gli astri, mentre eccoli precipitati in terra, col cuore ottenebrato e insipiente. Molte verità dicono sul creato, ma non cercano devotamente la verità, autrice della creazione. Quindi non la trovano o, se la trovano, pur conoscendo Dio, non come Dio l’onorano o lo ringraziano, ma si disperdono nei loro vani pensieri, si proclamano sapienti attribuendo a se stessi ciò che è proprio a te, e quindi studiandosi anche, nella loro perversissima cecità, di attribuire a te ciò che è proprio a loro. Ossia trasferiscono le loro menzogne su di te, che sei la verità, trasformando la gloria di Dio incorruttibile nell’immagine dell’uomo corruttibile e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti; convertono la tua verità in menzogna e adorano e servono la creatura anziché il creatore.


Dogmatismo manicheo

3. 6. Molte sono, comunque, le nozioni esatte che ricavarono dallo stesso creato e che io appresi. Me ne offrivano la prova razionale i calcoli, la successione delle stagioni, le testimonianze visibili degli astri, e le confrontavo con le sentenze di Mani, che in proposito scrisse molto, delirando abbondantissimamente; e non mi si offriva la prova razionale né dei solstizi ed equinozi, né degli eclissi celesti, né degli altri fenomeni analoghi che avevo appreso dai testi della sapienza profana; tuttavia mi si imponeva di credergli, anche se discordava dalle spiegazioni che i calcoli numerici e i miei occhi accertavano, e largamente ne divergeva.


Scienza e fede

4. 7. Signore, Dio di verità, basta la conoscenza di queste cose per piacerti? Infelice davvero chi conosce tutte quelle e ignora te; felice chi conosce te, anche se ignora quelle. Chi poi sa e di te e di quelle, non per quelle è più felice, ma per te solo felice, se, oltre a conoscerti, ti glorifica per ciò che sei e ti ringrazia, anziché sperdersi nei suoi vani pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti è grato di goderlo, pur ignorando i cubiti della sua altezza o la sua estensione in larghezza, è migliore di chi lo misura e ne conteggia tutti i rami, però non lo possiede né riconosce il suo creatore né lo ama. Così all’uomo di fede il mondo intero con i suoi tesori appartiene; forse non ha quasi nulla, eppure tutto possiede perché unito a te, padrone di tutto. Non importa se nemmeno conosce i giri delle Orse: solo uno stolto dubiterebbe che non sia in ogni caso migliore di chi sa misurare il cielo, enumerare le stelle, pesare gli elementi, però fa nessun conto di te, che ogni cosa hai disposto nella sua misura e numero e peso.


Presunzione sfrontata di Mani

5. 8. Infine, chi chiedeva a un certo Mani di scrivere anche su cose che non occorre conoscere per imparare la pietà? Tu dicesti all’uomo: “Ecco, pietà è sapienza”. Quindi egli poteva ignorare la pietà, pur conoscendo alla perfezione le altre nozioni. Senonché, avendo l’audacia sfrontatissima d’insegnare queste ultime senza conoscerle, tanto meno poteva conoscere la prima. È pure vanità esibire la scienza mondana anche quando la si possiede, e invece pietà riconoscerla come tua. Perciò il suo molto parlare, a sproposito, su tali argomenti aveva questo fine: che, confutato da persone davvero istruite in materia, si rivelasse qual era la sua perspicacia in argomenti più astrusi. Lungi dal cercare di essere negletto dagli uomini, tentò di far credere che lo Spirito Santo, consolazione e ricchezza dei tuoi fedeli, risiedeva in lui di persona con la pienezza della sua autorità. Perciò, quando si coglievano flagranti errori nella sua teoria sul cielo, le stelle e i movimenti del sole e della luna, argomenti certo estranei all’insegnamento religioso, ne risultava tuttavia con sufficiente chiarezza l’empietà dei suoi tentativi. Egli esponeva nozioni che non solo ignorava, ma erano anche false, con un orgoglio a tal punto insensato, che si sforzava di attribuirle alla propria persona come divina.

5. 9. Ascoltando qua o là un mio fratello cristiano, che in materia è inesperto e ha idee sbagliate, io considero le sue opinioni pazientemente né vedo come gli nuoccia l’ignorare accidentalmente la posizione e la condotta di enti corporei creati da te, allorché su di te, Signore, creatore di tutto, non ha opinioni sconvenienti. Gli nuocerebbe invece il pensare che questa scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e l’affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora. E poi no: perfino una simile debolezza trova nella culla della fede il sostegno materno della carità finché l’uomo nuovo si levi alla perfezione virile senza lasciarsi spingere or qua or là dal vento di ogni dottrina. Per chi tuttavia aveva osato erigersi a tale dottore, maestro, guida e capo dei discepoli, che i suoi seguaci erano persuasi di trovarsi al seguito non di un uomo comune, ma del tuo Spirito Santo, si poteva mai giudicare che tanta follia, una volta dimostrata falsa, non meritasse esecrazione e un netto rifiuto? Io per altro non avevo ancora assodato chiaramente se la successione di giorni e notti ora più lunghe, ora più brevi, come delle notti stesse ai giorni, l’oscuramento delle luci celesti e quanti fenomeni del genere avevo letto negli altri libri, non si fosse potuto spiegarli anche secondo i suoi insegnamenti. Se si fosse potuto, pur rimanendo incerto, naturalmente, su come stessero le cose, avrei tuttavia messo innanzi, per conservare la mia fede, la sua autorità, a cagione della fama di santo che lo circondava.


Attesa, arrivo, personalità di Fausto

6. 10. Perciò durante i nove anni circa, in cui la mia mente vagabonda ascoltò costoro, attesi con desiderio fin troppo intenso l’arrivo di questo Fausto. Tutti gli altri suoi consorti, con i quali ero venuto accidentalmente a contatto, alle obiezioni che muovevo su questa materia non sapevano rispondere se non con la promessa del suo arrivo: al primo abboccamento egli non avrebbe avuto la minima difficoltà a risolvere nel modo più chiaro questi e altri più intricati quesiti che gli avessi eventualmente proposti. Così quando arrivò feci la conoscenza di una persona amabile, un parlatore piacevole, capace di esporre le medesime cose dette da altri, in forma molto più attraente. Ma che importavano alla mia sete i più preziosi calici di un elegantissimo coppiere? Di simili discorsi le mie orecchie erano già sature; non mi apparivano migliori per essere detti meglio, o veri per essere eloquenti, né mi appariva saggia la sua mente per essere il suo aspetto gradevole ed elegante l’eloquio. Quanto a coloro che me ne promettevano meraviglie, non erano buoni giudici: egli sembrava a loro accorto e saggio perché li dilettava la sua parola. Ho conosciuto d’altra parte una diversa specie di persone, che prendevano addirittura in sospetto la verità e si rifiutavano di tenersene paghi se gliela si porgeva con linguaggio ornato e ridondante. Ma per mio conto ero già stato ammaestrato dal mio Dio in modi mirabili e segreti: e credo che fosti tu ad ammaestrarmi perché si tratta della verità e fuori di te nessun altro è maestro di verità, ovunque e da dovunque splenda la sua fama. Avevo già imparato da te, dunque, che un argomento esposto non deve sembrare vero perché esposto eloquentemente, né falso perché risuonano confusamente le parole dalla bocca; ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché forbito il discorso. Accade invece della sapienza e della stoltezza come dei cibi utili e nocivi: sono somministrabili con parole ornate o disadorne, come entrambi quei cibi con piatti civili o rusticani.

6. 11. L’avidità con cui avevo aspettato per tanto tempo il personaggio era appagata dall’eccitazione patetica delle sue dispute e dalla scelta di parole adatte, che si ordinavano spontaneamente a rivestire i concetti. Ero dunque soddisfatto, e come molti altri o anche più di molti altri, lo elogiavo e magnificavo; però mi stizzivo di non potergli sottoporre, nella ressa degli ascoltatori, le mie questioni e metterlo a parte delle mie angustie, conferendo con lui nell’intimità, ascoltando e rispondendo ai suoi argomenti. Quando infine me ne fu data l’occasione e con i miei amici riuscii ad accaparrarmi la sua attenzione in un’ora adatta per un dibattito a due, esposi alcuni dubbi che mi turbavano; ma conobbi anzitutto un uomo che non conosceva le lettere, se si esclude la grammatica, in cui pure non era eccezionalmente versato: aveva letto alcune orazioni tulliane, pochissimi libri di Seneca, qualche volume di poesia, e i pochi dei suoi correligionari che siano scritti in un latino corretto e adorno. In più, dall’esercizio dei discorsi tenuti giornalmente in pubblico gli derivava una parlata facile, resa ancora più gradita e seducente da un uso accorto dell’ingegno e da un certo garbo naturale. È così come ricordo, Signore Dio mio, arbitro della mia coscienza? Il mio cuore e la mia memoria sono innanzi a te, che allora mi muovevi secondo l’occulto segreto della tua provvidenza e già rivolgevi i miei turpi errori davanti alla mia faccia perché al vederli li odiassi.


Gradevole modestia di Fausto

7. 12. Dopoché mi apparve abbastanza chiaramente l’incompetenza di quell’uomo nelle discipline in cui l’avevo immaginato eccellente, cominciai a perdere la speranza di avere da lui spiegate e risolte le questioni che mi turbavano. Naturalmente avrebbe potuto ignorare le mie questioni, e possedere la verità religiosa; ma a patto di non essere un manicheo. I libri manichei rigurgitano d’interminabili favole sul cielo, le stelle, il sole, la luna, e io desideravo appunto questo: che dimostrasse intelligentemente, dopo averle raffrontate con le spiegazioni matematiche da me lette altrove, come la spiegazione offerta dai testi di Mani fosse preferibile o di certo almeno pari; ma non speravo più tanto. Gli sottoposi tuttavia le questioni, affinché le considerasse e discutesse. Egli con innegabile modestia e cautela si rifiutò di addossarsi il pesante fardello; non ignaro della propria ignoranza in materia, non si vergognò di riconoscerla. Era dunque ben diverso dai molti chiacchieroni che avevo dovuto sopportare e che avevano cercato di erudirmi senza dire nulla. Costui aveva un’intelligenza, se non diretta verso di te, però non troppo incauta verso se stessa. Non del tutto inesperto della propria inesperienza, evitò di rinchiudersi con una disputa temeraria in una posizione senza uscite e di non facile ritirata per lui. Anche questo atteggiamento me lo rese ancora più accetto. La modestia di un animo che si apre è più bella della scienza che io cercavo; e quell’uomo lo trovai sempre così in tutte le questioni un po’ difficili e sottili.


Sfiducia e freddezza verso il manicheismo

7. 13. Con lui si dissolse l’interesse che avevo portato alle dottrine di Mani. Fiducia ancora minore nutrivo verso gli altri loro maestri, dopoché il più famoso mi si rivelò ignorante nelle molte questioni che mi turbavano. Non mancai tuttavia di frequentarlo a motivo della passione che lo infiammava per la letteratura, da me insegnata a quel tempo come retore ai giovani di Cartagine. Leggevo in sua compagnia i testi di cui aveva udito parlare e che desiderava conoscere, oppure io stesso ritenevo adatti a un’indole come la sua. Per il resto i miei sforzi e intenti di progredire in quella setta furono tutti immediatamente stroncati dopo conosciuto quell’uomo, benché non me ne separassi del tutto. Non trovando, direi, nulla di meglio, decisi di star pago per il momento della posizione che avevo comunque raggiunto precipitosamente, finché apparisse una luce preferibile. Così quel Fausto, che fu per molti un lacciuolo mortale, senza volerlo e senza saperlo aveva già cominciato a sciogliere il lacciuolo in cui ero stato preso. Le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano invero la mia anima; d’altra parte, dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime. Agisti verso di me in modi mirabili. Fu azione tua, Dio mio, perché dal Signore sono diretti i passi dell’uomo, e gli imporrà la via. Come ottenere la salvezza, se la tua mano non ricrea la tua creazione?

A Roma; crisi scettica

I motivi della partenza

8. 14. Fu dunque per la tua azione verso di me che mi lasciai indurre a raggiungere Roma e a insegnare piuttosto là ciò che insegnavo a Cartagine. Non tralascerò di confessarti cosa m’indusse a tanto, perché anche in questa circostanza si deve riconoscere e proclamare l’occulta profondità e l’indefettibile presenza della tua misericordia verso di noi. A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l’unica fu un’altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l’eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l’ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un’azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. Perciò desideravo trasferirmi in una località ove, a detta degli informati, fatti del genere non avvenivano. Ma in realtà eri tu, mia speranza e mia eredità nella terra dei vivi, che per indurmi a un trasloco mondano salutare alla mia anima, accostavi a Cartagine il pungolo, che me ne staccasse, e presentavi le lusinghe di Roma, che mi attraessero. A tale scopo ti servivi di uomini perduti dietro una vita morta, che qui compivano follie, là promettevano vanità; e per raddrizzare i miei passi mettevi a frutto segretamente la loro e la mia perversità. Infatti chi disturbava la mia quiete era accecato da un furore degradante, chi m’invitava in un’altra località pensava alla terra, e quanto a me, se qui detestavo una vera miseria, là cercavo una falsa felicità.


Difficile congedo dalla madre

8. 15. Ma le ragioni per cui lasciavo un luogo e ne raggiungevo un altro tu le conoscevi, o Dio, anche se non le indicavi né a me né a mia madre, che pianse atrocemente per la mia partenza. Mi seguì fino al mare; quando mi strinse violentemente, nella speranza di dissuadermi dal viaggio o di proseguire con me, la ingannai, fingendo di non voler lasciare solo un amico, che attendeva il sorgere del vento per salpare. Mentii a mia madre, a quella madre, eppure scampai, perché la tua misericordia mi perdonò questa colpa, mi salvò dalle acque del mare malgrado le orrende brutture di cui traboccavo, per condurmi all’acqua della tua grazia, le cui abluzioni avrebbero asciugato i fiumi delle lacrime di cui gli occhi di mia madre volti a te rigavano per me quotidianamente la terra sotto il suo volto. Però si rifiutò di tornare indietro senza di me, e faticai a persuaderla di passare la notte nell’interno di una chiesuola dedicata al beato Cipriano, che sorgeva vicinissima alla nostra nave. Quella notte stessa io partivo clandestinamente, mentre essa rimaneva a pregare e a piangere. E cosa ti chiedeva, Dio mio, con tante lacrime, se non d’impedire la mia navigazione? Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare. Spirò il vento e riempì le nostre vele. La riva scomparve al nostro sguardo la stessa mattina in cui ella folle di dolore riempiva le tue orecchie di lamenti e gemiti, dei quali non facesti conto: perché, servendoti delle mie passioni, attiravi me a stroncare proprio le passioni e flagellavi lei con la sofferenza meritata per la sua bramosia troppo carnale. Amava la mia presenza al suo fianco come tutte le madri, ma molto più di molte madri, e non immaginava quante gioie invece le avresti procurato con la mia assenza. Non lo immaginava, perciò piangeva e gemeva, e i suoi tormenti rivelavano l’eredità di Eva in lei, che cercava con lamenti quanto con lamenti aveva partorito. Tuttavia, dopo aver imprecato contro i miei tradimenti e la mia crudeltà, riprese a implorarti per me, tornando alla sua solita vita, mentre io veleggiavo alla volta di Roma.


Una pericolosa malattia a Roma

9. 16. Qui ecco mi accolse il flagello delle sofferenze fisiche, che ben presto m’incamminavano verso l’inferno col fardello di tutte le colpe commesse contro te, contro me e contro il prossimo, colpe numerose e gravi, aggiunte al vincolo del peccato originale, per cui tutti siamo morti in Adamo. Non me ne avevi condonata nessuna nel nome di Cristo, né questi aveva pagato sulla sua croce l’inimicizia che avevo contratto con te mediante i miei peccati. E invero, come poteva pagarla su una croce il fantasma che io allora mettevo al suo posto? Quanto mi sembrava falsa la morte della sua carne, tanto era vera quella della mia anima; e quanto era vera la morte della sua carne, tanto era falsa la vita della mia anima incredula. Col crescere della febbre ben presto fui lì lì per andarmene, e andarmene in perdizione. Dove sarei andato, infatti, se avessi abbandonato allora questo mondo, se non al fuoco e ai tormenti degni dei miei misfatti secondo la verità dei tuoi comandamenti? Mia madre, pur ignara del mio male, tuttavia pregava, assente, per me; e tu, dovunque presente, dov’era lei l’esaudivi e dov’ero io t’impietosivi di me a tal segno, da farmi ricuperare la salute del corpo, benché fossi ancora malsano nel cuore sacrilego: anche in un pericolo così grave, infatti, non desiderai il tuo battesimo. Ero più buono da piccolo, perché allora lo richiesi insistentemente dalla tenerezza di mia madre, come ho già ricordato e confessato. Cresciuto invece a disdoro di me stesso, nella mia follia deridevo le prescrizioni della tua medicina. Eppure non permettesti che io morissi doppiamente in quello stato. Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.


Le preghiere di Monica

9. 17. Non vedo davvero come si sarebbe risanato, se la mia morte in quello stato avesse trafitto le viscere del suo amore. Dove sarebbero finite le preghiere così ferventi che ripeteva senza interruzione? Presso di te, non altrove; ma avresti potuto tu, Dio delle misericordie, sprezzare il cuore contrito e umiliato di una vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni? Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare. Lungi da me il pensiero che avresti potuto ingannarla nelle sue visioni e nei tuoi responsi, già ricordati e non ricordati da me, che ella serbava nel suo cuore fedele e ti presentava nelle sue orazioni incessanti come impegni firmati di tua mano. Infatti nell’eternità della tua misericordia tu accetti d’indebitarti con coloro cui condoni tutti i debiti.


Rapporti con i manichei romani

10. 18. Così mi guaristi da quella infermità e salvasti il figlio dell’ancella tua, allora e per allora fisicamente, per avere poi a chi porgere una salvezza più preziosa e sicura. Però anche a Roma mi tenevo in contatto con quei falsi e fallaci santoni: non solo cioè con gli uditori, fra i quali si annoverava pure chi mi ospitò malato e convalescente, bensì con gli eletti, come son chiamati. Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un’altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l’essere estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea di peccato contro di te. Preferivo scusarmi accusando un’entità ignota, posta in me stesso senza essere me stesso, mentre ero un tutto unico e mi aveva diviso contro me stesso la mia empietà. Ed era un peccato più difficile da sanare il fatto che non mi ritenessi peccatore; ed era un’empietà esecrabile il preferire, Dio onnipotente, la tua sconfitta dentro di me, per mia rovina, alla mia sconfitta di fronte a te, per mia salvezza. Non avevi ancora collocato una custodia alla mia bocca e la porta del ritegno sulle mie labbra, affinché il mio cuore non uscisse in parole maligne per offrire scuse da scusare i peccati insieme a uomini che operano il male. Perciò me l’intendevo ancora con i loro eletti, sebbene non sperassi più di progredire in quella falsa dottrina. Anzi tenevo ormai con minore impegno e cura la posizione stessa ove avevo deliberato di stare pago, se non trovavo nulla di meglio.


Scetticismo: la filosofia accademica

10. 19. Mi era nata infatti anche l’idea che i più accorti di tutti i filosofi fossero stati i cosiddetti accademici, in quanto avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che all’uomo la verità è totalmente inconoscibile. Allora mi sembrava che la loro dottrina fosse proprio quella che gli si attribuisce comunemente, poiché non capivo ancora il loro vero intento.Così rintuzzai apertamente l’esagerata fiducia che, mi avvidi, il mio ospite riponeva nelle favole di cui sono pieni i libri manichei. Tuttavia mantenevo rapporti di amicizia più con questi che con gli altri uomini alieni dalla loro eresia; e se non la sostenevo con l’ardore di un tempo, però la familiarità con i suoi seguaci, occultati in grande numero a Roma, mi rendeva meno solerte nella ricerca di altro, tanto più che non speravo di trovare nella tua Chiesa, Signore del cielo e della terra, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, la verità, da cui essi mi avevano allontanato. Mi sembrava sconvenientissimo credere che tu hai la figura della carne umana e sei circoscritto nei limiti materiali delle nostre membra. L’incapacità di pensare, volendo pensare il mio Dio, a cosa diversa da una massa corporea, poiché mi pareva che nulla esistesse senza un corpo, era la suprema e quasi unica ragione del mio inevitabile errore.


Il male concepito come sostanza

10. 20. Di conseguenza credevo che anche il male fosse una qualche sostanza simile e fosse dotato di una sua massa oscura e informe, qui densa, ed è ciò che chiamavano terra, là tenue e sottile, secondo la natura dell’aria, che immaginano come uno spirito maligno strisciante su quella terra. E poiché la mia religiosità, qualunque fosse, mi costringeva a riconoscere che un dio buono non poteva aver creato nessuna natura cattiva, stabilivo due masse opposte fra loro, entrambe infinite, ma in misura più limitata la cattiva, più ampia la buona. Da questo principio letale derivavano tutte le altre mie eresie. Ogni tentativo del mio spirito di tornare alla fede cattolica era frustrato dal falso concetto che avevo di quella fede. Mi sembrava più grande devozione, Dio mio che confessano gli atti della tua commiserazione su di me, il crederti infinito nelle altre direzioni, eccetto in quella sola ove ti si opponeva la massa del male ed ero costretto a riconoscerti finito, che non il pensarti limitato in ogni direzione entro la forma di un corpo umano. Così mi sembrava più degno credere che tu non avessi creato nessun male, anziché credere derivata da te la natura del male quale me la figuravo io, che nella mia ignoranza non solo gli attribuivo una sostanza, ma una sostanza corporea, essendo incapace di pensare persino lo spirito privo di un corpo, sottile, che però si diffondesse nello spazio. Lo stesso nostro Salvatore, il tuo unigenito, lo immaginavo emanato dalla massa del tuo corpo luminosissimo per la nostra salvezza, null’altro credendo di lui, se non ciò che poteva rappresentarmi la mia vanità. Naturalmente ritenevo che una simile natura non potesse nascere da Maria vergine senza connettersi con la carne. Come poi questa connessione potesse avvenire e non inquinare l’essere che mi figuravo, non riuscivo a scorgere. Esitavo dunque a credere che fosse nato nella carne, per timore di doverlo credere inquinato dalla carne. I tuoi figli spirituali sorrideranno ora con affettuosa indulgenza di me, al leggere le mie confessioni. Tuttavia ero così.


Accuse dei manichei alle Scritture

11. 21. Esistevano poi le critiche dei manichei alle tue Scritture, che mi sembravano irrefutabili. Eppure a volte avrei desiderato davvero sottoporre alcuni singoli passi a qualche profondo conoscitore dei libri sacri per sondare la sua opinione. C’era ad esempio un certo Elpidio, che soleva discutere pubblicamente proprio con i manichei e che già a Cartagine mi aveva impressionato con i suoi discorsi, poiché citava certi passi scritturali difficilmente contrastabili. Le risposte degli avversari mi sembravano deboli; per di più preferivano darcele in segreto, anziché esporle in pubblico. Sostenevano che gli scritti del Nuovo Testamento erano stati falsati, chissà poi da chi, col proposito d’innestare la legge dei giudei sulla fede cristiana, senza presentare dal canto loro alcun esemplare integro di quel testo. Ma io, incapace di raffigurarmi un essere incorporeo, rimanevo soprattutto schiacciato, per così dire, dalle due masse famose: prigioniero e soffocato sotto il loro peso, anelavo a respirare l’aria limpida e pura della tua verità, ma invano.


Misfatti degli studenti romani

12. 22. Iniziata volenterosamente l’attività per cui ero venuto a Roma, ossia l’insegnamento della retorica, dapprima adunai in casa mia un certo numero di allievi, ai quali e grazie ai quali cominciai a essere noto; quand’ecco vengo a conoscere altre abitudini di Roma, che non mi affliggevano in Africa. Certo ebbi la conferma che là non si verificavano i famigerati disordini degli scolari depravati. Tuttavia fui anche avvertito che improvvisamente, per non versare il compenso al proprio maestro, i giovani si coalizzano e si trasferiscono in massa presso altri, tradendo così la buona fede e calpestando la giustizia per amore del denaro. In cuor mio cominciai a odiare anche costoro, ma non di un odio perfetto: probabilmente li odiavo più per il danno che avrei subìto io, che per il modo illegale con cui agivano verso gli altri. Certo è che si tratta di individui immondi, i quali trescano lontano da te, amando un oggetto evanescente, trastullo del tempo, e un lucro fangoso, che a stringerlo insozza le mani; aggrappandosi a un mondo fugace, e disprezzando te, che stabile lanci il tuo richiamo e perdoni la meretrice anima umana che a te ritorna. Ora odio questa gente malvagia e corrotta, ma l’amo anche, per correggerla e farle anteporre al denaro la dottrina che impara, e quindi alla dottrina te, Dio, verità, fecondità di bene sicuro e castissima pace; invece allora cercavo di evitare le sue cattiverie per amor mio, anziché di migliorarla per amor tuo.

A Milano

Trasferimento a Milano e incontro con Ambrogio

13. 23. Perciò, quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l’offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m’inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino. A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te. Quell’uomo di Dio mi accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione: volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m’interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo. La soavità della sua parola m’incantava. Era più dotta, ma meno gioviale e carezzevole di quella di Fausto quanto alla forma; quanto alla sostanza però, nessun paragone era possibile: l’uno si sviava nei tranelli manichei, l’altro mostrava la salvezza nel modo più salutare. Ma la salvezza è lontana dai peccatori, quale io ero allora là presente. Eppure mi avvicinavo ad essa sensibilmente e a mia insaputa.


Il significato spirituale delle Scritture nella predicazione di Ambrogio

14. 24. Non badavo dunque a imparare i temi, ma solo ad ascoltare i modi della sua predicazione. Sfiduciato ormai che all’uomo si aprisse la via per giungere a te, conservavo questo futile interesse. Pure, insieme alle parole, da cui ero attratto, giungevano al mio spirito anche gli argomenti, per cui ero distratto. Non potevo separare gli uni dalle altre, e mentre aprivo il cuore ad accogliere la sua predicazione feconda, vi entrava insieme la verità che predicava, sia pure per gradi. Dapprima, incominciai a rendermi conto ormai che anche le sue tesi erano difendibili, e ormai mi convinsi che non era temerario sostenere la fede cattolica, benché fino ad allora fossi stato persuaso che nessun argomento si potesse opporre agli attacchi dei manichei. Ciò avvenne soprattutto dopoché udii risolvere via via molti grovigli dell’Antico Testamento, che, presi alla lettera, erano esiziali per me. L’esposizione dunque di numerosi passaggi della Sacra Scrittura secondo il significato spirituale mi mosse ben presto a biasimare almeno la mia sfiducia, per cui avevo creduto del tutto impossibile resistere a chi esecrava e derideva la Legge e i Profeti. Non per questo tuttavia mi sentivo ancora costretto a seguire da un lato la fede cattolica, che poteva essa pure disporre di dotti sostenitori, capaci di confutare le obiezioni con parola eloquente e argomenti rigorosi; a condannare dall’altro il sistema che seguivo, per essere i due partiti pari nella difesa. Ossia la fede cattolica non mi appariva vinta, ma non si mostrava ancora vincitrice.


L’abbandono del manicheismo

14. 25. Allora però tesi tutte le forze del mio spirito nella ricerca di un argomento inconfutabile, con cui dimostrare la falsità delle dottrine manichee. Se solo avessi potuto pensare a una sostanza spirituale, tutte le loro macchinose costruzioni si sarebbero istantaneamente sfasciate e dileguate dalla mia mente. Ma non riuscivo. Riguardo alla struttura del mondo, tuttavia, e all’intera natura soggetta ai nostri sensi fisici, le mie considerazioni e i miei raffronti mi persuasero sempre meglio che le teorie della maggioranza dei filosofi erano molto più attendibili. Nel mio dubitare di tutto, secondo il costume degli accademici quale è immaginato comunemente, e nel fluttuare fra tutte le dottrine, risolsi di abbandonare davvero i manichei. Giudicai che proprio in quella fase d’incertezza non dovessi rimanere in una setta che ormai ponevo più in basso di parecchi filosofi, sebbene poi mi rifiutassi assolutamente di affidare alle loro cure la debolezza della mia anima, poiché ignoravano il nome di Cristo. Decisi dunque di rimanere come catecumeno nella Chiesa cattolica, raccomandatami dai miei genitori, in attesa che si accendesse una luce di certezza, su cui dirigere la mia rotta.

Libro sesto

A TRENT’ANNI


Primi passi verso la fede

Monica a Milano

1. 1. O speranza mia fin dalla mia giovinezza, dov’eri per me, dove ti eri ritratto? Non eri stato tu a crearmi, a farmi diverso dai quadrupedi e più sapiente dei volatili del cielo? Ma io camminavo fra le tenebre e su terreno sdrucciolevole; ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore. Ormai avevo raggiunto il fondo del mare: come non perdere fiducia, non disperare di scoprire più il vero? Già mi aveva raggiunto mia madre, che, forte della sua pietà, m’inseguì per terra e per mare, traendo sicurezza da te in ogni pericolo. Così anche nei fortunali marini confortava gli stessi marinai, da cui abitualmente chi attraversa per la prima volta gli abissi riceve conforto nella sua paura, promettendo loro un arrivo sicuro alla meta, poiché tu glielo avevi promesso in una visione. Mi trovò in grave pericolo. Non speravo più di scoprire la verità. Tuttavia, quando la informai che, pur senza essere cattolico cristiano, non ero più manicheo, non sobbalzò di gioia come alla notizia di un avvenimento imprevisto: da tempo era tranquilla per questa parte della mia sventura, ove mi considerava come un morto, ma un morto da risuscitare con le sue lacrime versate innanzi a te e che ti presentava sopra il feretro del suo pensiero affinché tu dicessi a questo figlio della vedova: “Giovane, dico a te, alzati”, ed egli tornasse a vivere e cominciasse a parlare, e tu lo restituissi a sua madre. Nessuna esultanza scomposta commosse dunque il suo cuore alla notizia che quanto ti chiedeva ogni giorno, fra le lacrime, di compiere, si era compiuto: se non avevo ancora colto la verità, ero però stato ormai tolto dalla menzogna. Fermamente sicura, anzi, che avresti concesso anche il resto, poiché tutto le avevi promesso, mi rispose con assoluta pacatezza e il cuore pieno di fiducia: “Credo in Cristo che prima di migrare da questo mondo ti avrò veduto cattolico convinto”. Questa la risposta che diede a me; ma a te, fonte di misericordie, diede più intense preghiere e lacrime, affinché affrettassi il tuo aiuto e illuminassi le mie tenebre. Con maggior fervore correva anche in chiesa, ove pendeva dalle labbra di Ambrogio, fonte di acqua zampillante per la vita eterna. Amava quell’uomo come un angelo di Dio da quando aveva saputo che per suo merito ero arrivato frattanto a ondeggiare almeno nel dubbio, a questo varco obbligato e più pericoloso, come sono gli attacchi che i medici chiamano critici, del mio transito, per lei sicuro, dalla malattia alla salute.


Ubbidienza e devozione di Monica verso Ambrogio

2. 2. Un giorno mia madre, secondo un’abitudine che aveva in Africa, si recò a portare sulle tombe dei santi una farinata, del pane e del vino. Respinta dal custode, appena seppe che c’era un divieto del vescovo, lo accettò con tale devozione e ubbidienza, da stupire me stesso al vedere la facilità con cui condannava la propria consuetudine anziché discutere la proibizione del vescovo. Il suo spirito non era soffocato dall’ebrietà né spinto dall’amore del vino a odiare il vero, mentre i più fra i maschi e le femmine all’udire il ritornello della sobrietà vengono assaliti dalla nausea che prende gli ubriachi davanti a un bicchiere d’acqua. Quando portava lei il canestro con le vivande rituali da distribuire agli intervenuti dopo averle assaggiate, poneva davanti solo un calicetto di vino diluito secondo le esigenze del suo palato piuttosto sobrio e per riguardo verso gli altri; e se erano molte le sepolture dei defunti che così si volevano onorare, portava intorno quell’unico, piccolo calice da deporre su ogni tomba, e in quello condivideva a piccoli sorsi con i fedeli presenti un vino non solo molto annacquato, ma anche molto tiepido. Alle tombe infatti si recava per devozione, non per diletto. Perciò, una volta informata che il predicatore illustre, l’antesignano della devozione aveva proibito di eseguire quelle cerimonie anche sobriamente, per non dare ai beoni alcuna occasione d’ingurgitare vino e per la grande somiglianza di quella sorta di parentali con le pratiche superstiziose dei pagani, se ne astenne ben volentieri. In luogo di un canestro pieno di frutti terreni imparò a portare alle tombe dei martiri un cuore pieno di affetti più puri. Così dava ai poveri quanto poteva, anche se a celebrarsi era la comunione del corpo del Signore: perché i martiri s’immolarono e furono coronati a imitazione della passione di lui. Eppure credo, Signore Dio mio, ed è in proposito la mia intima convinzione davanti ai tuoi occhi, che probabilmente mia madre non si sarebbe arresa con tanta facilità a troncare le sue usanze, se la proibizione fosse venuta da una persona che non avesse amato come Ambrogio; e Ambrogio lo amava soprattutto a cagione della mia salvezza. Lui poi amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l’elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell’impossibilità di trovare la via della vita.


L’ammirevole figura di Ambrogio

3. 3. Non t’invocavo ancora con gemiti affinché venissi in mio aiuto. Il mio spirito era piuttosto attratto dalla ricerca e mai sazio di discussioni. Lo stesso Ambrogio era per me un uomo qualsiasi, fortunato secondo il giudizio mondano perché riverito dalle massime autorità; l’unica sua pena mi sembrava fosse il celibato che praticava. Delle speranze invece che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza, delle consolazioni che trovava nell’avversità, delle gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore, di tutto ciò non potevo avere né idea né esperienza. Dal canto suo ignorava anch’egli le mie tempeste e la fossa ove rischiavo di cadere. Non mi era infatti possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura. Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Poi ci allontanavamo, supponendo che aveva piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri. Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell’autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale. Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello.


L’uomo immagine di Dio secondo la fede cattolica

3. 4. Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui; ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell’idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi. La scoperta poi da me fatta, che i tuoi figli spirituali, rigenerati per tua grazia dalla maternità della Chiesa cattolica, non intendevano le parole ov’è detto che l’uomo fu da te fatto a tua immagine nel senso di crederti e pensarti rinchiuso nella forma di un corpo umano, per quanto non riuscissi a scorgere neppure debolmente e in un enigma come fosse una sostanza spirituale, mi fece arrossire gioiosamente di aver latrato per tanti anni non già contro la fede cattolica, bensì contro fantasmi creati da immaginazioni carnali. Temerario ed empio ero stato, perché avevo asserito, accusando, cose che avrei dovuto asserire indagando. Tu, altissimo e vicinissimo, remotissimo e presentissimo, non fornito di membra più grandi e più piccole, ma esistente per intero in ogni luogo e in nessuno, facesti però l’uomo a tua immagine senza possedere affatto questa nostra forma corporale; ed ecco l’uomo esistere in un dato luogo dalla testa ai piedi.


Scoperta dell’unica Chiesa

4. 5. Ignorando in quale modo l’uomo fosse tua immagine, avrei dovuto, bussando, controllare in quale modo bisognava credervi, non, burlando, contrastare, quasi che vi si credesse come io mi immaginavo. Tanto più acuto era dunque nel mio intimo l’assillo di conoscere cosa dovevo ritenere per certo, quanto più mi vergognavo di essermi lasciato illudere e ingannare così a lungo da una promessa di certezza, e di aver proclamato per certo un grande numero di dottrine incerte, come un fanciullo impetuoso nei suoi errori. La fallacia di quelle dottrine mi apparve più tardi; fin d’allora però ebbi la certezza della loro incertezza, benché un tempo le avessi tenute per certe, quando sferravo alla cieca attacchi e accuse contro la tua Chiesa cattolica, ignaro che insegna la verità, ma non insegna le dottrine di cui l’accusavo gravemente. Di qui la mia confusione, la mia conversione e la mia gioia, Dio mio, perché la tua unica Chiesa, corpo del tuo unico Figlio, nel cui grembo mi fu inoculato, infante, il nome di Cristo, non si compiaceva di futilità infantili, e il suo insegnamento sicuro non ti confinava, creatore di tutte le cose, in uno spazio fisico, sia pure altissimo ed ampio, ma tuttavia limitato in ogni direzione dal profilo delle membra umane.


Il senso spirituale delle Scritture

4. 6. Gioivo pure che la lettura dell’antica Legge e dei Profeti mi fosse proposta con una visuale diversa dalla precedente, la quale me li faceva apparire assurdi, mentre rimproveravo ai tuoi santi una concezione che non avevano; e mi rallegravo di sentir ripetere da Ambrogio nei suoi sermoni davanti al popolo come una norma che raccomandava caldamente: “La lettera uccide, lo spirito invece vivifica”. Così quando, scostando il velo mistico, scopriva il senso spirituale di passi che alla lettera sembravano insegnare un errore, le sue parole non mi spiacevano, benché ignorassi ancora se erano veritiere. Trattenevo il mio cuore dall’assentirvi minimamente, per timore del precipizio, e il pencolare a quel modo era una morte peggiore. Che pretesa la mia, di raggiungere su cose che non vedevo la stessa certezza con cui ero certo che sette più tre fa dieci! Non così pazzo da ritenere che nemmeno quest’ultima verità si può comprendere, volevo però comprendere allo stesso modo anche le altre verità, sia le corporee non sottoposte ai miei sensi, sia le spirituali, per me pensabili esclusivamente sotto una forma corporea. Potevo guarire con la fede, cosicché l’occhio della mia mente si fissasse più puro sulla tua verità permanente e indefettibile; ma, come accade di solito, che dopo aver incontrato un medico cattivo si ha paura di affidarsi anche al buono, così la mia anima ammalata e risanabile soltanto dalla fede respingeva la guarigione per timore di una fede sbagliata, resistendo alle tue mani, che confezionarono la medicina della fede e la sparsero sulle malattie dell’universo intero, dotandola di così grande potere.


Lento e incerto sviluppo della fede in Agostino

5. 7. Tuttavia da allora incominciai a preferire la dottrina cattolica, anche perché la trovavo più equilibrata e assolutamente sincera nel prescrivere una fede senza dimostrazioni, che a volte ci sono, ma non sono per tutti, altre volte non ci sono affatto. Il manicheismo invece prometteva temerariamente una scienza, tanto da irridere la fede, e poi imponeva di credere a un grande numero di fole del tutto assurde, dal momento che erano indimostrabili. Sotto il lavorio della tua mano delicatissima e pazientissima, Signore, ora il mio cuore lentamente prendeva forma. Tu mi facesti considerare l’incalcolabile numero dei fatti a cui credevo senza vederli, senza assistere al loro svolgimento, quale la moltitudine degli eventi storici, delle notizie di luoghi e città mai visitate di persona, delle cose per cui necessariamente, se vogliamo agire comunque nella vita, diamo credito agli amici, ai medici, a persone di ogni genere; e infine come ero saldamente certo dell’identità dei miei genitori, benché nulla potessi saperne senza prestare fede a ciò che udivo. Così mi convincesti che non merita biasimo chi crede nelle tue Scritture, di cui hai radicato tanto profondamente l’autorità in quasi tutti i popoli, ma piuttosto chi non vi crede. Dunque non dovevo prestare ascolto, se qualcuno per caso mi diceva: “Come sai che questi libri furono trasmessi al genere umano dallo spirito dell’unico Dio vero e assolutamente veritiero?”. Proprio ciò bisognava soprattutto credere, poiché non v’era stata violenza di calunniose obiezioni nelle molte dispute dei filosofi lette sui libri, che avesse potuto strapparmi neppure per un attimo la fede nella tua esistenza sotto qualunque forma a me ignota, e nel governo delle cose umane, che ti appartiene.

5. 8. Però questa fede era in me ora più salda, ora più fievole. Tuttavia credetti sempre che esisti e ti curi di noi, pur ignorando quale concezione bisognava avere della tua sostanza e quale sia la strada che conduce o riconduce a te. Essendo dunque gli uomini troppo deboli per trovare la verità con la sola ragione, e avendo perciò bisogno dell’autorità di testi sacri, io avevo incominciato a credere ormai che non avresti attribuito un’autorità così eminente presso tutti i popoli della terra a quella Scrittura, se non avessi desiderato che l’uomo per suo mezzo credesse in te e per suo mezzo ti cercasse. Dopo le molte spiegazioni accettabili che ne avevo udito, ormai attribuivo le assurdità che mi solevano urtare in quei testi alla sublimità dei simboli. La loro autorità mi appariva tanto più venerabile e degna di fede pura, in quanto si offrivano a qualsiasi lettore, ma serbavano la maestà dei loro misteri a una penetrazione più profonda. L’estrema chiarezza del linguaggio e umiltà dello stile li rendevano accessibili a tutti, eppure stimolavano l’acume di coloro che non sono leggeri di cuore; e se accoglievano nel loro seno aperto l’umanità intera, lasciavano passare per anguste fessure fino a te un numero piccolo di persone, molto più grande tuttavia di quanto non sarebbe stato, se ad essi fosse mancato un prestigio così eminente e una santità così umile, da attrarre nel proprio grembo le turbe. Mentre andavo così riflettendo, tu mi eri vicino, udivi i miei sospiri, mi guidavi nei miei ondeggiamenti, mi accompagnavi nel mio cammino attraverso l’ampia strada del mondo.


Un mendicante felice

6. 9. Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria! Quel giorno mi preparavo a recitare un elogio dell’imperatore, infarcito di menzogne, ma capace di conciliare al mentitore i favori di altre persone, ben consapevoli. Il cuore ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese scorsi un povero mendicante, che, credo, oramai saturo di vino, scherzava allegramente. Sospirando feci rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie: tutti i nostri sforzi, quali quelli che proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell’ambizione il fardello della mia insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravano, se non al traguardo di una gioia sicura, ove quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati? Il risultato che egli aveva ottenuto con ben pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime. Egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia; ma anch’io con le mie ambizioni ne cercavo una più fallace ancora, e ad ogni modo egli era allegro, io angosciato, egli sicuro, io ansioso. Richiesto di dire se preferivo l’esultanza o il timore, avrei risposto: “L’esultanza”; ma se poi mi fosse stato chiesto: “Preferiresti essere come costui, o come sei tu ora?”, avrei scelto di essere com’ero, stremato d’affanni e timori. Quale perversione! Infatti secondo ragione non avrei dovuto anteporre al mendico la mia più vasta cultura, se non ne ricavavo motivi di gioia, bensì la impiegavo per piacere agli uomini, non ammaestrandoli, ma solo dilettandoli. Perciò tu col bastone della tua scuola spezzavi le mie ossa.

6. 10. Si allontani dunque dalla mia anima chi le dice: “Bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo. Il mendico lo traeva dall’ebbrezza, tu lo cercavi nella gloria”. Quale gloria, Signore? Una gloria estranea a te. Se non era vera gioia quella del mendico, neppure la mia gloria era vera, e contribuiva a traviare la mia mente. Inoltre il mendico avrebbe smaltito la sua ebbrezza nel giro della notte seguente; io con la mia mi ero addormentato e destato, mi sarei addormentato e destato, guarda quanti giorni! Certo bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo, lo so. Il godimento di una speranza pia è incomparabilmente distante dalla gioia vana del mendico. Però allora c’era un’altra distanza fra noi due: egli era certamente il più felice non solo perché inondato dall’ilarità, mentre io ero disseccato dagli affanni, ma anche perché egli si era procurato il vino con auguri di bene, mentre io ricercavo la vana gloria con menzogne. In questo senso parlai allora lungamente con i miei amici, e spesso poi osservai le mie reazioni in circostanze analoghe, constatando che mi sentivo a disagio e soffrivo, così raddoppiando il disagio stesso. Se poi a volte la fortuna mi arrideva, riluttavo a coglierla, poiché se ne volava via quasi prima che potessi afferrarla.

Fra amici

Alipio discepolo affezionato di Agostino

7. 11. Così conversavamo gemendo fra noi amici, accomunati dalla medesima vita. Ma più che con gli altri e con maggiore confidenza discorrevo di queste cose con Alipio e Nebridio. Alipio, nativo del mio stesso paese e figlio di genitori colà eminenti, era più giovane di me, e infatti era stato alunno alla mia scuola nei primi tempi del mio insegnamento sia in patria, sia poi a Cartagine. Mi amava molto, credendomi virtuoso e dotto, e io lo ricambiavo con pari affetto a motivo della sua indole fortemente e visibilmente inclinata alla virtù fin da giovane età. Ciò nonostante il vortice della moda cartaginese, fervida di spettacoli frivoli, lo aveva inghiottito con una passione forsennata per i giochi del circo. Però al tempo in cui vi era miseramente sballottato, non frequentava ancora le lezioni di retorica che io tenevo pubblicamente, a motivo di certi dissapori sorti fra me e suo padre. Venuto a conoscenza della sua funesta passione per il circo, ero profondamente afflitto dal pensiero che avrebbe guastato, se non l’aveva già fatto, le più belle speranze; ma come ammonirlo o richiamarlo duramente, se non potevo giovarmi né dell’affetto di un amico, né dell’autorità di un maestro? Supponevo infatti che nutrisse verso di me gli stessi sentimenti del padre. Invece non era così, tanto che pospose in questa faccenda la volontà paterna e prese a salutarmi, frequentando la mia aula, ove mi ascoltava un po’ di tempo, per poi allontanarsi.

7. 12. A me però era ormai caduto dalla memoria il proposito di agire su di lui per impedire alla sua passione cieca e irruente degli spettacoli insulsi di stroncare disposizioni tanto buone. Ma non tu, Signore, che governi il timone di ogni tua creatura, avevi dimenticato come dovesse diventare pontefice del tuo sacramento fra i tuoi figli; e perché il suo ravvedimento fosse ascritto inequivocabilmente a te, lo attuasti per mio tramite, ma senza un mio proposito. Un giorno sedevo al mio solito posto, gli allievi di fronte a me, quando entrò, salutò, sedette e cominciò a seguire la trattazione in corso. Io tenevo per caso fra mano un testo, e nel commentarlo pensai bene di trarre un paragone dai giochi del circo per rendere più piacevole e chiara l’idea che volevo inculcare, schernendo mordacemente le vittime di quella follia. Allora, tu sai, Dio nostro, non pensavo a guarire Alipio dalla sua peste; senonché egli si appropriò delle mie parole come se le avessi pronunciate espressamente per lui; e se altri ne avrebbe tratto motivo di risentimento verso di me, quel giovane virtuoso ne trasse motivo di risentimento verso di sé e d’amore più ardente verso di me. Tu avevi detto un tempo e inserito nelle tue Scritture queste parole: Rimprovera il saggio, ed egli ti amerà; ma io non avevo rimproverato quel giovane. Tu invece, che ti servi di tutti, coscienti o incoscienti, secondo l’ordinato disegno da te conosciuto, e giusto disegno, facesti del mio cuore e della mia lingua altrettanti carboni ardenti per cauterizzare la piaga devastatrice di quell’anima ricca di buone speranze, e guarirla. Non canti le tue lodi chi non riconosce gli atti della tua commiserazione; essi ti rendono merito dalle più intime fibre del mio essere. Alipio, dunque, dietro il suono di quelle parole si gettò fuori dalla fossa profondissima, in cui affondava compiaciuto e con strano diletto si privava della luce; scosse il suo spirito con vigorosa temperanza, e ne schizzarono lontano tutte le sozzure del circo, ove non mise più piede; quindi, vincendo le resistenze del padre, mi prese per maestro. Il padre non dissentì, anzi acconsentì, e Alipio, tornando a frequentare le mie lezioni, cadde con me nella rete delle superstizioni manichee. Nei manichei ammirava l’austerità che ostentavano e che invece credeva reale e genuina, mentre era un’esca insana per accalappiare le anime valorose ancora incapaci di attingere le vette della virtù e inclini a lasciarsi ingannare dall’esteriorità di una virtù solo adombrata e finta.


Alipio travolto dalla passione del circo

8. 13. Senza abbandonare davvero la via del mondo, a lui decantata dai suoi genitori, mi aveva preceduto a Roma con l’intenzione di apprendervi il diritto. E là in circostanze stravaganti venne travolto dalla stravagante passione per gli spettacoli gladiatori. Mentre evitava e detestava quel genere di passatempi, incontrò per strada certi suoi amici e condiscepoli, che per caso tornavano da un pranzo e che lo condussero a forza, come si fa tra compagni, malgrado i suoi vigorosi dinieghi e la sua resistenza, all’anfiteatro, ov’era in corso la stagione dei giochi efferati e funesti. Diceva: “Potete trascinare in quel luogo e collocarvi il mio corpo, ma potrete puntare il mio spirito e i miei occhi su quegli spettacoli? Sarò là, ma lontano, così avrò la meglio e su di voi e su di essi”; ma non per questo gli altri rinunciarono a tirarselo dietro, forse curiosi di vedere se appunto riusciva a realizzare il suo proposito. Ora, quando giunsero a destinazione e presero posto come poterono, ovunque erano scatenate le più bestiali soddisfazioni. Egli impedì al suo spirito di avanzare in mezzo a tanto male, chiudendo i battenti degli occhi: oh, avesse tappato anche le orecchie! Quando, a una certa fase del combattimento, l’enorme grido di tutto il pubblico violentemente lo urtò, vinto dalla curiosità, credendosi capace di dominare e vincere, qualunque fosse, anche la visione, aprì gli occhi. La sua anima ne subì una ferita più grave di quella subìta dal corpo di colui che volle guardare, e cadde più miseramente di colui che con la propria caduta aveva provocato il grido. Questo, penetrato attraverso le orecchie, spalancò gli occhi per aprire una breccia al colpo che avrebbe abbattuto quello spirito ancora più temerario che robusto, tanto più debole, quanto più aveva contato su di sé invece che su di te, come avrebbe dovuto fare. Vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt’uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s’inebriava di una voluttà sanguinaria. Non era ormai più la stessa persona venuta al teatro, ma una delle tante fra cui era venuta, un degno compare di coloro che ve lo avevano condotto. Che altro dire? Osservò lo spettacolo, gridò, divampò, se ne portò via un’eccitazione forsennata, che lo stimolava a tornarvi non solo insieme a coloro che lo avevano trascinato la prima volta, ma anche più di coloro, e trascinandovi altri. Eppure tu lo sollevasti da quell’abisso con la tua mano potentissima e misericordiosissima, gli insegnasti a non riporre fiducia in sé, ma in te; però molto più tardi.


Brutta avventura di Alipio sospettato di furto

9. 14. La vicenda era tuttavia accantonata fin d’allora nella sua memoria come una medicina per il futuro. Anche un altro fatto: che ancora durante i suoi studi a Cartagine e quando aveva già preso a frequentare le mie lezioni, un giorno, mentre sul mezzodì, nella piazza, meditava un discorso da recitare a scuola per esercizio, secondo l’usanza, lo lasciasti arrestare come ladro dai sorveglianti del foro, penso che tu, Dio nostro, non l’abbia permesso per altro motivo, se non per questo: che quel gentiluomo, destinato a divenire un giorno così grande, cominciasse fin d’allora a imparare quanto debba rifuggire da una temeraria credulità nel condannare un altro uomo l’uomo che istruisce un processo. Alipio dunque passeggiava tutto solo davanti al tribunale, le tavolette e lo stilo fra le mani, quand’ecco un giovane studente, il ladro appunto, munito nascostamente di una scure si avvicina, non visto da lui, alla cancellata di piombo che sovrasta la via degli orafi, e incomincia a scalpellare il metallo. Ai colpi della scure gli orafi che si trovavano di sotto parlottarono fra loro sommessamente e mandarono alcuni ad arrestare chiunque avessero trovato sul posto. Il ladro, udite le loro voci, se la svignò, abbandonando l’attrezzo per paura di essere preso mentre l’aveva con sé; Alipio invece, che, come non l’aveva visto all’entrata, così lo notò all’uscita, vedendo che si allontanava frettolosamente, e curioso di conoscerne il motivo, entrò e trovò la scure. Fermo in piedi la stava considerando meravigliato, quand’ecco i messi degli orafi lo sorprendono solo e fornito del ferro, ai cui colpi si erano riscossi ed erano partiti. Lo acciuffano, lo trascinano con sé, e di fronte agli abitanti della piazza, che s’erano radunati, si vantano di aver preso il ladro in flagrante, poi si avviano per metterlo nelle mani della giustizia.

9. 15. Ma la lezione doveva finire qui. Tu, Signore, venisti immediatamente in soccorso dell’innocenza, di cui eri l’unico testimone. Mentre Alipio veniva condotto in prigione o al supplizio, s’imbatte nel corteo un architetto, soprintendente agli edifici pubblici. Le guardie si rallegrarono di aver incontrato proprio lui, che era solito sospettarle dei furti accaduti nel foro: ora finalmente avrebbe riconosciuto chi era l’autore. Senonché l’architetto aveva visto sovente Alipio in casa di un certo senatore, che abitualmente andava a ossequiare; e appena lo ebbe riconosciuto, lo prese per mano, lo trasse in disparte dalla folla e gli chiese il motivo di un guaio così grosso. Udito il racconto dell’accaduto, ordinò agli astanti, che tumultuavano e rumoreggiavano minacciosamente, di seguirlo. Giunsero così all’abitazione del giovane delinquente. Sulla porta stava uno schiavo così tenerello, da poter rivelare facilmente tutto il caso senza sospettare che ne venisse del danno al padrone. Infatti lo aveva accompagnato nella piazza. Anche Alipio lo riconobbe e ne avvertì l’architetto. Questi mostrò al fanciullo la scure, domandandogli di chi era. “È nostra”, rispose immediatamente il fanciullo. Più tardi, interrogato, rivelò il resto. Così l’accusa ricadde su quella casa, con grande smacco della folla, che aveva già incominciato il suo trionfo su Alipio. Il futuro dispensatore della tua parola e giudice di molte cause nella tua Chiesa ne uscì più esperto e più agguerrito.


Alipio assessore giudiziario a Roma

10. 16. A Roma, quando lo incontrai, Alipio si legò a me della più stretta amicizia e partì con me alla volta di Milano sia per non lasciarmi, sia per mettere a frutto le nozioni di diritto che aveva appreso, secondo il desiderio dei genitori più che suo. Aveva già esercitato per tre volte la mansione di assessore giudiziario, meravigliando i colleghi con la sua integrità, ma meno di quanto si meravigliava lui di essi, che anteponevano l’oro alla rettitudine. Il suo carattere fu pure messo alla prova non solo con la seduzione della cupidigia, ma anche col pungolo della paura. A Roma era assessore presso il conte preposto alle finanze italiche. Viveva in quel tempo un senatore potentissimo, che si teneva molta gente legata con i benefici e soggetta con l’intimidazione. Costui pensò di permettersi, secondo l’usanza dei potentati suoi pari, non so quale atto non permesso dalla legge. Alipio gli resistette. Gli fu promessa una ricompensa, ed egli ne rise di cuore; furono proferite minacce, ed egli le calpestò, con ammirazione di tutti verso un ardire non comune, indifferente all’amicizia e imperturbabile all’inimicizia di un personaggio tanto potente e notissimo per le infinite possibilità che aveva così di giovare come di nuocere. Lo stesso giudice di cui era consigliere, per quanto contrario egli pure alle richieste del senatore, tuttavia non osava opporsi apertamente. Addossava la responsabilità ad Alipio, si diceva impedito da lui perché, ed era vero, l’avrebbe avversato, se per conto suo avesse ceduto. Una sola passione per poco non l’aveva sedotto, la letteratura, per la quale fu tentato di farsi trascrivere alcuni codici usando la cassa del tribunale. Interpellata però la virtù della giustizia, mutò in meglio il suo parere, giudicando più vantaggiosa la rettitudine, che glielo proibiva, della possibilità, che glielo permetteva. È cosa da poco? Ma chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto, né saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non foste fedeli riguardo alle ricchezze inique, chi vi affiderà quelle genuine? e se non foste fedeli nell’amministrare le ricchezze altrui, chi vi affiderà le vostre?. Tale l’uomo che si stringeva allora a me, e con me esitava a decidere il genere di vita che si doveva abbracciare.


Nebridio

10. 17. Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine, e poi Cartagine stessa, ove lo s’incontrava sovente; aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l’unico intento di vivere insieme a me nella ricerca ardentissima della verità e della sapienza. Investigatore appassionato della felicità umana, scrutatore acutissimo dei più difficili problemi, come me anelava e come me oscillava. Erano, le nostre, le bocche di tre affamati che si ispiravano a vicenda la propria miseria, rivolte verso di te, in attesa che dessi loro il cibo nel tempo opportuno. Nell’amarezza che la tua misericordia faceva sempre seguire allenostre attività mondane, cercavamo di distinguere lo scopo delle nostre sofferenze; ma intorno a noi si levavano le tenebre. Rivolgendoci allora indietro, ci domandavamo tra i gemiti: “Per quanto tempo dureremo in questo stato?”, e ripetevamo spesso la domanda, ma senza abbandonare per ciò quella vita, mancandoci ogni luce di certezza a cui aggrapparci dopo averla abbandonata.


Esitazioni di Agostino

11. 18. Io soprattutto mi stupivo, allorché con uno sforzo rievocavo il lungo tempo passato dal momento in cui, diciannovenne, avevo cominciato a infervorarmi nella ricerca della sapienza, progettando di abbandonare, appena l’avessi scoperta, tutte le speranze fatue e i fallaci furori delle vane passioni. Ed eccomi ormai trentenne, vacillante ancora nella medesima mota, avido di godere del presente fugace e dispersivo, mentre mi andavo dicendo: “Domani troverò. Ecco che il vero mi si manifesterà chiaramente, e l’afferrerò; ecco che verrà Fausto e mi spiegherà tutto. O accademici, spiriti grandi, nessuna certezza si può davvero raggiungere a guida della vita. Ma no, cerchiamo con maggiore diligenza anziché disperare. Ecco ad esempio che quelle che sembravano assurdità nei libri ecclesiastici, non lo sono più: è possibile intenderle in maniera diversa e degna. Prenderò dunque come appoggio ai miei passi il gradino ove fanciullo mi posero i genitori, finché mi si riveli chiaramente la verità. Ma dove cercarla? quando cercarla? Non ha tempo Ambrogio, non abbiamo tempo noi per leggere, e poi, anche i libri dove cercarli? da chi e quando ottenerli, a chi chiederli? Riserviamo del tempo e assegniamo alcune ore alla salvezza dell’anima. Una grande speranza è spuntata: gli insegnamenti della fede cattolica non sono quali li pensavamo, le nostre accuse erano inconsistenti. I suoi esperti conoscitori reputano un’empietà il credere Dio chiuso nel profilo di un corpo umano; e noi dubitiamo a bussare perché ci si schiudano le altre verità? Le ore del mattino sono occupate dalla scuola; nelle altre cosa facciamo? Perché non impiegarle in quest’opera? Ma quando andremmo a ossequiare gli amici importanti, di cui ci occorre l’appoggio, quando prepareremmo le dissertazioni da smerciare agli alunni, quando, anche, ci ristoreremmo, rilassando lo spirito dopo la tensione delle occupazioni?

11. 19. Tutto crolli, sbarazziamoci di queste vane futilità e votiamoci unicamente alla ricerca della verità! La vita è miserabile, la morte è incerta. Potrebbe sopravvenire all’improvviso, e allora come usciremmo da questo mondo? dove potremmo imparare quanto qui abbiamo negletto? Non dovremmo pagare piuttosto il fio della presente negligenza? E se la morte stessa troncasse e concludesse ogni angustia insieme alla sensibilità? Anche questo è un problema da investigare. Ma no, lontano da me il pensiero che sia così. Non senza un motivo, non per nulla l’autorità della fede cristiana s’irradia da tanta altezza sul mondo intero. La divinità non realizzerebbe tante e tali cose per noi, se con la morte del corpo si estinguesse anche la vita dell’anima. Perché dunque esitiamo ad abbandonare le speranze mondane, per votarci totalmente alla ricerca di Dio e della vita beata? No, adagio: anche il mondo è piacevole e possiede una sua grazia non lieve. Bisogna essere cauti a troncare l’impulso che ci spinge verso di esso, perché sarebbe indecoroso tornarvi da capo. Ormai, ecco, siamo abbastanza valenti per ottenere un posto onorato, e che altro desiderare nella nostra condizione? Abbiamo un buon numero di amici potenti. Se non vogliamo brigare troppo per avere di meglio, una presidenza la possiamo ottenere senz’altro. Poi si dovrà sposare una donna provvista di qualche soldo, che non aggravi le nostre spese, e questo sarà il termine dei desideri; molti spiriti grandi, degnissimi d’imitazione, si dedicarono allo studio della sapienza con le mogli al fianco”.

11. 20. Fra questi discorsi, fra questi venti alterni, che spingevano il mio cuore or qua or là, passava il tempo e io tardavo a rivolgermi verso il Signore. Differivo di giorno in giorno l’inizio della vita in te, ma non differivo la morte giornaliera in me stesso. Per amore della vita felice temevo di trovarla nella sua sede e la cercavo fuggendola. Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna; non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell’infermità, poiché non l’avevo mai sperimentato. Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l’avresti concesso, se con gemito interiore avessi bussato alle tue orecchie e con salda fede avessi lanciato in te la mia pena.


Il problema del matrimonio

12. 21. Alipio mi sconsigliava, per la verità, di prendere moglie: se lo avessi fatto, mi ripeteva su tutti i toni, non avremmo potuto assolutamente vivere assieme e indisturbati, nel culto della sapienza, come da tempo desideravamo. Personalmente egli osservava fin da allora una castità assoluta, e questa condotta era tanto più ammirevole, in quanto nei primi anni della sua adolescenza aveva sperimentato il piacere della carne. Però non vi era rimasto invischiato: ne aveva avuto piuttosto rimorso e disprezzo, e da allora viveva ormai in una continenza assoluta. Io gli opponevo l’esempio di quanti, coniugati, avevano coltivato gli studi, guadagnato meriti presso Dio e conservato fedeltà d’affetti verso gli amici. Senonché per mio conto ero lontano da tanta magnanimità. Avvinto alla mia carne ammorbata, ne trascinavo la catena con un godimento mortale, timoroso che si sciogliesse e respingendo, quasi rimescolasse la piaga, la mano liberatrice dei buoni consigli. Ma c’era di più: per mia bocca il serpente parlava allo stesso Alipio e lo accalappiava, disseminando sulla sua strada per mezzo della mia lingua dolci lacci, ove impigliare i suoi onesti e liberi piedi.

12. 22. Egli si stupiva che io, non poco stimato da lui, fossi invischiato nel piacere a tal punto, da asserire, quando se ne discuteva fra noi, che non avrei potuto assolutamente condurre una vita celibe; ed io, al vedere il suo stupore, mi difendevo sostenendo che passava una bella differenza tra le sue momentanee e furtive esperienze, rese innocue e facilmente disprezzabili dal ricordo ormai quasi svanito, e i diletti della mia consuetudine, cui mancava soltanto l’onorato titolo di matrimonio per togliergli ogni ragione di stupore, se non riuscivo a spregiare quella vita. Alla fine era entrato in corpo anche a lui il desiderio di sposare, facendo breccia non tanto con la lusinga del piacere, quanto con quella della curiosità. Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com’era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento. Il suo animo, libero da legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza. Ma, venuto appunto all’esperienza, forse sarebbe caduto nella schiavitù di cui si meravigliava: cercava di stringere un patto con la morte, e chi ama il pericolo, vi cadrà. Certo nessuno di noi due era gran che mosso dalla dignità coniugale, quale può consistere nel compito di guidare un matrimonio e di allevare dei figli: io, per essere soprattutto e duramente schiavo torturato dell’abitudine di appagare l’inappagabile sensualità; lui, per essere trascinato alla schiavitù dal fascino dell’ignoto. Tale il nostro stato, finché tu, altissimo, che non abbandoni il nostro fango, impietosito dalla nostra condizione pietosa, ci venisti in aiuto in modi mirabili e segreti.


Fidanzamento di Agostino

13. 23. Intanto mi si sollecitava instancabilmente a prendere moglie. Così ne avevo ormai avanzato la richiesta e ottenuta la promessa. Chi lavorava maggiormente in questo senso era mia madre, con l’idea che, una volta sposato, il lavacro salutare del battesimo mi avrebbe ripulito. Gioiva che io vi fossi ogni giorno meglio disposto, e nella mia fede riconosceva il compiersi dei suoi voti e delle tue promesse. Su mia richiesta e per sua stessa inclinazione ti supplicava quotidianamente con l’ardente grido del cuore perché tu le facessi in sogno qualche rivelazione sul mio futuro matrimonio, ma non volesti mai esaudirla. Aveva, sì, delle visioni, però inconsistenti e bizzarre, prodotte dalla tensione del suo spirito umano in angustie per quell’evento. Me le descriveva senza la fiducia a lei abituale quando aveva una tua rivelazione, bensì con disprezzo. A suo dire, ella sapeva discernere da non so quale sapore, che a parole era incapace di spiegare, la differenza fra le tue rivelazioni e i sogni della sua anima. Ciò nonostante si insisteva, e la fanciulla fu richiesta. Le mancavano ancora due anni all’età da marito, però piaceva a tutti, e così si aspettava.


Progetti di vita in comune fra amici

14. 24. Eravamo molti amici, che per avversione alle noie e ai disturbi della vita umana avevamo progettato, discusso e già quasi deciso di ritirarci a vivere in pace lontano dalla folla. Si era organizzato il nostro ritiro così: tutti i beni che mai possedessimo, sarebbero stati messi in comune, costituendosi, di tutti, un patrimonio solo. In tale maniera, per la nostra schietta amicizia non ci sarebbero stati beni dell’uno o dell’altro, ma un’unica sostanza, formata da tutti; questa sostanza collettiva sarebbe stata di ognuno, e tutte le sostanze sarebbero state di tutti. A nostro parere ci saremmo potuti riunire in una decina di persone, alcune delle quali molto facoltose, specialmente Romaniano, mio concittadino e amicissimo fin dall’infanzia, allora condotto alla corte dal turbine gravoso dei suoi affari. Era lui anzi a insistere più di tutti per l’attuazione del progetto, e le sue sollecitazioni avevano un peso notevole a causa del suo ingente patrimonio, superiore di molto a tutti gli altri. Avevamo anche stabilito che anno per anno due di noi si occuperebbero, come magistrati, di provvedere tutto il necessario agli altri, invece tranquilli. Ma quando si venne a considerare se le donnicciuole, che alcuni di noi avevano già in casa e che noi desideravamo prendere, avrebbero dato il loro assenso, l’intero progetto, così ben formulato, ci andò in pezzi fra mano e fu gettato, infranto, in un angolo. Così tornammo ai nostri sospiri, ai nostri gemiti, ai nostri passi sulle strade ampie e battute del mondo, poiché molti pensieri passavano nel nostro cuore, mentre il tuo disegno sussiste eternamente. Dall’alto di quel disegno deridevi le nostre decisioni e preparavi le tue, attendendo di darci il cibo al momento opportuno, di aprire la mano e saziare le nostre anime con la tua benedizione.


Una nuova donna

15. 25. Frattanto i miei peccati si moltiplicavano, e quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze, la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore, a cui era attaccata, ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo. Essa partì per l’Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei. Ma io, sciagurato, incapace d’imitare una femmina e di pazientare quei due anni di attesa finché avrei avuto in casa la sposa già richiesta, meno vago delle nozze di quanto fossi servo della libidine, mi procurai un’altra donna, non certo moglie, quale alimento, quasi, che prolungasse, intatta o ancora più vigorosa, la malattia della mia anima, vegliata da una consuetudine che doveva durare fino al regno della sposa. Non guariva per questo la ferita prodotta in me dall’amputazione della compagna precedente; però, dopo il bruciore e lo strazio più aspro, imputridiva, e la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata.


Il massimo dei beni e dei mali

16. 26. Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e levato dal fango, e io lo ignoravo. Solo, a trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del tuo giudizio futuro, mai dileguato dal mio cuore pur nel variare delle mie opinioni. Con i miei amici Alipio e Nebridio mi ero messo a discutere sul massimo dei beni e dei mali. Per me, dicevo, avrebbe ricevuto la palma Epicuro, se non avessi creduto alla sopravvivenza dell’anima e al prolungarsi delle nostre azioni oltre la morte, ciò che Epicuro si rifiutò di credere; e domandavo perché mai l’immortalità e una vita trascorsa in perpetua voluttà del corpo, senza alcun timore di perderla, non dovrebbero renderci felici, o che altro dovremmo cercare. Non riflettevo che l’incapacità stessa di immaginare, perché sprofondato nella cecità, la luce della virtù e di una bellezza che si fa abbracciare da sé sola, invisibile all’occhio della carne, visibile all’intimo dello spirito, è parte di una grande miseria. Né mi chiedevo, nella mia miseria, da quale fonte mi fluiva il diletto che pure provavo a discutere di argomenti così laidi con gli amici. Senza amici non avrei potuto essere felice nemmeno nel senso che davo allora alla parola, con la massima abbondanza delle soddisfazioni carnali. Sì, io amavo quegli amici disinteressatamente e mi sentivo a mia volta amato disinteressatamente da loro. Ma ahimè, quali vie tortuose! Guai all’anima temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te. Vòltati e rivòltati sulla schiena, sui fianchi, sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo. Ed eccoti, sei qui, ci liberi dai nostri errori miserabili e ci metti sulla tua strada e consoli e dici: “Correte, io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora io vi reggerò”.

Libro settimo

VERSO LA VERITÀ


Il problema del male

L’arduo concetto di Dio

1. 1. Ormai la mia adolescenza sciagurata e nefanda era morta, e mi avviavo verso la maturità. Però, quanto più crescevo nell’età della vita, tanto più scadevo nella fatuità del pensiero. Non riuscivo a pensare una sostanza diversa da quella che si vede abitualmente con gli occhi. Da quando avevo cominciato a udire qualcosa della sapienza, non t’immaginavo più, o Dio, sotto l’aspetto di corpo umano e mi rallegravo, per la ripugnanza sempre provata verso questa concezione, di aver scoperto questa verità entro la fede della nostra madre spirituale, la tua Chiesa cattolica. Non trovavo però un’altra forma, con cui pensarti. Mi sforzavo di pensarti, io, un uomo, e quale uomo, te, il sommo e il solo e il vero Dio; ti credevo con tutta l’anima incorruttibile, inviolabile, immutabile; pur ignorandone la causa e il modo, riconoscevo chiaramente e sicuramente l’inferiorità di una cosa corruttibile rispetto ad una incorruttibile; ponevo senza esitare una cosa inviolabile al di sopra di una violabile, e ritenevo le immutabili superiori alle mutabili; il mio cuore strepitava violentemente contro tutte le mie vane fantasie, io cercavo di allontanare col suo solo impeto dallo sguardo della mia mente la turba delle immonde immagini che le svolazzavano attorno. Ma, appena scacciata, eccola di nuovo in un batter d’occhio avventarsi compatta contro il mio sguardo e offuscarlo. Così, sebbene non in forma di corpo umano, ero tuttavia costretto a pensarti come un che di corporeo esteso nello spazio, incluso nel mondo o anche diffuso per lo spazio infinito oltre il mondo, esso pure incorruttibile e inviolabile e immutabile, cosicché lo anteponevo al corruttibile e violabile e mutabile. Ciò perché, se non attribuivo a una cosa l’estensione in uno di tali spazi, essa per me era nulla, letteralmente nulla e non un semplice vuoto, quale si ottiene togliendo da un certo luogo un certo corpo, che rimane, il luogo, vuoto di qualsiasi corpo terrestre o acqueo o aereo o celeste, ma pure sussiste un luogo vuoto, quasi un nulla provvisto di spazio.

1. 2. Così, tardo di mente, poco chiaro io stesso a me stesso, ritenevo che tutto quanto non fosse per un certo spazio esteso o espanso o addensato o gonfio, provvisto o atto a provvedersi di una di tali qualità, non fosse letteralmente nulla. Le immagini, attraverso cui si muoveva la mia mente, erano le medesime per cui si muovono abitualmente i miei occhi; e non vedevo come questa stessa tensione interiore, con cui formavo proprio quelle immagini, era cosa diversa da esse, eppure non le avrebbe formate, se non fosse stata qualcosa di grande. Così concepivo persino te, vita della mia vita, come un vasto ente, che da ogni dove penetra per spazi infiniti l’intera mole dell’universo e di là da essa si diffonde in ogni senso attraverso spazi incommensurabili, senza limite; e in tal modo ti possedeva la terra, ti possedeva il cielo, ti possedeva ogni cosa, e tutte erano definite dentro di te, ma tu in nessuna parte. Come la massa dell’aria, di quest’aria che sovrasta la terra, non ostacola la luce del sole, impedendole di attraversarla e penetrarvi senza squarci o fratture, ma anzi ne è tutta pervasa; così pensavo che la massa del cielo, dell’aria, del mare, della terra stessa ti si aprisse e ti lasciasse penetrare per riceverti presente in ogni sua parte, grande o piccola, poiché tu col tuo soffio invisibile governi e dall’esterno e dall’interno tutto il tuo creato. Incapace d’immaginarmi diversamente le cose, andavo facendo di queste congetture: erano infatti falsità. Secondo quei princìpi una porzione maggiore della terra conterrebbe una porzione maggiore di te, una minore, una minore. Piene, sì, tutte le cose di te, il corpo di un elefante ti conterrebbe però in quantità maggiore di un passero, e tanto maggiore, quanto è più grande un elefante di un passero e occupa uno spazio più grande. Così tu ti sminuzzeresti negli elementi dell’universo, rendendo presente in ognuno una parte di te, piccola o grande, secondo che essi sono piccoli o grandi. Non è così, ma non avevi ancora illuminato le mie tenebre.


L’argomento di Nebridio contro la concezione manichea di Dio

2. 3. Mi sarebbe bastato, Signore, di usare contro quegli ingannatori ingannati e muti ciarlieri, poiché dalla loro bocca non risuonava la tua parola, mi sarebbe bastato di usare l’argomento che fin dai tempi di Cartagine soleva porre innanzi Nebridio, e che tutti ci aveva scossi, quanti l’avevamo udito: cosa avrebbe potuto farti quella, chissà poi quale, genìa delle tenebre, che ti oppongono abitualmente come massa contraria, se ti fossi rifiutato di misurarti con essa? O rispondono che ti avrebbe danneggiato, e allora non saresti inviolabile e incorruttibile; oppure rispondono che non poteva affatto danneggiarti, e allora quale scopo trovare per la lotta? una lotta, poi, ove una porzione di te, una delle tue membra o un prodotto della tua stessa sostanza si mescolerebbe alle potenze avverse, a nature non create da te; e queste lo corromperebbero e degraderebbero a tal punto, che precipita dalla beatitudine nella miseria e ha bisogno di un soccorso per esserne estratto e purificato. E questo prodotto sarebbe l’anima, che il tuo Verbo libero doveva sovvenire nella sua schiavitù, puro, nella sua contaminazione, illibato, nella sua corruzione, però corruttibile anch’egli, poiché fatto di un’unica e medesima sostanza. Se ammettono l’incorruttibilità di tutto ciò che sei, ossia della sostanza di cui sei fatto, le affermazioni sopra riportate sono tutte false ed esecrabili; se invece sostengono la tua corruttibilità, un tale giudizio è già falso e detestabile fin dalla prima parola. Sarebbe bastato questo argomento contro persone che dobbiamo rigettare a qualunque costo dallo stomaco, ove ci pesano. Chi pensava e parlava di te in questi termini, non poteva uscirne senza un orribile sacrilegio di cuore e di lingua.


Origine del male e libero arbitrio

3. 4. Ma anch’io ormai sostenevo e credevo fermamente la tua intangibilità, inalterabilità e immutabilità totale, Dio nostro, Dio vero, creatore non solo delle nostre anime ma altresì dei nostri corpi, né soltanto delle nostre anime e corpi, ma di tutti gli esseri e di tutte le cose. Non mi era invece chiara e palese l’origine del male; tuttavia vedevo che, comunque fosse, la sua ricerca non avrebbe dovuto costringermi a credere mutabile un Dio immutabile, se non volevo divenire io stesso ciò che cercavo. Procedevo dunque tranquillamente, sicuro della falsità delle loro asserzioni e aborrendoli di tutto cuore, poiché li vedevo intenti a cercare l’origine del male quando erano essi medesimi colmi di malizia, tanto da ammettere piuttosto che la tua sostanza possa subire, ma non la loro fare il male.

3. 5. Mi sforzavo di vedere ciò che udivo sulla libera determinazione della volontà come causa del male che facciamo, e l’equità del tuo giudizio come causa di quello che subiamo, ma non riuscivo a scorgerla chiaramente. Tentavo di spingere lo sguardo della mia mente fuori dall’abisso, ma vi ricadevo di nuovo; ripetevo i tentativi, ma ricadevo di nuovo e di nuovo. Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire e rifiutare; e di trovarmi in quello stato a causa del mio peccato, lo capivo sempre meglio. Invece, degli atti che compivo mio malgrado mi riconoscevo vittima piuttosto che attore e li giudicavo non già una colpa, bensì una pena inflittami da te giustamente, non esitavo ad ammetterlo considerando la tua giustizia. Ma a questo punto mi chiedevo: “Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che dò al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questo, virgulto d’infelicità, se sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, donde viene a sua volta il diavolo? Se anch’egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo donde entrò anche in lui, fatto integralmente angelo da un creatore buono? “. Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell’errore ove nessuno ti confessa, preferendo assoggettare te al male, che crederne l’uomo capace.


Incorruttibilità della sostanza divina

4. 6. Il mio sforzo era diretto dunque a riconoscere le altre verità, come già avevo riconosciuto che una cosa incorruttibile è migliore di una corruttibile, e avevo ammesso che tu, comunque fatto, eri quindi incorruttibile. Nessun’anima poté o potrà mai pensare nulla migliore di te, sommo e perfetto bene. Ora, se con assoluta e certa verità si antepone una cosa incorruttibile a una corruttibile, come io già l’anteponevo, qualora tu non fossi incorruttibile, avrei potuto senz’altro salire col pensiero a un’altra cosa migliore del mio Dio. Era là dunque, ove vedevo che bisogna anteporre l’incorruttibile al corruttibile, che avrei dovuto cercarti, di là osservare dove risiede il male, ossia da dove viene la corruzione stessa, che non può raggiungere in alcun modo la tua sostanza. La corruzione non può evidentemente raggiungere in alcun modo il nostro Dio: né per atto di volontà, né per forza di cose, né per eventi imprevisti, poiché lui è Dio in persona, e ciò che vuole per sé, è bene, anzi è lui quel bene stesso, mentre non è bene la corruzione. Né puoi essere costretto ad azioni involontarie, perché la tua volontà non è maggiore della tua potenza: sarebbe maggiore solo se tu stesso fossi maggiore di te stesso, essendo la volontà e la potenza di Dio lo stesso Dio. D’imprevisto, poi, cosa può esservi per te, che conosci tutto? Nessun essere, infine, esiste, se non in quanto tu lo conosci. Ma perché una dimostrazione così estesa dell’incorruttibilità della sostanza divina, quando questa non sarebbe tale, se fosse corruttibile?


L’esistenza del male e la bontà di Dio

5. 7. Cercavo l’origine del male cercando male e non vedendo il male nella mia stessa ricerca. Davanti agli occhi del mio spirito ponevo l’intero creato, tutto ciò che ne possiamo scorgere, ossia la terra, il mare, l’aria, gli astri, gli alberi, gli animali mortali, e tutto ciò che ci rimane invisibile, ossia il firmamento celeste sopra di noi, tutti gli angeli e tutti gli spiriti che lo abitano, spiriti che la mia immaginazione distribuiva pure in vari luoghi, quasi fossero corpi; così feci del tuo creato un’unica massa enorme, ove spiccavano secondo il loro genere i corpi, sia veri e reali, sia spirituali, resi arbitrariamente corporei dalla mia immaginazione, e feci enorme questa massa, non quanto era effettivamente, perché non potevo concepirlo, ma quanto mi piacque immaginare, però finita in tutte le direzioni, avvolta e penetrata da ogni parte da te, Signore, che pure rimanevi in tutti i sensi infinito, come un mare che si stenda dovunque e da dovunque per spazi immensi infinito, un unico mare che contenga nel suo interno una spugna grande a piacere, però finita e ripiena evidentemente in ogni sua parte del mare immenso. Così concepivo la tua creazione, finita e ripiena di te infinito. Dicevo: “Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge e riempie. Allora dov’è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo temiamo senza ragione, è certamente male il nostro stesso timore, che punge e tormenta invano il nostro cuore, e un male tanto più grave, in quanto non c’è nulla da temere, eppure noi temiamo. Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece, perché nella materia c’era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l’onnipotente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, attraverso gli spazi su su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l’aiuto di una materia non creata da lui?”. Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli pungentissimi, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità. Rimaneva tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del Cristo tuo, signore e salvatore nostro. Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non l’abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più.


Confutazione dell’astrologia

6. 8. Ormai avevo anche ripudiato le predizioni fallaci e i deliri empi degli astrologhi: un altro motivo per cui ti confessino dalle intime fibre del mio cuore gli atti della tua commiserazione, Dio mio. Tu infatti, e tu solo, perché chi altro ci sottrae alla morte di ogni errore, se non la vita immortale, la sapienza che illumina le menti bisognose senza aver bisogno di lumi, e che amministra il mondo fino alle labili foglie degli alberi? tu provvedesti alla mia ostinazione, con cui mi opposi a Vindiciano, sagace vecchio, e a Nebridio, giovane d’anima mirabile: al primo, che affermava vibratamente, al secondo, che ripeteva, sia pure con qualche incertezza, però frequentemente, che non esiste arte di prevedere il futuro, bensì è il caso, che viene spesso in soccorso alle congetture dell’uomo: tra le molte cose che si dicono, se ne dicono parecchie che poi si avverano, senza che chi le dice ne abbia coscienza, bensì le indovina soltanto perché non tace; tu dunque mi provvedesti un amico solerte nel consultare gli astrologhi, poco esperto nella letteratura relativa, ma, come dissi, ricercatore avido di responsi. Eppure era al corrente di un fatto narratogli, diceva, da suo padre, del cui valore per sovvertire ogni fiducia nell’astrologia non si rendeva conto. Il nome del mio amico era Firmino. Educato da uomo libero, forbito nel parlare, mi consultò, come l’amico più caro, intorno a certi suoi interessi, su cui fondava vistose speranze mondane, chiedendo il mio parere secondo le sue, come si dice, “costellazioni”. Io, che in materia avevo già cominciato a pencolare verso l’opinione di Nebridio, pur non rifiutandomi di fare qualche congettura e di manifestare i pronostici che si affacciavano alla mia mente dubbiosa, soggiunsi che ormai ero pressoché convinto della ridicola vanità di quelle pratiche. Allora egli mi narrò di suo padre, divoratore di trattati d’astrologia, che aveva un amico, non meno di lui e insieme a lui cultore di quegli studi. In preda alla medesima curiosità, i due si rinfocolavano a vicenda l’ardente passione che in cuore nutrivano per tali sciocchezze, al punto d’osservare persino il momento in cui nelle proprie dimore nascevano gli animali bruti, e d’annotare la posizione allora occupata dagli astri allo scopo di raccogliere dati sperimentali di quella che chiamavano scienza. Ebbene, da suo padre mi diceva di aver udito raccontare che nel periodo in cui sua madre portava lui, Firmino, in seno, anche una domestica dell’amico di suo padre era ugualmente gravida. Il fatto non poteva sfuggire al padrone, se badava a rilevare con estrema cura ed esattezza anche i parti delle sue cagne. Così i due amici calcolarono mediante le più scrupolose osservazioni i giorni, le ore e più minute frazioni di ore, l’uno per la consorte, l’altro per la fantesca. Avvenne poi che ambedue le donne si sgravassero nel medesimo istante, e così furono costretti a comporre un oroscopo uguale fin nei più minuti particolari per entrambi i neonati, per il figlio l’uno, per il piccolo schiavo l’altro. Infatti, allorché le due donne cominciarono ad avvertire le prime doglie, essi si annunciarono quanto avveniva in casa propria e predisposero alcuni messaggeri da inviarsi a vicenda non appena fosse stata annunziata a ciascuno la nascita del piccolo. Era stato facile per loro ottenere un annunzio immediato come re nel proprio regno; e asseriva Firmino che i messaggeri partiti dalle due case s’incontrarono a metà strada, tanto che né l’uno né l’altro riuscì a notare alcuna differenza nella posizione degli astri e nelle particelle del tempo. Ciò nonostante Firmino, per essere nato in una famiglia di nobiltà locale, percorreva rapidamente le strade più nette del mondo, si arricchiva ogni giorno più e ascendeva a onori sublimi, mentre lo schiavo, che non si era scrollato minimamente di dosso il giogo della sua condizione, continuava a servire i padroni, come testimoniava Firmino stesso, che lo conosceva.

6. 9. All’udire il racconto del fatto, cui, per la qualità del narratore, non potevo non prestare fede, tutte le mie resistenze si dissolsero e crollarono. Dapprima mi provai a distogliere lo stesso Firmino da quel morboso interesse. Gli feci rilevare come nell’esame fatto delle sue costellazioni, per potergli predire la verità avrei dovuto scorgere quanto meno la posizione eminente dei genitori nel parentado, la nobiltà della famiglia al suo paese, i natali onesti, l’educazione onorevole e l’istruzione da uomo libero che aveva ricevuto. Consultato invece dallo schiavo in base alle medesime costellazioni, valide anche per lui, ora avrei dovuto scorgervi, per rivelare a lui pure la verità, una famiglia di condizione infima, lo stato servile e ogni altro elemento ben diverso e lontano dai precedenti. Sarebbe allora accaduto che con le medesime osservazioni avrei dovuto dare risposte diverse per rispondere il vero, mentre, se avessi dato risposte uguali, avrei risposto il falso. Una conclusione al tutto certa s’imponeva: i responsi veritieri ricavati dall’osservazione delle costellazioni non derivano dall’arte, ma dalla sorte; i falsi non da ignoranza dell’arte, ma da inganno della sorte.

6. 10. Poi, trovata la via ormai aperta, mi diedi a ruminare fra me la faccenda per parare le obiezioni che poteva muovere qualcuno dei folli che traggono un lucro dall’astrologia, e che desideravo assalire, ridicolizzare, confutare senza indugio. Avrebbero potuto insinuare che Firmino mi aveva raccontato delle fole, o le aveva raccontate a lui il padre. Quindi mi volsi a considerare il caso dei gemelli. In generale l’uscita dell’uno dal seno materno segue quella dell’altro a un intervallo di tempo così breve, che, per quanti sforzi si facciano per dargli un valore nel corso naturale delle cose, sfugge in ogni caso all’osservazione dell’uomo e non può assolutamente essere rilevato nei segni che l’astrologo esaminerà per trarne un pronostico veritiero. Ma veritiero non sarà, poiché dall’esame degli stessi segni un astrologo avrebbe dovuto predire la stessa sorte per Esaù e Giacobbe, che ebbero sorte diversa. Le predizioni sarebbero state sbagliate, o, se giuste, sarebbero dovute essere diverse, mentre le osservazioni erano uguali. Dunque l’astrologo avrebbe predetto il vero non per arte, ma per buona sorte. In realtà tu, Signore, regolatore giustissimo dell’universo, all’insaputa dei consultori e dei consultati, con un’ispirazione misteriosa fai sempre udire a chi si consulta, dall’abisso di giustizia del tuo giudizio, la risposta vantaggiosa per lui secondo gli occulti meriti delle anime. Nessun uomo ti domandi: “Che è ciò?”, “A che ciò?”. Non lo domandi, non lo domandi, perché è un uomo.


Una ricerca penosa

7. 11. Così, mio soccorritore, mi avevi liberato da questi ceppi. Ora ricercavo l’origine del male, senza esito. Non permettevi però che le burrasche del pensiero mi strappassero mai alla fede. Credevo alla tua esistenza, all’immutabilità della tua sostanza, al tuo governo sugli uomini, alla tua giustizia; che in Cristo, tuo figlio, signore nostro, nonché nelle Sacre Scritture garantite dall’autorità della tua Chiesa cattolica fu da te riposta per l’umanità la via della salvezza verso quella vita, che ha inizio dopo questa morte. Assicurati e consolidati saldamente nel mio animo questi princìpi, ricercavo febbrilmente quale fosse l’origine del male. Che doglie per questo parto del mio cuore, che gemiti, Dio mio! E lì a mia insaputa eri tu ad ascoltarli. Quando, tacito, mi tendevo nello sforzo della ricerca, erano alte le grida che salivano verso la tua misericordia, i silenziosi spasimi del mio spirito. Tu conoscevi la mia sofferenza, degli uomini nessuno. Una ben piccola parte del tormento la mia lingua riversava nelle orecchie dei miei amici più stretti. Ma sentivano mai tutto intero il tumulto del mio spirito, se non mi bastava né il tempo né le parole per esprimerlo? Giungeva però intero al tuo udito il ruggito del mio cuore gemebondo; davanti a te stava il mio desiderio, il lume dei miei occhi non era con me. Era dentro di me, ma io fuori; non era in un luogo, mentre io guardavo soltanto le cose contenute in un luogo, senza trovarvi un luogo ove posare. Tali cose non mi accoglievano in modo che potessi dire: “Mi basta”, e: “Qui sto bene”; e neppure mi lasciavano libero in modo che potessi tornare dove sarei stato bastantemente bene. Ero sì al di sopra delle cose, ma al di sotto di te, mia vera gioia se mi assoggettavo a te, come avevi assoggettato a me le creature che hai fatto sotto di me. Questo sarebbe stato l’equilibrio perfetto e il centro della mia salvezza: sarei rimasto secondo la tua immagine e insieme, servendo te, avrei comandato il mio corpo. Ma per la mia superbia mi sollevavo contro di te, mi lanciavo contro il mio Signore dietro lo scudo della mia dura cervice. Quindi anche le creature infime mi montarono sopra, opprimendomi senza lasciare da nessuna parte sollievo e respiro. Da sé mi venivano incontro a caterve, in masse compatte da ogni dove, se guardavo attorno; se mi concentravo, immagini di corpi mi sbarravano da sé la via del ritorno, quasi dicendo: “Dove vai, essere indegno e sordido?”. Erano tutte germinazioni della mia ferita. Hai umiliato il superbo come un ferito; il mio tumore mi separava da te, le mie gote troppo gonfiate mi ostruivano gli occhi.


Dio medico rude, ma provvido

8. 12. Ma tu, Signore, permani in eterno, e non ti adiri in eterno verso di noi. Hai sentito pietà di questa terra e cenere, piacque ai tuoi occhi di raccontare le mie sconcezze. Mi agitavi con pungoli interni per rendermi insoddisfatto, finché al mio sguardo interiore tu fossi certezza. Il mio tumore scemava sotto la cura della tua mano nascosta, la vista intorbidata e ottenebrata della mia mente guariva di giorno in giorno sotto l’azione del collirio pungente di salutari dolori.

Incontro col neoplatonismo

Luci e ombre nei trattati neoplatonici

9. 13. Anzitutto volesti mostrarmi come tu resista ai superbi, mentre agli umili accordi favore; e con quanta misericordia tu abbia indicato agli uomini la via dell’umiltà, dal momento che il tuo Verbo si è fatto carne e abitò in mezzo agli uomini. Per il tramite dunque di un uomo gonfio d’orgoglio smisurato mi provvedesti alcuni libri dei filosofi platonici tradotti dal greco in latino. Vi trovai scritto, se non con le stesse parole, con senso assolutamente uguale e col sostegno di molte e svariate ragioni, che al principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio; egli era al principio presso Dio, tutto fu fatto per mezzo suo e senza di lui nulla fu fatto; ciò che fu fatto è vita in lui, e la vita era la luce degli uomini, e la luce nelle tenebre, e le tenebre non la compresero; poi, che l’anima dell’uomo, sebbene renda testimonianza del lume, non è tuttavia essa il lume, ma il Verbo, Dio, è il lume vero, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; e che era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Che però egli venne a casa sua senza che i suoi lo accogliessero, ma a quanti lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio, poiché credettero nel suo nome, non trovai scritto in quei libri.

9. 14. Così trovai scritto in quei libri che il Verbo Dio non da carne, non da sangue, non da volontà d’uomo né da volontà di carne, ma da Dio è nato; che però il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, non lo trovai scritto in quei libri. Vi scoprii, certo, sotto espressioni diverse e molteplici, che il Figlio per la conformità col Padre non giudicò un’usurpazione la sua uguaglianza con Dio, propria a lui di natura; ma il fatto che si annientò da sé, assumendo la condizione servile, rendendosi simile agli uomini e mostrandosi uomo all’aspetto; si umiliò prestando ubbidienza fino a morire, e a morire in croce, onde Dio lo innalzò dai morti e gli donò un nome che sovrasta ogni nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra, agli inferi, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù sta nella gloria di Dio Padre, non è contenuto in quei libri. Vi si trova che il tuo Figlio unigenito esiste immutabile fin da prima di ogni tempo e oltre ogni tempo, eterno con te; che le anime attingono la felicità dalla sua pienezza e acquistano la sapienza rinnovandosi grazie alla partecipazione della sapienza in se stessa stabile; ma il fatto che morì nel tempo per i peccatori, e invece di risparmiare il tuo unico Figlio, lo hai consegnato per noi tutti, non si trova in quei libri. Infatti celasti queste verità ai sapienti e le rivelasti ai piccoli, per attrarre quanti soffrono e sono oppressi a lui, che li ristori, poiché è mite e umile di cuore e guiderà i miti nella giustizia, insegna ai mansueti le sue vie, osservando la nostra umiltà e la nostra sofferenza, rimettendoci tutti i nostri peccati. Ma quanti, innalzandosi sul coturno di una scienza a loro dire più sublime, non ne odono le parole: Imparate da me, poiché sono mite e umile di cuore, e troverete il riposo per le vostre anime, sebbene conoscano Dio, non lo glorificano ringraziano come Dio, bensì si disperdono nei loro vani pensieri, e il loro cuore insipiente si ottenebra. Proclamandosi saggi, si resero stolti.

9. 15. Perciò trovavo in quei libri anche la gloria della tua incorruttibilità, trasformata in idoli e simulacri di ogni genere foggiati a immagine dell’uomo corruttibile e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti. Vi si può vedere il piatto egiziano, per cui Esaù perdette i privilegi della primogenitura: il popolo primogenito onorò in tua vece la testa di un quadrupede, col cuore rivolto in Egitto e la tua immagine, la sua anima, curva innanzi all’immagine di un vitello che si ciba di fieno. Trovai queste cose in quei libri, e non me ne cibai. Ti piacque, Signore, di togliere a Giacobbe l’onta della sua inferiorità, affinché il maggiore servisse al minore; chiamasti le genti alla tua eredità. Quindi io, venuto a te dalle genti, fissai il mio sguardo sull’oro che per tuo volere il popolo prediletto asportò dall’Egitto, poiché, dovunque era, era cosa tua. Dicesti agli ateniesi per bocca del tuo Apostolo che noi in te viviamo e ci muoviamo e stiamo, come dissero anche certuni fra i loro autori, e senza dubbio quei libri provenivano di là. Così non prestai attenzione agli idoli degli egiziani, cui sacrificavano col tuo oro coloro che trasformarono la verità di Dio in menzogna, adorarono e servirono la creatura anziché il creatore.


La luce della verità nell’uomo interiore

10. 16. Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce. O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere; respingesti il mio sguardo malfermo col tuo raggio folgorante, e io tutto tremai d’amore e terrore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me”. Riconobbi che hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima mia. Chiesi: “La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito?”; e tu mi gridasti da lontano: “Anzi, io sono colui che sono “. Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato.


L’esistenza di Dio e delle cose

11. 17. Osservando poi tutte le altre cose poste al di sotto di te, scoprii che né esistono del tutto, né non esistono del tutto. Esistono, poiché derivano da te; e non esistono, poiché non sono ciò che tu sei, e davvero esiste soltanto ciò che esiste immutabilmente. Il mio bene è l’unione con Dio, poiché, se non rimarrò in lui, non potrò rimanere neppure in me. Egli invece rimanendo stabile in sé, rinnova ogni cosa. Tu sei il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni.


Bontà ed esistenza delle cose

12. 18. Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com’è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai.


L’armonia dell’universo

13. 19. In te il male non esiste affatto, e non solo in te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l’ordine che vi hai imposto. Tra le parti poi del creato, alcune ve ne sono, che, per non essere in accordo con alcune altre, sono giudicate cattive, mentre con altre si accordano, e perciò sono buone, e buone sono in se stesse. Tutte queste parti, che non si accordano fra loro, si accordano poi con la porzione inferiore dell’universo, che chiamiamo terra, la quale è provvista di un suo cielo percorso da nubi e venti, ad essa conveniente. Lontano d’ora in poi da me l’augurio: “Oh, se tali cose non esistessero!”. Quand’anche vedessi soltanto tali cose, potrei certo desiderarne di migliori, ma non più mancare di lodarti anche soltanto per queste. Che ti si debba lodare, lo mostrano infatti sulla terra i draghi e tutti gli abissi, il fuoco, la grandine, la neve, il ghiaccio, il soffio della tempesta, esecutori della tua parola, i monti e tutti i colli, gli alberi da frutto e tutti i cedri, le bestie e tutti gli armenti, i rettili e i volatili pennuti; i re della terra e tutti i popoli, i principi e tutti i giudici della terra, i giovani e le fanciulle, gli anziani con gli adolescenti lodino il tuo nome. Ma, poiché anche dai cieli salgono verso di te le lodi, ti lodino, Dio nostro, nell’alto tutti gli angeli tuoi; tutte le potenze tue, il sole e la luna, tutte le stelle e la luce, i cieli dei cieli e le acque che stanno sopra i cieli, lodino il tuo nome. Ormai non desideravo di meglio: tutte le cose abbracciavo col mio pensiero, e se le creature superiori sono meglio di quelle inferiori, tutte insieme sono però meglio delle prime sole. Con più sano giudizio davo questa valutazione.


L’insano dualismo manicheo

14. 20. Non c’è sanità di giudizio in coloro che non gradiscono qualche cosa del tuo creato, come non ce n’era in me quando non gradivo molte delle cose da te create. E poiché la mia anima non osava non gradire il mio Dio, si rifiutava di riconoscere come opera tua tutto ciò che non gradiva. Di qui era giunta alla concezione delle due sostanze, senza trovarsi soddisfatta e usando un linguaggio non suo; poi aveva abbandonato quell’idea per costruirsi un dio esteso dovunque negli spazi infiniti, che aveva immaginato fossi tu e aveva collocato nel proprio cuore, ricostituendosi tempio del proprio idolo, abominevole ai tuoi occhi. Quando però a mia insaputa prendesti il mio capo fra le tue braccia e chiudesti i miei occhi per togliere loro la vista delle cose vane, mi ritrassi un poco da me, la mia follia si assopì. Mi risvegliai in te e ti vidi, infinito ma diversamente, visione non prodotta dalla carne.


Esistenza e verità

15. 21. Rivolto poi lo sguardo alle altre cose, vidi che devono a te l’esistenza e sono in te tutte finite, ma diversamente da come si è in un luogo: cioè in quanto tu tieni tutto con la tua mano, la verità, e tutto è vero in quanto è, nulla falso se non ciò che si crede essere mentre non è. Vidi pure che ogni cosa si accorda non soltanto col proprio luogo, ma anche col proprio tempo, e che tu, unico essere eterno, non sei passato all’azione dopo estensioni incalcolabili di tempo. Tutte le estensioni del tempo, passate come future, non potrebbero né allontanarsi né avvicinarsi, se tu non fossi attivo e stabile.


La perversione della volontà

16. 22. E capii per esperienza che non è cosa sorprendente, se al palato malsano riesce una pena il pane, che al sano è soave; se agli occhi offesi è odiosa la luce, che ai vividi è amabile. La tua giustizia è sgradita ai malvagi, e a maggior ragione le vipere e i vermiciattoli che hai creato buoni e in accordo con le parti inferiori del tuo creato. A queste i malvagi stessi si accordano nella misura in cui non ti assomigliano, mentre si accordano alle parti superiori nella misura in cui ti assomigliano. Ricercando poi l’essenza della malvagità, trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, la quale si distoglie dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse, e, ributtando le sue interiora, si gonfia esternamente.


Ascesa all’Essere

17. 23. Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo. Non dubitavo minimamente dell’esistenza di un essere cui dovevo aderire, sebbene ancora non ne fossi capace, perché il corpo corruttibile grava sull’anima, e la dimora terrena deprime lo spirito con una folla di pensieri; ed ero assolutamente certo che quanto in te è invisibile, dalla costituzione del mondo si scorge comprendendolo attraverso il creato, così come la tua virtù eterna e la tua divinità. Nel ricercare infatti la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti sia terrestri, e i mezzi di cui dovevo disporre per formulare giudizi equi su cose mutevoli, allorché dicevo: “Questa cosa dev’essere così, quella no”; nel ricercare dunque la spiegazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità. E così salii per gradi dai corpi all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima alla sua potenza interna, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna, e che è la massima facoltà delle bestie. Di qui poi salii ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei; ma poiché anche quest’ultima mia attività si riconobbe mutevole, ascese alla comprensione di se medesima. Distolse dunque il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi alle contradizioni della fantasia turbinosa, per rintracciare sia il lume da cui era pervasa quando proclamava senza alcuna esitazione che è preferibile ciò che non muta a ciò che muta, sia la fonte da cui derivava il concetto stesso d’immutabilità, concetto che in qualche modo doveva possedere, altrimenti non avrebbe potuto anteporre con certezza ciò che non muta a ciò che muta. Così giunse, in un impeto della visione trepida, all’Essere stesso. Allora finalmente scorsi quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato; ma non fui capace di fissarvi lo sguardo. Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare.


Cristo Gesù, unico Mediatore fra l’uomo e Dio

18. 24. Cercavo la via per procurarmi forza sufficiente a goderti, ma non l’avrei trovata, finché non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che è sopra tutto Dio benedetto nei secoli. Egli ci chiama e ci dice: “Io sono la via, la verità e la vita”; egli mescola alla carne il cibo che non avevo forza di prendere, poiché il Verbo si è fatto carne affinché la tua sapienza, con cui creasti l’universo, divenisse latte per la nostra infanzia. Non avevo ancora tanta umiltà, da possedere il mio Dio, l’umile Gesù, né conoscevo ancora gli ammaestramenti della sua debolezza. Il tuo Verbo, eterna verità che s’innalza al di sopra delle parti più alte della creazione, eleva fino a sé coloro che piegano il capo; però nelle parti più basse col nostro fango si edificò una dimora umile, la via per cui far scendere dalla loro altezza e attrarre a sé coloro che accettano di piegare il capo, guarendo il turgore e nutrendo l’amore. Così impedì che per presunzione si allontanassero troppo, e li stroncò piuttosto con la visione della divinità stroncata davanti ai loro piedi per aver condiviso la nostra tunica di pelle. Sfiniti, si sarebbero reclinati su di lei, ed essa alzandosi li avrebbe sollevati con sé.


False opinioni di Agostino e Alipio su Cristo

19. 25. Ma io pensavo diversamente. Per me Cristo mio signore non era che un uomo straordinariamente sapiente e senza pari. Soprattutto la sua nascita miracolosa da una vergine, ov’è indicato il disprezzo dei beni temporali come condizione per ottenere l’immortalità, mi sembrava avesse guadagnato al suo magistero, grazie alla sollecitudine di Dio verso di noi, un’autorità grandissima. Ma il mistero racchiuso in quelle parole: Il Verbo fatto carne, non potevo nemmeno sospettarlo. Soltanto sapevo di lui le notizie tramandate dalle Scritture: che mangiò e bevve, dormì, camminò, provò gioia e tristezza, conversò; che quella carne non si unì al tuo Verbo senza un’anima e un’intelligenza umane: cose che sa chiunque sa che il tuo Verbo è immutabile, come ormai io lo sapevo nella misura delle mie forze, ma senza ombra di dubbio. In verità, il muovere ora le membra del corpo in forza della volontà, ora non muoverle, il sentire ora un sentimento, ora non sentirlo, l’esprimere ora a parole concetti saggi, ora tacere, sono atti propri di un’anima e di una mente mutevoli; e se si fosse scritto di lui tutto ciò mentendo, anche il resto rischiava di essere falso, e in quei testi non rimaneva più alcuna salvezza per il genere umano attraverso la fede. Quindi erano scritti veri, e perciò io riconoscevo in Cristo un uomo completo, ossia non soltanto il corpo di un uomo, o un’anima e un corpo senza intelligenza, ma un uomo vero, da anteporre secondo me a tutti gli altri non perché fosse la verità in persona, ma in virtù di un’eccellenza singolare della sua natura umana, e di una partecipazione più perfetta alla sapienza. Quanto ad Alipio, si era fatto l’idea che i cattolici nel credere a un Dio rivestito di carne credessero all’esistenza in Cristo di Dio e della carne soltanto, mentre l’anima e l’intelligenza umane pensava non gli fossero attribuite. Persuaso poi che le opere a lui ascritte dalla tradizione non possono compiersi se non da una creatura vitale e razionale, procedeva appunto verso la fede cristiana piuttosto lentamente. Solo più tardi venne a sapere che questa è la concezione erronea degli eretici apollinaristi, e si uniformò con gioia alla fede cattolica. Io da parte mia confesso di aver capito alquanto più tardi come nei riguardi della frase: Il Verbo si è fatto carne, la verità cattolica si stacchi dalla menzogna di Fotino. Davvero, la condanna degli eretici dà spicco al pensiero della tua Chiesa e alla sostanza del suo sano insegnamento. Dovettero prodursi infatti anche delle eresie, affinché si vedesse chi era saldo nella fede tra i deboli.


Fede senza umiltà

20. 26. Però allora, dopo la lettura delle opere dei filosofi platonici, da cui imparai a cercare una verità incorporea; dopo aver scorto quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato, e aver compreso a prezzo di sconfitte quale fosse la verità che le tenebre della mia anima mi impedivano di contemplare, fui certo che esisti, che sei infinito senza estenderti tuttavia attraverso spazi finiti o infiniti, e che sei veramente, perché sei sempre il medesimo, anziché divenire un altro o cambiare in qualche parte o per qualche moto; mentre tutte le altre cose sono derivate da te, come dimostra questa sola saldissima prova, che sono. Di tutto ciò ero dunque certo, ma troppo debole ancora per goderti. Cianciavo, sì, come fossi sapiente; ma, se non avessi cercato la tua via in Cristo nostro salvatore, non sapiente ma morente sarei stato ben presto. Mi aveva subito preso la smania di apparire sapiente, mentre ero ricco del mio castigo e non ne avevo gli occhi gonfi di pianto, ma io invece ero tronfio per la mia scienza. Dov’era quella carità che edifica sul fondamento dell’umiltà, ossia Gesù Cristo? Quando mai quei libri avrebbero potuto insegnarmela? Credo che la ragione, per cui volesti che m’imbattessi in quelli prima di meditare le tue Scritture, fosse d’incidere nella mia memoria le impressioni che mi diedero, così che, quando poi i tuoi libri mi avessero ammansito e sotto la cura delle tue dita avessi rimarginato le mie ferite, sapessi discernere e rilevare la differenza che intercorre fra la presunzione e la confessione, fra coloro che vedono la meta da raggiungere, ma non vedono la strada, e la via che invece porta alla patria beatificante, non solo per vederla, ma anche per abitarla. Plasmato all’inizio dalle tue sante Scritture, assaporata la tua dolcezza nel praticarle e imbattutomi dopo in quei volumi, forse mi avrebbero sradicato dal fondamento della pietà; oppure, quand’anche avessi persistito nei sentimenti salutari che avevo assorbito, mi sarei immaginato che si poteva pure derivarli dal solo studio di quei libri.


Avidissima e benefica lettura dell’apostolo Paolo

21. 27. Mi buttai dunque con la massima avidità sulla venerabile scrittura del tuo spirito, e prima di tutto sull’apostolo Paolo. Scomparvero ai miei occhi le ambiguità, ove mi era sembrato che il testo del suo discorso fosse talora incoerente e contrastante con le testimonianze della Legge e dei Profeti; mi apparve l’unico volto delle espressioni pure e imparai a esultare con apprensione. Iniziata la lettura, trovai che quanto di vero avevo letto là, qui è detto con la garanzia della tua grazia, affinché chi vede non si vanti, quasi non abbia ricevuto non solo ciò che vede, ma la facoltà stessa di vedere. Cos’ha infatti, che non abbia ricevuto?. E poi, non solo è sollecitato a vedere te, che sei sempre il medesimo, bensì anche a guarire per possederti. Chi poi è troppo lontano per vederti, intraprenda tuttavia il cammino che lo condurrà a vederti e a possederti. Infatti, sebbene l’uomo si compiaccia della legge di Dio secondo l’uomo interiore, cosa farà dell’altra legge, che nelle sue membra lotta contro la legge del suo spirito e lo trae prigioniero sotto la legge del peccato insita nelle sue membra? Tu sei giusto, Signore, ma noi abbiamo peccato, commesso atti iniqui, opere empie. La tua mano si è appesantita su di noi, e siamo stati dati giustamente in balìa dell’antico peccatore, del signore della morte, poiché persuase la nostra volontà a conformarsi alla sua volontà, con cui abbandonò la tua verità. Cosa farà l’uomo nella sua miseria? chi lo libererà da questo corpo mortale, se non la tua grazia per mezzo di Gesù Cristo signore nostro, generato da te coeterno, creato al principio delle tue vie; in cui il principe di questo mondo non trovò nulla che fosse degno di morte, eppure lo fece morire, e così fu svuotato il documento che era contro di noi? Quegli scritti non posseggono queste verità, quelle pagine non posseggono questo sembiante pietoso, le lacrime della confessione, il tuo sacrificio, l’anima angustiata, il cuore contrito e umiliato, la salvezza del tuo popolo, la città sposa, il pegno dello Spirito Santo, il calice del nostro riscatto. Là nessuno canta: “Non sarà l’anima mia sottomessa a Dio? Da lui viene la mia salvezza. Egli è il mio Dio e il mio salvatore, il mio ospite: non più muoverò”. Là nessuno ode il richiamo: Venite a me, voi che soffrite. Si sdegnano anzi i suoi ammaestramenti, perché è mite e umile di cuore. Infatti celasti queste verità ai sapienti e agli accorti, e le rivelasti ai piccoli. Altro è vedere da una cima selvosa la patria della pace e non trovare la strada per giungervi, frustrarsi in tentativi per plaghe perdute, sotto gli assalti e gli agguati dei disertori fuggiaschi guidati dal loro capo, leone e dragone insieme; e altro tenere la via che vi porta, presidiata dalla solerzia dell’imperatore celeste, immune dalle rapine dei disertori dell’esercito celeste, che la evitano come il supplizio. Questi pensieri mi penetravano fino alle viscere in modi mirabili, mentre leggevo l’ultimo fra i tuoi apostoli. La considerazione delle tue opere mi aveva sbigottito.

Libro ottavo

LA CONVERSIONE


Visita a Simpliciano

Simpliciano, servo di Dio

1. 1. Dio mio, fa’ ch’io ricordi per ringraziarti e ch’io confessi gli atti della tua misericordia nei miei riguardi. Le mie ossa s’impregnino del tuo amore e dicano: “Signore, chi simile a te?. Hai spezzato i miei lacci, ti offrirò un sacrificio di lode”. Come li hai spezzati, ora narrerò, e diranno tutti coloro che ti adorano, all’udirmi: “Benedetto il Signore in cielo e in terra; grande e mirabile il suo nome”. Penetrate stabilmente nelle mie viscere le tue parole, da te assediato d’ogni parte, possedevo la certezza della tua vita eterna. L’avevo vista soltanto in un enigma e come attraverso uno specchio; tuttavia si era dissipato dalla mia mente ogni dubbio sulla sostanza incorruttibile e la derivazione da quella di ogni altra sostanza. Non desideravo acquistare ormai una maggiore certezza di te, quanto piuttosto una maggiore stabilità in te. Senonché dalla parte della mia vita terrena tutto vacillava, e bisognava ripulirmi il cuore del fermento vecchio. La via, ossia la persona del Salvatore, mi piaceva, ma ancora mi spiaceva passare per le sue strettoie. Allora m’ispirasti il pensiero, apparso buono ai miei occhi, di far visita a Simpliciano, che mi sembrava un tuo buon servitore. In lui riluceva la tua grazia; avevo anche sentito dire che fin da giovane viveva interamente consacrato a te. Allora era vecchio ormai e nella lunga esistenza passata a perseguire la tua via con impegno così santo, mi sembrava avesse acquistato grande esperienza, grande sapienza; né mi sbagliavo. Era mio desiderio conferire con lui sui miei turbamenti, affinché mi riferisse il metodo adatto a chi si trova nel mio stato per avanzare sulla tua via.


Il legame della donna

1. 2. Vedevo la Chiesa popolata di fedeli che avanzavano, l’uno in un modo, l’altro in un altro; invece mi disgustava la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave fardello per me, ora che non mi stimolavano più a sopportare un giogo così duro le passioni di un tempo, l’attesa degli onori e del denaro. Ormai tutto ciò mi attraeva meno della tua dolcezza e della bellezza della tua casa, che ho amato. Ma ero stretto ancora da un legame tenace, la donna. L’Apostolo non mi proibiva il matrimonio, sebbene invitasse a uno stato più alto, desiderando, se possibile, che tutti gli uomini fossero come lui; ma io, più debole, cercavo una posizione più comoda. Era l’unica causa delle mie oscillazioni. Per il resto ero illanguidito e snervato da preoccupazioni putride, perché la vita coniugale, di cui ero devoto prigioniero, mi costringeva ad altri adattamenti, che non avrei voluto subire. Avevo sentito dire dalla bocca della verità che esistono eunuchi, i quali si mutilarono volontariamente per amore del regno dei cieli; ma aggiunge: “Chi può capire, capisca”. Sono certamente vani tutti gli uomini in cui non si trova la conoscenza di Dio e che non poterono trovare, muovendo dalle cose che ci si mostrano buone, Colui che è ; ma questo genere di vanità non era più il mio ormai. L’avevo superato, trovando nella testimonianza concorde dell’intero creato te, nostro Creatore, e il tuo Verbo, Dio presso di te e con te unico Dio e strumento della tua intera creazione. Esiste poi una seconda categoria di empi, quelli che, pur conoscendo Dio, non lo glorificarono o ringraziarono come Dio. Anche fra costoro ero caduto, ma la tua destra mi raccolse, mi traesti di là e mi ponesti in un luogo ove potevo guarire, poiché hai detto all’uomo: “Ecco, pietà è sapienza”, e: “Non cercare di apparire sapiente, perché chi si dichiarava sapiente divenne stolto”. Dunque avevo già trovato la perla preziosa e mi conveniva acquistarla vendendo tutti i miei beni. Eppure esitavo.


La conversione di Vittorino nel ricordo di Simpliciano

2. 3. Feci visita dunque a Simpliciano, padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre. Quando, nel descrivergli la tortuosità dei miei errori, accennai alla lettura da me fatta di alcune opere dei filosofi platonici, tradotte in latino da Vittorino, già retore a Roma e morto, a quanto avevo udito, da cristiano, si rallegrò con me per non essermi imbattuto negli scritti di altri filosofi, ove pullulavano menzogne e inganni secondo i princìpi di questo mondo. Nei platonici invece s’insinua per molti modi l’idea di Dio e del suo Verbo. Per esortarmi poi all’umiltà di Cristo, celata ai sapienti e rivelata ai piccoli, evocò i suoi ricordi di Vittorino, appunto, da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi narrò dell’amico non tacerò, poiché offre l’occasione di rendere grande lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne, per lo splendore del suo altissimo insegnamento, un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo mondo: una statua nel Foro romano. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per la dea del popolino di Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per Anubi l’abbaiatore, i quali un giorno

contro Nettuno e Venere e Minerva

presero le armi. Roma supplicava ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio Vittorino li aveva difesi per lunghi anni con eloquenza terrificante. Eppure non arrossì di farsi garzone del tuo Cristo e infante alla tua fonte, di sottoporre il collo al giogo dell’umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce.

2. 4. O Signore, Signore, che hai abbassato i cieli e sei disceso, hai toccato i monti e hanno emesso fumo, con quali mezzi ti insinuasti in quel cuore? A detta di Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: “Devi sapere che sono ormai cristiano”. L’altro replicava: “Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo”. Egli chiedeva sorridendo: “Sono dunque i muri a fare i cristiani?”. E lo affermava sovente, di essere ormai cristiano, e Simpliciano replicava sempre a quel modo, ed egli sempre ripeteva quel suo motto sui muri della chiesa. In realtà si peritava di spiacere ai suoi amici, superbi adoratori del demonio, temendo che dall’alto della loro babilonica maestà e da quei cedri, direi, del Libano, che il Signore non aveva ancora stritolato, pesanti si sarebbero abbattute su di lui le ostilità. Ma poi dalle avide letture attinse una ferma risoluzione; temette di essere rinnegato da Cristo davanti agli angeli santi, se avesse temuto di riconoscerlo davanti agli uomini, e si sentì reo di un grave delitto ad arrossire dei sacri misteri del tuo umile Verbo, quando non arrossiva dei sacrilegi di demòni superbi, da lui superbamente accettati e imitati. Perso il rispetto verso il suo errore, e preso da rossore verso la verità, all’improvviso e di sorpresa, come narrava Simpliciano, disse all’amico: “Andiamo in chiesa, voglio divenire cristiano”. Simpliciano, che non capiva più in sé per la gioia, ve lo accompagnò senz’altro. Là ricevette i primi rudimenti dei sacri misteri; non molto dopo diede anche il suo nome per ottenere la rigenerazione del battesimo, tra lo stupore di Roma e il gaudio della Chiesa. Se i superbi s’irritavano a quella vista, digrignavano i denti e si maceravano, il tuo servo aveva il Signore Dio sua speranza e non volgeva lo sguardo alle vanità e ai fallaci furori.

2. 5. Infine venne il momento della professione di fede. A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l’amico, proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si sarebbe emozionato per la vergogna. Ma Vittorino amò meglio di professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva vergognarsi del tuo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le sue parole senza vergognarsi delle turbe insane. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo che lo conoscevano. Ma chi era là, che non lo conosceva? Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido contenuto: “Vittorino, Vittorino”; e come subito gridarono festosi al vederlo, così tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero voluto portarselo via dentro al proprio cuore, e ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell’amore e del gaudio.


L’esultanza per il bene faticosamente raggiunto

3. 6. Dio buono, cosa avviene nell’uomo, che per la salvezza di un’anima insperatamente liberata da grave pericolo prova gioia maggiore che se avesse sempre conservato la speranza, o minore fosse stato il pericolo? Invero anche tu, Padre misericordioso, gioisci maggiormente per un solo pentito che per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di penitenza; e noi proviamo grande gioia all’udire ogni volta che udiamo quanto esulta il pastore nel riportare sulle spalle la pecora errabonda, e come la dracma sia riposta nei tuoi tesori fra le congratulazioni dei vicini alla donna che l’ha ritrovata; e ci fa piangere di gioia la festa della tua casa, ogni volta che nella tua casa leggiamo del figlio minore che era morto ed è tornato in vita, era perduto e fu ritrovato. Tu gioisci in noi e nei tuoi angeli santificati da un santo amore, perché sei sempre il medesimo, e le cose che non esistono sempre né sempre nel medesimo modo tu nel medesimo modo le conosci sempre tutte.

3. 7. Cosa avviene dunque nell’anima, per cui gode maggiormente di trovare o riavere quanto ha caro, che se lo avesse sempre conservato? Lo conferma la testimonianza di molte altre circostanze, ogni luogo è pieno di testimoni che proclamano: “È così”. Trionfa il generale vittorioso, che non avrebbe vinto senza aver combattuto: e quanto maggiore fu il pericolo nella battaglia, tanto maggiore è la gioia nel trionfo; la tempesta sballotta i naviganti e minaccia di farli naufragare, tutti sbiancano nell’imminenza della morte, poi il cielo e il mare si placano e l’eccesso dell’esultanza nasce dall’eccesso della paura; una persona cara sta male, il polso rivela le sue cattive condizioni: quanti ne desiderano la guarigione stanno male con lei in cuor loro, ma poi migliora, e prima ancora che si aggiri col vigore primitivo, già si diffonde un giubilo che non esisteva quando, prima, si aggirava sana e robusta. Persino i piaceri fisici della vita umana non solo a prezzo di noie impreviste e subìte controvoglia se li procurano gli uomini, ma a prezzo di disagi premeditati e volontari. Così il piacere del cibo e della bevanda è nullo, se non preceduto dal tormento della fame e della sete; e i beoni accompagnano il cibo con certe salse piccanti per provocare un’arsura tormentosa, che nell’essere estinta dal bere nasce il piacere. Si è persino stabilita l’usanza di non consegnare subito le spose già promesse, affinché i mariti non le disprezzino dopo avute, se da fidanzati non sospirarono di averle.

3. 8. Così avviene per una gioia vergognosa e abominevole, così per una permessa e lecita, così per la più sincera e onesta delle amicizie, così per chi era morto ed è tornato in vita, era perduto e fu ritrovato: sempre un gaudio più grande è preceduto da più grande tormento. Che è ciò, Signore mio Dio? Tu, tu stesso non sei per te stesso perenne gaudio, e alcuni esseri intorno a te non godono di te perennemente? E come in quest’altra parte dell’universo si alternano regressi e progressi, contrasti e accordi? È forse la limitazione che hai fissato per essa allorché dalla sommità dei cieli sino alle profondità della terra, dall’inizio sino alla fine dei secoli, dall’angelo sino all’ultimo verme, dal primo moto sino all’estremo hai disposto una per una nella sua propria sede tutte le varietà dei beni, tutte le tue giuste opere e le hai attuate ciascuna a suo proprio tempo? Ahimè, quale sublimità la tua nelle cose sublimi e quale profondità nelle profonde! Eppure non ti allontani mai da noi: noi stentiamo a tornare.


Maggiore esultanza e frutto per la conversione di un personaggio famoso

4. 9. Ebbene, Signore, agisci, svegliaci e richiamaci, accendi e rapisci, ardi, sii dolce. Amiamo, corriamo. Non è forse vero che molti risalgono a te da un Tartaro di cecità ancora più profondo di Vittorino? Eppure si avvicinano e sono illuminati al ricevere la tua luce, e quanti la ricevono, ricevono da te il potere di divenire tuoi figli. Ora, se costoro sono poco conosciuti dalla gente, anche quanti li conoscono gioiscono poco per loro. Una gioia condivisa con molti è più abbondante anche per ciascuno. Ci si riscalda e accende a vicenda, e poi la grande notorietà avvalora ed estende a un grande numero di persone il richiamo alla salvezza. Ci si avvia, e molti seguiranno. Perciò molto ne gioiscono anche coloro che si sono mossi per primi, poiché non gioiscono soltanto per sé. Lungi da me il pensiero che nella tua tenda vengano accolti meglio dei poveri i personaggi ricchi, o meglio dei vili i nobili. Anzi, tu hai scelto la debolezza del mondo per sgominare la forza, hai scelto la viltà di questo mondo e il disprezzo, ciò che è nulla come se fosse qualcosa, per abolire ciò che è. Tuttavia proprio quell’ultimo fra i tuoi apostoli, della cui lingua ti servisti per far risuonare queste parole, allorché ebbe debellato con le sue armi la superbia del proconsole Paolo, e l’ebbe fatto passare sotto il giogo lieve del tuo Cristo, rendendolo suddito oscuro di grande re, volle egli pure chiamarsi anziché Saulo come innanzi, Paolo, quasi a emblema di così grande vittoria. Invero è più grave la sconfitta del nemico in chi tiene più saldamente e con cui tiene un maggior numero di altri; ed egli tiene più saldamente, mediante il prestigio della nobiltà, i superbi, con cui poi tiene un maggior numero di altri mediante il prestigio dell’autorità. Quanto più gradita era dunque la visione del cuore di Vittorino, già tenuto dal diavolo come una ridotta inespugnabile, e della lingua di Vittorino, già impiegata come un dardo poderoso e acuminato per la morte di molti, tanto più abbondante doveva essere l’esultanza dei tuoi figli. Il nostro re aveva incatenato il forte e davanti ai loro occhi i suoi arnesi divenivano mondi, atti a rendere onore a te, servizio al Signore per ogni opera buona.


Il conflitto delle due volontà e il peso dell’abitudine

5. 10. Comunque, allorché il tuo servo Simpliciano mi ebbe narrata la storia di Vittorino, mi sentii ardere dal desiderio d’imitarlo, che era poi lo scopo per il quale Simpliciano me l’aveva narrata. Soggiunse un altro particolare: che, poiché ai tempi dell’imperatore Giuliano un editto proibiva ai cristiani d’insegnare letteratura onoraria, Vittorino, inchinandosi alla legge, aveva preferito abbandonare la scuola delle ciance anziché la tua Parola, che rende eloquente la lingua di chi non sa parlare. A me però non parve che qui la sua forza d’animo fosse stata superiore alla sua fortuna, poiché vi trovò l’occasione per dedicarsi interamente a te. A tanto aspiravo io pure, impacciato non dai ferri della volontà altrui, ma dalla ferrea volontà mia. Il nemico deteneva il mio volere e ne aveva foggiato una catena con cui mi stringeva. Sì, dalla volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità. Con questa sorta di anelli collegati fra loro, per cui ho parlato di catena, mi teneva avvinto una dura schiavitù. La volontà nuova, che aveva cominciato a sorgere in me, volontà di servirti gratuitamente e goderti, o Dio, unica felicità sicura, non era ancora capace di soverchiare la prima, indurita dall’anzianità. Così in me due volontà, una vecchia, l’altra nuova, la prima carnale, la seconda spirituale, si scontravano e il loro dissidio lacerava la mia anima.

5. 11. L’esperienza personale mi faceva comprendere le parole che avevo letto: come le brame della carne siano opposte allo spirito, e quelle dello spirito alla carne. Senza dubbio ero io nell’uno e nell’altra, ma più io in ciò che dentro di me approvavo, che in ciò che dentro di me disapprovavo. Qui ormai non ero più io, perché subivo piuttosto contro voglia, anziché agire volontariamente. Tuttavia l’abitudine si era agguerrita a mio danno e per mia colpa, poiché volontariamente ero giunto dove non avrei voluto. E con quale diritto si protesterà contro una pena, che a buon diritto segue un peccato? Non potevo più invocare la scusa di un tempo, quando solevo persuadermi che, se ancora mancavo di spregiare il mondo e servire te, era colpa dell’incerta percezione che avevo della verità. Ormai anche la verità era certa. Rifiutavo di entrare nella tua milizia per i legami che ancora mi tenevano avvinto alla terra; temevo di sbrigarmi di tutti i fardelli nel modo in cui bisogna temerne la briga.


Indugi

5. 12. Così il bagaglio del secolo mi opprimeva piacevolmente, come capita nei sogni. I miei pensieri, le riflessioni su di te somigliavano agli sforzi di un uomo, che nonostante l’intenzione di svegliarsi viene di nuovo sopraffatto dal gorgo profondo del sopore. E come nessuno vuole dormire sempre e tutti ragionevolmente preferiscono al sonno la veglia, eppure spesso, quando un torpore greve pervade le membra, si ritarda il momento di scuotersi il sonno di dosso e, per quanto già dispiaccia, lo si assapora più volentieri, benché sia giunta l’ora di alzarsi; così io ero sì persuaso della convenienza di concedermi al tuo amore, anziché cedere alla mia passione; ma se l’uno mi piaceva e vinceva, l’altro mi attraeva e avvinceva. Non sapevo cosa rispondere a queste tue parole: “Lèvati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo t’illuminerà”; dovunque facevi brillare ai miei occhi la verità delle tue parole, ma io, pur convinto della loro verità, non sapevo affatto cosa rispondere, se non, al più, qualche frase lenta e sonnolenta: “Fra breve”, “Ecco, fra breve”, “Attendi un pochino”. Però quei “breve” e “breve” non avevano breve durata, e quell’”attendi un pochino” andava per le lunghe. Invano mi compiacevo della tua legge secondo l’uomo interiore, quando nelle mie membra un’altra legge lottava contro la legge del mio spirito e mi traeva prigioniero sotto la legge del peccato insita nelle mie membra. Questa legge del peccato è la forza dell’abitudine, che trascina e trattiene l’anima anche suo malgrado in una soggezione meritata, poiché vi cade di sua volontà. Chi avrebbe potuto liberarmi, nella mia condizione miserevole, da questo corpo mortale, se non la tua grazia per mezzo di Gesù Cristo signore nostro?

I due racconti di Ponticiano

Condizioni di Agostino, Alipio e Nebridio

6. 13. Ebbene, ora narrerò come tu mi abbia liberato dalla catena del desiderio dell’unione carnale, che mi teneva legato così strettamente, e dalla schiavitù degli affari secolari. Confesserò il tuo nome, Signore, mio soccorritore e mio redentore. Svolgevo la solita attività, ma con ansia crescente. Ogni giorno sospiravo verso di te e nel tempo esente dal peso degli affari, sotto cui gemevo, frequentavo la tua chiesa. Con me era Alipio, che, libero dagli impegni di legale dopo essere stato assessore a tre riprese, stava aspettando qualcuno, cui vendere ancora pareri come io vendevo l’arte del dire, se pure la si può fornire con l’insegnamento. Quanto a Nebridio, cedendo alle sollecitazioni di noi amici, era divenuto assistente di Verecondo, un maestro di scuola, cittadino milanese, intimo di noi tutti. Verecondo desiderava vivamente, e ce ne richiese in nome dell’amicizia, di avere dal nostro gruppo quell’aiuto fedele, di cui troppo mancava. Nebridio perciò non vi fu attratto dalla brama dei vantaggi, che, se soltanto voleva, poteva ricavare più abbondanti dalla sua cultura letteraria, bensì, da amico soavissimo e arrendevolissimo qual era, per obbligazione di affetto non volle respingere la nostra richiesta. Disimpegnò l’incarico evitando con molta saggezza di farsi notare dai grandi di questo mondo, così scansando ogni inquietudine interiore che poteva venirgli da quella parte. Voleva conservare lo spirito libero da occupazioni quante più ore poteva, per attendere a qualche ricerca, fare qualche lettura o sentir parlare della sapienza.


La meravigliosa vita di Antonio nel racconto di Ponticiano

6. 14. Un certo giorno ecco viene a trovarci, Alipio e me, né ricordo per quale motivo era assente Nebridio, un certo Ponticiano, nostro compatriota in quanto africano, che ricopriva una carica cospicua a palazzo. Ignoro cosa volesse da noi. Ci sedemmo per conversare e casualmente notò sopra un tavolo da gioco che ci stava davanti un libro. Lo prese, l’aprì e con sua grande meraviglia vi trovò le lettere dell’apostolo Paolo, mentre aveva immaginato fosse una delle opere che mi consumavo a spiegare in scuola. Allora mi guardò sorridendo e si congratulò con me, dicendosi sorpreso di aver improvvisamente scoperto davanti ai miei occhi quel testo e quello solo. Dirò che era cristiano e battezzato; spesso si prosternava in chiesa davanti a te, Dio nostro, pregandoti con insistenza e a lungo. Io gli spiegai che riservavo la massima attenzione a quegli scritti, e così si avviò il discorso. Ci raccontò la storia di Antonio, un monaco egiziano, il cui nome brillava in chiara luce fra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci sopra un personaggio tanto ragguardevole a noi ignoto e manifestando la sua meraviglia, appunto, per la nostra ignoranza. Anche noi eravamo stupefatti all’udire le tue meraviglie potentemente attestate in epoca così recente, quasi ai nostri giorni, e operate nella vera fede della Chiesa cattolica. Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano grandi, lui per non essere giunte al nostro orecchio.


Un’avventura di Ponticiano e tre suoi amici

6. 15. Di qui il suo discorso si spostò sulle greggi dei monaci, sulla loro vita, che t’invia soavi profumi, e sulla solitudine feconda dell’eremo, di cui noi nulla conoscevamo. A Milano stessa fuori dalle mura della città esisteva un monastero popolato da buoni fratelli con la pastura di Ambrogio senza che noi lo sapessimo. Ponticiano infervorandosi continuò a parlare per un pezzo, e noi ad ascoltarlo in fervido silenzio. Così venne a dire che un giorno, non so quando ma certamente a Treviri, mentre l’imperatore era trattenuto dallo spettacolo pomeridiano nel circo, egli era uscito a passeggiare con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli amici per proprio conto e gli altri due ugualmente per proprio conto, si persero di vista. Ma questi ultimi, vagando, entrarono in una capanna abitata da alcuni tuoi servitori poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cieli, e vi trovarono un libro ov’era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la lettura si formò in lui il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per votarsi al tuo. Erano in verità di quei funzionari, che chiamano agenti amministrativi. Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta vergogna, adirato contro se stesso, guardò fisso l’amico e gli chiese: “Dimmi, di grazia, quale risultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che stiamo compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di più, a palazzo, dal rango di amici dell’imperatore? E anche una simile condizione non è del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che ci arriviamo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco, lo divento subito “. Parlava e nel delirio del parto di una nuova vita tornò con gli occhi sulle pagine. A mano a mano che leggeva un mutamento avveniva nel suo intimo, ove tu vedevi, e la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all’amico suo: “Io ormai ho rotto con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di servire Dio, e questo da quest’ora. Comincerò in questo luogo. Se a te rincresce d’imitarmi, tralascia d’ostacolarmi”. L’altro rispose che lo seguiva per condividere con lui l’alta ricompensa di così alto servizio. Ormai tuoi entrambi, cominciavano la costruzione della torre, pagando il prezzo adeguato, e cioè l’abbandono di tutti i propri beni per essere tuoi seguaci. In quella Ponticiano e l’amico che con lui passeggiava in altre parti del giardino, mentre li cercavano giunsero là essi pure, li trovarono e li esortarono a rientrare, visto che il giorno era ormai calato. Ma i due palesarono la decisione presa e il proposito fatto, nonché il modo com’era sorta e si era radicata in loro quella volontà. Conclusero pregando di non molestarli, qualora rifiutassero di unirsi a loro. I nuovi venuti persistettero nella vita di prima, ma tuttavia piansero su di sé, come diceva Ponticiano, mentre con gli amici si felicitarono piamente e si raccomandarono alle loro preghiere, per poi tornare a palazzo strisciando il cuore in terra, mentre essi rimasero nella capanna fissando il cuore in cielo. Entrambi erano fidanzati; quando le spose seppero l’accaduto, consacrarono anch’esse la loro verginità a te.


Miseria e pena di Agostino

7. 16. Questo il racconto di Ponticiano. E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me?. Se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, c’era Ponticiano, che continuava, continuava il suo racconto, e c’eri tu, che mi mettevi nuovamente di fronte a me stesso e mi ficcavi nei miei occhi, affinché scoprissi e odiassi la mia malvagità. La conoscevo, ma la coprivo, la trattenevo e me ne scordavo.

7. 17. Ma ora quanto più amavo i due giovani ascoltando gli slanci salutari con cui ti avevano affidato la loro intera guarigione, tanto più mi trovavo detestabile al loro confronto e mi odiavo. Molti anni della mia vita si erano perduti con me, forse dodici da quello in cui, diciannovenne, leggendo l’Ortensio di Cicerone mi ero sentito spingere allo studio della sapienza; e ancora rinviavo il momento di dedicarmi, nel disprezzo della felicità terrena, all’indagine di quell’altra, la cui non dirò scoperta, ma pur semplice ricerca si doveva anteporre persino alla scoperta di tesori, di regni terreni e ai piaceri fisici, che affluivano a un mio cenno da ogni dove. Eppure da giovinetto, ben misero, sì, misero proprio sulla soglia della giovinezza, ti avevo pur chiesto la castità. “Dammi, ti dissi, la castità e la continenza, ma non ora”, per timore che, esaudendomi presto, presto mi avresti guarito dalla malattia della concupiscenza, che preferivo saziare, anziché estinguere. Mi ero così incamminato per le vie cattive di una superstizione sacrilega, senza esserne sicuro, è vero, ma comunque anteponendola alle altre dottrine, che invece di indagare devotamente, combattevo ostilmente.

7. 18. Avevo pensato che la ragione per cui differivo di giorno in giorno il momento di seguire unicamente te, disprezzando le promesse del secolo, fosse la mancanza di una luce sicura, su cui orientare il mio corso. Ed era venuto il giorno in cui mi trovavo nudo davanti a me stesso e sotto le rampogne della mia coscienza: “Dov’è la tua loquacità? Tu proprio andavi dicendo che rifiutavi di sbarazzarti del tuo bagaglio di vanità per l’incertezza del vero. Ecco, ora il vero è certo, e la vanità ti opprime ancora. A spalle più libere delle tue spuntarono le ali senza che si fossero consumate nella ricerca e in una meditazione di oltre un decennio su questi problemi”. Così mi rodevo in cuore e mi sentivo violentemente turbare da un’orrenda vergogna al racconto di Ponticiano. Concluso per altro il discorso e l’affare per cui era venuto, egli uscì e io rientrai in me. Cosa non dissi contro di me? Di quali colpi non flagellai la mia anima con le verghe dei pensieri affinché mi seguisse nei miei sforzi per camminare sulle tue orme? Recalcitrava, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano stati sfruttati e confutati. Non le rimaneva che un’ansia muta; come la morte temeva di essere costretta a ritrarsi dal flusso della consuetudine, che la corrompeva fino a morirne.

In giardino

Agostino e Alipio in giardino

8. 19. Allora, nel mezzo della grande rissa che si svolgeva dentro alla mia casa e che avevo scatenato energicamente contro la mia anima nella nostra stanza più segreta, nel mio cuore, sconvolto il viso quanto la mente, mi precipito da Alipio esclamando: “Cosa facciamo? cosa significa ciò? cosa hai udito? Alcuni indotti si alzano e rapiscono il cielo, mentre noi con tutta la nostra dottrina insensata, ecco dove ci avvoltoliamo, nella carne e nel sangue. O forse, poiché ci precedettero, abbiamo vergogna a seguirli e non abbiamo vergogna a non seguirli almeno?”. Dissi, penso, qualcosa del genere, poi la mia tempesta interiore mi strappò da lui, che mi mirava attonito, in silenzio. Certo le mie parole erano insolite, ma più ancora delle parole che pronunciavo, esprimevano i miei sentimenti la fronte, le guance, gli occhi, il colore della pelle, il tono della voce. Annesso alla nostra abitazione era un modesto giardinetto, che usavamo come il resto della casa, poiché il nostro ospite, padrone della casa, non l’abitava. Là mi sospinse il tumulto del cuore. Nessuno avrebbe potuto arrestarvi il focoso litigio che avevo ingaggiato con me stesso e di cui tu conoscevi l’esito, io no. Io insanivo soltanto, per rinsavire, e morivo, per vivere, consapevole del male che ero e inconsapevole del bene che presto sarei stato. Mi ritirai dunque nel giardino, e Alipio dietro, passo per passo. In verità mi sentivo ancora solo, malgrado la sua presenza, e poi, come avrebbe potuto abbandonarmi in quelle condizioni? Sedemmo il più lontano possibile dall’edificio. Io fremevo nello spirito, sdegnato del più torbido sdegno perché non andavo verso la tua volontà e la tua alleanza, Dio mio, verso le quali tutte le mie ossa gridavano che si doveva andare, esaltandole con lodi fino al cielo. E là non si andava con navi o carrozze o passi, nemmeno i pochi con cui ero andato dalla casa al luogo ov’eravamo seduti. L’andare, non solo, ma pure arrivare colà non era altro che il volere di andare, però un volere vigoroso e totale, non i rigiri e sussulti di una volontà mezzo ferita nella lotta di una parte di sé che si alzava, contro l’altra che cadeva.

8. 20. Nelle tempeste dell’esitazione facevo con la persona molti dei gesti che gli uomini talvolta vogliono, ma non valgono a fare, o perché mancano delle membra necessarie, o perché queste sono avvinte da legami, inerti per malattia o comunque impedite. Mi strappai cioè i capelli, mi percossi la fronte, strinsi le ginocchia fra le dita incrociate, così facendo perché lo volevo. Avrei potuto volere e non fare, se le membra non mi avessero ubbidito per impossibilità di muoversi. E mentre feci molti gesti, per i quali volere non equivaleva a potere, non facevo il gesto che mi attraeva d’un desiderio incomparabilmente più vivo e che all’istante, appena voluto, avrei potuto, perché all’istante, appena voluto, l’avrei certo voluto. Lì possibilità e volontà si equivalevano, il solo volere era già fare. Eppure non se ne faceva nulla: il corpo ubbidiva al più tenue volere dell’anima, muovendo a comando le membra, più facilmente di quanto l’anima non ubbidisse a se stessa per attuare nella sua volontà una sua grande volontà.


La volontà imperfetta

9. 21. Qual è l’origine di quest’assurdità? e quale la cau-sa?. M’illumini la tua misericordia, mentre interrogherò, se mai possono rispondermi, le recondite pieghe delle miserie umane e le misteriosissime pene che affliggono i figli di Adamo. Qual è l’origine di quest’assurdità? e quale la causa? Lo spirito comanda al corpo, e subito gli si presta ubbidienza; lo spirito comanda a se stesso, e incontra resistenza. Lo spirito comanda alla mano di muoversi, e il movimento avviene così facilmente, che non si riesce quasi a distinguere il comando dall’esecuzione, benché lo spirito sia spirito, la mano invece corpo. Lo spirito comanda allo spirito di volere, non è un altro spirito, eppure non esegue. Qual è l’origine di quest’assurdità? e quale la causa? Lo spirito, dico, comanda di volere, non comanderebbe se non volesse, eppure non esegue il suo comando. In verità non vuole del tutto, quindi non comanda del tutto. Comanda solo per quel tanto che vuole, e il comando non si esegue per quel tanto che non vuole, poiché la volontà comanda di volere, e non ad altri, ma a se stessa. E poiché non comanda tutta intera, non avviene ciò che comanda; se infatti fosse intera, non si comanderebbe di essere, poiché già sarebbe. Non è dunque un’assurdità quella di volere in parte, e in parte non volere; è piuttosto una malattia dello spirito, sollevato dalla verità ma non raddrizzato del tutto perché accasciato dal peso dell’abitudine. E sono due volontà, poiché nessuna è completa e ciò che è assente dall’una è presente nell’altra.


Confutazione della dottrina manichea delle due nature

10. 22. Scompaiano dalla tua vista, o Dio, così come scompaiono, i ciarlatani e i seduttori delle menti, coloro che, avendo rilevato la presenza di due volontà nell’atto del deliberare, affermano l’esistenza di due anime con due nature, l’una buona, l’altra malvagia. Essi sì sono davvero malvagi, poiché hanno questi concetti malvagi, e non diverranno buoni, se non avendo concetti di verità e accettando la verità. Allora potranno dirsi per loro le parole del tuo Apostolo: “Foste un tempo tenebre, ora invece luce nel Signore”. Mentre vogliono essere luce, ma non nel Signore, bensì in se stessi, attribuendo alla natura dell’anima un’essenza divina, sono divenuti tenebre più dense. La loro orrenda arroganza li allontanò più ancora da te, da te, vero lume illuminante ogni uomo che viene in questo mondo. Badate a ciò che dite. Arrossite e avvicinatevi a lui: riceverete la luce e i vostri volti non arrossiranno. Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere; ero io, io. Da questa volontà incompleta e incompleta assenza di volontà nasceva la mia lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l’esistenza di un’anima estranea, bensì il castigo della mia. Non ero neppure io a provocarla, ma il peccato che abitava in me quale punizione di un peccato commesso in maggiore libertà; poiché ero figlio di Adamo.

10. 23. Se infatti esistessero tante nature contrarie fra loro quante volontà opposte l’una all’altra, non sarebbero solo due, ma molte. Allorché qualcuno sta deliberando se recarsi a un loro convegno oppure a teatro, costoro gridano: “Ecco le due nature, una buona che lo invia qui, l’altra malvagia che lo rinvia là. Quale origine diversa potrebbe avere questa esitazione di volontà in conflitto fra loro?”. Io affermo che sono volontà malvagie entrambe, sia quella che lo invia a loro, sia quella che lo rinvia a teatro; essi invece credono che non può essere se non buona quella che ci guida a loro. Come? Per uno che delibera, esitando nell’alterco delle due volontà contrastanti, se recarsi a teatro o alla nostra chiesa, non esiteranno anch’essi sulla risposta da dare? Infatti o confesseranno, ma non vogliono farlo, che la volontà buona ci spinge a recarci alla nostra chiesa, come vi si reca chi è stato iniziato ai suoi sacramenti e vi partecipa; o crederanno che si scontrano in un uomo solo due nature malvagie, due anime malvagie. Sarà in tal caso smentita la loro asserzione consueta, che una natura è buona e l’altra malvagia; oppure si convertiranno alla verità, ammettendo che nell’atto di deliberare una sola anima fluttua in balìa di volontà diverse.

10. 24. Non asseriscano dunque più, al vedere due volontà affrontarsi nel medesimo individuo, che si tratta della contesa di due anime contrarie, una buona, l’altra malvagia, formate da due sostanze contrarie, da due princìpi contrari: perché tu, Dio verace, li condanni, li confuti, li smascheri. Pensiamo al caso di due volontà entrambe malvagie, quali si hanno in chi sta deliberando se uccidere un uomo col veleno o con un’arma, se appropriarsi di questo o di quel fondo che non gli appartengono né può occupare contemporaneamente; se comprare il piacere per lussuria o serbare il denaro per avarizia; se recarsi al circo o a teatro quando entrambi diano spettacolo nella medesima giornata, o, aggiungendo una terza eventualità, a rubare in casa d’altri, qualora si presenti l’occasione, o, aggiungendone pure una quarta, a commettere un adulterio, qualora gli si apra simultaneamente una possibilità anche da quella parte. Ebbene, si concentrino nel medesimo istante tutte assieme queste occasioni e siano tutte ugualmente desiderate, eppure non possono essere simultaneamente sfruttate e si avrà un animo dilaniato da quattro volontà in conflitto tra loro, o anche da più di quattro, potendo essere molte le cose desiderate, sebbene questa gente di solito non parli di una moltitudine tanto grande di sostanze diverse. Così anche per le volontà buone. Chiedo loro: “È bene godere della lettura dell’Apostolo? è bene godere della lettura di un salmo edificante? è bene dissertare sul Vangelo?”. Risponderanno ogni volta: “È bene”. Ma allora, se queste tre attività piacessero tutte ugualmente e in un unico e medesimo istante, non si hanno volontà diverse, che tirano in senso contrario il cuore dell’uomo nell’atto in cui delibera sulla cosa migliore da fare? E tutte sono volontà buone e lottano tra loro finché non sia operata la scelta, su cui punti tutta la volontà ridotta a una sola di molte in cui era divisa. Così ancora, quando l’eternità ci attrae in alto, mentre il godimento di un bene temporale ci trattiene al basso, è la medesima anima a volere, ma non con tutta la volontà, l’uno o l’altro dei due oggetti. Di qui le angosce penose che la dilaniano, perché la verità le fa anteporre il primo, l’abitudine non le lascia deporre il secondo.


Penosa ascesa

11. 25. Ammalato nello spirito di questa malattia, mi tormentavo fra le accuse che mi rivolgevo da solo, assai più aspre del solito, e i rigiri e le convulsioni entro la mia catena, che ancora non si spezzava del tutto, che sottile ormai mi teneva, ma pure mi teneva. Tu, Signore, non mi davi tregua nel mio segreto. Con severa misericordia raddoppiavi le sferzate del timore e del pudore, per impedire un nuovo rilassamento, che, invece di spezzare quel solo esiguo e tenue legame esistente ancora, l’avrebbe rinvigorito da capo, e stretto me più saldamente. Mi dicevo fra me e me: “Su, ora, ora è il momento di agire”; a parole ero ormai incamminato verso la decisione e stavo già quasi per agire, e non agivo. Non ricadevo però al punto di prima: mi fermavo vicinissimo e prendevo lena. Seguiva un altro tentativo uguale al precedente, ancora poco ed ero là, ancora poco e ormai toccavo, stringevo la meta. E non c’ero, non toccavo, non stringevo nulla. Esitavo a morire alla morte e a vivere alla vita; aveva maggior potere su di me il male inoculato, che il bene inusitato. L’istante stesso dell’attesa trasformazione quanto più si avvicinava, tanto più atterriva, non al punto di ributtarmi indietro e farmi deviare, ma sì di tenermi sospeso.

11. 26. A trattenermi erano le frivolezze delle frivolezze, le vanità delle vanità, antiche amiche mie, che mi tiravano di sotto la veste di carne e sussurravano a bassa voce: “Tu ci congedi?”, e: “Da questo momento non saremo più con te eternamente”, e: “Da questo momento non ti sarà più concesso di fare questo e quell’altro eternamente”. E quali cose non mi suggerivano con ciò che ho chiamato “questo e quell’altro”, quali cose non mi suggerivano, Dio mio! La tua misericordia le allontani dall’anima del tuo servo. Quali sozzure non suggerivano, quali infamie! Ma io udivo ormai molto meno che a metà la loro voce. Anziché contrastare, diciamo così, a viso aperto, venendomi innanzi, parevano bisbigliare dietro le spalle e quasi mi pizzicavano di soppiatto mentre fuggivo, per farmi volgere indietro lo sguardo. Così però mi attardavano, poiché indugiavo a staccarmi e scuotermi da esse per balzare ove tu mi chiamavi. L’abitudine, tenace, mi diceva: “Pensi di poterne fare a meno?”.


Esortazione della Continenza

11. 27. Ma la sua voce era ormai debolissima. Dalla parte ove avevo rivolto il viso, pur temendo a passarvi, mi si svelava la casta maestà della Continenza, limpida, sorridente senza lascivia, invitante con verecondia a raggiungerla senza esitare, protese le pie mani verso di me per ricevermi e stringermi, ricolme di una frotta di buoni esempi: fanciulli e fanciulle in gran numero, moltitudini di giovani e gente d’ogni età, e vedove gravi e vergini canute. E in tutte queste anime la continenza, dico, non era affatto sterile, bensì madre feconda di figli: i gaudi ottenuti dallo sposo, da te, Signore. Con un sorriso sulle labbra, che era di derisione e incoraggiamento insieme, sembrava dire: “Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani, queste donne? E gli uni e le altre ne hanno il potere in se medesimi o nel Signore Dio loro? Il Signore Dio loro mi diede ad essi. Perché ti reggi, e non ti reggi, su di te? Gèttati in lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere. Gèttati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà”. Io arrossivo troppo, udendo ancora i sussurri delle frivolezze; ero sospeso nell’esitazione, mentre la Continenza riprendeva, quasi, a parlare: “Chiudi le orecchie al richiamo della tua carne immonda sulla terra per mortificarla. Le voluttà che ti descrive sono difformi dalla legge del Signore Dio tuo “. Questa disputa avveniva nel mio cuore, era di me stesso contro me stesso solo. Alipio, immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l’esito della mia insolita agitazione.


Colloquio con Dio

12. 28. Quando dal più segreto fondo della mia anima l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e mi allontanai da Alipio, parendomi la solitudine più propizia al travaglio del pianto, quanto bastava perché anche la sua presenza non potesse pesarmi. In questo stato mi trovavo allora, ed egli se ne avvide, perché, penso, mi era sfuggita qualche parola, ove risuonava ormai gravida di pianto la mia voce; e in questo stato mi alzai. Egli dunque rimase ove ci eravamo seduti, immerso nel più grande stupore. Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sacrificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: “E tu, Signore, fino a quando?. Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità “. Sentendomene ancora trattenuto, lanciavo grida disperate: “Per quanto tempo, per quanto tempo il “domani e domani”? Perché non subito, perché non in quest’ora la fine della mia vergogna?”.


“Prendi e leggi”

12. 29. Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: “Prendi e leggi, prendi e leggi”. Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: “Va’, vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi”. Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: “Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze”. Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.

12. 30. Chiuso il libro, tenendovi all’interno il dito o forse un altro segno, già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio l’accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese di vedere il testo che avevo letto. Glielo porsi, e portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva: “E accogliete chi è debole nella fede”. Lo riferì a se stesso, e me lo disse. In ogni caso l’ammonimento rafforzò dentro di lui una decisione e un proposito onesto, pienamente conforme alla sua condotta, che l’aveva portato già da tempo ben lontano da me e più innanzi sulla via del bene. Senza turbamento o esitazione si unì a me. Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più ne moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e mutasti il suo duolo in gaudio molto più abbondante dei suoi desideri, molto più prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia carne.

Libro nono

DA MILANO A OSTIA


A Cassiciaco, dopo la conversione

Ringraziamento a Dio salvatore

1. 1. O Signore, io sono servo tuo, io sono servo tuo e sono figlio dell’ancella tua. Poiché hai spezzato i miei lacci, ti offrirò in sacrificio di lode una vittima. Ti lodi il mio cuore, la mia lingua; tutte le mie ossa dicano: “Signore, chi simile a te?”. Così dicano, e tu rispondimi, di’ all’anima mia:La salvezza tua io sono”. Io chi ero mai, com’ero? Quale malizia non ebbero i miei atti, o, se non gli atti, i miei detti, o, se non i detti, la mia volontà? Ma tu, Signore, sei buono e misericordioso; con la tua mano esplorando la profondità della mia morte, hai ripulito dal fondo l’abisso di corruzione del mio cuore. Ciò avvenne quando non volli più ciò che volevo io, ma volli ciò che volevi tu. Dov’era il mio libero arbitrio durante una serie così lunga di anni? da quale profonda e cupa segreta fu estratto all’istante, affinché io sottoponessi il collo al tuo giogo lieve e le spalle al tuo fardello leggero, o Cristo Gesù, mio soccorritore e mio redentore? Come a un tratto divenne dolce per me la privazione delle dolcezze frivole! Prima temevo di rimanerne privo, ora godevo di privarmene. Tu, vera, suprema dolcezza, le espellevi da me, e una volta espulse entravi al loro posto, più soave di ogni voluttà, ma non per la carne e il sangue; più chiaro di ogni luce, ma più riposto di ogni segreto; più elevato di ogni onore, ma non per chi cerca in sé la propria elevazione. Il mio animo era libero ormai dagli assilli mordaci dell’ambizione, del denaro, della sozzura e del prurito rognoso delle passioni, e parlavo, parlavo con te, mia gloria e ricchezza e salute, Signore Dio mio.


Attesa delle vacanze

2. 2. Decisi davanti ai tuoi occhi di non troncare clamorosamente, ma di ritirare pianamente l’attività della mia lingua dal mercato delle ciance. Non volevo che mai più i fanciulli cercassero, anziché la tua legge e la tua pace, i fallaci furori e gli scontri forensi comprando dalla mia bocca le armi alla loro ira. Per una fortunata coincidenza mancavano ormai pochissimi giorni alle vacanze vendemmiali. Perciò decisi di pazientare quel poco. Mi sarei poi congedato come sempre, ma, da te riscattato, non sarei ritornato più a vendermi. Questo il nostro piano, noto a te, ignoto invece agli uomini, eccetto gli amici intimi. Si era convenuto fra noi di non parlarne in giro ad alcuno, sebbene durante la nostra ascesa dalla valle del pianto, mentre cantavamo il cantico dei gradini, ci avessi dato frecce acuminate e carboni devastatori per difenderci dalle lingue perfide, che sotto veste di consigliere contraddicono e sotto veste d’amiche divorano, come si fa col cibo.

2. 3. Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del tuo amore, portavamo le tue parole conficcate nelle viscere, e gli esempi dei tuoi servi, che da oscuri avevi reso splendidi, da morti vivi, ammassati nel seno della nostra meditazione erano fuoco che divorava il profondo torpore, per impedirci di piegare verso il basso. Tanto ne eravamo infiammati, che tutti i soffi contrari delle lingue perfide avrebbero rinfocolato, non estinto l’incendio. Tuttavia nel tuo nome, che hai reso sacro su tutta la terra, qualcuno avrebbe anche esaltato comunque il nostro voto e il nostro proposito; quindi ci sembrava che la nostra sarebbe stata piuttosto un’ostentazione, se, invece di attendere l’epoca delle vacanze così prossime, ci fossimo ritirati in anticipo da una professione pubblica, posta sotto gli occhi di tutti. Avrei richiamato sul mio gesto lo sguardo dell’intera città, rifiutandomi di aspettare il giorno vicino delle vacanze, e molte sarebbero state le chiacchiere, quasi avessi cercato di riuscire importante. A che pro, dunque, suscitare congetture e discussioni sui miei sentimenti, oltraggi al nostro bene?


Una lesione polmonare

2. 4. C’era di più. Durante quella medesima estate i miei polmoni avevano cominciato a cedere sotto il peso dell’eccessivo lavoro scolastico. Respiravo a stento e la lesione si manifestava con dolori al petto, che m’impedivano di parlare in modo abbastanza chiaro e abbastanza a lungo. Dapprima mi aveva contrariato la necessità, in cui presto mi sarei trovato, di deporre il fardello dell’insegnamento, o quanto meno, se era possibile una cura e la guarigione, di lasciarlo per qualche tempo. Ma quando si sviluppò e consolidò in me la piena volontà di attendere liberamente a considerare che tu sei il Signore, allora, ti è noto, Dio mio, divenne addirittura una gioia per me l’intervento di una scusa non falsa, capace di mitigare il malumore di chi a vantaggio dei propri figli voleva togliere per sempre a me il vantaggio della libertà. Pervaso da questa gioia, sopportai con pazienza il tempo che ci separava dalle vacanze, una ventina di giorni al più; una pazienza che tuttavia mi costava fatica, perché si era dileguata la cupidigia che di solito mi aiutava a sostenere il peso gravoso della scuola. Ne sarei anzi rimasto schiacciato, se non fosse succeduta la tolleranza. Forse qualcuno dei tuoi servi, miei fratelli, dirà che in ciò peccai, tollerando di rimanere sia pure una sola ora di più seduto sulla cattedra della menzogna, quando già il cuore traboccava del desiderio di servirti. Io non discuto, ma tu, Signore misericordiosissimo, non mi hai perdonato e rimesso nell’acqua santa anche questo peccato insieme agli altri miei funesti orrori?


Inquietudine di Verecondo

3. 5. La nostra fortuna consumava d’inquietudine Verecondo. Egli vedeva come, a causa dei vincoli tenacissimi che lo trattenevano, sarebbe rimasto escluso dalla nostra società. Non ancora cristiano, aveva una moglie credente, ma proprio costei era una catena al piede, che più di ogni altra lo ritardava fuori dal cammino che avevamo intrapreso. Poi diceva di voler rinunziare a farsi cristiano, se non poteva esserlo nel modo appunto che gli era precluso. Però si offrì molto generosamente di ospitarci per tutto il tempo che saremmo rimasti colà. Lo ricompenserai, Signore, con usura alla resurrezione dei giusti, come già lo ricompensasti concedendogli il loro stesso capitale. Noi, trasferiti ormai a Roma, eravamo assenti quando, assalito nel corpo da una malattia, si fece cristiano e fedele, quindi migrò da questa vita. Fu da parte tua un atto di misericordia non soltanto nei suoi riguardi, ma anche nei nostri, poiché sarebbe stato un tormento intollerabile ripensare all’insigne generosità dell’amico verso di noi senza poterlo annoverare nel tuo gregge. Grazie a te, Dio nostro! Noi siamo tuoi, lo attestano le tue esortazioni e poi le tue consolazioni, perché, fedele alle promesse, tu rendi a Verecondo, in cambio della sua campagna di Cassiciaco, ove riposammo in te dalla bufera del secolo, l’amenità del tuo giardino dall’eterna primavera. Sì, gli hai rimesso i peccati sulla terra, ponendolo sul monte pingue di cacio, il tuo monte, monte ubertoso.


Conversione di Nebridio

3. 6. Egli era dunque angosciato in quei giorni; Nebridio invece condivideva la nostra esultanza. Era caduto anch’egli, non ancora cristiano, nella fossa di quel funestissimo errore, che gli faceva credere vuota apparenza la carne vera del tuo Figlio ; tuttavia già ne emergeva e si trovava a questo punto, che, sebbene non ancora iniziato a nessuno dei sacri misteri della tua Chiesa, ricercava però la verità con grandissimo ardore. Non molto tempo dopo la nostra conversione e rigenerazione mediante il tuo battesimo divenne anch’egli fedele cattolico, e mentre ti serviva in Africa tra i suoi familiari, che aveva tutti convertito alla fede cristiana, in una castità e continenza perfette, lo liberasti dalla carne. Ora vive nel grembo di Abramo. Là, qualunque sia il significato di questo “grembo”, il mio Nebridio vive, il dolce amico mio, ma tuo, Signore, figlio adottivo e già liberto. Là vive: e che altro luogo sarebbe adatto a quell’anima? Vive nel luogo di cui spesso chiedeva a me, omuncolo inesperto. Non avvicina ora più l’orecchio alla mia bocca, ma la sua bocca spirituale alla tua fonte, ove attinge la sapienza quanto può e vuole, infinitamente beato. Non credo però che tanto se ne inebri, da scordarsi di me, poiché tu, Signore, da cui attinge, di noi ti sovvieni. Questa era dunque la nostra condizione: da un lato consolavamo Verecondo, rattristato, senza danno per l’amicizia, di quella nostra conversione, esortandolo all’osservanza fedele dei doveri del suo stato, ossia della vita coniugale; dall’altro aspettavamo Nebridio, quando ci avrebbe seguito. Vicino com’era, poteva farlo ed era già lì lì per farlo, quand’ecco finalmente trascorsi quei giorni, che mi rendeva così lunghi e numerosi l’amore della libertà quieta, in cui avrei cantato da ogni mia fibra: “ll mio cuore ti disse: “Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, ricercherò””.


Attività letteraria a Cassiciaco

4. 7. E venne il giorno della liberazione anche materiale dalla professione di retore, da cui ero spiritualmente già libero. Così fu: sottraesti la mia lingua da un’attività, cui avevi già sottratto il mio cuore. Partito per la campagna con tutti i miei familiari, ti benedicevo gioioso. L’attività letteraria da me esplicata laggiù interamente al tuo servizio, benché sbuffante ancora, come nelle pause della lotta, di alterigia scolastica, è testimoniata nei libri ricavati dalle discussioni che ebbi con i presenti, e con me solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono testimoniate nel mio epistolario. E quando mi basterà il tempo per mettere in scritto tutti i tuoi grandi benefici a noi accordati in quel periodo, tanto più che ho fretta di passare ad altri, ancora maggiori? La mia memoria mi richiama, pregusto la dolcezza di confessarti, Signore, i pungoli interiori, con cui mi domasti; il modo che usasti per spianarmi, abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, per raddrizzare le mie vie tortuose, per addolcire le mie asperità; e quello con cui piegasti anche lui, Alipio, al nome del tuo unigenito, il signore e salvatore nostro Gesù Cristo, fino ad allora indegno ai suoi occhi di figurare nei nostri scritti. Preferiva che olezzassero dei cedri scolastici, ormai stritolati dal Signore, anziché delle erbe ecclesiastiche, medicamentose contro i serpenti.


Lettura dei salmi

4. 8. Quali grida, Dio mio, non lanciai verso di te leggendo i salmi di Davide, questi canti di fede, gemiti di pietà contrastanti con ogni sentimento d’orgoglio! Novizio ancora al tuo genuino amore, catecumeno ozioso in villa col catecumeno Alipio e la madre stretta al nostro fianco, muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà, quali grida non lanciavo verso di te leggendo quei salmi, quale fuoco d’amore per te non ne attingevo! Ardevo del desiderio di recitarli, se potessi, al mondo intero per abbattere l’orgoglio del genere umano. Ma lo sono, cantati nel mondo intero, e nessuno si sottrae al tuo calore. Come era violento e aspro di dolore il mio sdegno contro i manichei, che tosto si mutava in pietà per la loro ignoranza dei nostri misteri, dei nostri rimedi, per il loro pazzo furore contro un antidoto che avrebbe potuto salvarli! Avrei voluto averli vicini da qualche parte in quel momento, e che a mia insaputa osservassero il mio volto, udissero le mie grida mentre nella quiete di quelle giornate leggevo il salmo quarto, e percepissero l’effetto che producevano in me le sue parole: Ti invocai e mi esaudisti, Dio della mia giustizia; nell’angustia mi apristi un varco. Abbi pietà di me, Signore, esaudisci la mia preghiera; ma che udissero a mia insaputa, altrimenti avrebbero potuto intendere come dette per loro le parole che intercalavo a quelle del salmo. Invece davvero non le avrei dette, o le avrei dette diversamente, se avessi sentite su me le loro orecchie e i loro occhi; o, se dette, non le avrebbero intese quali le dicevo a me e fra me innanzi a te, espressione dell’intimo sentimento della mia anima.


Riflessioni sul salmo quarto

4. 9. Rabbrividii di paura e insieme ribollii di speranza e giubilo nella tua misericordia, Padre; e tutti questi sentimenti si esprimevano attraverso i miei occhi e la mia voce alle parole che il tuo spirito buono dice rivolto a noi: “Figli degli uomini, fino a quando avrete i cuori gravati? Sì, perché amate la vanità e cercate la menzogna?”. Io avevo amato appunto la vanità e cercato la menzogna, mentre tu, Signore, avevi già esaltato il tuo Santo, risuscitandolo dai morti e collocandolo alla tua destra, affinché inviasse dal cielo chi aveva promesso, il Paracleto, spirito di verità. L’aveva già inviato, ma io lo ignoravo. L’aveva già inviato, per essere già stato esaltato risorgendo dai morti e ascendendo al cielo. Prima lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato. Grida il profeta: “Fino a quando avrete i cuori gravati? Sì, perché amate la vanità e cercate la menzogna? Sappiate che il Signore ha esaltato il suo Santo”; grida: “Fino a quando”, grida: “Sappiate”, e io per tanto tempo, ignaro, amai la vanità e recai la menzogna. Perciò un brivido mi corse tutto all’udirlo. Ricordavo di essere stato simile a coloro, cui sono rivolte queste parole; gli inganni che avevo preso per verità, erano vanità e menzogna. Perciò feci risuonare a lungo, profonde e forti, le mie grida nel dolore del ricordo. Oh, se le avessero udite coloro che amano tuttora la vanità e cercano la menzogna! Forse ne sarebbero rimasti turbati e l’avrebbero rigettata; tu li avresti esauditi, quando avessero levato il loro grido verso di te, poiché morì per noi della vera morte della carne Chi intercede per noi presso di te.

4. 10. Al leggere: “Adiratevi e non peccate”, quanto mi turbavo, Dio mio! Avevo ormai imparato ad adirarmi contro me stesso dei miei trascorsi per non peccare in avvenire, e con giusta ira, perché in me non peccava per mezzo mio una natura estranea, della razza delle tenebre, secondo le asserzioni di coloro che, non adirandosi contro se stessi, accumulano un patrimonio d’ira per il giorno dell’ira e della proclamazione del tuo giusto giudizio. Il mio bene non era più fuori di me, né lo cercavo più in questo sole con gli occhi della carne. Quanti pretendono di avere gioia fuori di sé, facilmente si disperdono, riversandosi sulle cose visibili e temporali e lambendo la loro apparenza con immaginazione famelica. Oh se, spossati dal digiuno, chiedessero: “Chi ci mostrerà il bene?”. Rispondiamo loro, e ci ascoltino: “In noi è impresso il lume del tuo volto, Signore”. Non siamo noi il lume che illumina ogni uomo, ma siamo illuminati da te per renderci, da tenebre che fummo un tempo, luce in te. Oh se vedessero nel loro interno l’eterno, che io, per averlo gustato, fremevo di non poter mostrare a loro; se mi portassero il cuore, che hanno negli occhi, quindi fuori di loro, lontano da te, e chiedessero: “Chi ci mostrerà il bene?”. Là infatti, ove avevo concepito l’ira contro me stesso, dentro, nella mia stanza segreta, ove ero stato punto dalla contrizione, ove avevo immolato in sacrificio la parte vecchia di me stesso e fidando in te avevo iniziato la meditazione del mio rinnovamento, là mi avevi fatto sentire dapprima la tua dolcezza e avevi messo la gioia nel mio cuore. Gridavo, leggendo esteriormente queste parole e comprendendole interiormente, né volevo moltiplicarmi nei beni terreni, divorando il tempo e divorato dal tempo, mentre avevo nell’eterna semplicità un diverso frumento e vino e olio.

4. 11. Il verso seguente strappava un alto grido dal mio cuore: Oh, nella pace, oh, nell’Essere stesso...: oh, quali parole:... mi addormenterò e prenderò sonno! Chi potrà mai resisterci, quando si attuerà la parola che fu scritta: La morte è stata assorbita nella vittoria? Tu sei veramente quell’Essere stesso, che non muti; in te è il riposo oblioso di tutti gli affanni, poiché nessun altro è con te né si devono cogliere le altre molteplici cose che non sono ciò che tu sei; ma tu, Signore, mi hai stabilito, unificandomi nella speranza. Leggevo e ardevo e non trovavo modo di agire con quei morti sordi, al cui novero ero appartenuto anch’io, pestifero, aspro e cieco nel latrare contro le tue Scritture dolci del dolce miele celeste, e del lume tuo luminose. Mi consumavo, pensando ai nemici di tanto scritto.


Improvvisa guarigione d’un male ai denti

4. 12. Quando ricorderò tutti gli avvenimenti di quei giorni di vacanza? Non li ho però dimenticati, né tacerò la durezza del tuo flagello e la mirabile prestezza della tua misericordia. Mi torturavi allora con un male ai denti. Quando si aggravò tanto che non riuscivo a parlare, mi sorse in cuore il pensiero d’invitare tutti i miei là presenti a scongiurarti per me, Dio d’ogni salvezza. Lo scrissi sopra una tavoletta di cera, che consegnai loro perché leggessero, e appena piegammo le ginocchia in una supplica ardente, il dolore scomparve. Ma quale dolore? o come scomparve? Ne fui spaventato, lo confesso, Signore mio e Dio mio, perché non mi era mai capitato nulla di simile da quando ero venuto al mondo. S’insinuarono così nel profondo del mio essere i tuoi ammonimenti, e giulivo nella fede lodai il tuo nome. Quella fede tuttavia non mi permetteva di essere tranquillo riguardo ai miei peccati anteriori, perché non mi erano stati ancora rimessi mediante il tuo battesimo.


Dimissioni dall’insegnamento

5. 13. Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio e non ero più in grado di esercitare quella professione per la difficoltà di respirare e il male di petto. Con una lettera informai il tuo vescovo, il santo Ambrogio, dei miei errori passati e della mia intenzione presente, chiedendogli consiglio sui tuoi libri che più mi conveniva di leggere per meglio prepararmi e dispormi a ricevere tanta grazia. Mi prescrisse la lettura del profeta Isaia, credo perché fra tutti è quello che preannunzia più chiaramente il Vangelo e la chiamata dei gentili. Trovandolo però incomprensibile all’inizio e supponendo che fosse tutto così, ne rinviai la lettura, per riprenderla quando fossi addestrato meglio nel linguaggio del Signore.

A Milano per il battesimo

Ritorno a Milano e battesimo con Alipio e Adeodato

6. 14. Giunto il momento in cui dovevo dare il mio nome per il battesimo, lasciammo la campagna e facemmo ritorno a Milano. Alipio volle rinascere anch’egli in te con me. Era già rivestito dell’umiltà conveniente ai tuoi sacramenti e dominava così saldamente il proprio corpo, da calpestare il suolo italico ghiacciato a piedi nudi, il che richiede un coraggio non comune. Prendemmo con noi anche il giovane Adeodato, nato dalla mia carne e frutto del mio peccato. Tu bene l’avevi fatto. Era appena quindicenne, e superava per intelligenza molti importanti e dotti personaggi. Ti riconosco i tuoi doni, Signore Dio mio, creatore di tutto, abbastanza potente per dare forma alle nostre deformità; poiché di mio in quel ragazzo non avevo che il peccato, e se veniva allevato da noi nella tua disciplina, fu per tua ispirazione, non d’altri. Ti riconosco i tuoi doni. In uno dei miei libri, intitolato Il maestro, mio figlio appunto conversa con me. Tu sai che tutti i pensieri introdotti in quel libro dalla persona del mio interlocutore sono suoi, di quando aveva sedici anni. Di molte altre sue doti, ancora più straordinarie, ho avuto la prova. La sua intelligenza m’ispirava un sacro terrore; ma chi, al di fuori di te, poteva essere l’artefice di tali meraviglie? Presto hai sottratto la sua vita alla terra, e il mio ricordo di lui è tanto più franco, in quanto non ho più nulla da temere per la sua fanciullezza, per l’adolescenza e l’intera sua vita. Ce lo associammo, dunque, come nostro coetaneo nella tua grazia, da educare nella tua disciplina. E fummo battezzati, e si dileguò da noi l’inquietudine della vita passata. In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano. Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene.


Canto degli inni in chiesa

7. 15. Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all’unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore. Era passato un anno esatto, o non molto più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall’eresia in cui l’avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo. Là mia madre, ancella tua, che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere. Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall’ansia attonita della città. Fu allora, che s’incominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt’oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli nelle altre parti dell’orbe.


Rinvenimento e traslazione dei corpi dei martiri Protasio e Gervasio

7. 16. In quei giorni una tua rivelazione al tuo vescovo citato poc’anzi gli aveva indicato il luogo dove giacevano sepolti i corpi dei martiri Protasio e Gervasio. Per tanti anni li avevi serbati intatti nel tesoro del tuo segreto, per estrarli al momento opportuno e domare la rabbia di una donna, regale però. Portati alla luce ed esumati, durante il solenne trasporto alla basilica ambrosiana non solo si produssero guarigioni, riconosciute dagli stessi demòni, di persone tormentate dagli spiriti immondi; ma un cittadino notissimo in città, cieco da molti anni, a quell’agitazione festosa del popolo, chiesta e saputa la causa, balzò in piedi e si fece guidare dalla sua guida sul posto. Là giunto, ottenne di entrare e toccare col fazzoletto la bara ove giacevano, morti di morte preziosa ai tuoi occhi, i tuoi santi. Appena compiuto quel gesto e accostato il panno agli occhi, questi si aprirono istantaneamente. La notizia si divulgò, salirono a te lodi fervide, fulgide, e l’animo della tua nemica, se non si volse alla salvezza della fede, soffocò per lo meno la sua folle brama di persecuzione. Grazie a te, Dio mio! Da dove e dove guidasti il mio ricordo, affinché ti lodassi anche per questi avvenimenti, che, sebbene notevoli, avevo smemoratamente trascurato? Eppure allora, benché tanto alitasse il profumo dei tuoi unguenti, non correvamo dietro a te. Di qui il moltiplicarsi delle mie lacrime durante il canto dei tuoi inni. Un tempo avevo sospirato verso di te; finalmente respiravo la poca aria che circola in una capanna d’erba.

A Ostia, durante il ritorno in Africa

Educazione di Monica

8. 17. Tu, che fai abitare in una casa i cuori unanimi, associasti alla nostra comitiva anche Evodio, un giovane nativo del nostro stesso municipio. Agente nell’amministrazione imperiale, si era rivolto a te prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo. Stavamo sempre insieme e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l’avvenire. In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l’Africa. Senonché presso Ostia Tiberina mia madre morì. Tralascio molti avvenimenti per la molta fretta che mi pervade. Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio. Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna. Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa. Più che le premure della madre per la sua educazione, ella soleva esaltare quelle di una fantesca decrepita, che aveva portato suo padre in fasce sul dorso, ove le fanciulle appena grandicelle usano portare i piccini. Questo precedente, insieme all’età avanzata e alla condotta irreprensibile, le avevano guadagnato non poco rispetto da parte dei padroni in quella casa cristiana. Quindi le fu affidata l’educazione delle figliuole dei padroni, cui attendeva diligentemente, energica nel punire all’occorrenza con ben ispirata severità e piena di buon senso nell’ammaestrare. Ad esempio, fuori delle ore in cui pasteggiavano a tavola, molto parcamente, con i genitori, non le lasciava bere nemmeno l’acqua, anche se fossero riarse dalla sete. Mirava così a prevenire una brutta abitudine e aggiungeva con saggia parola: “Ora bevete acqua, perché non disponete di vino; ma una volta sposate e divenute padrone di dispense e cantine, l’acqua vi parrà insipida, ma il vezzo di bere s’imporrà”. Con questo genere di precetti e con autorità di comando teneva a freno l’ingordigia di un’età ancora tenera e uniformava la stessa sete delle fanciulle alla regola della modestia, fino a rendere per loro nemmeno gradevole ciò che non era onorevole.


Monica corretta dal vizio di bere

8. 18. Tuttavia si era insinuato in mia madre, secondo che a me, suo figlio, la tua serva raccontava, si era insinuato il gusto del vino. Quando i genitori, che la credevano una fanciulla sobria, la mandavano ad attingere il vino secondo l’usanza, essa, affondato il boccale dall’apertura superiore della tina, prima di versare il liquido puro nel fiaschetto, ne sorbiva un poco a fior di labbra. Di più non riusciva senza provarne disgusto, poiché non vi era spinta minimamente dalla golosità del vino, bensì da una smania indefinibile, propria dell’età esuberante, che esplode in qualche gherminella e che solo la mano pesante degli anziani reprime di solito negli animi dei fanciulli. Così, aggiungendo ogni giorno un piccolo sorso al primo, come è vero che a trascurare le piccole cose si finisce col cadere, sprofondò in quel vezzo al punto che ormai tracannava avidamente coppette quasi colme di vino puro. Dov’era finita la sagace vecchierella, con i suoi energici divieti? Ma quale rimedio poteva darsi contro una malattia occulta, se non la vigile presenza su di noi della tua medicina, Signore? Assenti il padre, la madre, le nutrici, tu eri presente, il Creatore, che ci chiami, che pure attraverso le gerarchie umane operi qualche bene per la salute delle anime. In quel caso come operasti, Dio mio? donde traesti il rimedio, donde la salute? Non ricavasti da un’altra anima un duro e acuminato insulto, che come ferro guaritore uscito dalle tue riserve occulte troncò la cancrena con un colpo solo? L’ancella che accompagnava abitualmente mia madre alla tina, durante il litigio, come avviene, a tu per tu con la piccola padrona, le rinfacciò il suo vizio, chiamandola con l’epiteto davvero offensivo di beona. Fu per la fanciulla una frustata. Riconobbe l’orrore della propria consuetudine, la riprovò sull’istante e se ne spogliò. Come gli amici corrompono con le adulazioni, così i nemici per lo più correggono con le offese, e tu non li ripaghi dell’opera che compi per mezzo loro, ma dell’intenzione che ebbero per conto loro. La fantesca nella sua ira desiderò esasperare la piccola padrona, non guarirla, e agì mentre erano sole perché si trovavano sole dove e quando scoppiò il litigio, oppure perché non voleva rischiare di scapitarne anch’essa per aver tardato tanto a rivelare il fatto. Ma tu, Signore, reggitore di ogni cosa in cielo e in terra, che volgi ai tuoi fini le acque profonde del torrente, il torbido ma ordinato flusso dei secoli, mediante l’insania stessa di un’anima ne risanasti un’altra. La considerazione di questo episodio induca chiunque a non attribuire al proprio potere il ravvedimento provocato dalle sue parole in un estraneo che vuole far ravvedere.


Monica sposa paziente

9. 19. Mia madre fu dunque allevata nella modestia e nella sobrietà, sottomessa piuttosto da te ai genitori, che dai genitori a te. Giunta in età matura per le nozze, fu consegnata a un marito, che servì come un padrone. Si adoperò per guadagnarlo a te, parlandogli di te attraverso le virtù di cui la facevi bella e con cui le meritavi il suo affetto rispettoso e ammirato. Tollerò gli oltraggi al letto coniugale in modo tale, da non avere il minimo litigio per essi col marito. Aspettava la tua misericordia, che scendendo su di lui gli desse insieme alla fede la castità. Era del resto un uomo singolarmente affettuoso, ma altrettanto facile all’ira, e mia madre aveva imparato a non resistergli nei momenti di collera, non dico con atti, ma neppure a parole. Coglieva invece il momento adatto, quando lo vedeva ormai rabbonito e calmo, per rendergli conto del proprio comportamento, se per caso si era turbato piuttosto a sproposito. Molte altre signore, pur sposate a uomini più miti del suo, portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto, e nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti. Essa deplorava invece la loro lingua, ammonendole seriamente con quella che sembrava una facezia: dal momento, diceva, in cui si erano sentite leggere il contratto matrimoniale, avrebbero dovuto considerarlo come la sanzione della propria servitù; il ricordo di tale condizione rendeva dunque inopportuna ogni alterigia nei confronti di chi era un padrone. Le amiche, non ignare di quanto fosse furioso il marito che sopportava, stupivano del fatto che mai si fosse udito o rilevato alcun indizio di percosse inflitte da Patrizio alla moglie, né di liti, che in casa li avessero divisi anche per un giorno solo. Richiesta da loro in confidenza di una spiegazione, illustrava il suo metodo, che ho riferito sopra; e chi l’applicava, dopo l’esperienza gliene era grata; chi non l’applicava, sotto il giogo era tormentata.


Rapporti cordiali fra Monica e la suocera

9. 20. La suocera sulle prime l’avversava per le insinuazioni di ancelle maligne. Ma conquistò anch’essa col rispetto e la perseveranza nella pazienza e nella dolcezza, cosicché la suocera stessa denunziò al figlio le lingue delle fantesche, che mettevano male fra lei e la nuora turbando la pace domestica, e ne chiese il castigo. Il figlio, sia per ubbidienza alla madre, sia per la tutela dell’ordine domestico, sia per la difesa della concordia fra parenti punì con le verghe le colpevoli denunziate quanto piacque alla denunziante; quest’ultima promise uguale ricompensa a qualunque altra le avesse parlato male della nuora per accaparrarsi il suo favore. Nessuna osò più farlo e le due donne vissero in una dolce amorevolezza degna di essere menzionata.


Sollecitudine di Monica per estinguere le inimicizie

9. 21. A così devota tua serva, nel cui seno mi creasti, Dio mio, misericordia mia, avevi fatto un altro grande dono. Tra due anime di ogni condizione, che fossero in urto e discordia, ella, se appena poteva, cercava di mettere pace. Delle molte invettive che udiva dall’una contro l’altra, quali di solito vomita l’inimicizia turgida e indigesta, allorché l’odio mal digerito si effonde negli acidi colloqui con un’amica presente sul conto di un’amica assente, non riferiva all’interessata se non quanto poteva servire a riconciliarle. Giudicherei questa una bontà da poco, se una triste esperienza non mi avesse mostrato turbe innumerevoli di persone, che per l’inesplicabile, orrendo contagio di un peccato molto diffuso riferiscono ai nemici adirati le parole dei nemici adirati, non solo, ma aggiungono anche parole che non furono pronunciate. Invece per un uomo davvero umano dovrebbe essere poca cosa, se si astiene dal suscitare e rinfocolare con discorsi maliziosi le inimicizie fra gli altri uomini, senza studiarsi, anche, di estinguerle con discorsi buoni. Mia madre faceva proprio questo, istruita da te, il maestro interiore, nella scuola del cuore.


Monica serva di tutti

9. 22. Finalmente ti guadagnò anche il marito, negli ultimi giorni ormai della sua vita temporale, e dopo la conversione non ebbe a lamentare da parte sua gli oltraggi, che prima della conversione ebbe a tollerare. Era, poi, la serva dei tuoi servi. Chiunque di loro la conosceva, trovava in lei motivo per lodarti, onorarti e amarti grandemente, avvertendo la tua presenza nel suo cuore dalla testimonianza dei frutti di una condotta santa. Era stata sposa di un solo uomo, aveva ripagato il suo debito ai genitori, aveva governato santamente la sua casa, aveva la testimonianza delle buone opere, aveva allevato i suoi figli partorendoli tante volte, quante li vedeva allontanarsi da te. Infine, di tutti noi, Signore, poiché la tua munificenza permette di parlare ai tuoi servi; che, ricevuta la grazia del tuo battesimo, vivevamo già uniti in te prima del suo sonno, ebbe cura come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia.


La contemplazione di Ostia

10. 23. All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d’uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta.

10. 24. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d’amore verso l’Essere stesso, percorremmo su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno, mentre essa non si fa, ma tale è oggi quale fu e quale sempre sarà; o meglio, l’essere passato e l’essere futuro non sono in lei, ma solo l’essere, in quanto eterna, poiché l’essere passato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine. E cos’è simile alla tua Parola, il nostro Signore, stabile in se stesso senza vecchiaia e rinnovatore di ogni cosa?

10. 25. Si diceva dunque: “Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, tacessero i cieli, e l’anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: “Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente”; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l’orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d’angelo o fragore di nube o enigma di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l’eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e quest’unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l’”entra nel gaudio del tuo Signore”? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?”.

10. 26. Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione, e questo mondo con tutte le sue attrattive si svilì ai nostri occhi nel parlare, che mia madre disse: “Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c’era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?”.


Malattia e morte di Monica

11. 27. Cosa le risposi, non ricordo bene. Ma intanto, entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa: “Dov’ero?”; poi, vedendo il nostro afflitto stupore: “Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre”. Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l’augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All’udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un’occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò: “Vedi cosa dice”, e subito dopo, rivolgendosi a entrambi: “Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore”. Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la faceva soffrire.

11. 28. Io, al pensiero dei doni che spargi, Dio invisibile, nei cuori dei tuoi fedeli, e che vi fanno nascere stupende messi, gioivo e a te rendevo grazie, ricordando ciò che sapevo, ossia quanto si era sempre preoccupata e affannata per la sua sepoltura, che aveva provvista e preparata accanto al corpo del marito. La grande concordia in cui erano vissuti le faceva desiderare, tanto l’animo umano stenta a comprendere le realtà divine, anche quest’altra felicità, e che la gente ricordasse come dopo un soggiorno di là dal mare avesse ottenuto che una polvere congiunta coprisse la polvere di entrambi i congiunti. Quando però la piena della tua bontà avesse eliminato dal suo cuore questi pensieri futili, io non sapevo; ma ero pervaso di gioia e ammirazione che mia madre mi fosse apparsa così. Invero anche durante la nostra conversazione presso la finestra, quando disse: “Ormai cosa faccio qui?”, era apparso che non aveva il desiderio di morire in patria. Più tardi venni anche a sapere che già parlando un giorno in mia assenza, durante la nostra dimora in Ostia, ad alcuni amici miei con fiducia materna sullo spregio della vita terrena e il vantaggio della morte, di fronte al loro stupore per la virtù di una femmina, che l’aveva ricevuta da te, e alla loro domanda, se non l’impauriva l’idea di lasciare il corpo tanto lontano dalla sua città, esclamò: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi”. Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo anno della sua vita, trentatreesimo della mia, quell’anima credente e pia fu liberata dal corpo.


Un trapasso non funesto

12. 29. Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo. Fu una lotta penosissima. Il giovane Adeodato al momento dell’estremo respiro di lei era scoppiato in singhiozzi, poi, trattenuto da noi tutti, rimase zitto: allo stesso modo anche quanto vi era di puerile in me, che si scioglieva in pianto, veniva represso e zittito dalla voce adulta della mente. Non ci sembrava davvero conveniente celebrare un funerale come quello fra lamenti, lacrime e gemiti. Così si suole piangere in chi muore una sorta di sciagura e quasi di annientamento totale; ma la morte di mia madre non era una sciagura e non era totale. Ce lo garantivano la prova della sua vita e una fede non finta e ragioni sicure.


Sforzi di Agostino per reprimere le lacrime

12. 30. Ma cos’era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune? Mi confortavo della testimonianza che mi aveva dato proprio durante la sua ultima malattia, quando, inframezzando con una carezza i miei servigi, mi chiamava buono e mi ripeteva con grande effusione d’affetto di non aver mai udito una parola dura o offensiva al suo indirizzo scoccata dalla mia bocca; eppure, Dio mio, creatore nostro, come assomigliare, come paragonare il rispetto che avevo portato io per lei, alla servitù che aveva sopportato lei per me? Privata della grandissima consolazione che trovava in lei, la mia anima rimaneva ferita e la mia vita, stata tutt’una con la sua, rimaneva come lacerata.

12. 31. Soffocato dunque il pianto del fanciullo, Evodio prese il salterio e intonò un salmo. Gli rispondeva tutta la casa: “La tua misericordia e la tua giustizia ti canterò, Signore”. Alla nuova, poi, dell’accaduto, si diedero convegno molti fratelli e pie donne; e mentre gli incaricati si occupavano dei funerali secondo le usanze, io mi appartavo in un luogo conveniente con gli amici, che ritenevano di non dovermi abbandonare, e mi trattenevo con loro su temi adatti alla circostanza. Il balsamo della verità leniva un tormento che tu conoscevi, essi ignoravano. Mi ascoltavano attentamente e pensavano che non provassi dolore. Invece al tuo orecchio, ove nessuno di loro udiva, mi rimproveravo la debolezza del sentimento e trattenevo il fiotto dell’afflizione, che per qualche tempo si ritraeva davanti ai miei sforzi, ma per essere sospinto di nuovo dalla sua violenza. Non erompeva in lacrime né alterava i tratti del viso, ma sapevo ben io cosa tenevo compresso nel cuore. Il vivo disappunto, poi, che provavo di fronte al grande potere su me di questi avvenimenti umani, inevitabili nell’ordine naturale delle cose e nella condizione che abbiamo sortito, era un nuovo dolore, che mi addolorava per il mio dolore, cosicché mi consumavo d’una duplice tristezza.


Le esequie

12. 32. Alla sepoltura del suo corpo andai e tornai senza piangere. Nemmeno durante le preghiere che spandemmo innanzi a te mentre veniva offerto in suo suffragio il sacrificio del nostro riscatto, col cadavere già deposto vicino alla tomba, prima della sepoltura, come vuole l’usanza del luogo, ebbene, nemmeno durante quelle preghiere piansi. Ma per tutta la giornata sentii una profonda mestizia nel segreto del cuore e ti pregai come potevo, con la mente sconvolta, di guarire il mio dolore. Non mi esaudisti, per imprimere, credo, nella mia memoria almeno con quest’unica prova come sia forte il legame di qualsiasi abitudine anche per un’anima che già si nutre della parola non fallace. Pensai di andare a prendere anche un bagno, avendo sentito dire che i bagni furono così chiamati perché i greci dicono balanion, in quanto espelle l’affanno dall’animo. Ma ecco, confesso anche questo alla tua misericordia, Padre degli orfani: che dopo il bagno stavo come prima del bagno, poiché non avevo trasudato dal cuore l’amarezza dell’afflizione. In seguito dormii. Al risveglio notai che il dolore si era non poco mitigato. Solo, nel mio letto, mi vennero alla mente i versi così veri del tuo Ambrogio: tu sei proprio

Dio creatore di tutto,
reggitore del cielo,
che adorni il dì di luce,
e di sopor gradito
la notte, sì che il sonno
sciolga e ristori gli arti,
ricrei le menti stanche,
disperda ansie e dolori
.


Lacrime per la madre

12. 33. Poi tornai insensibilmente ai miei pensieri antichi sulla tua ancella, al suo atteggiamento pio nei tuoi riguardi, santamente sollecito e discreto nei nostri. Privato di lei così, all’improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei e per lei, su di me e per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c’eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compianto. Ora, Signore, ti confesso tutto ciò su queste pagine. Chi vorrà le leggerà, e le interpreti come vorrà. Se troverà che ho peccato a piangere mia madre per piccola parte di un’ora, la mia madre frattanto morta ai miei occhi, che per tanti anni mi aveva pianto affinché vivessi ai tuoi, non mi derida. Piuttosto, se ha grande carità, pianga anch’egli per i miei peccati davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.


Speranza e fiducia nella misericordia di Dio

13. 34. Io per mio conto, ora che il cuore è guarito da quella ferita, ove si poteva condannare la presenza di un affetto carnale, spargo davanti a te, Dio nostro, per quella tua serva un ben altro genere di lacrime: sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli cui soggiace ogni anima morente in Adamo. Certo, vivificata in Cristo prima ancora di essere sciolta dalla carne, mia madre visse procurando con la sua fede e i suoi costumi lodi al tuo nome; tuttavia non ardisco affermare che da quando la rigenerasti col battesimo, nemmeno una parola uscì dalla sua bocca contro il tuo precetto. Dalla Verità, da tuo Figlio, fu proclamato: “Se qualcuno avrà detto a suo fratello: “Sciocco”, sarà soggetto al fuoco della geenna”; sventurata dunque la più lodevole delle vite umane, se la frughi accantonando la misericordia. Ma no, tu non frughi le nostre malefatte con rigore; perciò noi speriamo con fiducia di ottenere un posto accanto a te. Eppure chi aduna innanzi a te i suoi autentici meriti, che altro ti aduna, se non i tuoi doni? Oh, se gli uomini si conoscessero quali uomini, e chi si gloria, si gloriasse nel Signore!


Supplica a Dio per la madre pia

13. 35. Perciò, mio vanto e mia vita, Dio del mio cuore, trascurando per un istante le sue buone opere, di cui a te rendo grazie con gioia, ora ti scongiuro per i peccati di mia madre. Esaudiscimi, in nome di Colui che è medico delle nostre ferite, che fu sospeso al legno della croce, e seduto alla tua destra intercede per noi presso di te. So che fu misericordiosa in ogni suo atto, che rimise di cuore i debiti ai propri debitori: dunque rimetti anche tu a lei i propri debiti, se mai ne contrasse in tanti anni passati dopo ricevuta l’acqua risanatrice; rimettili, Signore, rimettili, t’imploro, non entrare in giudizio contro di lei. La misericordia trionfi sulla giustizia. Le tue parole sono veritiere, e tu hai promesso misericordia ai misericordiosi. Furono tali in grazia tua, e tu avrai misericordia di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso.

13. 36. Credo che tu abbia già fatto quanto ti chiedo. Pure, gradisci, Signore, la volontaria offerta della mia bocca. All’approssimarsi del giorno della sua liberazione, mia madre non si preoccupò che il suo corpo venisse composto in vesti suntuose o imbalsamato con aromi, non cercò un monumento eletto, non si curò di avere sepoltura in patria. Non furono queste le disposizioni che ci lasciò. Ci chiese soltanto di far menzione di lei davanti al tuo altare, cui aveva servito infallibilmente ogni giorno, conscia che di là si dispensa la vittima santa, grazie alla quale fu distrutto il documento che era contro di noi, e si trionfò sul nemico che, per quanto conteggi i nostri delitti e cerchi accuse da opporci, nulla trova in Colui, nel quale siamo vittoriosi. A lui chi rifonderà il sangue innocente? chi gli ripagherà il prezzo con cui ci acquistò, per toglierci a lui? Al mistero di questo prezzo del nostro riscatto la tua ancella legò la propria anima col vincolo della fede. Nessuno la strappi alla tua protezione, non si frapponga tra voi né con la forza né con l’astuzia il leone e dragone. Ella non risponderà: “Nulla devo”, per timore di essere confutata e assegnata a un inquisitore scaltro. Risponderà però che i suoi debiti le furono rimessi da Colui, cui nessuno potrà restituire quanto restituì per noi senza nulla dovere.


Richiesta di suffragi per i genitori

13. 37. Sia dunque in pace col suo uomo, prima del quale e dopo il quale non fu sposa d’altri; che servì offrendoti il frutto della sua pazienza per guadagnare anche lui a te. Ispira, Signore mio e Dio mio, ispira i servi tuoi, i fratelli miei, i figli tuoi, i padroni miei, che servo col cuore e la voce e gli scritti, affinché quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in questa vita, non so come. Si ricordino con sentimento pietoso di coloro che in questa luce passeggera furono miei genitori, e miei fratelli sotto di te, nostro Padre, dentro la Chiesa cattolica, nostra madre, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, cui sospira il tuo popolo durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno. Così l’estrema invocazione che mi rivolse mia madre sarà soddisfatta, con le orazioni di molti, più abbondantemente dalle mie confessioni che dalle mie orazioni.

Libro decimo

DOPO LA RICERCA E L’INCONTRO CON DIO


Nuove confessioni e loro scopo

Dio unica speranza

1. 1. Ti comprenderò, o tu che mi comprendi; ti comprenderò come sono anche compreso da te. Virtù dell’anima mia, entra in essa e adeguala a te, per tenerla e possederla senza macchia né ruga. Questa è la mia speranza, per questo parlo, da questa speranza ho gioia ogni qual volta la mia gioia è sana. Gli altri beni di questa vita meritano tanto meno le nostre lacrime, quanto più ne versiamo per essi, e tanto più ne meritano, quanto meno ne versiamo. Ecco, tu amasti la verità, poiché chi l’attua viene alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al mio cuore: davanti a te nella mia confessione, e nel mio scritto davanti a molti testimoni.


La confessione a Dio

2. 2. A te, Signore, se ai tuoi occhi è svelato l’abisso della conoscenza umana, potrebbe essere occultato qualcosa in me, quand’anche evitassi di confessartelo? Nasconderei te a me, anziché me a te. Ora però i miei gemiti attestano il disgusto che provo di me stesso, e perciò tu splendi e piaci e sei oggetto d’amore e di desiderio, cosicché arrossisco di me e mi respingo per abbracciarti, e non voglio piacere né a te né a me, se non per quanto ho di te. Dunque, Signore, io ti sono noto con tutte le mie qualità. A quale scopo tuttavia mi confessi a te, già l’ho detto. È una confessione fatta non con parole e grida del corpo, ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio conosce. Nella cattiveria è confessione il disgusto che provo di me stesso; nella bontà è confessione il negarmene il merito, poiché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima lo giustifichi quando è empio. Quindi la mia confessione davanti ai tuoi occhi, Dio mio, è insieme tacita e non tacita. Tace la voce, grida il cuore, poiché nulla di vero dico agli uomini, se prima tu non l’hai udito da me; e tu da me non odi nulla, se prima non l’hai detto tu stesso.


La confessione agli uomini

3. 3. Ma cos’ho da spartire con gli uomini, per cui dovrebbero ascoltare le mie confessioni? La guarigione di tutte le mie debolezze non verrà certo da questa gente curiosa di conoscere la vita altrui, ma infingarda nel correggere la propria. Perché chiedono di udire da me chi sono io, ed evitano di udire da te chi sono essi? Come poi sapranno, udendo me stesso parlare di me stesso, se dico il vero, quando nessuno fra gli uomini conosce quanto avviene in un uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui?. Udendoti parlare di se stessi, non potrebbero dire: “Il Signore mente”; poiché udirti parlare di se stessi che altro è, se non conoscere se stessi? e chi conosce e dice: “È falso” senza mentire a se stesso? Ma poiché la carità crede tutto, in coloro almeno che unifica legandoli a se stessa, anch’io, Signore, pure così mi confesso a te per farmi udire dagli uomini. Prove della veridicità della mia confessione non posso fornire loro; ma quelli, cui la carità apre le orecchie alla mia voce, mi credono.


Confessioni del passato e del presente

3. 4. Tu però, medico della mia intimità, spiegami chiaramente i frutti della mia opera. Le confessioni dei miei errori passati, da te rimessi e velati per farmi godere la tua beatitudine dopo la trasformazione della mia anima mediante la tua fede e il tuo sacramento, spronano il cuore del lettore e dell’ascoltatore a non assopirsi nella disperazione, a non dire: “Non posso”; a vegliare invece nell’amore della tua misericordia, nella dolcezza della tua grazia, forza di tutti i deboli divenuti per essa consapevoli della propria debolezza. I buoni, poi, godono all’udire i mali passati di chi ormai se ne è liberato; godono non già per i mali, ma perché sono passati e non sono più. Con quale frutto dunque, Signore mio, cui si confessa ogni giorno la mia coscienza, fiduciosa più della speranza nella tua misericordia, che della propria innocenza, con quale frutto, di grazia, confesso anche agli uomini innanzi a te, attraverso queste pagine, il mio stato presente, non più il passato? Il frutto di quelle confessioni l’ho capito e ricordato; ma il mio stato presente, del tempo stesso in cui scrivo queste confessioni, sono molti a desiderare di conoscerlo, coloro che mi conoscono come coloro che non mi conoscono, ma mi hanno sentito parlare di me senza avere il loro orecchio sul mio cuore, ove io sono comunque sono. Dunque desiderano udire da me la confessione del mio intimo, ove né il loro occhio, né il loro orecchio, né la loro mente possono penetrare; desiderano udirmi, disposti a credere, ma come sicuri di conoscere? Glielo dice la carità, per cui sono buoni, che non mento nella mia confessione di me stesso. È la carità in loro a credermi.


Frutti delle confessioni del presente tra gli uomini

4. 5. Ma quale frutto si ripromettono da questo desiderio? Aspirano a unirsi al mio ringraziamento, dopo aver udito quanto mi avvicina a te il tuo dono, e a pregare per me, dopo aver udito quanto mi rallenti il mio peso? Se è così, a loro mi mostrerò. Non è piccolo il frutto, Signore Dio mio, quando molti ti ringraziano per noi, e molti ti pregano per noi. Possa il loro animo fraterno amare in me ciò che tu insegni ad amare, deplorare in me ciò che tu insegni a deplorare. Il loro animo, fraterno, lo potrà fare; non così un animo estraneo, dei figli di un altro, la cui bocca ha detto vanità, la cui mano è mano iniqua. Un animo fraterno, quando mi approva, gode per me; quando invece mi disapprova, si contrista per me, poiché, nell’approvazione come nella disapprovazione, sempre mi ama. Se è così, a loro mi mostrerò. Traggano un respiro per i miei beni, un sospiro per i miei mali. I miei beni sono opere tue e doni tuoi, i miei mali colpe mie e condanne tue. Respiri per gli uni, sospiri per gli altri, e inni e pianti salgano al tuo cospetto da questi cuori fraterni, turiboli d’incenso per te; e tu, Signore, deliziato dal profumo del tuo santo tempio, abbi misericordia di me secondo la grandezza della tua misericordia, in grazia del tuo nome. Tu, che non abbandoni mai le tue imprese a metà, completa ciò che è imperfetto in me.

4. 6. Questo frutto mi attendo dalle confessioni del mio stato presente e non più del passato. Perciò farò la mia confessione non alla tua sola presenza, con segreta esultanza e insieme apprensione, con segreto sconforto e insieme speranza; ma altresì nelle orecchie dei figli degli uomini credenti, partecipi della mia gioia e consorti della mia mortalità, miei concittadini e compagni di vita, alcuni più innanzi, altri più indietro, altri a pari di me. Sono questi i tuoi servi e i miei fratelli, che volesti fossero tuoi figli e miei padroni, che mi ordinasti di servire, se voglio vivere con te di te. Insufficiente sarebbe stato il precetto se il tuo Verbo me l’avesse dato a parole, quando non me ne avesse dato prima l’esempio con gli atti. Ed eccomi allora ubbidiente con atti e parole, sotto le tue ali, perché troppo grande è il pericolo, se la mia anima non stesse chinata sotto le tue ali e la mia debolezza non ti fosse nota. Io sono un bambinello, ma è sempre vivo il Padre mio, e adatto a me il mio tutore. Infatti la medesima persona è il mio genitore e il mio tutore. Tu, tu solo sei tutti i miei beni, tu, onnipotente, che sei con me anche prima che io sia con te. Se così, mi mostrerò a chi mi ordini di servire, non più quale fui, ma quale sono ormai e sono tuttora. Però io neppure giudico me stesso. Così mi ascoltino anche gli altri.


Conoscenza di Dio e dell’uomo

5. 7. Tu, Signore, mi giudichi. Nessuno fra gli uomini conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui. Vi è tuttavia nell’uomo qualcosa, che neppure lo spirito stesso dell’uomo che è in lui conosce; tu invece, Signore, sai tutto di lui per averlo creato. Anch’io, per quanto mi avvilisca al tuo cospetto, stimandomi terra e cenere, so qualcosa di te, che di me ignoro. Noi ora vediamo certamente attraverso uno specchio in un enigma, non ancora faccia a faccia; quindi, finché pellegrino lontano da te, sono più vicino a me, che a te. Eppure ti so assolutamente inviolabile, mentre non so a quali tentazioni possa io resistere, a quali no. C’è speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati al di là delle nostre forze, offrendo con la tentazione anche lo scampo, affinché possiamo sostenerla. Confesserò dunque quanto so di me, e anche quanto ignoro di me, perché quanto so di me, lo so per tua illuminazione, e quanto ignoro di me, lo ignoro finché le mie tenebre si mutino quale il mezzodì nel tuo volto.

Ricerca di Dio

L’oggetto dell’amore verso Dio

6. 8. Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio.


Ricerca di Dio oltre la materia

6. 9. Che è ciò?. Interrogai sul mio Dio la mole dell’universo, e mi rispose: “Non sono io, ma è lui che mi fece”. Interrogai la terra, e mi rispose: “Non sono io”; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive; e mi risposero: “Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi”. Interrogai i soffi dell’aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: “Erra Anassimene, io non sono Dio”. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: “Neppure noi siamo il Dio che cerchi”, rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: “Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui”; ed essi esclamarono a gran voce: “È lui che ci fece. Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza. Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi. “Tu, chi sei?”; e risposi: “Un uomo”. Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un’anima, l’uno esteriore, l’altra interiore. A quali dei due chiedere del mio Dio, già cercato col corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, i raggi dei miei occhi? Più prezioso l’elemento interiore. A lui tutti i messaggeri del corpo riferivano, come a chi governi e giudichi, le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose là esistenti, concordi nel dire: “Non siamo noi Dio”, e: “È lui che ci fece. L’uomo interiore apprese queste cose con l’ausilio dell’esteriore; io, l’interiore, le ho apprese, io, io, lo spirito, per mezzo dei sensi del mio corpo.

6. 10. Non appare a chiunque è dotato compiutamente di sensi questa bellezza? Perché dunque non parla a tutti nella stessa maniera? Gli animali piccoli e grandi la vedono, ma sono incapaci di fare domande, poiché in essi non è preposta ai messaggi dei sensi una ragione giudicante. Gli uomini però sono capaci di fare domande, per scorgere quanto in Dio è invisibile e comprendendolo attraverso il creato. Senonché il loro amore li asservisce alle cose create, e i servi non possono giudicare. Ora, queste cose rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare; non mutano la loro voce, ossia la loro bellezza, se uno vede soltanto, mentre l’altro vede e interroga, così da presentarsi all’uno e all’altro sotto aspetti diversi; ma, pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono. Mi dice la verità: “Il tuo Dio non è la terra, né il cielo, né alcun altro corpo”; l’afferma la loro natura, lo si vede, essendo ogni massa minore nelle sue parti che nel tutto. Tu stessa sei certo più preziosa del tuo corpo, io te lo dico, anima mia, poiché ne vivifichi la massa, prestandogli quella vita che nessun corpo può fornire a un altro corpo. Ma il tuo Dio è anche per te vita della tua vita.


Ricerca di Dio oltre la forza vitale e la sensibilità

7. 11. Che amo dunque, allorché amo il mio Dio? Chi è costui, che sta sopra il vertice della mia anima? Proprio con l’aiuto della mia anima salirò fino a lui, trascenderò la mia forza che mi avvince al corpo e ne riempie l’organismo di vita. Non con questa forza potrei trovare il mio Dio; altrimenti anche un cavallo e un mulo, privi d’intelligenza, ma dotati della medesima forza, per cui hanno vita anche i loro corpi, potrebbero trovarlo. C’è un’altra forza, quella con cui rendo non solo viva, ma anche sensitiva la mia carne, che mi fabbricò il Signore, prescrivendo all’occhio di non udire, all’orecchio di non vedere, ma all’uno di farmi vedere, all’altro di farmi udire, e così a ciascuno degli altri sensi prescrizioni proprie secondo le loro sedi e le loro attribuzioni; e così io, unico spirito, compio azioni diverse per loro mezzo. Trascenderò anche questa mia forza, poiché ne godono anche un cavallo e un mulo, che infatti hanno essi pure la sensibilità fisica.

La memoria

Nei quartieri della memoria:

8. 12. Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: “Non siamo noi per caso?”, e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria.

a) le sensazioni avute;

8. 13. Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle nari, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso. Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza. Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, benché siano visibili i sensi che le captano e le ripongono nel nostro interno. Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio; la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte. Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie. Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.

b) le esperienze.

8. 14. Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli. Là stanno tutte le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non solo collegandole al passato, ma intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti. “Farò questa cosa, farò quell’altra”, dico fra me appunto nell’immane grembo del mio spirito, popolato di tante immagini di tante cose; e l’una cosa e l’altra avviene. “Oh, se accadesse questa cosa, o quell’altra!”, “Dio ci scampi da questa cosa, o da quell’altra!”, dico fra me, e mentre lo dico ho innanzi le immagini di tutte le cose che dico, uscite dall’unico scrigno della memoria, e senza di cui non potrei nominarne una sola.


Meravigliosa potenza della memoria

8. 15. Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.

c) le nozioni apprese

9. 16. Ma non è questo l’unico contenuto dell’immensa capacità della mia memoria. Vi si trovano anche tutte le nozioni apprese dall’insegnamento delle discipline liberali, che non ho ancora dimenticato. Esse stanno relegate, per così dire, in un luogo più interno, che non è un luogo, come non sono le loro immagini, ma le nozioni stesse, che porto. Cosa è la letteratura? e la dialettica? e quanti sono i tipi di problemi esistenti? Tutte le mie conoscenze in materia stanno nella mia memoria non quali immagini là trattenute, mentre ho lasciato fuori l’oggetto: non come un suono echeggiato e trascorso, come una voce, che imprime nell’orecchio un’orma che la fa ricordare quasi ancora echeggiasse, mentre ormai si tace; o come un odore, che nel passare e disperdersi al vento colpisce l’olfatto e trasmette così alla memoria una rappresentazione di sé, che la reminiscenza rievoca; o come un cibo, che certo nel ventre non si assapora più, eppure quasi lo si assapora nella memoria; o un oggetto, che percepiamo col tatto corporeo e che la nostra memoria immagina anche quando è separato da noi. In tutti questi casi non s’introducono nella memoria le cose, ma soltanto le loro immagini sono colte con una rapidità portentosa, riposte in una sorta di portentose cellette, ed estratte in modo portentoso dal ricordo.


L’acquisizione del sapere

10. 17. Quando però mi si dice: “Tre tipi di problemi vi sono: dell’esistenza, dell’essenza e della qualità di una cosa”, io afferro, sì, l’immagine dei suoni che queste parole compongono, so che passarono per l’aria risuonando e ora non esistono più; ma le cose in sé, che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né le vidi fuori dallo spirito. Nella memoria riposi non già le loro immagini, bensì le cose stesse. Ma da dove entrarono in me? Lo dicano esse, se possono. Io, per quanto passi in rassegna tutte le porte della mia carne, non ne trovo una, per cui siano entrate. Gli occhi dichiarano: “Se hanno colore, le abbiamo trasmesse noi”; le orecchie dichiarano: “Se produssero suono, furono segnalate da noi”; le nari dichiarano: “Se avevano odore, sono passate da noi”; dichiara anche il senso del gusto: “Se non c’è sapore, non chiedere nulla a me”; il tatto dichiara: “Se non c’è corpo, non ho palpato, e se non ho palpato, non ho segnalato”. Da dove, dunque, e per dove entrarono queste cose nella mia memoria? Non lo so. Le appresi non già affidandomi a un’intelligenza altrui, ma nella mia riconoscendole e apprezzandone la verità, per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque là erano anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria. Dove dunque, o perché al sentirne parlare le riconobbi e dissi: “È così, è vero”? Erano forse già nella memoria, però tanto remote e relegate, per così dire, in cavità più segrete, di modo che forse non avrei potuto pensarle senza l’insegnamento di qualcuno, che le estraesse?


La riflessione

11. 18. Da ciò risulta che l’apprendimento delle nozioni di cui non otteniamo le immagini attraverso i sensi, ma che senza immagini vediamo direttamente dentro di noi quali sono, altro non è, se non una sorta di raccolta, da parte del pensiero, di elementi sparsi, contenuti disordinatamente dalla memoria, e di lavorio da parte della riflessione, affinché nella stessa memoria, ove prima si nascondevano qua e là negletti, si tengano, diciamo così, a portata di mano per presentarsi d’ora in avanti facilmente alla considerazione familiare dello spirito. Quante nozioni di questo genere contiene la mia memoria, nozioni ormai ritrovate e, secondo l’espressione usata sopra, quasi a portata di mano! In tal caso si dice che le abbiamo imparate e le conosciamo. Se però tralascio di evocarle anche per brevi intervalli di tempo, esse vengono sommerse di nuovo e dileguano, si direbbe, in più remoti recessi, tanto che poi il pensiero le deve estrarre da capo, quasi nuove e appunto di là, perché non hanno altra sede, e di nuovo raccoglierle, per poterle sapere, come adunandole dopo una sorta di dispersione. Da questa operazione deriva il verbo cogitare, essendo cogo per cogito ciò che ago è per agito, facio per factito. Senonché lo spirito si appropriò di questo verbo, in modo che ormai si dice propriamente cogitare l’azione di raccogliere, ossia di cogere, nell’animo e non altrove.

d) i numeri;

12. 19. La memoria contiene anche i rapporti e le innumerevoli leggi dell’aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano. Udii i suoni delle parole che le designano quando se ne discute, ma altro sono le parole, altro le cose: le prime suonano diversamente in greco e in latino, le seconde non appartengono né al greco né al latino né ad altra lingua. Vidi le linee sottilissime tracciate dagli artigiani, simili a fili di ragnatela; ma altro sono le linee geometriche, altro le loro rappresentazioni riferitemi dall’occhio della carne: ognuno le conosce riconoscendole dentro di sé, senza pensare a un corpo qualsiasi. Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo i numeri che calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt’altra cosa. Non sono nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente. Rida delle mie parole chi non li vede, e io mi dorrò che rida di me.

e) le circostanze della conoscenza;

13. 20. Tutte queste nozioni conservo per mezzo della memoria; e conservo per mezzo della memoria anche il modo come le ho apprese. Così molti, falsissimi argomenti opposti a queste verità e da me uditi, li conservo per mezzo della memoria. Sono ben falsi, ma non è falso il fatto che li ricordo. Ricordo persino la distinzione che stabilii tra quelle verità e queste falsità ad esse opposte; e in modo diverso ora mi vedo stabilire questa distinzione dall’altro, con cui ricordo di averla stabilita sovente, ogni volta che vi pensavo. Dunque e ricordo di aver capito assai sovente queste cose, e ciò che ora distinguo e capisco ripongo nella memoria per ricordarmi poi di aver ora capito. Dunque ricordo anche di aver ricordato, come poi, se mi sovverrò di aver potuto ricordare adesso, me ne sovverrò certamente con la facoltà della memoria.

f) i sentimenti dello spirito.

14. 21. Anche i sentimenti del mio spirito contiene la stessa memoria, non nella forma in cui li possiede lo spirito all’atto di provarli, ma molto diversa, adeguata alla facoltà della memoria. Ricordo di essere stato lieto, senza essere lieto; rievoco le mie passate tristezze, senza essere triste; mi sovvengo senza provare paura di aver provato talvolta paura, e sono memore di antichi desideri senza avere desideri. Talvolta ricordo all’opposto con letizia la mia passata tristezza, e con tristezza la letizia. Ciò non deve sorprendere, trattandosi del corpo, poiché spirito e corpo sono entità diverse. Quindi il felice ricordo di un dolore passato del corpo non è sorprendente. Ma quest’altro caso? La memoria è anch’essa spirito; raccomandando ad uno di tenere a mente qualcosa, noi diciamo: “Bada di tenerla presente nel tuo spirito”; quando dimentichiamo, diciamo: “Non l’ho tenuto presente nel mio spirito”, o: “Mi è sfuggito dallo spirito”, ove chiamiamo appunto spirito la memoria. Se è così, che è ciò: che nel lieto ricordo di una tristezza passata il mio spirito ha letizia, la memoria tristezza, e lo spirito è lieto per il fatto che in lui c’è letizia, la memoria è triste per il fatto che in lei c’è tristezza? Forse che la memoria non è parte dello spirito? Chi oserebbe affermarlo? In realtà la memoria è, direi, il ventre dello spirito, mentre letizia e tristezza sono il cibo, ora dolce ora amaro. Quando i due sentimenti vengono affidati alla memoria, passano in questa specie di ventre e vi si possono depositare, ma non possono avere sapore. È ridicolo attribuire una somiglianza a due atti tanto diversi; eppure non c’è una dissomiglianza assoluta.

14. 22. Ma dirò di più: se asserisco che quattro sono i turbamenti dello spirito: desiderio, gioia, timore, tristezza, attingo alla memoria, come tutte le discussioni che potrò impostare su di essi, suddividendoli ognuno in specie proprie del loro genere e dandone le definizioni. Tutto ciò che ne dico, lo trovo e lo traggo dalla memoria. Eppure all’atto di rievocarli col ricordo, non mi sento turbare da nessuno di quei turbamenti; ed anche prima che li richiamassi e discutessi si trovavano nella mia memoria, altrimenti non potevano essere attinti dal ricordo. Forse avviene come del cibo, che riesce dal ventre mediante la ruminazione: così le impressioni riescono dalla memoria mediante il ricordo. Ma perché non si percepiscono nella bocca del pensiero, mentre se ne discute e quindi si ricordano, la dolcezza della letizia o l’amarezza della tristezza? Sarebbe qui la differenza, visto che la somiglianza delle due operazioni non è totale? Nessuno infatti parlerebbe volentieri di queste cose, se, ogni qual volta nominiamo la tristezza o il timore, inevitabilmente li provassimo. Eppure non potremmo parlarne, se non ritrovassimo nella nostra memoria, oltre ai suoni delle parole, secondo le immagini che vi furono impresse dai sensi del corpo, anche le notizie delle cose che esprimono e che non ricevemmo per nessuna porta della carne. Lo spirito medesimo le sentì attraverso l’esperienza delle sue affezioni e le affidò alla memoria, oppure la memoria le trattenne di sua iniziativa senza che le fossero affidate da altri.


Ricordo e immagine

15. 23. L’operazione avviene per immagini o no? Difficile dirlo. Pronuncio ad esempio il nome della pietra o del sole, mentre gli oggetti non sono presenti in sé ai miei sensi: nella memoria però sono certamente disponibili le loro immagini. Pronuncio il nome del dolore fisico, quando neppure esso mi è presente, poiché non provo alcun dolore: ma se non avessi presente nella memoria la sua immagine, non saprei cosa mi dico, e nel discutere non saprei distinguerlo dal piacere. Pronuncio ora il nome della salute fisica, mentre sono fisicamente sano. La cosa in sé mi è presente, tuttavia non potrei affatto ricordare il significato del suono di questo nome, se non si trovasse anche la sua rappresentazione nella mia memoria; e gli ammalati, sentendo nominare la salute, non la riconoscerebbero, se la facoltà della loro memoria non conservasse la medesima rappresentazione anche quando la cosa in sé è assente dal corpo. Pronuncio il nome dei numeri usati per calcolare, ed ecco che stanno nella mia memoria non già in immagine, ma in sé. Pronuncio il nome di immagine del sole, ed essa è presente nella mia memoria: rievoco infatti non già un’immagine d’immagine del sole, ma l’immagine in sé, ed essa è disponibile in sé al mio ricordo. Pronuncio il nome della memoria, e riconosco ciò che nomino. Dove lo riconosco, se non nella memoria stessa? E proprio la memoria sarebbe presente a sé con la sua immagine, invece che in se stessa?

g) l’oblio.

16. 24. Ma allora, quando nomino l’oblio, riconoscendo contemporaneamente ciò che nomino, lo riconoscerei, se non lo ricordassi? Non parlo del semplice suono di questa parola, ma della cosa che indica, dimenticata la quale, non varrei certamente a riconoscere cosa vale quel suono. Dunque, quando ricordo la memoria, proprio la memoria è in sé presente a se stessa; allorché invece ricordo l’oblio, sono presenti e la memoria e l’oblio: la memoria, con cui ricordo; l’oblio, che ricordo. Ma cos’è l’oblio, se non privazione di memoria? Come dunque può essere presente, affinché lo ricordi, se la sua presenza mi rende impossibile ricordare? Eppure, se è vero che conserviamo nella memoria quanto ricordiamo e che, privi del ricordo dell’oblio, non potremmo assolutamente riconoscere la cosa udendo pronunciare il nome, la memoria conserva l’oblio. Così abbiamo presente, per non dimenticare, ciò che con la sua presenza ci fa dimenticare. Dovremo quindi intendere che non si trova nella memoria proprio l’oblio in sé, quando lo ricordiamo, bensì la sua immagine, poiché la presenza diretta dell’oblio ci farebbe non già ricordare, ma obliare? Chi potrà mai indagare questo fatto? chi comprendere come stanno le cose?

16. 25. Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. Non è così strano che sia lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di me stesso? Ed ecco che invece non posso comprendere la natura della mia memoria mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso. Cosa dovrei dire, infatti, quando sono certo di ricordare l’oblio? Dovrei dire che ciò che rammento non sta nella mia memoria, oppure che l’oblio sta nella mia memoria allo scopo di farmi obliare? Ipotesi entrambe assurdissime. E questa terza: potrei dire che la mia memoria afferra l’immagine dell’oblio, non l’oblio in sé, quando me ne rammento? Potrei dirlo, mentre per imprimere l’immagine di qualsiasi cosa nella memoria occorre prima la presenza reale della cosa, da cui parte l’immagine per imprimersi nella memoria? Così ricordo Cartagine, tutti i luoghi ove vissi, la fisionomia delle persone che incontrai; così le cose che mi hanno riferito anche gli altri sensi, così la stessa salute o la sofferenza fisica. Quando erano presenti tutte queste cose, la memoria ne colse le immagini, rendendomi possibile di contemplarle come ancora presenti e riconsiderarle con lo spirito, ricordandole anche assenti. Se dunque la memoria conserva non proprio l’oblio in sé, ma la sua immagine, l’oblio fu pure presente, affinché si potesse coglierne l’immagine. Ma se era presente, come iscriveva la sua immagine nella memoria, quando con la sua presenza cancella tutto ciò che vi trova già impresso, l’oblio? Eppure in qualche modo, in modo sia pure incomprensibile e inesplicabile, sono certo di ricordare anche l’oblio stesso, affossatore di ogni nostro ricordo.


Ricerca di Dio oltre la memoria

17. 26. La facoltà della memoria è grandiosa. Ispira quasi un senso di terrore, Dio mio, la sua infinita e profonda complessità. E ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso. Cosa sono dunque, Dio mio? Qual è la mia natura? Una vita varia, multiforme, di un’immensità poderosa. Ecco, nei campi e negli antri, nelle caverne incalcolabili della memoria, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose, talune presenti per immagini, come è il caso di tutti i corpi, talune proprio in sé, come è il caso delle scienze, talune attraverso indefinibili nozioni e notazioni, come è il caso dei sentimenti spirituali, che la memoria conserva anche quando lo spirito più non li prova, sebbene essere nella memoria sia essere nello spirito; per tutti questi luoghi io trascorro, ora a volo qua e là, ora penetrandovi anche quanto più posso, senza trovare limiti da nessuna parte, tanto grande è la facoltà della memoria, e tanto grande la facoltà di vivere in un uomo, che pure vive per morire. Che devo fare dunque, o tu, vera vita mia, Dio mio? Supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, la supererò, per protendermi verso di te, dolce lume. Che mi dici? Ecco, io, elevandomi per mezzo del mio spirito sino a te fisso sopra di me, supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti da dove si può coglierti, e di aderire a te da dove si può aderire a te. Hanno infatti la memoria anche le bestie e gli uccelli, altrimenti non ritroverebbero i loro covi e i loro nidi e le molte altre cose ad essi abituali, poiché senza memoria non potrebbero neppure acquistare un’abitudine. Supererò, dunque, anche la memoria per cogliere Colui, che mi distinse dai quadrupedi e mi fece più sapiente dei volatili del cielo. Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori della mia memoria, significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te.


Memoria e oblio

18. 27. La donna che perse la dracma e la cercò con la lucerna, non l’avrebbe trovata, se non ne avesse avuto il ricordo. Trovandola, come avrebbe saputo che era la sua dracma, se non ne avesse avuto il ricordo? Molti oggetti ricordo di aver perso anch’io, cercato e trovato; e so pure che, mentre ne cercavo qualcuno, se mi si chiedeva: “È forse questo?”, “È forse quello?”, continuavo a rispondere di no, finché mi veniva presentato quello che cercavo. Se non avessi avuto il ricordo di quale era, quand’anche mi fosse stato presentato, non l’avrei ritrovato, poiché non l’avrei riconosciuto. Avviene sempre così, ogni volta che perdiamo e cerchiamo e troviamo qualcosa. Se mai qualcosa, ad esempio un qualsiasi oggetto visibile, scompare dai nostri occhi, ma non dalla nostra memoria, la sua immagine si conserva dentro di noi, e noi cerchiamo finché sia restituito alla nostra vista. Trovatolo, lo riconosciamo in base all’immagine interiore, né diremmo di aver trovato l’oggetto scomparso, se non lo riconoscessimo, né potremmo riconoscerlo, se non lo ricordassimo. L’oggetto era perduto, sì, per gli occhi, ma conservato dalla memoria.


Ricordi perduti nella memoria

19. 28. Ma quando è la memoria a perdere qualcosa, come avviene allorché dimentichiamo e cerchiamo di ricordare, dove mai cerchiamo, se non nella stessa memoria? Ed è lì che, se per caso ci si presenta una cosa diversa, la respingiamo, finché capita quella che cerchiamo. E quando capita, diciamo: “È questa”, né diremmo così senza riconoscerla, né la riconosceremmo senza ricordarla. Dunque ce n’eravamo davvero dimenticati. O forse non ci era caduta per intero dalla mente e noi, con la parte che serbavamo, andavamo in cerca dell’altra parte, quasi che la memoria, sentendo di non sviluppare tutt’insieme ciò che soleva ricordare insieme, e zoppicando, per così dire, con un moncone d’abitudine, sollecitasse la restituzione della parte mancante? Così, quando rivediamo con gli occhi o ripensiamo con la mente una persona nota, ma ne cerchiamo il nome dimenticato, qualunque altro se ne presenti, non lo colleghiamo con quella persona, perché non avevamo l’abitudine di pensarlo con lei. Quindi lo respingiamo, finché ci si presenta quello, che soddisfa pienamente la nozione della persona ormai ad esso congiunta. Ma donde si presenta un tal nome, se non dalla stessa memoria? Anche nel caso che altri ce lo suggeriscano, e così lo riconosciamo, si presenta pure di là. Non è una cosa nuova, alla quale prestiamo fede, ma un ricordo che torna, per il quale confermiamo che è proprio il nome che ci fu detto. Se invece si fosse cancellato del tutto dal nostro spirito, nessun suggerimento ce lo farebbe ricordare. Infatti una cosa, di cui ricordiamo almeno di averla dimenticata, non è ancora dimenticata del tutto. Dimenticata del tutto, non potremmo dunque neppure cercare una cosa perduta.


Ricerca di Dio, ricerca di felicità

20. 29. Come ti cerco dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l’anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te. Come cerco dunque la felicità? Non la posseggo infatti, finché non dico: “Basta, è lì”. E qui bisogna che dica come la cerco: se mediante il ricordo, quasi l’abbia dimenticata ma ancora conservi il ricordo di averla dimenticata, oppure mediante l’anelito di conoscere una felicità ignota perché mai conosciuta o perché dimenticata al punto di non ricordare neppure d’averla dimenticata. La felicità della vita non è proprio ciò che tutti vogliono e nessuno senza eccezioni non vuole? Dove la conobbero per volerla così? dove la videro per amarla? Certo noi la possediamo in qualche modo. C’è il modo di chi la possiede, e allora è felice, e c’è chi è felice per la speranza di possederla. I secondi la posseggono in modo inferiore ai primi, felici già per la padronanza della felicità; tuttavia stanno meglio di altri, non felici né per padronanza né per speranza. Però nemmeno questi ultimi desidererebbero tanto la felicità, se non la possedessero in qualche modo; che la desiderino, è certissimo. Non so come, la conobbero, e perciò, perché la conoscono, la posseggono, in una forma a me sconosciuta, che mi travaglio di conoscere. È forse nella memoria? Se lì, ci fu già un tempo, in cui fummo felici; se ciascuno individualmente, o nella persona del primo peccatore in cui tutti siamo morti e da cui tutti siamo nati infelici, non cerco ora di sapere. Ora cerco di sapere se la felicità si trova nella memoria. Certo, se non la conoscessimo, non l’ameremmo. All’udirne il nome tutti confessiamo di desiderarla in se stessa, e non è il suono della parola che ci rallegra. Non si rallegra un greco quando l’ode pronunciare in latino, poiché non comprende ciò che viene detto, mentre noi ci rallegriamo, come si rallegra lo stesso greco all’udirlo in greco, poiché la cosa in se stessa non è greca né latina, ed è la cosa, che greci e latini e popoli di ogni altra lingua cercano avidamente. L’umanità intera la conosce. Se si potesse chiederle con una sola parola se vuol essere felice, non v’è dubbio che risponderebbe di sì. Il che non accadrebbe, se appunto la cosa che la parola designa non si conservasse nella memoria.


Il ricordo della felicità

21. 30. È un ricordo simile a quello che ha di Cartagine chi vide questa città? No, perché la felicità, non essendo corporea, non si vede con gli occhi. È simile al ricordo che abbiamo dei numeri? Nemmeno, perché chi ha la nozione dei numeri non cerca ancora di possederli, mentre la nozione che abbiamo della felicità ce la fa anche amare, e tuttavia cerchiamo ancora di possederla per essere felici. È simile al ricordo che abbiamo dell’eloquenza? Nemmeno, perché se, a udirne il nome, anche le persone non ancora eloquenti ricordano cosa designa, e se molti desiderano essere eloquenti, così dimostrando di avere nozione dell’eloquenza, tuttavia costoro percepirono l’eloquenza in altri mediante i sensi del corpo, ne provarono godimento, e quindi desiderano essere eloquenti; però senza una nozione interiore non potrebbero provare godimento, e senza godimento non potrebbero desiderare di essere eloquenti. Ma la felicità non la conosciamo negli altri mediante i sensi del corpo. È simile allora al ricordo che abbiamo della gioia? Forse sì. Delle mie gioie ho il ricordo anche nella tristezza, e così della felicità nell’afflizione. Eppure non ho mai visto o udito o fiutato o gustato o toccato questa gioia con i sensi del corpo, bensì l’ho sperimentata nel mio animo quando mi sono rallegrato. La sua nozione penetrò nella mia memoria affinché potessi ricordarla, ora con disdegno, ora con desiderio, secondo i diversi motivi per cui ricordo di aver gioito. Se mi pervase la gioia per moti-vi abietti, ora il suo ricordo mi è detestabile ed esecrabile; se per motivi buoni e onesti, la rievoco con rimpianto, anche se per caso essi mancano. Di qui la triste rievocazione della gioia antica.


Desiderio universale della felicità

21. 31. Dove dunque e quando ho sperimentato la mia felicità, per poterla ricordare e amare e desiderare? Né soltanto io, o pochi uomini con me vogliono essere felici, bensì tutti lo vogliono. Ora, senza conoscere ciò di una conoscenza precisa non lo vorremmo di una volontà così decisa. Ma, che è ciò?. Chiedi a due persone se vogliono fare il soldato, e può accadere che l’una risponda di sì, l’altra di no; ma chiedi loro se vogliono essere felici, ed ambedue ti risponderanno all’istante, senza ombra di dubbio, che sì; anzi, lo scopo per cui l’una vuole fare il soldato, l’altra no, è soltanto la felicità. Poiché l’una trae godimento da una condizione, l’altra dall’altra. Così tutti concordano nel desiderare la felicità, come concorderebbero nel rispondere a chi chiedesse loro se desiderano godere. Il godimento è appunto ciò che chiamiamo felicità della vita: l’uno lo ricerca bensì da una parte, l’altro dall’altra, ma tutti tendono a un’unica meta, di godere. E siccome il gaudio è un sentimento che nessuno può dire di non avere mai sperimentato, perciò lo si ritrova nella memoria e perciò lo si riconosce all’udire il nome della felicità.


Dio godimento dei suoi servi

22. 32. Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C’è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te; fuori di questa non ve n’è altra. Chi crede ve ne sia un’altra, persegue un altro godimento, non il vero. Tuttavia da una certa immagine di godimento la loro volontà non si distoglie.


Amore universale per la verità

23. 33. Dunque non è certo che tutti vogliono essere felici: quanti non cercano il godimento di chi, come te, è l’unica felicità della vita, in realtà non vogliono la felicità. O forse tutti la vogliono, ma, poiché le brame della carne sono opposte allo spirito, e quelle dello spirito alla carne, sì che non fanno ciò che vogliono, cadono là dove possono, e ne sono paghi, perché ciò che non possono, non lo vogliono quanto occorrerebbe per volerlo? Chiedo a tutti: “Preferite godere della verità o della menzogna?”. Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. Già, la felicità della vita è il godimento della verità, cioè il godimento di te, che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio volto, Dio mio. Questa felicità della vita vogliono tutti, questa vita che è l’unica felicità vogliono tutti, il godimento della verità vogliono tutti. Ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata. Dove avevano avuto nozione della felicità, se non dove l’avevano anche avuta della verità? Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l’amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. Perché dunque non ne traggono godimento? Perché non sono felici? Perché sono più intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici di quanto non li renda felici questa, di cui hanno un così tenue ricordo. C’è ancora un po’ di luce fra gli uomini. Camminino, camminino dunque, per non essere sorpresi dalle tenebre.

23. 34. Ma perché la verità genera odio, e l’uomo che predica il vero in tuo nome diventa per loro un nemico, mentre amano pure la felicità, che non è se non il godimento della verità? In realtà l’amore della verità è tale, che quanti amano un oggetto diverso pretendono che l’oggetto del loro amore sia la verità; e poiché detestano di essere ingannati, detestano di essere convinti che s’ingannano. Perciò odiano la verità: per amore di ciò che credono verità. L’amano quando splende, l’odiano quando riprende. Non vogliono essere ingannati e vogliono ingannare, quindi l’amano allorché si rivela, e l’odiano allorché li rivela. Questo il castigo con cui li ripagherà: come non vogliono essere scoperti da lei, lei contro il loro volere scoprirà loro, rimanendo a loro coperta. Così, così, persino così cieco e debole, volgare e deforme è l’animo umano: vuole rimanere occulto, ma a sé non vuole che rimanga occulto nulla. E viene ripagato con la condizione opposta: non rimane lui occulto alla verità, ma la verità rimane occulta a lui. Eppure anche in questa condizione infelice preferisce il godimento della verità a quello della menzogna. Dunque sarà felice allorché senza ostacoli né turbamento godrà dell’unica Verità, grazie alla quale sono vere tutte le cose.


Presenza di Dio nella memoria

24. 35. Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla, di ciò che di te ho trovato dal giorno in cui ti conobbi, non fu un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. È questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà.


Sede di Dio nella memoria

25. 36. Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l’onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee. Passai alle zone ove ho depositato i sentimenti del mio spiri-to, ma neppure lì ti trovai. Entrai nella sede che il mio spirito stesso possiede nella mia memoria, perché lo spirito ricorda anche se medesimo, ma neppure là tu non eri, poiché, come non sei immagine corporea né sentimento di spirito vivo, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure lo spirito stesso, essendo il Signore e Dio dello spirito, e mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimani immutabile al di sopra di tutte le cose. E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te.


La conoscenza di Dio

26. 37. Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode.


L’incontro con Dio

27. 38. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.

Le presenti condizioni del suo spirito

La vita umana sulla terra

28. 39. Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me!. Ahimè! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato; tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare. Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra questi due, ove la vita umana non sia una prova? Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore dell’avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due e tre volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l’asprezza dell’avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta?


Il comando di Dio: la continenza

29. 40. Ogni mia speranza è posta nell’immensa grandezza della tua misericordia. Dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: “Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono. La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell’unità che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.


A) La concupiscenza della carne:
a) il senso;

30. 41. Mi comandi certamente di astenermi dai desideri della carne e dai desideri degli occhi e dall’ambizione del mondo. Comandasti l’astensione dal concubinato, ma anche a proposito del matrimonio indicasti una condizione migliore di quella lecita; e poiché me ne desti la grazia, fu la mia condizione ancora prima che diventassi dispensatore del tuo sacramento. Sopravvivono però nella mia memoria, di cui ho parlato a lungo, le immagini di questi diletti, che vi ha impresso la consuetudine. Vi scorrazzano fievoli mentre sono desto; però durante il sonno non solo suscitano piaceri, ma addirittura consenso e qualcosa di molto simile all’atto stesso. L’illusione di questa immagine nella mia anima è cosi potente sulla mia carne, che false visioni m’inducono nel sonno ad atti, cui non m’induce la realtà nella veglia. In quei momenti, Signore Dio mio, non sono forse più io? Eppure sono molto diverso da me stesso nel tempo in cui passo dalla veglia al sonno e finché torno dal sonno alla veglia. Dov’è allora la ragione, che durante la veglia mi fa resistere a quelle suggestioni e rimanere incrollabile all’assalto della stessa realtà? Si rinserra con gli occhi, si assopisce con i sensi del corpo? Ma allora da dove nasce la resistenza che spesso opponiamo anche nel sonno, quando, memori del nostro proposito, vi rimaniamo immacolatamente fedeli e non accordiamo l’assenso ad alcuna di tali seduzioni? In verità sono due stati tanto diversi, che anche nel primo caso la nostra coscienza al risveglio torna in pace, e la stessa distanza fra i due stati ci fa riconoscere che non abbiamo compiuto noi quanto in noi si è compiuto comunque, con nostro rammarico.

30. 42. La tua mano, Dio onnipotente, è forse impotente a guarire tutte le debolezze della mia anima, a estinguere con un fiotto più abbondante di grazia i miei moti lascivi anche nel sonno? Moltiplicherai vieppiù, Signore, i tuoi doni in me, affinché la mia anima, sciolta dal vischio della concupiscenza, mi segua fino a te; affinché non si ribelli a se stessa; affinché anche nel sonno non solo non commetta turpitudini così degradanti, ove immaginazioni bestiali scatenano gli umori della carne, ma neppure vi consenta. Far sì che non vi provi alcuna attrazione, o così lieve da poterla comprimere col più lieve cenno della volontà, con la sola intenzione casta con cui ci si mette a letto in questa vita, e per di più a questa età, non è gran cosa per la tua onnipotenza: tu puoi superare quanto chiediamo e comprendiamo. Ora ho esposto al mio buon Signore, con esultanza e insieme apprensione per i tuoi doni, con lacrime per le mie imperfezioni, il punto ove mi trovo tuttora per questo aspetto del mio male. Ma spero che tu perfezionerai in me le tue misericordie, finché io abbia la pace piena, che possederà con te il mio essere interiore ed esteriore quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria.

b) il gusto;

31. 43. Un’altra malizia l’ha il giorno, e volesse il cielo che questa gli bastasse! Noi restauriamo i danni che ogni giornata infligge al corpo, con cibo e bevanda, finché tu distruggerai e cibo e ventre, estinguendo il mio bisogno con una meravigliosa sazietà e rivestendo questo corpo corruttibile di un’incorruttibilità sempiterna. Per ora mi è dolce questa necessità e lotto contro la sua dolcezza per non caderne prigioniero, combatto una guerra quotidiana attraverso digiuni, riducendo di solito il mio corpo in schiavitù, e scaccio i miei dolori col piacere. Infatti la fame e la sete sono anch’esse una sorta di dolore, bruciano e uccidono come la febbre, se non intervenga il rimedio del cibo; e poiché il rimedio è a portata di mano grazie al conforto dei tuoi doni, in cui terra, acqua e cielo lavorano per la nostra debolezza, questa sventura si chiama delizia.

31. 44. Tu mi hai insegnato ad accostarmi agli alimenti per prenderli come medicamenti. Senonché, nel passare dalla molestia del bisogno all’appagamento della sazietà, proprio al passaggio mi attende, insidioso, il laccio della concupiscenza. Il passaggio stesso è un piacere e non ve n’è altro per passare ove ci costringe a passare il bisogno. Sebbene io mangi e beva per la mia salute, vi si aggiunge come ombra una soddisfazione pericolosa, che il più delle volte cerca di precedere, in modo da farmi compiere per essa ciò che dico e voglio fare per salute. La misura non è la stessa nei due casi: quanto basta per la salute è poco per il piacere, e spesso non si distingue se è la cura indispensabile del corpo, che ancora chiede un soccorso, o la soddisfazione ingannevole della gola, che, sotto, richiede un servizio. La nostra povera anima esulta dell’incertezza e predispone in questa la difesa di una scusa, lieta che non sia manifesto quanto basta a una vita normalmente sana. Così sotto il velo della salute si occultano i traffici del piacere. A queste tentazioni mi sforzo quotidianamente di resistere, invocando l’aiuto della tua mano, e riferisco a te i miei turbamenti, poiché il mio giudizio su questo punto non è ancora sicuro.

31. 45. Odo la parola del mio Signore, che mi comanda: Non lasciate appesantire i vostri cuori nella crapula e nell’ubriachezza. L’ubriachezza è lontano da me: la tua misericordia non le permetterà di avvicinarsi. La crapula invece s’insinua talvolta nel tuo servo: la tua misericordia la spingerà lontano da me. Nessuno può essere continente se tu non lo concedi. Molte grazie accordi alle nostre preghiere; anche quelle che abbiamo ricevute prima di pregare sono un dono tuo, ed anche il riconoscerle dopo averle ricevute è un dono tuo. Io non fui mai dedito al vino, ho però visto persone dedite al vino, divenire sobrie per opera tua. Dunque avvenne per opera tua che alcuni non fossero ciò che mai furono come avvenne per opera tua che altri non fossero sempre ciò che furono, e ancora per opera tua che i primi come i secondi sapessero chi operava in loro. Ho udito un’altra tua parola: Non correre dietro alle tue brame e non concederti ciò che ti dà piacere. E anche questa ho udito per tua bontà, che molto mi è cara: Né il mangiare ci darà abbondanza, né il non mangiare scarsità, ossia né l’uno mi renderà ricchissimo, né l’altro poverissimo. Ne ho udito un’altra ancora: Imparai infatti a bastarmi con ciò che ho, e appresi a vivere nell’abbondanza come appresi a tollerare la penuria. Tutto posso in Colui che mi fortifica. Questo sì è un soldato della milizia celeste, e non polvere come siamo noi. Ricordati, Signore, che siamo polvere, e con la polvere hai creato l’uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neppure l’Apostolo trovò in sé il suo potere, essendo polvere anch’egli, ma il tuo soffio gli ispirò le parole che tanto amo, quando disse: Tutto posso in colui che mi fortifica. Fortificami, affinché io sia potente; dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Quest’uomo riconosce i doni ricevuti, e, se si gloria, si gloria nel Signore; da un altro udii chiedere questa grazia: Toglimi la concupiscenza del ventre. Ne risulta, santo Dio mio, che è un dono tuo, se facciamo ciò che ordini di fare.

31. 46. Tu, Padre buono, mi insegnasti che tutto è puro per i puri, ma fa male un uomo a mangiare con scandalo degli altri; che ogni tua creatura è buona, e non si deve respingere nulla di ciò che si prende rendendo grazie; che non è l’alimento a raccomandarci a Dio; che nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo, e chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, come chi non mangia non deve giudicare chi mangia. Ora lo so, e ti siano rese grazie e lodi, Dio mio, mio maestro, per aver bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l’impurità delle vivande, temo l’impurità del desiderio. So che a Noè fu permesso di mangiare ogni genere di carne commestibile, che Elia si rimise in forza mangiando carne, che Giovanni, pur dotato di un’austerità meravigliosa, non fu contaminato dagli animali, ossia dalle locuste, impiegati come cibo; ma so pure che Esaù fu vittima della brama di lenticchie, che Davide si rimproverò di aver desiderato dell’acqua, e il nostro Re fu tentato non già con carne, ma con pane. Perciò anche il popolo nel deserto meritò un rimprovero non per aver desiderato della carne, ma perché nel suo desiderio di cibo mormorò contro il Signore.

31. 47. Assediato da queste tentazioni, lotto ogni giorno contro la concupiscenza del cibo e della bevanda. Qui non è possibile che decida di troncare tutto una volta per sempre e non tornarvi più in avvenire, come potei fare per i piaceri venerei. Devo invece tenere sulla mia gola un morso, allentandolo o stringendolo moderatamente. Ma chi, Signore, non viene trascinato qualche volta oltre il traguardo del necessario? Se c’è qualcuno, è magnanimo e magnifichi il tuo nome. Certo non sono io, perché sono un uomo peccatore. Magnifico ugualmente il tuo nome, e intercede presso di te per i miei peccati chi vinse il secolo, enumerandomi fra le membra inferme del suo corpo. I tuoi occhi videro infatti le sue imperfezioni, e tutti saranno iscritti nel tuo libro.

c) l’odorato;

32. 48. L’attrazione dei profumi non mi preoccupa troppo. Assenti, non li ricerco; presenti, non li rifiuto, disposto a farne a meno anche per sempre. Così mi pare; forse sbaglio, poiché sono circondato da queste tenebre deplorevoli, che mi nascondono le mie reali capacità. Così, quando il mio spirito s’interroga sulle proprie forze, dubita di potersi fidare di se medesimo, poiché il suo intimo rimane più spesso ignoto, se non lo rivela l’esperienza, e nessuno deve sentirsi sicuro in questa vita, che fu definita tutta una prova. Chi poté diventare da peggiore migliore, può anche ridiventare da migliore peggiore. Sola speranza, sola fiducia, sola promessa salda la tua misericordia.

d) l’udito;

33. 49. I piaceri dell’udito mi hanno impigliato e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Fra le melodie che vivificano le tue parole, quando le canta una voce soave ed educata, ora poso, lo confesso, un poco, ma non al punto di rimanervi inchiodato, cosicché mi rialzo quando voglio. Tuttavia per entrare nel mio cuore insieme ai concetti che le animano, vi esigono un posto non indegno, e io difficilmente offro quello conveniente. Talvolta mi sembra di attribuire ad esse un rispetto eccessivo, eppure sento che, cantate a quel modo, le stesse parole sante stimolano il nostro animo a un più pio, a un più ardente fervore di pietà, che se non lo fossero; tutta la scala dei sentimenti della nostra anima trova nella voce e nel canto il giusto temperamento e direi un’arcana, eccitante corrispondenza. Ma spesso il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di sfibrare lo spirito, mi seduce: quando la sensazione, nell’accompagnare il pensiero, non si rassegna a rimanere seconda, ma, pur debitrice a quello di essere accolta, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza avvedermene, e poi me ne avvedo.

33. 50. Talora esagero invece nella cautela contro questo tranello e pecco per eccesso di severità, ma molto raramente. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa ogni melodia delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti mi sembra più sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina a una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Così ondeggio fra il pericolo del piacere e la constatazione dei suoi effetti salutari, e inclino piuttosto, pur non emettendo una sentenza irrevocabile, ad approvare l’uso del canto in chiesa, con l’idea che lo spirito troppo debole assurga al sentimento della devozione attraverso il diletto delle orecchie. Ciò non toglie che quando mi capita di sentirmi mosso più dal canto che dalle parole cantate, confessi di commettere un peccato da espiare, e allora preferirei non udir cantare. Ecco il mio stato. Piangete dunque con me e per me piangete voi che in cuore avete con voi del bene e lo traducete in opere: perché voi che non ne avete, non vi sentite toccare da queste parole. E tu, Signore Dio mio, esaudiscimi, guarda e vedi e commisera e guariscimi. Sono diventato per me sotto i tuoi occhi un problema, e questa appunto è la mia debolezza.

e) la vista.

34. 51. Rimane il piacere di questi occhi della mia carne. Ne farò una confessione, che vorrei giungesse alle orecchie del tuo tempio, orecchie fraterne e pietose. Così concluderemo le tentazioni della concupiscenza carnale che ancora mi assalgono, mentre gemo e desidero essere rivestito della mia abitazione celeste. Gli occhi amano le forme belle e varie, i colori nitidi e ridenti. Ma non avvincano questi oggetti la mia anima. L’avvinca Dio, che fece sì questi oggetti buoni assai, ma è lui solo il mio bene, non essi. Per tutto il giorno, finché ho gli occhi aperti, mi raggiungono senza darmi tregua, mentre me ne dànno le voci che cantano e talora, nel silenzio, tutte le voci. La regina stessa dei colori, la luce, inondando tutto ciò che si vede, dovunque io sia durante il giorno, mi raggiunge in mille modi e mi accarezza, anche quando, intento ad altro, non bado ad essa. S’insinua con tale vigore, che, se viene a mancare all’improvviso, la ricerco avidamente, e se si assenta a lungo, il mio animo si rattrista.

34. 52. O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede della carità senza mai perdersi; che vedeva Isacco con i lumi della carne sommersi e velati dalla vecchiaia, quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli benedicendoli; che vedeva Giacobbe quando, privato anch’egli della vista dalla grande età, spinse i raggi del suo cuore illuminato sulle generazioni del popolo futuro prefigurate nei suoi figliuoli, e impose sui nipoti avuti da Giuseppe le mani arcanamente incrociate, non come il loro padre cercava di correggerlo esternamente, ma come lui distingueva internamente. Questa è la Luce, è l’unica Luce, e un’unica cosa coloro che la vedono e l’amano. Viceversa questa luce corporale di cui stavo parlando insaporisce la vita ai ciechi amanti del secolo con una dolcezza suadente, ma pericolosa. Quando invece hanno imparato a lodarti anche per essa, Dio creatore di tutto, l’attirano nel tuo inno anziché farsi catturare da essa nel loro sonno. Così vorrei essere. Resisto alle seduzioni degli occhi nel timore che i miei piedi, con cui procedo sulla tua via, rimangano impigliati, e sollevo verso di te i miei occhi invisibili, affinché tu strappi dal laccio i miei piedi, come fai continuamente, poiché vi si lasciano allacciare. Tu non cesserai di strapparli di là, mentre io ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque, perché tu non dormirai sonnecchierai, custode d’Israele.

34. 53. Quante cose, da non poterle enumerare, gli uomini aggiunsero alle naturali attrattive degli occhi mediante varie arti e mestieri nelle vesti, nelle calzature, in vasi e prodotti d’ogni genere, e poi nei dipinti e nelle diverse raffigurazioni che vanno ben oltre la necessità, la misura e un significato pio! Seguendo esteriormente le loro creazioni, gli uomini abbandonano interiormente il loro Creatore e distruggono ciò che di loro creò. Ma io, Signore mio e onore mio, traggo anche di qui un inno per te e una lode da offrire in sacrificio a Chi mi santifica. La bellezza che attraverso l’anima si trasmette alle mani dell’artista proviene da quella bellezza che sovrasta le anime, cui l’anima mia sospira giorno e notte. Ma chi fabbrica e cerca le bellezze esteriori, trae di là la norma per giudicarne il valore, non trae di là la norma per farne buon uso. Eppure c’è, e non la vedono; diversamente non andrebbero tanto lontano e preserverebbero la loro forza presso di te, anziché disperderla in amenità sfibranti. Io stesso, che lo dico e lo vedo, lascio cogliere il mio passo al laccio delle bellezze esteriori; ma tu lo strappi di là, Signore, lo strappi tu, perché la tua misericordia è davanti ai miei occhi. Io mi lascio prendere miseramente, e tu mi liberi misericordiosamente, a volte senza farmi soffrire, per esservi caduto solo con la punta del piede, a volte con dolore, per esservi ormai del tutto impigliato.


B) La vana curiosità

35. 54. S’aggiunge un’altra forma di tentazione, pericolosa per molteplici ragioni. Esiste infatti nell’anima, oltre la concupiscenza della carne, che risiede nella soddisfazione voluttuosa di tutti i sensi, cui si asserviscono rovinosamente quanti si allontanano da te, una diversa bramosia, che si trasmette per i medesimi sensi del corpo, ma tende, anziché al compiacimento della carne, all’esperienza mediante la carne. È la curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza. Risiedendo nel desiderio di conoscere, ed essendo gli occhi, fra i sensi, lo strumento principe della conoscenza, l’oracolo divino la chiamò concupiscenza degli occhi. La vista infatti appartiene propriamente agli occhi, ma noi parliamo di vista anche per gli altri sensi, quando li usiamo per conoscere. Non diciamo: “Ascolta quanto luccica”, oppure: “Odora come brilla”, oppure: “Assapora come splende”, oppure: “Tocca come rifulge”; in tutti questi casi si dice sempre: “Vedi”. Non solo diciamo: “Vedi quanto riluce”, per le sensazioni cioè che gli occhi soli possono avere; ma anche: “Vedi che suono, vedi che odore, vedi che sapore, vedi che ruvido”. Perciò qualunque esperienza sensoriale viene chiamata, come dissi, concupiscenza degli occhi, perché l’ufficio di vedere, prerogativa degli occhi, viene usurpato anche dagli altri sensi per analogia, quando esplorano un oggetto per conoscerlo.

35. 55. Ora si può distinguere più chiaramente quale sia la parte del piacere, e quale quella della curiosità nell’azione dei sensi. Il piacere cerca la bellezza, l’armonia, la fragranza, il sapore, la levigatezza; la curiosità invece ricerca anche sensazioni opposte a queste, per saggiarle; non per affrontare un fastidio, ma per la bramosia di sperimentare e conoscere. Cos’ha di piacevole la visione di un cadavere dilaniato, che ti fa inorridire? Eppure, non appena se ne trova uno in terra, tutti accorrono ad affliggersi, a impallidire, e temono addirittura di rivederlo in sogno, quasi fossero costretti a vederlo da svegli, o fossero indotti dalla promessa di uno spettacolo ameno. La stessa cosa accade per gli altri sensi, ma sarebbe lunga la rassegna. Da questa perversione della curiosità derivano le esibizioni di ogni stravaganza negli spettacoli, le sortite per esplorare i segreti della natura fuori di noi, la cui conoscenza è per nulla utile, e in cui gli uomini cercano null’altro che il conoscere; e ancora le indagini per mezzo delle arti magiche, col medesimo fine di una scienza perversa; e ancora, nella stessa religione, l’atto di tentare Dio, quando gli si chiedono segni e prodigi, desiderati non per trarne qualche beneficio, ma soltanto per farne esperienza.

35. 56. In questa foresta tanto immensa, disseminata di insidie e pericoli, ecco, ho potuto sfrondare e spogliare molto il mio cuore: quanto tu, Dio della mia salvezza, mi hai dato di fare. Eppure quando oserei dire, fra i richiami fragorosi di tante sollecitazioni di questo genere, che assediano da ogni parte la nostra esistenza quotidiana, quando oserei dire che nessuna trattiene su di sé il mio sguardo e assorbe la mia vana curiosità? Certo non mi attirano più i teatri né mi curo di conoscere i passaggi degli astri, e mai l’anima mia ha cercato di conoscere i responsi delle ombre; detesto qualsiasi rito sacrilego. Ma quante macchinazioni non compie il nemico per suggestionarmi e spingermi a chiederti, Signore Dio mio, che devo servire in umiltà e semplicità, qualche segno! Ti supplico per il nostro Re, per la nostra semplice, pura patria, Gerusalemme, che il consenso a queste sollecitazioni, come è lontano da me oggi, così lo sia sempre, sempre più. Quando invece ti prego per la salute degli altri, il fine che mi propongo è ben diverso; perciò mi concedi e mi concederai di assecondare volentieri la tua opera, qualunque sia.

35. 57. Eppure chi può enumerare le moltissime miserie risibili che tentano ogni giorno la nostra curiosità, e le molte volte che cadiamo? Quanto spesso, partiti col tollerare un racconto futile per non offendere la debolezza altrui, a poco a poco vi tendiamo gradevolmente l’orecchio! Se non assisto più alle corse dei cani dietro la lepre nel circo, però in campagna, se vi passo per caso, mi distoglie forse anche da qualche riflessione grave e mi attira quella caccia; non mi costringe a deviare il corpo della mia cavalcatura, ma l’inclinazione del mio cuore sì; e se tu non mi ammonissi tosto con la mia già provata debolezza a staccarmi da quello spettacolo per elevarmi a te con altri pensieri, o a passare oltre sprezzantemente, resto là come un ebete vano. Che dico, se spesso mi attira, mentre siedo in casa, una tarantola che cattura le mosche, o un ragno che avvolge nelle sue reti gli insetti che vi incappano? Per il fatto che sono animali piccoli l’azione che si compie non è la medesima? Di là passo, sì, a lodare te, creatore mirabile, ordinatore di tutte le cose; ma non è questa la mia intenzione all’inizio. Altro è l’alzarsi prontamente, altro il non cadere. La mia vita pullula di episodi del genere, sicché l’unica mia speranza è la tua grandissima misericordia. Il nostro cuore diventa un covo di molti difetti di questo genere, porta dentro di sé fitte caterve di vanità, che spesso interrompono e disturbano le nostre stesse preghiere. Mentre sotto il tuo sguardo tentiamo di far giungere fino alle tue orecchie la voce del nostro cuore, l’irruzione, chissà da dove, di futili pensieri stronca un atto così grande.


Sotto il giogo di Dio

36. 58. Dovrò considerare anche questa un’inezia? No, nulla mi riporta alla speranza, oltre la tua misericordia. Poiché tu hai avviato la mia conversione e tu sai fino a che punto l’hai condotta. Dapprima mi guarisci dalla voluttà di giustificarmi, per poi divenire generoso anche verso tutti gli altri miei peccati, per guarire tutte le mie debolezze, per riscattare dalla corruzione la mia vita, per incoronarmi di commiserazione e misericordia, per saziare nei beni il mio desiderio. Ispirandomi il tuo timore soffocasti la mia superbia, rendesti mansueta la mia cervice al tuo giogo. Ora lo porto, e mi è lieve, secondo la tua promessa tradotta in realtà. Era tale certamente anche prima, e non lo sapevo, quando temevo di addossarmelo.


C) L’orgoglio:
a) gli uffici;

36. 59. Ma davvero, Signore, che sei il solo a signoreggiare senza burbanza, perché sei il solo vero Signore senza signori, davvero mi sono liberato anche da questo terzo genere di tentazione, se mai si può esserne liberati in tutta questa vita: ossia dal desiderio di farsi temere e amare dagli uomini senza altro motivo, se non di trarne un godimento che non è godimento? Misera vita, lurida iattanza. Di qui soprattutto deriva l’assenza di amore e timore innocente per te, e quindi tu resisti ai superbi, mentre agli umili accordi favore; tuoni sulle ambizioni mondane, e tutte tremano le fondamenta delle montagne. Certi impegni del consorzio umano ci costringono a farci amare e temere dagli uomini; quindi l’avversario della nostra vera felicità incalza e dissemina ovunque i lacci dei “Bravo, bravo, per prenderci a nostra insaputa mentre li raccogliamo con avidità, per staccare la nostra gioia dalla tua verità e attaccarla alla menzogna degli uomini, per farci gustare l’amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece, per averci, simili così a se stesso, con sé, non concordi nella carità, ma consorti nella pena. Decise di fissare la propria sede nell’aquilone, affinché gli uomini servissero questo tuo perverso e deforme imitatore in una gelida tenebra. Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge. Tienici dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse. Sii tu la nostra gloria. Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola. Chi vuole la lode degli uomini col tuo biasimo, non sarà difeso dagli uomini al tuo giudizio né sottratto alla tua condanna. Quando non si loda un peccatore per le brame della sua anima e non si benedirà un ingiusto, bensì si loda un uomo per qualche dono ricevuto da te, se costui si rallegra della lode più del possesso del dono per cui è lodato, anche costui è lodato con tuo biasimo, ed è migliore chi loda di chi è lodato. Al primo piacque in un uomo il dono di Dio, al secondo piacque maggiormente il dono di un uomo che di Dio.

b) le lodi degli uomini;

37. 60. Queste le tentazioni che ci tentano quotidianamente, Signore, ci tentano senza tregua. Un crogiuolo quotidiano è per noi la lingua degli uomini. Tu ci comandi la mortificazione anche a questo proposito. Ebbene, dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Conosci i gemiti del mio cuore a questo riguardo, e i fiumi dei miei occhi. Infatti non mi è facile capire fino a che punto io sia ben mondato da questa peste, e ho gran timore delle mie inclinazioni segrete, che i tuoi occhi conoscono, i miei invece no. Nelle altre specie di tentazioni riesco in una certa misura a esplorarmi; in questa quasi nulla. Vedo fino a che punto sia riuscito a contenere i piaceri della carne e le curiosità superflue del mio animo, allorché me ne privo volontariamente, o mi mancano: basta allora che m’interroghi per sapere quanto mi spiaccia non averli. E le ricchezze, che si cercano appunto per soddisfare uno di questi tre desideri o due o tutti, può essere che l’animo, finché le possiede, non riesca ad avvertire se le disprezza o meno; ma si può sempre licenziarle per metterlo alla prova. La lode invece, come privarsene per conoscere la nostra resistenza nei suoi confronti? Dovremmo forse condurre una vita malvagia, così perversa e disumana, che nessuno ci conosca senza detestarci? Si può dire o pensare follia maggiore? Se la lode suole e deve accompagnarsi a una vita onesta e ad opere oneste, non conviene abbandonare né la sua compagnia né la vita onesta. Però, per conoscere se l’assenza di un bene mi lascia indifferente o mi angustia, deve mancarmi.

37. 61. Cosa confessarti dunque, Signore, per questa specie di tentazione? Cos’altro, se non che mi compiaccio delle lodi? Però più della verità che delle lodi. Richiesto di scegliere fra uno stato di follia e di errori d’ogni genere, con la lode di tutti gli uomini, oppure di equilibrio e sicuro possesso della verità, con il biasimo di tutti, so quale scelta farei; però vorrei che l’approvazione di una bocca estranea non accrescesse neppure di poco il godimento che ogni bene mi procura. Invece, lo confesso, non solo l’approvazione lo accresce, ma il biasimo lo diminuisce. E mentre mi sento turbare da tanta miseria, s’insinua nella mia mente una giustificazione che tu sai, Dio, quanto vale; me, infatti, rende incerto. Tu ci hai comandato non solo la continenza, ossia di trattenerci dall’amore di alcune cose, ma anche la giustizia, ossia di concentrarlo su altre; e hai voluto che non amassimo soltanto te, ma anche il prossimo. Ora, sovente mi pare di rallegrarmi per i progressi o le buone speranze che rivela il mio prossimo, quando mi rallegro di una lode intelligente; di rattristarmi viceversa per il suo errore, quando lo sento biasimare ciò che ignora o è un bene. Talvolta infatti mi rattristo, anche, delle lodi che mi vengono tributate, quando si loda in me una cosa che spiace a me stesso, oppure si stimano più del dovuto certi beni secondari e futili. Ma anche qui, come posso sapere se questo sentimento non nasce dalla mia contrarietà, perché chi mi loda ha di me stesso un’opinione diversa dalla mia, e quindi se mi scuoto per il suo bene, anziché per il piacere maggiore che mi dànno le mie virtù se gradite, oltre che a me stesso, anche ad altri? In un certo senso non sono io lodato, quando la lode non corrisponde all’opinione che ho di me stesso, poiché allora si lodano cose che a me dispiacciono, o si lodano troppo cose che a me piacciono poco. Sono dunque incerto su me stesso per questo punto?

37. 62. Ma ecco che in te, Verità, vedo come le lodi che mi si tributano non debbano scuotermi per me stesso, ma per il bene del prossimo. Se io sia già da tanto, non lo so. Qui conosco me stesso meno di come conosco te. Ti scongiuro, Dio mio, di rivelarmi anche il mio animo, affinché possa confessare ai miei fratelli, da cui aspetto preghiere, le ferite che vi scoprirò. M’interrogherò di nuovo, con maggiore diligenza: se nelle lodi che mi vengono tributate è l’interesse del prossimo a scuotermi, perché mi scuote meno un biasimo ingiusto rivolto ad altri, che a me? perché sono più sensibile al morso dell’offesa scagliata contro di me, che contro altri, e ugualmente a torto, davanti a me? Ignoro anche questo? Non rimane che una risposta: io m’inganno da solo e non rispetto la verità davanti a te nel mio cuore e con la mia lingua. Allontana da me una simile follia, Signore, affinché la mia bocca non sia per me l’olio del peccatore per ungere il mio capo.

c) la vanagloria;

38. 63. Indigente e povero io sono; qualcosa di meglio, quando in un gemito segreto, disgustato di me stesso, cerco la tua misericordia. E così fino a quando io sia rifatto nei miei difetti e perfetto per la pace che l’occhio del presuntuoso ignora. Ma le parole che escono dalla nostra bocca, e le azioni che la gente viene a conoscere costituiscono una tentazione pericolosissima ad opera dell’amore di lodi, che, per ottenere una misera eccellenza personale, raccoglie consensi mendicati. È una tentazione che sussiste anche quando la disapprovo dentro di me, e proprio nell’atto di disappprovarla. Spesso per colmo di vanità ci si gloria del disprezzo stesso in cui si tiene la vanagloria: allora non ci si gloria più del disprezzo per la gloria, perché non la si disprezza, gloriandosi.

d) il compiacimento di se stesso.

39. 64. Dentro di noi, sì, dentro di noi sta un’altra tentazione maligna della stessa specie: quella che rende vani quanti si compiacciono di se medesimi, anche se non piacciono, o dispiacciono e non si preoccupano di piacere agli altri. Ma, per quanto piacciano a se medesimi, dispiacciono molto a te, non solo prendendo come bene ciò che non è bene, ma anche prendendo il bene tuo come loro; o, se anche come tuo, ottenuto però dai meriti loro; o, se anche come ottenuto dalla tua generosità, non però godendone in comunione con gli altri, ma tenendolo anzi gelosamente per sé. Fra tutti questi e altri simili pericoli e travagli vedi come trepida il mio cuore. Mi sembra più facile farmi guarire subito da te le mie ferite, che non infliggermele.

Conclusione

La dolce ricerca di Dio

40. 65. O Verità, dove non mi accompagnasti nel cammino, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti esponevo per quanto potevo le mie modeste vedute e ti chiede-vo consiglio? Percorsi con i sensi fin dove potei il mondo fuori di me, esaminai la vita mia, del mio corpo, e gli stessi miei sensi. Di lì entrai nei recessi della mia memoria, vastità molteplici colme in modi mirabili d’innumerevoli dovizie, li considerai sbigottito, né avrei potuto distinguervi nulla senza il tuo aiuto; e trovai che nessuna di queste cose eri tu. E neppure questa scoperta fu mia. Perlustrai ogni cosa, tentai di distinguerle, di valutarle ognuna secondo il proprio valore, quelle che ricevevo trasmesse dai sensi e interrogavo, come quelle che percepivo essendo fuse con me stesso. Investigai e classificai gli organi stessi che me le trasmettevano; infine entrai nei vasti depositi della memoria e rivoltai a lungo alcuni oggetti, lasciai altri sepolti e altri portai alla luce. Ma nemmeno la mia persona, impegnata in questo lavorio, o meglio, la stessa mia forza con cui lavoravo non erano te. Tu sei la luce permanente, che consultavo sull’esistenza, la natura, il valore di tutte le cose. Udivo i tuoi insegnamenti e i tuoi comandamenti. Spesso faccio questo, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi della stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto lì si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m’introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell’abitudine. Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice.


Verità e menzogna

41. 66. Perciò considerai le mie debolezze peccaminose sotto le tre forme della concupiscenza e invocai per la mia salvezza l’intervento della tua destra. Vidi, pur col cuore ferito, il tuo splendore e, abbagliato, dissi: “Chi può giungervi?”. Fui proiettato lontano dalla vista dei tuoi occhi. Tu sei la verità che regna su tutto, io nella mia avidità non volevo perderti, ma volevo possedere insieme a te la menzogna, come nessuno vuole raccontare il falso al punto d’ignorare egli stesso quale sia il vero. Così ti persi, poiché tu non accetti di essere posseduto insieme alla menzogna.


Falsi mediatori fra Dio e gli uomini

42. 67. Chi potevo trovare per riconciliarmi con te? Dovevo corteggiare gli angeli? e con quali preghiere, con quali riti? Molti, nel tentativo di ritornare a te, non riuscendovi da soli, mi si dice, provarono questa via e caddero nella bramosia delle apparizioni stravaganti, diventando a ragione dei visionari. Esaltati, che ti cercavano con l’orgoglio della scienza, gonfiandosi il petto, anziché batterlo; che attiravano a sé per affinità di sentimento le potenze dell’aria, complici e alleate della loro superbia, e si lasciavano ingannare dai loro poteri magici! Cercavano il mediatore che li purificasse, ma non era lui: era il diavolo, che si trasfigura in angelo di luce. Una forte attrattiva per la loro carne orgogliosa fu la circostanza che non possedeva un corpo di carne. Mortali e peccatori sono costoro; tu invece, Signore, con cui cercavano orgogliosamente di riconciliarsi, sei immortale e senza peccato. Il mediatore fra Dio e gli uomini doveva rassomigliare in qualche cosa a Dio, in qualche cosa rassomigliare agli uomini: simile in tutto agli uomini, sarebbe stato lontano da Dio; simile in tutto a Dio, sarebbe stato lontano dagli uomini; e così non sarebbe stato un mediatore. Il mediatore fallace da cui, nei tuoi misteriosi giudizi, lasci meritatamente illudere l’orgoglio, ha una cosa in comune con gli uomini, il peccato; un’altra vorrebbe far credere di avere in comune con Dio, atteggiandosi a immortale, poiché non è ricoperto di carne mortale. Ma poiché la morte è il compenso del peccato, ha in comune con gli uomini ciò, che lo condanna alla morte insieme con loro.


Il vero mediatore: Gesù Cristo

43. 68. Il mediatore autentico, che la tua misteriosa misericordia rivelò e mandò agli umili, affinché dal suo esempio imparassero proprio anche l’umiltà, questo mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, si presentò fra i peccatori mortali e il Giusto immortale, mortale come gli uomini, giusto come Dio, affinché, ricompensa della giustizia essendo la vita e la pace, per la giustizia, congiunta con Dio, abolisse la morte degli empi giustificati, che con loro volle condividere. È lui, che fu rivelato ai santi del tempo antico, affinché si salvassero credendo nella sua passione futura, come noi credendo nella sua passione passata. In quanto è uomo, in tanto è mediatore; in quanto Verbo invece non è mediano, poiché uguale a Dio, Dio presso Dio, e insieme a lui unico Dio.

43. 69. Quanto amasti noi, Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, consegnandolo agli empi per noi! Quanto amasti noi, per i quali egli, non giudicando un’usurpazione la sua uguaglianza con te, si fece suddito fino a morire in croce, lui, l’unico a essere libero fra i morti, avendo il potere di deporre la sua vita e avendo il potere di riprenderla, vittorioso e vittima per noi al tuo cospetto, e vittorioso in quanto vittima; sacerdote e sacrificio per noi al tuo cospetto, e sacerdote in quanto sacrificio; che ci rese, di servi, tuoi figli, nascendo da te e servendo a noi! A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze grazie a Chi siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell’uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi.

43. 70. Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, rinsaldandomi con queste parole: Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro. Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità: ammaestrami e guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza, mi riscattò col suo sangue. Gli orgogliosi non mi calunnino, se penso al mio riscatto, lo mangio, lo bevo e lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e saziano. Lodano il Signore coloro che lo cercano.

Libro undicesimo

MEDITAZIONE SUL PRIMO VERSETTO DELLA GENESI: “In principio Dio creò...


Introduzione

Scopo della confessione a Dio

1. 1. Ignori forse, Signore, per essere tua l’eternità, ciò che ti dico, o vedi per il tempo ciò che avviene nel tempo? Perché dunque ti faccio un racconto particolareggiato di tanti avvenimenti? Non certo perché tu li apprenda da me. Piuttosto eccito in me e in chi li leggerà l’amore verso la tua persona. Tutti dovremo dire: “È grande il Signore e ben degno di lode”. Già lo dissi e lo dirò di nuovo: per amore del tuo amore m’induco a tanto. Noi preghiamo, certo; però la Verità dice: “Il Padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate”. Confessandoti dunque le nostre miserie e le tue misericordie su di noi, noi manifestiamo i nostri sentimenti verso di te, affinché tu possa completare la nostra liberazione già da te iniziata: affinché noi cessiamo di essere infelici in noi e ci rallegriamo in te che ci chiamasti a essere poveri nello spirito, e miti e piangenti, e affamati e assetati di giustizia, e misericordiosi e mondi in cuore, e pacifici. Ecco dunque ch’io ti narrai molti fatti, come potei e volli. Il primo a volere che mi confessassi a te, Signore Dio mio, poiché sei buono, poiché la tua misericordia è eterna, fosti tu.


Un nuovo proposito

2. 2. Ma quando mai riuscirò con la lingua della mia penna a elencare tutti i tuoi incitamenti e tutte le tue intimidazioni e le consolazioni e le direttive, con cui mi conducesti a predicare la tua parola e a dispensare il tuo sacramento al tuo popolo? Se anche riuscissi a farne un elenco ordinato, troppo preziose per me sono le gocce del tempo. Da molto mi riarde il desiderio di meditare la tua legge, di confessarti la mia conoscenza e la mia ignoranza in proposito, le prime luci della tua illuminazione e i residui delle mie tenebre, fino a quando la mia debolezza sia inghiottita dalla tua forza. Non voglio disperdere altrimenti le ore che mi ritrovo libere dal ristoro indispensabile del corpo, dalle applicazioni dello spirito e dai servizi che dobbiamo ai nostri simili, o che non dobbiamo, ma ugualmente rendiamo.


Preghiera a Dio

2. 3. Signore Dio mio, presta ascolto alla mia preghiera; la tua misericordia esaudisca il mio desiderio, che non arde per me solo, ma vuole anche servire alla mia carità per i fratelli. Tu vedi nel mio cuore che è così. Lascia che ti offra in sacrificio il servizio del mio pensiero e della mia parola, e prestami la materia della mia offerta a te. Sono misero e povero, tu ricco per tutti coloro che ti invocano, tu senza affanni, che ti affanni per noi. Recidi tutt’intorno alle mie labbra, dentro e fuori, ogni temerità e ogni menzogna. Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch’io non m’inganni su di esse, né inganni gli altri con esse. Signore, guarda e abbi pietà, Signore. Dio mio, luce dei ciechi e virtù dei deboli, e tosto luce dei veggenti e virtù dei forti; volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall’abisso. Se non fossero presenti anche nell’abisso le tue orecchie, dove ci volgeremo? a chi grideremo? Tuo è il giorno e tua la notte, al tuo cenno trasvolano gli istanti. Concedimene un tratto per le mie meditazioni sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa. Non senza uno scopo, certo, facesti scrivere tante pagine di fitto mistero; né mancano, quelle foreste, dei loro cervi, che vi si rifugiano e ristorano, vi spaziano e pascolano, vi si adagiano e ruminano. O Signore, compi la tua opera in me, rivelandomele. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce una voluttà superiore a tutte le altre. Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Ti confesserò quanto scoprirò nei tuoi libri. Oh, udire la voce della tua lode, abbeverarsi di te, contemplare le meraviglie della tua legge fin dall’inizio, quando creasti il cielo e la terra, e fino al regno eterno con te nella tua santa città.

2. 4. Signore, abbi pietà di me ed esaudisci il mio desiderio. Non credo sia desiderio di cose terrene, di oro e argento e pietre preziose, o di vesti fastose, o di onori e potere, o di piaceri carnali, o di beni necessari al corpo durante il nostro pellegrinaggio in questa vita. Tutte queste cose ci vengono date in aggiunta, se cerchiamo il tuo regno e la tua giustizia. Vedi, Dio, ove s’ispira il mio desiderio. Gli empi mi hanno descritto le loro voluttà, difformi però dalla tua legge, Signore, e a questa s’ispira il mio desiderio. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi favore presso di te, affinché si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso. Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo, figlio tuo, eroe della tua destra, figlio dell’uomo, che stabilisti per te mediatore fra te e noi, per mezzo del quale ci cercasti mentre non ti cercavamo, e ci cercasti affinché ti cercassimo; il tuo Verbo, con cui creasti l’universo, e in esso me pure; il tuo unigenito, per mezzo del quale chiamasti all’adozione il popolo dei credenti, e fra esso me pure. Per lui ti scongiuro, che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza. Questi tesori appunto cerco nei tuoi libri. Mosè ne scrisse, egli stesso lo afferma, lo afferma la Verità.

La Parola creatrice di Dio

Ricorso a Dio per comprendere le Scritture

3. 5. Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole, presterei le orecchie del mio corpo ai suoni sgorganti dalla sua bocca. Se parlasse in ebraico, invano busserebbe ai miei sensi e nulla di lì giungerebbe alla mia mente. Se invece in latino, saprei che dice; ma come saprei se dice il vero? E anche se lo sapessi, da lui lo saprei? Dentro di me piuttosto, nell’intima dimora del pensiero la verità, non ebraica né greca né latina né barbara, mi direbbe, senza strumenti di bocca e di lingua, senza suono di sillabe: “Dice il vero”. E io subito direi sicuro, fiduciosamente a quel tuo uomo: “Dici il vero”. Invece non lo posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità, Dio mio, da cui era pervaso quando disse cose vere; mi rivolgo a te: perdona i miei peccati. E tu, che concedesti al tuo servo di enunciare questi veri, concedi anche a me di capirli.


Esistenza e creazione del mondo

4. 6. Ecco che il cielo e la terra esistono, proclamano con i loro mutamenti e variazioni la propria creazione. Ma tutto ciò che non è stato creato e tuttavia esiste, nulla ha in sé che non esistesse anche prima, poiché questo sarebbe un mutamento e una variazione. Ancora proclamano di non essersi creati da sé: “Esistiamo, per essere stati creati. Dunque non esistevamo prima di esistere, per poterci creare da noi”. La voce con cui parlano è la loro stessa evidenza. Tu dunque, Signore, li creasti, tu che sei bello, poiché sono belli; che sei buono, poiché sono buoni; che sei, poiché sono. Non sono così belli, né sono così buoni, né sono così come tu, loro creatore, al cui confronto non sono belli, né son buoni, né sono. Lo sappiamo, e ne siano rese grazie a te, sebbene il nostro sapere paragonato al tuo sia un ignorare.


Attività umana e creazione divina

5. 7. Ma come creasti il cielo e la terra? quale strumento impiegasti per un’operazione così grande? Non ti accadde certamente come a un uomo, che, artista, riproduce in un corpo le forme di un altro corpo seguendo i cenni dello spirito, capace d’imporre entro certi limiti le immagini che vede dentro di sé con l’occhio interiore: e come sarebbe capace di tanto, se non per essere stato creato da te? Lo spirito impone le sue immagini su qualcosa che già esiste e possiede quanto basta per esistere, come la terra o la pietra o il legno o l’oro o qualsiasi altro materiale di tale genere. Ora, fuori dalla tua azione, da dove potrebbero derivare queste materie? Tu desti all’artista un corpo, tu uno spirito, che comanda le membra, tu la materia, con cui attua l’opera, tu l’ingegno, con cui acquistare l’arte e vedere dentro ciò che attuerà fuori di sé; tu i sensi del corpo, per il cui mezzo trasferire dallo spirito alla materia l’opera e ragguagliare poi lo spirito sulla sua attuazione, affinché quest’ultimo consulti in se stesso la verità che lo governa, sulla bontà dell’opera attuata. Tutte queste cose ti lodano come creatore di tutte le cose. Ma tu come le crei? come creasti, o Dio, il cielo e la terra? Non certo in cielo e in terra creasti il cielo e la terra; nemmeno nell’aria o nell’acqua, che pure appartengono al cielo e alla terra. Nemmeno creasti l’universo nell’universo, non esistendo lo spazio ove crearlo, prima di crearlo perché esistesse. Né avevi fra mano un elemento da cui trarre cielo e terra: perché da dove lo avresti preso, se non fosse stato creato da te, per crearne altri? ed esiste qualcosa, se non perché esisti tu? Dunque tu parlasti, e le cose furono create; con la tua parola le creasti.


Parola umana e Verbo divino

6. 8. Ma come parlasti? Forse così, come uscì la voce dalla nube e disse: “Questo è il Figlio mio diletto”? Fu, quella, una voce che si produsse e svanì, ebbe un principio e una fine; le sue sillabe risuonarono e trapassarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda e così via, ordinatamente, fino all’ultima dopo tutte le altre, e al silenzio dopo l’ultima. Ne risulta chiaramente che venne prodotta dal moto di una cosa creata, ministra temporale della tua verità eterna; e queste tue parole formate temporaneamente furono trasmesse dall’orecchio esteriore alla ragione intelligente, il cui orecchio interiore è accostato alla tua parola eterna. Ma la ragione, confrontando queste parole risuonate nel tempo, con la tua parola silenziosa nell’eternità, disse: “È cosa assai diversa, assai diversa. Queste parole sono assai più in basso di me, anzi neppure sono, poiché fuggono e passano. La parola del mio Dio invece permane sopra di me eternamente “. Se dunque con parole sonore e passeggere ti esprimesti per creare il cielo e la terra, e così creasti il cielo e la terra, esisteva già prima del cielo e della terra una creatura corporea, i cui movimenti, avvenendo nel tempo, trasmettevano temporaneamente quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o, se esisteva, l’avevi creato certamente senza una voce passeggera, per trarne una voce passeggera con cui dire che fossero creati il cielo e la terra. Qualunque fosse l’elemento necessario a formare una tale voce, non sarebbe affatto esistito fuori dalla tua creazione; ma per creare il corpo necessario a tali parole, con quali parole avresti parlato?


Eternità del Verbo

7. 9. Così ci chiami a comprendere il Verbo, Dio presso te Dio, proclamato per tutta l’eternità e con cui tutte le cose sono proclamate per tutta l’eternità. In esso non finiscono i suoni pronunciati, né altri se ne pronunciano perché tutti possano essere pronunciati, ma tutti insieme ed eternamente sono pronunciati. In caso diverso vi si troverebbe già il tempo, e mutamenti, e non vi sarebbe vera eternità né vera immortalità. Lo so, Dio mio, e ti ringrazio; lo so, te lo confesso, Signore, e lo sa con me, e ti benedice, chiunque non è ingrato verso la verità sicura. Noi sappiamo, Signore, sì, sappiamo che una cosa muore e nasce in quanto cessa di essere ciò che era, e comincia a essere ciò che non era. Nulla dunque nella tua parola scompare o appare, poiché davvero è immortale ed eterna. Con questa parola coeterna con te enunci tutto assieme e per tutta l’eternità ciò che dici, e si crea tutto ciò di cui enunci la creazione. Non in altro modo, se non con la parola, tu crei; ma non per questo si creano tutte assieme e per tutta l’eternità le cose che con la parola crei.


Il Verbo nel tempo

8. 10. Perché ciò, di grazia, Signore Dio mio? Lo vedo in qualche modo, ma come esprimerlo non so. Forse così: ogni essere che comincia e finisce, comincia e finisce quando la tua ragione eterna riconosce che doveva cominciare o finire, la tua ragione, ove nulla comincia né finisce. Questa ragione appunto è il tuo Verbo, che è anche il principio, perché anche ci parla. Parlò nel Vangelo mediante la carne e risuonò esteriormente alle orecchie degli uomini, affinché credessero in lui e lo cercassero in sé e lo trovassero nella verità eterna, ove il buono e unico Maestro istruisce tutti i suoi discepoli. Ivi odo la tua voce, Signore, la quale mi dice che chi ci parla ci istruisce, chi non ci istruisce, per quanto parli, non ci parla. Ora, chi ci istruisce, se non la verità immutabile? Anche quando siamo ammoniti da una creatura mutabile, siamo condotti alla verità immutabile, ove davvero impariamo, ascoltando immoti. Ci prende la gioia alla voce dello sposo, che ci restituisce a Colui da cui veniamo. Perciò è il principio. Se non fosse stabile, mentre noi erriamo, non avremmo dove ritornare. Invece quando torniamo dai nostri errori, torniamo appunto perché conosciamo, e conosciamo perché lui ci insegna, in quanto è il Principio e ci parla.


Il lume della Sapienza

9. 11. In questo principio, o Dio, creasti il cielo e la terra: cioè nel tuo Verbo, nel tuo figlio, nella tua virtù, nella tua sapienza, nella tua verità, con una parola straordinaria compiendo un atto straordinario. Chi potrà comprenderlo? chi descriverlo? Cos’è, che traspare fino a me e mi colpisce il cuore senza ferirlo? Timore e ardore mi scuotono: timore, per quanto ne sono dissimile; ardore, per quanto ne sono simile. La Sapienza, la vera Sapienza traspare fino a me, squarciando le mie nubi, che mi ricoprono, quando nuovamente mi allontano da lei, entro l’alta foschia del mio castigo. Il mio vigore si è indebolito nell’indigenza tanto da non poter tollerare il mio bene; finché tu, Signore, divenuto benigno verso tutte le mie malvagità, guarisca ancora tutte le mie debolezze. Riscatterai dalla corruzione la mia vita, m’incoronerai di commiserazione e misericordia, sazierai nei beni il mio desiderio, perché la mia giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila. Nella speranza fummo salvati e con pazienza attendiamo le tue promesse. Chi può, ascolti la tua parola dentro di sé; io fiducioso griderò col tuo oracolo: “Quale magnificenza, Signore, le tue opere; tu creasti tutto nella tua sapienza”. Essa è il principio, e in quel principio creasti il cielo e la terra.

Il tempo

Un’obiezione

10. 12. Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono: “Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall’operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un’eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v’era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura?”.


Tempo ed eternità

11. 13. Quanti parlano così non ti comprendono ancora, o sapienza di Dio, luce delle menti. Non comprendono ancora come nasce ciò che nasce da te e in te. Vorrebbero conoscere l’eterno, ma la loro mente volteggia ancora vanamente nel flusso del passato e del futuro. Chi la tratterrà e la fisserà, affinché, stabile per un poco, colga per un poco lo splendore dell’eternità sempre stabile, la confronti con il tempo mai stabile, e veda come non si possa istituire un confronto, come il tempo dura per il passaggio di molte brevi durate, che non possono svolgersi simultaneamente, mentre nell’eternità nulla passa, ma tutto è presente, a differenza del tempo, mai tutto presente; come il passato sia sempre sospinto dal futuro, e il futuro segua sempre al passato, e passato e futuro nascano e fluiscano sempre da Colui che è l’eterno presente? Chi tratterrà la mente dell’uomo, affinché si stabilisca e veda come l’eternità stabile, non futura né presente, determini futuro e presente? Sarebbe la mia mano capace di tanto, o la mano della mia bocca produrrebbe con parole un effetto così grande?


Risposte: - Dio non faceva alcunché;

12. 14. Ecco come rispondo a chi chiede: “Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra “. Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose, eludendo con una facezia l’insidiosità della domanda: “Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi”. Altro è capire, altro è schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: “Non so ciò che non so”, anziché in modo d’attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se col nome di cielo e terra s’intende ogni cosa creata, arditamente dico: “Dio, prima di fare il cielo e la terra, non faceva alcunché”. Infatti, se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se io sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima creatura!


- non v’è tempo senza creazione.

13. 15. Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l’iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra, non si può dire che ti astenevi dall’operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo.


L’eternità divina superiore ai tempi

13. 16. Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Altrimenti non li precederesti tutti. E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente; superi tutti i futuri, perché ora sono futuri, e dopo giunti saranno passati. Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai. I tuoi anni non vanno né vengono; invece questi, i nostri, vanno e vengono, affinché tutti possano venire. I tuoi anni sono tutti insieme, perché sono stabili; non se ne vanno, eliminati dai venienti, perché non passano. Invece questi, i nostri, saranno tutti quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: “Oggi ti generai”. Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo.


Il concetto di tempo

14. 17. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.


La durata del passato e del futuro

15. 18. Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendosi soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere.


La durata del presente

15. 19. Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell’unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l’anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l’ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri.

15. 20. Ecco cos’è il tempo presente, l’unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentatamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l’ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest’unica ora si svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione. Dove trovare allora un tempo che possiamo definire lungo? Il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, poiché non è ancora, per poter essere lungo; bensì diciamo che sarà lungo. Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, non essendovi ancora nulla, che possa essere lungo; se sarà lungo allora, quando da futuro ancora inesistente sarà già cominciato ad essere e sarà diventato presente, così da poter essere qualcosa di lungo, con le parole or ora riferite il tempo presente grida di non poter essere lungo.


La misurazione del tempo

16. 21. Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è.


L’esistenza del passato e del futuro

17. 22. Io cerco, Padre, non affermo. Dio mio, vigilami e guidami. Chi vorrà dirmi che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e insegnato ai bambini, ossia il passato, il presente e il futuro, ma che vi è solo il presente, poiché gli altri due non sono? O forse anche gli altri due sono, però il presente esce da un luogo occulto, allorché da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato? In verità, chi predisse il futuro, dove lo vide, se il futuro non è ancora? Non si può vedere ciò che non è. Così chi narra il passato, non narrerebbe certamente il vero, se non lo vedesse con l’immaginazione. Ma se il passato non fosse affatto, non potrebbe in nessun modo essere visto. Bisogna concludere che tanto il futuro quanto il passato sono.


Presenza del passato e del futuro

18. 23. Lasciami estendere, o Signore, la mia ricerca, tu, speranza mia. Fa’ che nulla disturbi il mio sforzo. Se il futuro e passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Nel narrare fatti veri del passato, non si estrae già dalla memoria la realtà dei fatti, che sono passati, ma le parole generate dalle loro immagini, quasi orme da essi impresse nel nostro animo mediante i sensi al loro passaggio. Così la mia infanzia, che non è più, è in un tempo passato, che non è più; ma quando la rievoco e ne parlo, vedo la sua immagine nel tempo presente, poiché sussiste ancora nella mia memoria. Se sia analogo anche il caso dei fatti futuri che vengono predetti, se cioè si presentano come già esistenti le immagini di cose ancora inesistenti, confesso, Dio mio, di non saperlo. So però questo, che sovente premeditiamo i nostri atti futuri, e che tale meditazione è presente, mentre non lo è ancora l’atto premeditato, poiché futuro. Solo quando l’avremo intrapreso, quando avremo incominciato ad attuare il premeditato, allora esisterà l’atto, poiché allora non sarà futuro, ma presente.


La predizione del futuro

18. 24. Qualunque sia la natura di questo arcano presentimento del futuro, certo non si può vedere se non ciò che è. Ora, ciò che è, non è futuro, ma presente, e così, allorché si dice di vedere il futuro, non si vedono le cose, ancora inesistenti, cioè future, ma forse le loro cause o i segni, già esistenti. Perciò si vedono non cose future, ma cose già presenti al veggente, che fanno predire le future immaginandole con la mente. Queste immaginazioni a loro volta già esistono, e chi predice le vede presenti innanzi a sé. Mi suggerisca qualche esempio l’innumerevole massa dei fatti. Se osservo l’aurora, preannuncio la levata del sole. L’oggetto della mia osservazione è presente; quello della mia predizione, futuro: non futuro il sole, che esiste già, ma la sua levata, che non esiste ancora. Però non potrei predire nemmeno la levata senza immaginarla dentro di me come ora che ne parlo. Eppure né l’aurora che vedo in cielo è la levata del sole, quantunque la preceda, né lo è l’immagine nel mio animo: queste due cose si vedono presenti, per poter definire in anticipo quell’evento futuro. Dunque il futuro non esiste ancora, e se non esiste ancora, non si può per nulla vedere; però si può predire sulla scorta del presente, che già esiste e si può vedere.


Il mistero della profezia

19. 25. Quindi tu, che sei il re del tuo creato, in che modo insegni alle anime il futuro? L’hai pure insegnato ai tuoi profeti. In che modo insegni il futuro, se per te nulla è futuro? O meglio, in che modo insegni le cose presenti che riguardano le future? Ciò che non è, non si può evidentemente insegnare. Il tuo procedimento qui è troppo lontano dalla mia vista, ha superato le mie forze, non vi potrò giungere; ma potrò con le tue, quando lo concederai tu, dolce lume dei miei occhi occulti.


Un’inesattezza del linguaggio corrente

20. 26. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire.


Misurazione di spazi di tempo

21. 27. Dissi poc’anzi che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo passaggio. Se mi si chiedesse: “Come lo sai?”, risponderei: “Lo so perché misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né il passato né il futuro”. Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa? Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa? Ma ciò che non è più, non si misura.


Supplica a Dio

22. 28. Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s’illuminino al lume della tua misericordia, Signore. Chi interpellare su questi argomenti, a chi confessare la mia ignoranza più vantaggiosamente che a te, cui non è sgradito il mio studio ardente, impetuoso delle tue Scritture? Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Dammi, o Padre, che davvero sai dare ai tuoi figli doni buoni; dammi, poiché mi sono proposto di conoscere e mi attende un lavoro faticoso, finché tu mi schiuda la porta. Per Cristo ti supplico, in nome di quel santo dei santi nessuno mi disturbi. Anch’io ho creduto, perciò anche parlo. Questa è la mia speranza, per questa vivo: di contemplare le delizie del Signore. Ecco, tu hai stabilito i miei giorni decrepiti, ed essi passano, e non so come. Noi parliamo di tempo e tempo, di tempi e tempi. “Quanto tempo fa lo disse!”, “Quanto tempo fa lo fece!”, e: “Da quanto tempo non lo vedo!”, e: “Questa sillaba ha una durata di tempo doppia di quell’altra, breve”: così diciamo e udiamo, così ci facciamo comprendere e comprendiamo. Sono espressioni chiarissime, usatissime; eppure sono estremamente oscure, e astrusa è la loro spiegazione.


Il tempo e il movimento

23. 29. Ho udito dire da una persona istruita che il tempo è, di per sé, il moto del sole, della luna e degli astri; e non assentii. Perché il tempo non sarebbe piuttosto il moto di tutti i corpi? Qualora si arrestassero gli astri del cielo, e si muovesse la ruota del vasaio, non esisterebbe più il tempo per misurarne i giri e poter dire che hanno durate uguali, oppure, se si svolgono ora più lenti, ora più veloci, che gli uni sono più lunghi, gli altri meno? E ciò dicendo, non parleremmo noi stessi nel tempo? e non vi sarebbero nelle nostre parole sillabe lunghe e brevi per la sola ragione che le prime risuonarono per un tempo più lungo, le seconde più breve? O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà. Esistono astri e lumi del cielo quali segni delle stagioni, dei giorni e degli anni, esistono, è vero; ma come io non oserei affermare che la rivoluzione di quella rotella di legno sia il giorno, neppure quel saggio oserà dire che perciò non sia un tempo.

23. 30. Io desidero conoscere il valore e la natura del tempo, lo strumento con cui misuriamo i movimenti del corpo e diciamo che uno di essi è per esempio lungo il doppio di un altro. Questo cerco di sapere: si dà nome di giorno non solo al periodo in cui il sole permane sopra la terra, secondo il quale si distingue il giorno dalla notte, ma anche all’intera rotazione che il sole compie da oriente a oriente, secondo la quale si dice: “Passarono tanti giorni”, designando con i giorni anche le notti rispettive, che non si considerano a parte; ebbene, poiché il giorno si completa col movimento rotatorio del sole da oriente a oriente, io cerco di sapere se il giorno è il movimento stesso, oppure il periodo in cui si compie, oppure l’una cosa e l’altra. Se il giorno fosse il movimento del sole, avremmo un giorno anche quando il sole compisse quel suo corso nello spazio di tempo di un’ora; se fosse il periodo in cui si compie, non vi sarebbe giorno quando l’intervallo fra una levata e l’altra del sole fosse breve come quello di un’ora sola, ma il sole dovrebbe effettuare la sua rotazione ventiquattro volte per colmare un giorno intero; se fosse l’uno e l’altro, non si potrebbe parlare di giorno né quando il sole percorresse tutto il suo giro nello spazio di un’ora, né quando passasse tanto tempo col sole fermo, quanto ne impiega abitualmente il sole a compiere l’intero circuito da mattino a mattino. Quindi ora non cercherò più di sapere cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma cosa sia il tempo, con cui misuriamo la rotazione del sole, per il quale diremmo che la compì nella metà dello spazio di tempo abituale, qualora l’avesse compiuta nello spazio di tempo in cui si compiono dodici ore; e diremmo, confrontando queste due durate, che la seconda è semplice, la prima doppia, anche qualora la rotazione del sole da oriente a oriente avesse talvolta quella durata semplice, talvolta questa doppia. Dunque non mi si dica che il tempo è il movimento dei corpi celesti. Quando il sole si fermò all’appello di un uomo per dargli modo di concludere una battaglia vittoriosa, il sole era fermo, ma il tempo procedeva, tant’è vero che la battaglia fu condotta e finita nello spazio di tempo ad essa sufficiente. Vedo dunque che il tempo è in qualche modo un’estensione. Ma vedo veramente, o mi vedo vedere? Tu me lo chiarirai, o Luce, o Verità.


Il tempo misura del movimento

24. 31. Mi comandi di approvare chi dicesse che il tempo è il movimento di un corpo? No certo. Nessun corpo si muove fuori dal tempo; questo lo intendo: tu lo dici. Ma che il movimento stesso del corpo sia il tempo, questo non lo intendo: tu non lo dici. Di un corpo che si muove, misuro col tempo la durata del movimento, da quando inizia a quando finisce. Se non ho visto quando iniziò, e continua a muoversi di modo che non vedo quando finisce, mi è impossibile misurarlo, a meno di misurarlo da quando inizio a quando finisco di vederlo. Vedendolo a lungo, riferisco soltanto che è un tempo lungo, senza riferire quanto, poiché, per dire anche quanto, facciamo un confronto, ad esempio: “Questo è quanto quello”, oppure: “Questo è doppio di quello”, e così via. Se invece avremo potuto rilevare nello spazio il punto da cui è partito e il punto in cui arriva un corpo in movimento, oppure le sue parti, qualora si muova come un tornio, possiamo dire in quanto tempo si è effettuato il movimento del corpo o di una sua parte da un punto a un altro. Il movimento del corpo è dunque cosa distinta dalla misura della sua durata. E chi non capisce ormai a quale delle due nozioni conviene dare il nome di tempo? Infatti, se anche un corpo alternamente si muove e sta fermo, noi misuriamo col tempo non soltanto il suo movimento, ma anche la stasi. Diciamo: “Stette fermo tanto, quanto si mosse”, oppure: “Stette fermo due, tre volte più di quanto si mosse”; oppure indichiamo altri rapporti, misurati con precisione o a stima, più o meno, come si suol dire. Dunque il tempo non è il movimento dei corpi.


Confessione e invocazione

25. 32. Ti confesso, Signore, d’ignorare tuttora cosa sia il tempo; d’altra parte ti confesso, Signore, di sapere che pronuncio queste parole nel tempo; che da molto ormai sto parlando del tempo, e che proprio questo molto non lo è per altro, che per la durata del tempo. Ma come faccio a saperlo, se ignoro cosa sia il tempo? O chissà, non so esprimere ciò che so? Ahimè, ignoro persino cosa ignoro. Ecco, Dio mio, davanti a te che non mento: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre.


Il tempo misurato col tempo

26. 33. Non è veritiera la confessione della mia anima, quando ti confessa che misuro il tempo? Dunque, Dio mio, io misuro e non so cosa misuro. Misuro il movimento di un corpo per mezzo del tempo, ma non misuro ugualmente anche il tempo? Potrei misurare il movimento di un corpo, la sua durata, la durata del suo spostamento da un luogo all’altro, se non misurassi il tempo in cui si muove? Ma questo tempo con che lo misuro? Si misura un tempo più lungo con un tempo più breve come con la dimensione di un cubito quella di un trave? Così ci vedono misurare la dimensione di una sillaba lunga con quella di una breve, e dirla doppia; così misuriamo la dimensione dei poemi con la dimensione dei versi, e la dimensione dei versi con la dimensione dei piedi, e la dimensione dei piedi con la dimensione delle sillabe, e la dimensione delle sillabe lunghe con quella delle brevi: non sulle pagine, perché così misuriamo spazi e non tempi, ma al passaggio delle parole, mentre vengono pronunciate. Diciamo: “È un poema lungo, infatti si compone di tanti versi; versi lunghi, infatti constano di tanti piedi; piedi lunghi, infatti si estendono per tante sillabe. E una sillaba lunga, infatti è doppia della breve”. Ma neppure così si definisce una misura costante di tempo, poiché un verso più breve può essere fatto risuonare, strascicandolo, per uno spazio di tempo maggiore di uno più lungo, che venga affrettato. La stessa cosa può avvenire di un poema, e di un piede, e di una sillaba. Ne ho tratto l’opinione che il tempo non sia se non un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe sorprendente, se non fosse un’estensione dello spirito stesso. Perché, cosa misuro, di grazia, Dio mio, quando affermo o imprecisamente: “Questo tempo è più lungo di quello”, o anche precisamente: “È doppio di quello”? Misuro il tempo, lo so; ma non misuro il futuro, perché non è ancora; né misuro il presente, perché non ha estensione alcuna; né misuro il passato, perché non è più. Cosa misuro dunque? Forse i tempi al loro passaggio, non passati? È quanto dissi.


Difficoltà nella misurazione del tempo

27. 34. Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea, cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è già tornato il silenzio, la voce è passata, non c’è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla, perché non era ancora, come non si può ora, perché non è più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era, in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando ancora: non si può misurarla, se non partendo dall’inizio della sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare, e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine; quindi una voce non ancora finita non può essere misurata, non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale a un’altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a un’altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo misuriamo, il tempo.

27. 35. Deus creator omnium: in questo verso si alternano otto sillabe brevi e lunghe: le quattro brevi, cioè la prima, terza, quinta e settima, semplici rispetto alle quattro lunghe, cioè la seconda, quarta, sesta e ottava. Di queste ultime ognuna dura un tempo doppio rispetto a ognuna delle prime, come annuncio mentre le pronuncio, e come è, secondo che ci fanno intendere manifestamente i sensi. Come manifestano i sensi, io misuro la sillaba lunga mediante la breve, sentendo che la lunga ha una durata doppia della breve. Ma una sillaba risuona dopo un’altra; se prima è la breve, la lunga dopo, come trattenere la breve? e come applicarla sulla lunga per misurarla e trovare così che ha una durata doppia, se la lunga comincia a risuonare soltanto quando la breve cessò di risuonare? e la stessa sillaba lunga la misuro quando è presente, mentre non la misuro che finita? Ma quando è finita è passata. Cosa misuro dunque? Dov’è la breve, che uso per misurare? dov’è la lunga, che devo misurare? Entrambe risuonarono, svanirono, passarono, non sono più. Eppure io misuro e rispondo, con tutta la fiducia che si ha in un senso esercitato, che una è semplice, l’altra doppia, in estensione temporale, s’intende: cosa che posso fare solo in quanto sono passate e finite. Dunque non misuro già le sillabe in sé, che non sono più, ma qualcosa nella mia memoria, che resta infisso.


Nello spirito la misura del tempo

27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.


Attesa, attenzione, memoria

28. 37. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l’esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria? Così l’oggetto dell’attesa fatto oggetto dell’attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l’attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l’attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.

28. 38. Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell’inizio la mia attesa si protende verso l’intera canzone; dopo l’inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L’energia vitale dell’azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l’attesa, per ciò che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l’attesa e si prolunga la memoria, finché tutta l’attesa si esaurisce, quando l’azione è finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come pure per un’azione più lunga, di cui la canzone non fosse che una particella; per l’intera vita dell’uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell’uomo; e infine per l’intera storia dei figli degli uomini, di cui sono parti tutte le vite degli uomini.

Conclusione

Dispersione nel tempo e confluenza nell’eterno

29. 39. Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell’uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l’Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te.


Esistenza di Dio prima di tutti i tempi

30. 40. Allora mi stabilizzerò e consoliderò in te nella mia forma, la tua verità. Non subirò più le domande di chi, per una malattia condannabile desideroso di bere più di quanto non comprenda, chiede: “Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra?”, oppure: “Come gli venne l’idea di fare qualcosa, mentre prima non aveva fatto mai nulla?”. Concedi loro, Signore, di riflettere bene a come parlano, e di scoprire che non si parla di un mai là dove non esiste tempo. Dire: “Non aveva fatto mai nulla”, non equivale forse a dire che non aveva fatto nulla in nessun tempo? Comprendano quindi che non esiste alcun tempo senza creato, e cessino di dire vanità come queste. Volgano la loro attenzione anche verso le cose che stanno innanzi, e capiscano che tu sei prima di tutti i tempi, eterno creatore di tutti i tempi; che nessun tempo è coeterno con te, come anche nessuna creatura, sebbene ve ne siano di superiori al tempo.


Scienza umana e divina

31. 41. Signore Dio mio, quale abisso il tuo profondo segreto, e come me ne hanno gettato lontano le conseguenze dei miei peccati! Guarisci i miei occhi, e parteciperò alla gioia della tua luce. Certo, se esistesse uno spirito di scienza e prescienza così potente da conoscere tutto il passato e il futuro come io una canzone delle più conosciute, susciterebbe, questo spirito, meraviglia e quasi sacro terrore, poiché nulla gli sfuggirebbe sia delle età già concluse, sia di quelle che rimangono: come a me che canto non sfugge sia la parte della canzone già passata dopo l’esordio, sia quella che resta fino alla fine. Lontana, lontana invece l’idea che, creatore dell’universo, creatore delle anime e dei corpi, tu così conosci tutto il futuro e il passato! Tu assai, assai più mirabilmente e assai più misteriosamente. A chi canta o ascolta una canzone conosciuta, l’attesa delle note future e il ricordo delle passate modifica il sentimento e tende il senso. Nulla di simile accade a te, immutabilmente eterno, ossia davvero eterno creatore delle menti. Come conoscesti in principio il cielo e la terra senza modificazione della tua conoscenza, così creasti in principio il cielo e la terra senza tensione della tua attività. Chi lo capisce ti confessi, e anche chi non lo capisce ti confessi. Oh, quanto sei elevato! Eppure quanti si abbassano in cuore sono la tua casa. Tu infatti sollevi gli abbattuti, e non cadono quanti hanno in te la loro elevatezza.

Libro dodicesimo

MEDITAZIONE SUL PRIMO VERSETTO DELLA GENESI: “...il cielo e la terra”


Materia e Spirito

Difficoltà e conforto

1. 1. Quante cose vorrebbe sapere il mio cuore colpito, Signore, nella grande povertà della mia vita, dalle parole della tua santa Scrittura! In genere l’esiguità della comprensione umana abbonda in parole, poiché la ricerca è più loquace del ritrovamento, la domanda più lunga del conseguimento, e la mano più impegnata a bussare che a prendere. Ma noi abbiamo la tua promessa, e chi potrà infirmarla? - se Dio è per noi, chi contro di noi? -: Domandate e riceverete, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto; perché chiunque domanda riceve, e chi cerca troverà, e a chi bussa sarà aperto. Sono tue promesse. Come temere inganni, quando promette la Verità?


Il cielo del cielo

2. 2. Alla tua altezza la bassezza della mia lingua confessa che tu hai creato il cielo e la terra, questo cielo che scorgo e la terra che calpesto, da cui anche viene questa terra che mi porto addosso; tu li hai creati. Ma dov’è, Signore, il cielo del cielo di cui ci ha parlato il salmista: “Il cielo del cielo al Signore; la terra invece fu da lui data ai figli degli uomini”? Dov’è il cielo che non vediamo, rispetto al quale tutto ciò che vediamo è terra? Così l’intera massa della materia, che non è dovunque per intero, assunse anche nelle sue ultimissime parti, il cui fondo è costituito dalla nostra terra, un aspetto attraente; ma di fronte a quel cielo del cielo, lo stesso cielo della nostra terra è terra. Questi due grandi corpi non a sproposito si chiamerebbero terra entrambi rispetto a quel cielo, non so quale, che appartiene al Signore, non ai figli degli uomini.


Terra, tenebre e abisso raffigurazione della materia informe

3. 3. La nostra terra era invisibile e confusa, un profondo e impenetrabile abisso su cui non vi era luce, poiché non aveva nessun aspetto. Perciò hai fatto scrivere: “Le tenebre regnavano sopra l’abisso”, cioè null’altro che assenza di luce. Se ci fosse stata la luce, ove poteva essere, se non sopra, spiccando, perché schiariva? Là dunque, ove non era ancora la luce, la presenza delle tenebre cos’era, se non l’assenza della luce? Perciò sopra regnavano le tenebre, perché vi era assente la luce, così come dove non c’è il suono, c’è il silenzio, e l’esistenza in quel punto del silenzio indica l’inesistenza in quel punto del suono. Non hai insegnato tu, Signore, a quest’anima che ti confessa, non hai insegnato tu, Signore, a me, come, prima che questa materia informe ricevesse da te una forma ordinata, nulla esisteva, né colore né figura, né corpo né spirito? Un nulla, però, non assoluto, bensì un’entità informe, priva di qualunque aspetto.


Un’espressione di comodo

4. 4. Come designarla, come introdurne in qualche modo la nozione anche nelle menti più tarde, se non mediante qualche vocabolo d’uso corrente? Ora, cosa si può trovare in tutte le parti dell’universo, che più della terra e dell’abisso si avvicini a un’assoluta mancanza di forma? Terra e abisso, posti all’infimo gradino del creato, sono meno attraenti degli elementi superiori, limpidissimi e luminosi tutti quanti. Perché dunque non dovrei ammettere che la materia informe, creata da te senza un aspetto per crearne l’aspetto attraente dell’universo, fu per comodità indicata agli uomini come terra invisibile e confusa?


Imbarazzo del pensiero

5. 5. Quando il pensiero ricerca cosa afferri, qui, la nostra mente, e dice a se stesso: “Questa non è una forma intelligibile, quale la vita o la giustizia, essendo materia di corpi; neppure una forma sensibile, non essendovi nulla che si possa vedere e sentire nell’invisibile e nel confuso”; mentre il pensiero umano si dice queste parole, tenta di conoscerla ignorandola, o d’ignorarla conoscendola?.


Evoluzione del concetto di materia in Agostino

6. 6. Io, Signore, se devo confessarti con la mia bocca e la mia penna tutti gli insegnamenti che a proposito di questa materia ho ricevuto da te, dirò che dapprima ne udivo il nome senza capire; d’altronde anche chi me ne parlava non capiva. Perciò la immaginavo con innumerevoli aspetti diversi, e dunque non la pensavo. Passavano nella mia mente forme sgradevoli e orrende in ordine confuso, ma pur sempre forme, e chiamavo informi cose non già prive di forma, ma dotate di una forma tale da ripugnare, presentandosi, ai miei sensi per la sua inusitata irrazionalità, e da sconcertare la mia umana debolezza; però le immagini della mia mente erano informi non per la mancanza di qualsiasi forma, bensì per il confronto con altre di forma migliore. La vera ragione mi avvertiva che, volendo concepire un ente del tutto informe, avrei dovuto svestirlo per intero di qualsiasi residuo formale; il che non potevo fare. Mi era più facile credere inesistente una cosa priva di qualsiasi forma, che pensare una cosa a mezzo tra la forma e il nulla, non forma e non nulla, un informe quasi nulla. Da quel momento la mia intelligenza cessò d’interpellare la mia fantasia popolata da immagini di forme corporee, che mutava e variava a suo piacere. Fissai invece la mia attenzione direttamente sui corpi, scrutai più a fondo la loro instabilità, per la quale finiscono di essere ciò che erano, e cominciano a essere ciò che non erano; e supposi che quel passaggio stesso da una forma all’altra avvenisse attraverso un’entità informe, non un nulla assoluto. Ma io desideravo sapere, non supporre; e se ora la mia voce, la mia penna ti confessasse tutte le spiegazioni che ebbi da te in questa ricerca, chi fra i miei lettori resisterebbe fino a capire? Non per ciò, tuttavia, desisterà il mio cuore dal renderti onore e dal cantare le tue lodi per le spiegazioni ricevute, sebbene sia incapace di esporle. È insomma la stessa mutevolezza degli enti mutevoli ad ammettere tutte le forme in cui gli enti mutevoli si mutano. Ma essa, cos’è? Spirito forse? o forse corpo? o una parvenza di spirito? o di corpo? Se si potesse parlare di un nulla esistente o di un essere inesistente, così ne parlerei. Eppure doveva esistere in qualche modo, per assumere gli aspetti visibili e complessi del mondo.


La provenienza della materia

7. 7. E qual era in ogni modo la sua provenienza, se non proveniva da te, donde tutte le cose provengono in quanto sono? ma tanto più lontane da te, quanto meno ti assomigliano, non trattandosi qui di spazi. Dunque sei tu, Signore, non soggetto a mutamento continuo, ma stabile nel tuo essere, nel tuo essere, nel tuo essere, santo, santo, santo Signore, Dio onnipotente, tu, che nel principio originato da te, nella tua Sapienza nata dalla tua sostanza, hai creato qualcosa, e dal nulla. Hai creato il cielo e la terra, ma non traendoli dalla tua sostanza, poiché in tal caso sarebbero stati cosa uguale al tuo unigenito, quindi a te: e non era assolutamente giusto che fosse uguale a te una cosa non uscita da te. D’altra parte fuori di te non esisteva nulla, da cui potessi trarre le cose, o Dio, Trinità una e Unità trina. Perciò creasti dal nulla il cielo e la terra, gran cosa la prima, piccola la seconda. Tu sei onnipotente e buono, per fare tutto buono, il grande cielo come la piccola terra. C’eri tu e null’altro. Da questo nulla creasti il cielo e la terra, due creature, di cui l’una prossima a te, l’altra prossima al nulla; l’una che sopra di sé ha te solo, l’altra che sotto di sé ha il nulla.


Dal nulla la materia informe, dalla materia informe il mondo

8. 8. Ma il cielo del cielo appartiene a te, Signore; e la terra, che desti ai figli degli uomini perché la vedessero e toccassero, non era quale ora la vediamo e tocchiamo. Era invisibile e confusa, un abisso, su cui non splendeva luce; ovverosia le tenebre regnavano sopra l’abisso, erano cioè maggiori che nell’abisso. L’abisso odierno, delle acque ormai visibili, anche nelle sue voragini possiede una sua parvenza di luce, percepibile comunque dai pesci e dagli animali che strisciano nel suo fondo. L’altro invece era, tutto insieme, quasi nulla, perché era ancora assolutamente informe; però era tale da poter assumere una forma. Tu, Signore, traesti il mondo da una materia informe, un quasi nulla da te tratto dal nulla per trarne le grandi cose che noi, figli degli uomini, miriamo. Quale non è davvero la meraviglia di questo cielo corporeo, ossia del firmamento, che creasti fra acqua e acqua il secondo giorno, dopo creata la luce, dicendo: “Sia fatto”, e così fu fatto! A questo firmamento desti nome di cielo, ma è il cielo di questa terra e del mare, da te creato il terzo giorno attribuendo un aspetto visibile alla materia informe creata prima che esistesse qualsiasi giorno. Avevi creato anche un cielo prima che esistesse qualsiasi giorno, ma il cielo di questo cielo, perché in principio avevi creato il cielo e la terra. Quanto alla terra da te creata, era materia informe, perché era invisibile e confusa, e le tenebre sopra l’abisso. Da questa terra invisibile e confusa, da questa massa informe, da questo quasi nulla avresti poi tratto tutte le cose che ci attorniano e di cui questo mondo mutevole consta e non consta; ove si manifesta quella medesima mutevolezza, che ci dà modo di avvertire e di misurare i tempi. Il tempo infatti risulta dal mutarsi delle cose, dalle variazioni e dalle successioni degli aspetti sulla materia, che è la terra invisibile sopraddetta.


Cielo del cielo e materia informe fuori del tempo

9. 9. Perciò lo Spirito, maestro del tuo servitore, quando riferisce che tu in principio creasti il cielo e la terra, non indica tempo, non menziona giornate. Quel cielo del cielo, da te creato in principio, è certo una creatura in qualche modo intelligente, però affatto coeterna con te, Trinità, e tuttavia partecipe della tua eternità. La soavità della tua beatifica contemplazione trattiene fortemente le sue mutazioni, e l’aderire a te senza alcun cedimento dal giorno della sua creazione la eleva sopra ogni vicenda passeggera di tempi. Quanto alla massa informe, alla terra invisibile e confusa, neppure essa fu annoverata tra i giorni, perché dove non c’è un aspetto, un ordine, non viene e non passa nulla; e dove ciò non accade, non esistono indubbiamente giorni e successioni di spazi temporali.


Aspirazione

10. 10. O verità, lume del mio cuore, non vorrei che fossero le mie tenebre a parlarmi. Riversatomi fra gli esseri di questo mondo, la mia vista si è oscurata; ma anche di quaggiù, di quaggiù ancora ti ho amato intensamente. Nel mio errore mi sono ricordato di te, ho udito alle mie spalle la tua voce che mi gridava di tornare, con stento l’ho udita per le gazzarre di uomini insoddisfatti. Ed ora torno riarso e anelante alla tua fonte. Nessuno me ne tenga lontano, ch’io ne beva e ne viva. Non sia io per me la mia vita: di me vissi male, fui morte per me, e in te rivivo: parlami, ammaestrami. Ho creduto nei tuoi libri, e le loro parole sono arcane assai.


Eternità di Dio e creazione dell’universo

11. 11. Già mi dicesti, Signore, con voce forte all’orecchio interiore, che sei eterno, il solo a possedere l’immortalità, poiché non muti d’aspetto o in alcun movimento, e la tua volontà non varia col tempo, non essendo immortale una volontà che vuole ora una cosa, ora un’altra. Questo fatto davanti ai tuoi occhi mi è chiaro, e sempre più chiaro mi sia, ti prego, e io rimanga accortamente nella sua rivelazione sotto le tue ali. Poi mi dicesti, Signore, con voce forte all’orecchio interiore, che tutte le nature e sostanze esistenti, pur non essendo ciò che tu sei, tu le hai fatte; che solo il nulla non deriva da te, e il distacco della volontà da te, l’Essere, verso esseri inferiori. Quel distacco è un delitto, è il peccato, e nessun peccato ti nuoce o turba l’ordine del tuo dominio al sommo come al fondo. Questo fatto davanti ai tuoi occhi mi è chiaro, e sempre più chiaro mi sia, ti prego, e io rimanga accortamente nella sua rivelazione sotto le tue ali.


Beata quiete del cielo del cielo

11. 12. Poi mi dicesti con voce forte all’orecchio interiore, che non è coeterna con te neppure la creatura di cui tu sei il solo piacere; che, assorbendoti con una castità perseverantissima, non rivela in nessun tempo e in nessun luogo la sua mutevolezza; che, avendo te sempre presente e tenendosi a te con tutto il suo sentire, priva di un futuro da attendere e di ricordi passati ove trasferirsi, non subisce vicende alteranti né distrazioni temporali. Oh beata, se esiste, una tale creatura, per la sua inserzione nella tua beatitudine; beata per colui, per te, che l’abita perpetuamente e la illumina! Io non trovo nulla, che a mio giudizio si potrebbe chiamare cielo del cielo appartenente al Signore più volentieri di questa tua dimora dedita alla contemplazione delle tue delizie senza mai staccarsene per muovere verso altre mete; mente pura, unita nella massima concordia dal vincolo stabile della pace con i santi spiriti cittadini della tua città posta nei cieli sopra i nostri cieli.

11. 13. Ogni anima che pellegrina lontano da te, comprenda da quanto ho detto se ha già sete di te; se già le sue lacrime sono divenute il suo pane, mentre ogni dì le si chiede: “Ov’è il tuo Dio?”; se già ti domanda una cosa sola, e questa sola ricerca: di abitare nella tua dimora per tutti i giorni della sua vita: e qual è la sua vita se non tu? e i tuoi giorni quali sono, se non la tua eternità, come i tuoi anni, che non finiscono perché sei sempre il medesimo? Da ciò dunque ogni anima che lo può comprenda quanto lontana sia la tua eternità sopra ogni tempo, se una tua dimora, che da te non si allontanò, senza essere con te coeterna, grazie alla sua unione incessante e ininterrotta con te non soffre alcuna vicenda temporale. Questo fatto davanti ai tuoi occhi mi è chiaro, e sempre più chiaro mi sia, ti prego, e io rimanga accortamente nella sua rivelazione sotto le tue ali.


L’informe senza tempo

11. 14. Certo, nei mutamenti degli esseri più bassi e infimi c’è qualcosa d’informe. Ma chi, se non i dissennati erranti in compagnia delle loro fantasie tumultuose, chi, se non costoro, mi dirà che, eliminando e abolendo ogni aspetto della materia e lasciando sussistere la pura informità, per cui le cose mutano e gli aspetti si avvicendano, potrebbe questa esprimere le vicende del tempo? Essa non lo può affatto. Senza la varietà dei movimenti non esiste tempo, e nessuna varietà esiste ove non esiste nessun aspetto.


Due le creature esenti dal tempo

12. 15. Per queste considerazioni, nella misura in cui lo permetti, Dio mio, e mi solleciti a bussare e apri a chi bussa, due cose trovo, che tu abbia creato esenti dal tempo, sebbene né l’una né l’altra coeterna con te; la prima, così formata, che contemplandoti indefettibilmente e ininterrottamente immutata, benché mutabile, partecipa della tua eternità e immutabilità; la seconda così informe, che nulla può mutarsi in essa da una forma di movimento o di quiete a un’altra, per cui cadesse sotto il dominio del tempo. Ma quest’ultima non lasciasti informata: prima di tutti i giorni creasti in principio il cielo e la terra, i due elementi a cui appunto alludevo. La terra era invisibile e confusa, e le tenebre sopra l’abisso: con queste parole s’introduce l’idea di informe, per attrarre insensibilmente quanti non riescono a concepire una privazione assoluta di aspetto, tuttavia lontana dal nulla assoluto. Dalla massa informe sarebbe poi derivato un secondo cielo, una terra visibile e ordinata, l’acqua così bella e quanto la Scrittura ricorda che fu via via creato non senza giorni durante la costituzione del mondo, tale da essere soggetto alle vicissitudini dei tempi a causa delle ordinate successioni dei suoi moti e delle sue forme.


Creazioni fuori dal tempo

13. 16. Intanto, all’udire le parole della tua Scrittura, Dio mio: In principio Dio creò il cielo e la terra; la terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso, senza la menzione del giorno in cui creasti queste cose; intanto io capisco che si tratta del cielo del cielo, cielo intellettuale, ove l’intelligenza conosce tutto insieme, e non in parte; non in un enigma, non attraverso uno specchio, ma totalmente, svelatamente, faccia a faccia; non ora una cosa, ora un’altra, ma, come si disse, conosce tutto insieme senza successione di tempi; e capisco che si tratta della terra, invisibile e confusa, estranea alle vicende temporali che portano abitualmente a succedersi cose diverse; poiché, dove non c’è alcun aspetto, non c’è mai diversità. È per questi due corpi, dunque, l’uno formato sin dall’inizio, l’altro informe sino in fondo, cioè il cielo, ma il cielo del cielo, e la terra, ma la terra invisibile e confusa, è per questi due corpi, capisco intanto, che la tua Scrittura dice senza menzione di giorni: In principio Dio creò il cielo e la terra. Subito aggiunge, invero, a quale terra alludesse; e poiché si ricorda che nel secondo giorno fu creato il firmamento e chiamato cielo, suggerisce di quale cielo si parlava prima senza indicare i giorni.

Molteplici interpretazioni della Scrittura

Terribile profondità

14. 17. Mirabile profondità delle tue rivelazioni! Ecco, davanti a noi sta la loro superficie sorridente ai piccoli; ma ne è mirabile la profondità, Dio mio, mirabile la profondità. Un sacro terrore ci afferra a immergere in essa lo sguardo, terrore per onore, e tremore per amore. Odio violentemente i suoi nemici. Oh, se tu li sterminassi con una spada a doppio taglio, affinché non vi siano più suoi nemici! Vorrei che morissero per sé, onde vivere per te. Ma ecco altri che, anziché censurare, esaltano il libro della Genesi e dicono: “Lo Spirito di Dio, che per il tramite del suo servitore Mosè, è il vero autore di questo scritto, non volle che queste parole fossero intese così. Non volle che fossero intese come tu dici, ma diversamente, come noi diciamo”. A costoro e sotto il tuo giudizio, o Dio di tutti noi, rispondo nel modo seguente.


Accordo: - sull’eternità del creatore;

15. 18. Oserete affermare la falsità di quanto mi suggerisce la verità con voce forte al mio orecchio interiore, riguardo alla vera eternità del creatore, cioè l’assoluta immutabilità della sua sostanza nel tempo e l’unità intrinseca della sua volontà con la sua sostanza, per cui egli non vuole ora una cosa, ora un’altra, ma in una volta sola, tutte insieme e per sempre vuole tutte le cose che vuole? Non vuole di volta in volta, né ora una cosa, ora un’altra; non vuole più tardi ciò che non voleva, né disvuole ciò che prima voleva, perché si comporta così una volontà mutevole, e il mutevole non è mai eterno, mentre il nostro Dio è eterno. E di quanto ancora mi suggerisce all’orecchio interiore la verità: cioè che l’attesa delle cose venture diviene contemplazione quando sono venute, e a sua volta questa contemplazione diviene memoria quando sono passate? che ogni conoscenza, la quale varia in questo modo, è mutevole, e ogni cosa mutevole non è eterna, mentre il nostro Dio è eterno? Raccogliendo e collegando queste verità, trovo che il mio Dio, Dio eterno, non creò il mondo con un atto nuovo di volontà, e che la sua scienza non subisce alcuna transizione.


- sulla creazione della materia e del cielo del cielo;

15. 19. Cosa risponderete, miei contraddittori? Sono falsità queste? “No”, rispondono. E questa? È una falsità che ogni natura formata o materia formabile derivi unicamente da Colui che è sommo Bene, perché sommo Essere? “Non neghiamo neppure questo”, rispondono. E allora? Negate forse l’esistenza di una creatura sublime, la quale con amore casto si unisce al Dio vero e veramente eterno così strettamente, da non staccarsi mai da lui, sebbene non sia coeterna con lui, per riversarsi nelle varie vicende del tempo, e invece riposa nella veracissima contemplazione di lui solo? Tu, Dio, alla creatura che ti ama quanto esigi, tu ti mostri e le basti; quindi non si distoglie da te nemmeno per volgersi a sé. Questa è la dimora di Dio, non terrestre né corporea di materia celeste, bensì spirituale e partecipe della tua eternità, poiché senza macchia in eterno. L’hai fondata per secoli e secoli, hai posto una legge, e non passerà. Non è tuttavia coeterna con te, poiché non fu senza inizio: fu infatti creata.

15. 20. Certamente non si trova un tempo prima di questa creatura, poiché prima di tutte le cose fu creata la sapienza: non la Sapienza, naturalmente, coeterna e perfettamente uguale a te, Dio nostro, padre suo, strumento di tutta la creazione e principio in cui creasti il cielo e la terra; ma invece e senza dubbio la sapienza creata, ossia la natura intellettuale, che è la luce per la contemplazione della Luce, chiamata anch’essa sapienza, benché creata. In realtà, quale è la distanza fra la luce illuminante e la riflettente, tale anche fra la Sapienza creatrice e questa creata, come fra la giustizia che rende giustizia, e la giustizia cui giustizia è resa. Noi stessi fummo chiamati la tua giustizia: uno dei tuoi servi non disse: “...affinché noi siamo giustizia di Dio in Dio stesso”? Dunque prima di tutte le cose fu creata una certa forma di sapienza creata, spirito fornito di ragione e intelligenza, cittadino della tua casta città, madre nostra, che sta in alto ed è libera ed eterna nei cieli. Quali cieli? Certamente quei cieli dei cieli che ti rendono lode, designati appunto col cielo del cielo appartenente al Signore. Dicevamo dunque che prima di tale creatura non si trova un tempo, perché colei che prima di tutte le cose fu creata precede anche la creazione del tempo. Sussiste tuttavia prima di essa l’eternità del creatore stesso, da cui fu fatta ed ebbe inizio, non nel tempo, poiché non esisteva ancora il tempo, ma invece nella sua propria condizione.

15. 21. Così procede da te, nostro Dio, pur essendo cosa del tutto diversa da te e dalla tua essenza. Però non si trova tempo prima di lei e neppure in lei, poiché ha la facoltà di vedere sempre il tuo volto senza mai distrarsene. Di qui l’assenza in lei di mutamenti e variazioni. Esiste tuttavia in lei la possibilità, per lo meno, di mutare e quindi cadere nelle tenebre e nel gelo; ma il grande amore che a te la lega la fa splendere e ardere di te in un meriggio quasi eterno. O dimora luminosa e graziosa, amai la tua bellezza e il luogo dove abita la gloria del mio Signore, che ti edificò e possiede. A te i miei sospiri nel mio pellegrinaggio; al tuo Creatore la preghiera che possegga me pure in te, poiché creò me pure. Errai come una pecora sperduta, ma sulle spalle del mio pastore, tuo costruttore, spero di esserti riportato.


- sull’anteriorità delle due creature al tempo.

15. 22. Che mi dite voi, a cui mi rivolgevo come contraddittori, che pure considerate Mosè un devoto servitore di Dio, e i suoi libri un oracolo dello Spirito Santo? Non è questa la dimora di Dio, che sebbene non coeterna con lui, sussiste a suo modo eterna nei cieli? Invano vi cercate vicende di tempi, non potete trovarne. Trascende infatti ogni estensione, ogni durata passeggera di tempo, poiché il suo bene è la sempiterna unione con Dio. “È così”, rispondono. Ma allora, quale fra le verità che gridò il mio cuore al mio Dio mentre udiva dentro di sé la voce della sua lode, quale, infine, accusate di falsità? Forse l’esistenza di una materia informe là dove, mancando qualsiasi forma, mancava qualsiasi ordine? E dove mancava qualsiasi ordine, doveva anche mancare qualsiasi successione di tempi. Eppure questo quasi nulla, che infatti non era del tutto nulla, era certamente da Colui, dal quale è tutto ciò che in qualche misura è qualcosa. “Non contestiamo nemmeno questo”, dicono.


Una disputa serena

16. 23. Io voglio discutere alla tua presenza, Dio mio, soltanto con quanti ammettono come vero tutto ciò che la tua verità manifesta dentro, nella mia mente. Quanti invece lo negano, abbàino a proprio piacere fino a stordirsi. Mi sforzerò d’indurli alla calma e ad aprire il loro cuore alla tua parola. Se poi si rifiutano e mi respingono, ti supplico, Dio mio, non tacere tu, allontanandoti da me. Parla nel mio cuore con verità. Tu solo sai farlo. Li espellerò, fuori, a soffiare nella polvere, a sollevare la terra nei loro occhi; e mi ridurrò nella mia stanza segreta, ove cantarti canzoni d’amore fra i gemiti, gli inenarrabili gemiti che durante il mio pellegrinaggio suscita il ricordo di Gerusalemme nel cuore proteso in alto verso di lei, Gerusalemme la mia patria, Gerusalemme la mia madre, e verso di te, il suo sovrano, il suo illuminatore, il suo padre e tutore e sposo, le sue caste e intense delizie, la sua solida gioia e tutti i suoi beni ineffabili, e tutti simultanei, perché unico, sommo, vero bene. Non me ne distoglierò, fino a che nella pace di quella madre carissima, dove stanno le primizie del mio spirito, donde traggo queste certezze, tu non abbia adunato tutto ciò che sono da questa deforme dispersione, per formarlo e fermarlo definitivamente in eterno, o Dio mio, misericordia mia. Vi sono però altri, che, pur non dichiarando falsi tutti questi veri, anzi rispettando e ponendo come noi al vertice dell’autorità da seguire la tua santa Scrittura divulgata per il tramite del santo Mosè, tuttavia ci muovono alcune obiezioni. Così rispondo a costoro. E tu, Dio nostro, sii giudice fra le mie confessioni e le loro obiezioni.


Significato di cielo e terra: - l’universo;

17. 24. “Tutto ciò è vero, ammettono. Però Mosè non pensava a quei due enti, quando, illuminato dallo Spirito Santo, diceva: In principio Dio creò il cielo e la terra. Col nome di cielo non designò la creatura spirituale o intellettuale, che sempre contempla il volto di Dio; né col nome di terra designò la materia informe”. Cosa intese dunque? “Ciò che noi diciamo quel grande pensò e ciò espresse con queste parole”. Ossia? “Col nome di cielo e terra volle designare anzitutto in modo generico e conciso l’intero mondo visibile, per poi ripartire, con l’enumerazione dei giorni, quasi per articoli, il complesso delle cose che piacque allo Spirito Santo di riferire così. Il popolo rozzo e carnale cui si rivolgeva era composto di persone alle quali, secondo il suo giudizio, non si potevano presentare delle opere del Signore che le sole visibili”. Invece per la terra invisibile e confusa, e l’abisso tenebroso, da cui si sviluppa organicamente l’intero mondo visibile a tutti noto, creato e ordinato in quei giorni, costoro ammettono che non sia assurdo vedervi la materia informe, di cui ho parlato.


- la materia informe; la natura invisibile e visibile;

17. 25. Però non potrebbero altri sostenere che la stessa idea di materia informe e disordinata fu introdotta all’inizio, col nome di cielo e terra, poiché da essa fu tratto e perfezionato questo mondo visibile con tutti gli oggetti che vi appaiono così distintamente, che spesso si usa designare col nome di cielo e terra? E ancora, non potrebbero altri sostenere che cielo e terra non fu chiamata a sproposito la natura invisibile e visibile, e che quindi in questi due vocaboli è compresa l’intera creazione effettuata da Dio nella Sapienza, ossia in principio? Però, poiché tutte le cose non furono tratte dalla sostanza medesima di Dio, bensì dal nulla, non avendo esse la medesima sostanza di Dio, ma essendovi in ognuna una certa possibilità di mutare, sia che restino stabili, quale l’eterna dimora di Dio, sia che mutino, quale l’anima e il corpo dell’uomo; quindi la materia comune di tutte le cose invisibili e visibili, materia ancora informe ma certamente formabile, da cui dovevano uscire cielo e terra, ossia la creazione invisibile e visibile, in entrambi i casi già formata, sarebbe stata riferita con i nomi che incontriamo di terra invisibile e confusa, e di tenebre sopra l’abisso. Si dovrebbe anzi intendere distintamente per terra invisibile e confusa la materia corporea anteriore alla determinazione formale, e per tenebre sopra l’abisso la materia spirituale anteriore all’arginamento della sua, diciamo così, spropositata fluidità e alla sua illuminazione da parte della Sapienza.


- l’embrione del mondo.

17. 26. Si potrebbe ancora sostenere questo, se altri vuole: che nella frase: In principio Dio creò il cielo e la terra, con il nome di cielo e terra non sono designate due entità, invisibile e visibile, già compiute e formate, ma sono chiamati con tali nomi solo il germe ancora informe delle cose e la materia formabile e creabile. In quest’ultima già esistevano, ancora senza ordine e distinzione di qualità e forma, gli enti che, separati e appropriatamente ordinati, si chiamano cielo e terra, creazione spirituale l’uno, corporea l’altro.


Intenzioni dello scrittore e significati delle Scritture

18. 27. Ho ascoltato e considerato tutte queste opinioni, ma non voglio discutere su parole, perché a nulla serve, se non ad abbattere gli ascoltatori. Per edificarli invece è buona la legge, purché usata legittimamente, essendo suo fine la carità che sgorga da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede non finta. Il nostro Maestro sa da quale duplice precetto fece dipendere tutta la legge e i profeti. Se io li riconosco fervorosamente, Dio mio, lume dei miei occhi nell’oscurità, può forse nuocermi che, potendosi dare di queste parole certamente vere interpretazioni diverse, può forse nuocermi, ripeto, che la mia opinione diverga dall’opinione di altri sull’opinione dello scrittore? Chiunque di noi legge, si sforza certamente di penetrare e comprendere l’intenzione dell’autore che legge, e quando lo crede veritiero, non osa pensare che disse cosa da noi conosciuta o ritenuta falsa. Mentre, dunque, ciascuno si sforza d’intendere le Sacre Scritture secondo le intenzioni del loro scrittore, che male è, se vi scopre un’intenzione che tu, luce di tutte le menti veritiere, mostri per vera, sebbene non fu l’intenzione dell’autore? Eppure fu anch’egli nel vero, pur avendo un’intenzione diversa da questa.


Punti fermi

19. 28. Vero è, Signore, che tu creasti il cielo e la terra, e vero è che il principio è la tua Sapienza, in cui creasti tutto. Così pure è vero che questo mondo visibile ha due grandi parti, cielo e terra, ove sono brevemente compresi tutti gli enti da te fatti e creati. E vero è che ogni essere mutevole suggerisce alla nostra mente l’idea di una certa informità, per la quale può assumere una forma, o mutarsi e trasformarsi. Vero è che chi aderisce così strettamente a una forma immutabile, da non mutare, per quanto mutabile, si sottrae all’azione del tempo. Vero è che l’informità, così vicina al nulla, non può avere vicende temporali. Vero è che la materia originaria di una cosa può anche in certe espressioni avere già il nome della cosa originata, così che poté essere chiamata cielo e terra una qualunque massa informe, originaria del cielo e della terra. Vero è che di tutte le cose formate nessuna si avvicina all’informe più della terra e dell’abisso. Vero è che non solo le cose create e formate, ma anche tutte quelle che si possono creare e formare, sono opera tua, poiché tutte le cose derivano da te. Vero è che ogni cosa formata da una materia informe prima è informe, poi formata.


Alcune interpretazioni veritiere di: in principio

20. 29. Di tutti questi veri, dei quali non dubitano quanti ricevettero da te il dono di vederli con l’occhio interiore e credono incrollabilmente che Mosè, tuo servitore, parlò con spirito di verità; di tutti, dunque, ne prende per sé uno chi dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra significa che Dio creò nel suo Verbo, con lui coeterno, l’elemento intelligibile e sensibile, ossia spirituale e corporeo”; un altro chi dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra significa che Dio creò nel suo Verbo, con lui coeterno, l’intera mole del mondo corporeo, con tutte le nature evidenti e note in essa contenute”; un altro chi dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra significa che Dio creò nel suo Verbo, con lui coeterno, la materia informe dell’elemento spirituale e corporeo”; un altro chi dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra significa che Dio creò nel suo Verbo, con lui coeterno, la materia informe dell’elemento corporeo, ov’erano ancora confusi il cielo e la terra che ora vediamo distinti con forma propria nella mole dell’universo”; un altro chi dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra significa che alla vera origine della sua opera creatrice Dio creò la materia informe, ov’erano rinchiusi confusamente il cielo e la terra che, di là formati, ora appaiono e spiccano con tutte le cose in essi esistenti”.


Le interpretazioni del secondo versetto

21. 30. Così per la comprensione delle parole seguenti. Di tutti quei veri, ne prende uno per sé chi dice: “La terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso significa che la massa corporea creata da Dio era la materia ancora informe, disordinata e cieca, delle cose corporee”; un altro chi dice: “La terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso significa che il complesso chiamato cielo e terra era la materia ancora informe e tenebrosa, da cui dovevano uscire il cielo corporeo e la terra corporea con tutte le cose in essi esistenti e note ai sensi corporei”; un altro chi dice: “La terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso significa che il complesso chiamato cielo e terra era la materia ancora informe e tenebrosa, da cui doveva nascere il cielo intelligibile, detto altrove cielo del cielo, e la terra, cioè tutta la natura corporea, comprendendo sotto questo nome anche il cielo corporeo; da cui doveva nascere insomma tutto il creato invisibile e visibile”; un altro chi dice: “La terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso non è una designazione della massa informe, fatta dalla Scrittura col nome di cielo e terra; ma - asserisce costui - la massa informe propriamente già esisteva, ed è quella che la Scrittura ha denominato terra invisibile e confusa e abisso tenebroso, da cui prima ha detto che Dio trasse il cielo e la terra, ossia il creato spirituale e corporeo”; un altro chi dice: “La terra era invisibile e confusa, e le tenebre regnavano sopra l’abisso significa che esisteva già una massa informe, materia da cui la Scrittura ha detto prima che Dio trasse il cielo e la terra, ossia l’intera mole corporea dell’universo, divisa in due grandi parti, superiore e inferiore, con tutte le cose in esse esistenti, familiari e note alle creature”.


Silenzi della Scrittura

22. 31. Alle due ultime opinioni si potrebbe tentare di opporre quanto segue: “Se non ammettete che si veda designata col nome di cielo e terra la materia informe, esisteva dunque qualche cosa non creata da Dio e da lui impiegata per creare il cielo e la terra. La Scrittura infatti non ha raccontato la creazione di una tale materia per opera di Dio, a meno d’intendere che la disegnò con i vocaboli di cielo e terra, o soltanto terra, là dove si dice: In principio Dio creò il cielo e la terra. E quanto al seguito: La terra era invisibile e confusa, se anche fosse piaciuto alla Scrittura di designare così la materia informe, non la possiamo intendere diversa da quella che Dio creò dov’è scritto, prima: creò il cielo e la terra”. All’udire questi argomenti, gli assertori delle due ultime opinioni da noi esposte, dell’una come dell’altra, risponderanno dicendo: “Non neghiamo davvero la creazione di questa materia informe ad opera di Dio, da cui derivano tutte le cose buone assai. Se affermiamo che un ente creato e formato è un bene superiore, ammettiamo però che un ente creabile e formabile sia un bene inferiore, eppure un bene. Quanto al silenzio della Scrittura sulla creazione della materia informe da parte di Dio, essa tace anche di molte altre, ad esempio dei Cherubini e Serafini, dei Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, distintamente elencati dall’Apostolo, che pur sono senza dubbio tutte opere di Dio. Se poi nelle parole: creò il cielo e la terra, fossero comprese tutte le cose, che dire delle acque, sopra le quali era portato lo spirito di Dio? Se s’intendono comprese nel nome di terra, come ammettere ormai per il nome di terra la materia informe, quando la vista delle acque è tanto bella? O, se s’ammette, perché fu descritta la creazione dalla stessa materia informe del firmamento, che fu chiamato cielo, e non delle acque? Oggi non sono informi e invisibili queste acque che vediamo scorrere così armoniosamente belle. Che se poi ricevettero tanta bellezza allorché disse Dio: “Si raccolga l’acqua che sta sotto il firmamento” e quindi raccogliendosi presero forma, cosa si risponderà per le acque che stanno sopra il firmamento? Rimaste senza forma, non avrebbero meritato una sede tanto onorevole; d’altra parte non c’è scritta la parola con cui furono formate. Perciò, se di qualcosa la Genesi non riferisce la creazione ad opera di Dio, mentre non ne è dubbia per una fede sana e un’intelligenza salda la creazione ad opera di Dio, e qualsiasi dottrina seria non oserà sostenere la coeternità di queste acque con Dio per il fatto che nel libro della Genesi le vediamo sì menzionate, ma senza trovare il momento in cui furono create; perché non intendere, sotto la guida della verità, che anche la materia informe, definita da tale scrittura terra invisibile e confusa, e abisso tenebroso, fu da Dio creata dal nulla, e quindi non è coeterna con lui, sebbene il racconto scritturale abbia omesso di riferire quando fu creata?”.


Due specie di dissenso

23. 32. Ascolto queste opinioni e le esamino secondo le capacità della mia debolezza, che confesso a te, Dio mio non ignaro. E scopro che due specie di dissenso possono sorgere sopra un messaggio riferito per iscritto da messaggeri veraci: il primo sulla verità dei fatti, il secondo sull’intenzione del messaggero. A proposito della creazione, altra cosa è la ricerca sulla realtà dell’avvenimento, e altra quella su ciò che Mosè, egregio famiglio della tua fede, volle far intendere in questo racconto al lettore o ascoltatore. Nel primo genere di ricerca si allontanino da me quanti sono certi della loro scienza errata. Così nel secondo si allontanino da me quanti ritengono errato il racconto di Mosè. Voglio invece unirmi a te, Signore, e godere in te con coloro che si nutrono della tua verità nell’ampiezza della carità. Accostiamoci insieme alle parole del tuo libro e cerchiamo in esse la tua volontà attraverso la volontà del tuo servitore, per la cui penna le hai elargite.


Dubbi e certezze

24. 33. Eppure chi di noi ha così bene scoperto questa intenzione fra tante verità, che si presentano ai ricercatori in quelle parole interpretate nell’uno o nell’altro senso, da poter affermare: “Questa era l’intenzione di Mosè, e in questo senso volle che fosse inteso il suo racconto”, con la stessa sicurezza con cui afferma vero il racconto, qualunque fosse l’intenzione di Mosè? Ecco, Dio mio, io, servo tuo, che ti ho promesso in questo scritto il sacrificio della mia confessione e che prego di poter soddisfare con la tua misericordia la mia promessa verso di te; ecco che affermo con la massima sicurezza che tu hai creato nel tuo Verbo immutabile tutte le cose, invisibili e visibili; ma affermo con pari sicurezza che Mosè pensava a questo e non ad altro, mentre scriveva: In principio Dio creò il cielo e la terra? Vedo forse, come vedo nella tua verità la certezza di questo fatto, così nella sua mente che quello fu il suo pensiero mentre scriveva queste parole? Poté certamente pensare all’origine della creazione, quando diceva: In principio; poté volere che per cielo e terra qui s’intendesse la natura sia spirituale, sia corporea, non già formata e perfezionata, ma in entrambi i casi appena abbozzata e ancora informe. Vedo bene che l’uno e l’altro dei due sensi poteva essere usato con verità; ma quale pensasse Mosè in queste parole non vedo altrettanto bene. Comunque non dubito che quell’uomo così grande, qualunque di questi sensi, o qualche altro da me non menzionato contemplasse nella sua mente, quando proferì queste parole, vide il vero e lo riferì nel modo conveniente.


Orgoglio temerario di alcuni interpreti

25. 34. Nessuno più mi molesti dicendomi: “L’intenzione di Mosè non fu quella che dici tu, ma quella che dico io”. Se mi si chiedesse: “Come sai che l’intenzione di Mosè fu quella che tu ricavi di queste parole?”, dovrei rimanere calmo e forse risponderei ciò che risposi più sopra, tutt’al più diffondendomi maggiormente, se il mio interlocutore fosse piuttosto cocciuto. Ma quando si asserisce: “L’intenzione di Mosè non fu quella che dici tu, ma quella che dico io”, senza tuttavia contestare la verità dell’una come dell’altra asserzione, allora, o Vita dei poveri, Dio mio, nel cui seno non c’è contraddizione, fa piovere nel mio cuore la mitezza, affinché possa sopportare pazientemente questi tali, che ciò mi dicono non già per essere indovini e aver visto ciò che dicono nel cuore del tuo servitore, ma per orgoglio. Ignorano l’idea di Mosè, ma amano la loro, non perché sia vera, ma perché è la loro. Diversamente amerebbero allo stesso modo anche la verità degli altri, come io amo le loro asserzioni quando sono vere, non perché sono loro, ma perché sono vere, e in quanto vere non sono più nemmeno loro. Se poi l’amano in quanto vere, ormai sono e loro e mie, essendo un bene comune di tutti gli amanti della verità. Quando però sostengono che l’intenzione di Mosè non fu quella che dico io, ma quella che dicono loro, la respingo e non l’amo. Avessero pure ragione, questa è temerità, non propria di una scienza, ma dell’audacia, non frutto di una visione, ma di presunzione. Perciò, Signore, i tuoi giudizi sono tremendi: perché la tua verità non appartiene né a me né a chiunque altro, ma a tutti noi, e tu ci chiami pubblicamente a parteciparne, con questo terribile avvertimento, di non pretenderne il possesso privato per non esserne privati. Chiunque rivendica come proprio ciò che tu metti a disposizione di tutti, e pretende di detenere ciò che a tutti appartiene, viene respinto dal patrimonio comune verso il suo, ossia dalla verità verso la menzogna. Chi infatti dice una menzogna, dice del suo.


Parole fraterne

25. 35. Guarda, ottimo giudice, Dio, Verità persona, guar-da la mia risposta a questo contradittore, guarda. Parlo davanti a te e davanti ai miei fratelli che fanno un uso legittimo della legge secondo il suo fine, la carità. Guarda e vedi la mia risposta, se ti piace. A costui rivolgo queste parole fraterne e pacifiche: “Se entrambi vediamo la verità della tua asserzione ed entrambi vediamo la verità della mia, dove la vediamo, di grazia? Certo non io in te, né tu in me, ma entrambi proprio nella verità immutabile, che sta sopra le nostre intelligenze. Ora, se non disputiamo su questa luce del nostro Signore Dio, perché dovremmo disputare sul pensiero del nostro prossimo, che neppure possiamo vedere come la verità immutabile? Se Mosè ci fosse apparso di persona e ci avesse detto: “Questo fu il mio pensiero”, lo crederemmo senza vederlo. Perciò evitiamo di gonfiarci d’ira per l’uno contro l’altro a proposito di ciò che fu scritto. Amiamo il Signore Dio nostro con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la nostra mente, e il nostro prossimo come noi stessi. Non credendo che in nome di questi due precetti d’amore Mosè pensò tutto ciò che pensò mentre scriveva i suoi libri, renderemo il Signore menzognero, poiché attribuiremo al suo servo e nostro compagno una disposizione d’animo diversa dagli insegnamenti divini. Ora, considera quale sia la stoltezza di chi afferma avventatamente, fra tanta abbondanza di idee verissime ricavabili da quelle parole, che Mosè ne ebbe in mente una in particolare; e offende con dispute dannose la carità, che è il fine preciso per cui disse tutto ciò che disse colui, del quale ci sforziamo di spiegare il discorso”.


Propositi immaginari di Agostino

26. 36. E tuttavia, Dio mio, elevatezza della mia bassezza e riposo della mia fatica, che ascolti le mie confessioni e rimetti i miei peccati, per il precetto che mi dai, di amare il mio prossimo come me stesso, non posso credere che un Mosè, fedelissimo servitore tuo, abbia da te ricevuto un dono inferiore a quello che io avrei auspicato e desiderato per me, se fossi nato al suo tempo e tu mi avessi assegnato il suo posto per dispensare agli uomini con l’ausilio della mia mente e della mia lingua le Scritture, destinate a giovare dopo molto tempo a tutte le genti e a dominare nella terra intera, dal fastigio della loro autorità, le sentenze di tutte le dottrine false e superbe. Ebbene io avrei voluto, se fossi stato ai suoi tempi Mosè, visto che usciamo tutti dalla medesima massa; e cos’è l’uomo, se non che ti ricordi di lui?; dunque, se fossi stato lui ai suoi tempi, e tu mi avessi incaricato di scrivere il libro della Genesi, avrei voluto in dote una tale capacità di esprimermi e una tale maniera d’intessere il discorso, che quanti sono ancora incapaci di comprendere il modo in cui Dio crea, non respingessero le mie parole come superiori alle loro forze; e quanti ne sono ormai capaci, ritrovassero non trascurata, nelle poche parole del tuo servo, qualsiasi opinione vera avessero escogitato con la propria riflessione; e se altri altre ne avessero scorte alla luce della verità, nemmeno queste ultime mancassero, ma fossero riconoscibili nelle medesime parole.


Limiti e virtù dei semplici

27. 37. Come una sorgente nella sua piccola piaggia è più ricca e si estende con i molti rivi che alimenta in spazi più ampi di qualunque fra i rivi che, nati dalla medesima sorgente, in molte piagge si diffondono; così la narrazione del tuo dispensatore, cui avrebbero attinto molti futuri predicatori, riversa con modesta vena di parole fiumi di limpida verità. Di là ognuno, per quanto può in questo campo, deriva una sua propria e diversa verità, che poi estende in più lunghi meandri di parole. Infatti leggendo o udendo il passo in discussione alcuni pensano a Dio come a un uomo o a una potenza dotata di mole immensa, che con una decisione in qualche modo nuova e repentina produsse fuori di sé e quasi in luoghi distanti il cielo e la terra, due grandi corpi, sopra e sotto, ove sono contenute tutte le cose. Quando sentono: Disse Dio: “Sia fatto ciò”, e fu fatto ciò, pensano a parole che ebbero un inizio e una fine, risuonanti nel tempo e passeggere, tali che subito dopo il loro passaggio esistette l’oggetto di cui avevano comandato l’esistenza. Anche ogni altro loro concetto si sviluppa allo stesso modo dalle relazioni abituali con la carne. Costoro sono ancora bambini sensitivi. Mentre la loro gracilità si fa portare da questo stile umilissimo come da un seno materno, cresce sana la loro fede, per cui credono fermamente e per certo che Dio è il creatore di tutta la meravigliosa varietà degli esseri su cui si posano attorno i loro sensi. Ma se qualcuno di costoro, disprezzando come vili le parole, si spinge con la sua presuntuosa debolezza fuori dalla culla ov’è nutrito, ahimè, cadrà miseramente. Signore Dio, abbi pietà: il pulcino implume non sia calpestato dai passanti, manda il tuo angelo a riporlo nel nido, ove viva finché sappia volare.


Beata penetrazione dei dotti

28. 38. Vi sono però altri, per i quali queste parole non costituiscono ormai più un nido, ma un ombroso brolo, ove, scorgendo frutti nascosti, volteggiano festanti, e cinguettando li cercano e colgono. Scorgono infatti, alla lettura o all’ascolto di queste tue parole, o Dio eterno, come la tua permanente stabilità trascenda tutti i tempi, passati e futuri, eppure non esista creatura temporale che non sia opera tua; come la tua volontà, essendo una cosa sola con te, senza il minimo mutamento e senza il sorgere in lei di una decisione nuova, abbia creato tutte le cose, come tu non abbia tratto da te una tua immagine quale forma di tutte le cose, a te simile, ma dal nulla una informità dissimile, tale da poter ricevere una forma per la tua somiglianza ritornando in te, l’Uno, nella misura provvida e concessa a ogni cosa secondo la sua specie; e come quindi tutte le cose siano buone assai, tanto se rimangono vicine a te, quanto se, allontanandosi gradatamente nel tempo e nello spazio, operano o subiscono meravigliose vicende. Costoro scorgono tutto ciò e godono nella luce della tua verità per quel poco che possono quaggiù.


Altre interpretazioni di: in principio

28. 39. Altri invece, considerando le parole: In principio Dio creò, ricuperano quale principio la Sapienza, poiché anche, essa, ci parla; altri, pure considerando le medesime parole, vedono nel principio l’inizio della creazione e interpretano la frase: In principio creò come se vi si dicesse: “Dapprima creò”. Tra quanti intendono l’espressione in principio, nel senso che creasti nella Sapienza il cielo e la terra, l’uno crede che cielo e terra siano soltanto nomi dati alla materia creabile del cielo e della terra; altri che siano due entità già formate e distinte; altri che il nome cielo designi un’entità formata e per di più spirituale, il nome terra una materia informe e corporea. Ma neppure quanti riconoscono nei nomi di cielo e terra la materia ancora informe, da cui dovevano formarsi il cielo e la terra, l’intendono poi allo stesso modo. C’è chi pensa che da quella materia si sarebbe sviluppata la creatura intelligente e la sensibile, e chi pensa che se ne sarebbe sviluppata soltanto la massa sensibile e corporea, la quale comprende nel suo grande seno tutti gli enti visibili e percettibili. Così non sono concordi neppure quanti vedono designate in questo passo come cielo e terra le creature già ordinate e distribuite al loro luogo, gli uni pensando al mondo invisibile e visibile, altri invece al solo mondo visibile, dove osserviamo il cielo luminoso e la terra caliginosa, con le cose in essi esistenti.


La priorità della materia

29. 40. Ma chi interpreta: In principio creò, semplicemente come un modo per dire: “Dapprima creò”, non ha altra possibilità d’intendere con rigore cielo e terra, se non intendendo la materia del cielo e della terra, ossia dell’universo creato, intelligente e corporeo. Se infatti volesse vedervi un universo già provveduto di forma, si potrebbe a ragione chiedergli: “Se Dio fece dapprima un tale universo, cosa fece in seguito?”. Oltre l’universalità delle cose non troverà nulla; quindi si sentirà dire, suo malgrado: “Come vi sarebbe un prima senza nulla dopo?”. Se invece dice che prima ci fu la materia informe, poi la formata, non dice un’assurdità, purché riesca a discernere quale ente è primo per l’eternità, quale per il tempo, quale per il valore, quale per l’origine. Per l’eternità, ad esempio, Dio precede le cose; per il tempo il fiore precede il frutto; per il valore il frutto precede il fiore; per l’origine il suono precede il canto. Fra le quattro citate precedenze, la prima e l’ultima sono difficilissime da capire, la seconda e la terza facilissime. Rara e molto ardua, Signore, è la visione contemplativa della tua eternità, creatrice immutabile di esseri mutabili, da cui deriva la sua priorità. Quale acume d’intelligenza non si richiede poi per distinguere senza troppa fatica la priorità del suono rispetto al canto, essendo il canto un suono provvisto di forma, e potendo certamente esistere una cosa priva di forma, ma non ricevere forma una cosa inesistente? Così la materia precede ciò che se ne crea, ma non precede perché creatrice, mentre piuttosto è creata, né precede per un intervallo di tempo. Non è vero infatti che noi emettiamo primamente alcuni suoni informi senza canto e posteriormente li colleghiamo o modelliamo in forma di canzone, come lavorando il legno per fabbricare una cassa, o l’argento per un vaso. Qui si hanno materie che precedono anche per il tempo la forma degli oggetti che se ne fanno; nel canto invece è diverso. Quando si canta, si ode il suono del canto. Non esiste prima un suono informe, poi la sua formazione in un canto. Un suono qualsiasi, dopo essere risuonato, svanisce senza lasciare nulla che si possa riprendere per comporlo con arte. Perciò il canto si svolge nel suo suono, e il suo suono è la sua materia. Il suono, appunto, riceve una forma per essere canto, e quindi, come dicevo, la materia del suono precede la forma del canto: non per una capacità creativa, poiché il suono non è l’artefice del canto ma viene posto dal corpo a servizio dell’anima del cantore, che ne faccia un canto; e neppure per una precedenza di tempo, poiché il suono viene emesso contemporaneamente al canto; né per una precedenza di valore, poiché il suono non è meglio del canto, essendo il canto non solo un suono, ma per di più un bel suono; bensì per una precedenza di origine, poiché non il canto riceve forma per essere suono, ma il suono riceve forma per essere canto. Da questo esempio comprenda chi può come la materia dell’universo fu creata dapprima, e chiamata cielo e terra, perché ne furono tratti il cielo e la terra. Non fu creata dapprima nel tempo, poiché sono le cose formate a esprimere il tempo, mentre la materia era informe e si presenta nel tempo ormai insieme al tempo. Tuttavia non se ne può predicare nulla, oltre ad attribuirle una certa priorità nel tempo, sebbene sia considerata l’infimo degli esseri, perché le cose dotate di una forma sono ovviamente più perfette delle informi; e sia preceduta dall’eternità del creatore, se doveva derivare dal nulla la sostanza dalla quale doveva nascere qualcosa.

Conclusioni

Amore concorde della verità

30. 41. In tale disparità di opinioni vere la verità sola dovrà portare la concordia. Il Dio nostro abbia pietà di noi, per volgerci all’uso legittimo della legge secondo il fine del precetto, la pura carità. Se perciò qualcuno mi domanda quale fu tra queste l’intenzione di Mosè, tuo grande servitore, non posso rispondere con le mie confessioni. Non te lo confesso, perché lo ignoro, pur sapendo che sono tutte opinioni vere, ad eccezione di quelle materialistiche, su cui ho parlato quanto ritenni necessario. Ma i fanciulli di buona speranza, che queste parole del tuo libro sublimi nella loro umiltà e copiose nella loro scarsezza non atterriscono; ma quanti riconosco interpreti ed espositori veritieri di quelle parole, amiamoci l’un l’altro e amiamo allo stesso modo te, Dio nostro, fonte di verità, se di verità e non di vane fantasie siamo assetati. E onoriamo anche il tuo servitore, dispensatore di tale scrittura, traboccante del tuo spirito; crediamo che nello scrivere queste parole per tua rivelazione mirò a quanto in esse brilla maggiormente per luce di verità e messe di vantaggi.


Molteplicità di significati

31. 42. Così, quando uno dice: “La sua idea fu la mia”, e un altro: “No, bensì la mia”; io rispondo con spirito, credo, più religioso: “Perché non piuttosto ambedue, se ambedue sono vere? E se altri scorgesse nelle stesse parole una terza, una quarta, e ogni altra verità, perché non dovremmo credere che quegli le vide tutte, se l’unico Dio se ne servì per adeguare gli scritti sacri a molte intelligenze, che vi dovevano vedere sensi diversi e veri?”. Io, lo dichiaro intrepidamente dal fondo del mio cuore, se giungessi al vertice dell’autorità e dovessi scrivere qualcosa, vorrei senza dubbio scrivere in modo che nelle mie parole echeggiassero tutte le verità che ognuno potesse cogliere in quella materia, anziché collocarvi con discreta chiarezza un solo pensiero a esclusione di tutti gli altri, che pure non mi urtassero con la loro falsità. Non voglio quindi essere così temerario, Dio mio, da credere che un tale uomo non abbia meritato da te questo privilegio. Egli vide certamente in queste parole e pensò, all’atto di scriverle, tutte le verità che potemmo trovarvi, ed anche le altre, che noi non potemmo, o non potemmo ancora, ma si può trovarvi.


Cognizione del vero

32. 43. Infine, o Signore, che sei Dio, e non carne e sangue, se l’uomo non vide tutto, al tuo Spirito buono, che mi condurrà nella terra giusta, invece poté mai rimanere occulta alcuna delle cose che in quelle parole tue per tuo conto ti proponevi di rivelare ai futuri lettori, quand’anche il loro banditore non abbia concepito che uno dei molti sensi veri? In tal caso il senso concepito da lui sarebbe certamente il più elevato di tutti. A noi, Signore, rivela quello stesso o qualunque altro ti piaccia, purché vero. Ma, sia che nell’incontro delle medesime parole ce ne mostri il senso che già mostrasti a quel grande, sia che un altro ce ne mostri, nùtrici tu, non c’illuda l’errore. Ecco qui, Signore Dio mio, quante cose ho scritto per poche parole, quante cose davvero! Di questo passo, come basteranno le mie forze, come il tempo per tutti i tuoi libri? Permetti dunque che per loro mezzo io ti faccia la mia confessione piuttosto in breve, scegliendone un unico senso, ispiratomi da te come vero, sicuro e buono, sebbene molti si presentino dove molti potranno presentarsi. E la mia confessione sia tanto schietta, da esporla, se esporrò l’intenzione del tuo ministro, con la dovuta esattezza. A ciò devo tendere con tutte le mie forze; e se non riuscirò a tanto, possa riuscire almeno a esporre ciò che la tua verità volle comunicarmi con le parole di lui, al quale pure comunicò ciò che volle.

Libro tredicesimo

SIGNIFICATO SPIRITUALE DELLA CREAZIONE


Introduzione

Invocazione a Dio buono

1. 1. T’invoco, Dio mio, misericordia mia, che mi hai creato e non hai dimenticato chi ti ha dimenticato. T’invoco nella mia anima, che prepari a riceverti col desiderio che le ispiri. Non trascurare ora la mia invocazione. Tu mi hai prevenuto prima che t’invocassi, insistendo con appelli crescenti e multiformi affinché ti ascoltassi da lontano e mi volgessi indietro chiamando te che mi richiamavi. Tu, Signore, cancellasti tutte le mie azioni cattive e colpevoli per non dover punire le mie mani, con cui ti ho fuggito; prevenisti invece tutte le mie azioni buone e meritevoli, per poter premiare le tue mani, con cui mi hai foggiato. Tu esistevi prima che io esistessi, mentre io non esistevo così che potessi offrirmi il dono dell’esistenza. Eccomi invece esistere grazie alla tua bontà, che prevenne tutto ciò che mi hai dato di essere e da cui hai tratto il mio essere. Tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene che ti possa giovare, Signore mio e Dio mio. Il mio servizio non ti risparmia fatiche nell’azione, la privazione del mio ossequio non menoma la tua potenza, il mio culto per te non equivale alla coltura per la terra, così che saresti incolto senza il mio culto. Io ti devo servizio e culto per avere da te la felicità, poiché da te dipende la mia felicità.


Generosità di Dio creatore

2. 2. La tua creatura ebbe l’esistenza dalla pienezza della tua bontà, affinché un bene del tutto inutile per te e, sebbene uscito da te, non uguale a te, poiché da te poteva però esser creato, non mancasse di esistere. Quali meriti avevano nei tuoi confronti il cielo e la terra, da te creati in principio? E dicano le nature spirituali e corporee, da te create nella tua Sapienza, quali meriti avevano nei tuoi confronti, perché ne dipendessero anche tutti gli esseri imperfetti e informi. Nel loro elemento, spirituale o corporale, essi tendono ad allontanarsi da te verso il disordine e la degenerazione, l’essere spirituale informe essendo superiore ad uno corporeo formato, il corporeo informe superiore a sua volta al nulla assoluto. Così rimarrebbero sospesi nella tua parola, informi, se questa stessa parola non li avesse richiamati alla tua unità, dotati di forma e resi tutti quanti buoni assai grazie a te, Uno e Bene sommo. Ma quali meriti precedenti avevano nei tuoi confronti, per esistere anche informi, se nemmeno così sarebbero esistiti senza di te?

2. 3. Quali meriti aveva nei tuoi confronti la materia corporea per esistere, sia pure invisibile e confusa? Non sarebbe esistita nemmeno così senza la tua creazione, né poteva prima meritare da te l’esistenza, poiché inesistente. Quali meriti aveva nei tuoi confronti l’embrione della creatura spirituale per fluttuare, sia pure, tenebrosa e simile all’abisso, dissimile da te, finché ad opera della parola medesima non fosse rivolta verso il medesimo suo creatore, e ad opera della sua illuminazione non fosse fatta luce, conforme, se non uguale, a una forma uguale a te? Per un corpo l’esistenza non implica la bellezza, altrimenti non esisterebbero corpi deformi; così anche per uno spirito creato la vita non implica la vita sapiente, altrimenti tutti gli spiriti sarebbero immutabilmente sapienti. È però un bene per lo spirito essere unito sempre a te, al fine di non perdere, distogliendosi da te, il lume che ottenne volgendosi a te, e così ricadere in una vita simile ad abisso di tenebre. Noi pure, creature spirituali quanto all’anima, distolti da te, nostro lume, in quella vita fummo un tempo tenebre; e per quanto ci resta della nostra oscurità soffriamo, fino al giorno in cui saremo tua giustizia nel tuo unigenito come monti di Dio. Infatti fummo tua condanna come abisso profondo.

Le allegorie spirituali

La creazione della luce simbolo dell’illuminazione dei puri spiriti (Gn 1. 3)

3. 4. A proposito delle parole da te pronunciate all’inizio della creazione: “ Sia fatta la luce”, e la luce fu fatta, io vedo qui, senza incongruenze, la creatura spirituale, perché era già in qualche modo una vita che tu potessi illuminare. Ma come non aveva meriti nei tuoi confronti per essere una vita tale che si potesse illuminare, così neppure dopo che lo fu ebbe meriti per essere illuminata. Il suo stato d’informità non ti sarebbe piaciuto, se non fosse divenuta luce, non già mediante l’esistenza, ma la visione della luce illuminante e l’unione intima con essa. Perciò deve soltanto alla tua grazia la vita e la felicità della vita, da quando fu rivolta, con mutamento in meglio, verso ciò che non può mutarsi né in meglio né in peggio; ossia verso di te, e non altri, perché tu, e non altri, sei l’Essere semplice, per il quale la vita è felicità, essendo tu stesso la tua felicità.


Lo spirito portato sulle acque simbolo della generosità del creatore (Gn 1. 2)

4. 5. Cosa mancherebbe dunque al tuo benessere, che tu sei per te stesso, quand’anche tutte le creature non esistessero affatto o rimanessero informi? Tu non le hai create per bisogno, ma per pienezza di bontà, e per questa le hai costrette e piegate a una forma, non per completarne la tua gioia. Alla tua perfezione spiace certamente la loro imperfezione, per cui si perfezionano di te affinché ti piacciano, e non già perché tu sia imperfetto, quasi bisognoso tu pure della loro perfezione per la tua perfezione. Il tuo spirito era portato sopra le acque, non dalle acque, quasi riposando in esse: quando si dice che il tuo spirito riposa in qualcuno, questi in sé fa riposare. Era la tua volontà incorruttibile, immutabile e sufficiente a se stessa, che si portava sulla vita creata da te, vita ove il vivere non equivale a vivere felici, poiché vive anche fluttuando nella sua oscurità; che ha bisogno di volgersi al suo creatore, di vivere sempre più vicino alla fonte della vita e di vedere nella sua luce la luce, per essere perfetta, illuminata e felice.


La Trinità nella creazione (Gn 1. 1 s.)

5. 6. Ed ecco apparirmi in un enigma la Trinità, ossia tu, Dio mio. Tu, il Padre, creasti il cielo e la terra nel principio della nostra sapienza, che è la tua Sapienza, nata da te, uguale e coeterna con te; cioè nel tuo Figlio. Ho parlato lungamente del cielo del cielo, della terra invisibile e confusa, dell’abisso tenebroso, vagabondaggio delirante per l’informe creatura spirituale, quando non si fosse rivolta all’Autore di ogni forma di vita, che con la sua illuminazione la rendesse vita splendida e cielo di quel cielo, che venne creato più tardi fra acqua e acqua. Ormai coglievo nel nome di Dio il Padre che creò, nel nome di principio il Figlio in cui creò; e credendo, come credevo, nella trinità del mio Dio, la cercavo nelle sue sante parole. Ed ecco, il tuo spirito era portato sopra le acque. Ecco la Trinità Dio mio, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutto il creato.


La ritardata menzione dello Spirito Santo

6. 7. Ma perché, o lume di verità, cui avvicino il mio cuore nel timore che i suoi insegnamenti siano fallaci; dissipane le tenebre e dimmi, ti supplico per la madre carità, ti supplico, dimmi: perché soltanto dopo la menzione del cielo e della terra invisibile e confusa, e delle tenebre sovrastanti l’abisso, soltanto allora la tua Scrittura ha menzionato il tuo spirito? Forse perché conveniva introdurlo così, dicendolo portato sulle acque? Non si poteva dirne questo senza menzionare prima la cosa su cui si potesse immaginare trasportato il tuo spirito, che non era portato sopra il Padre né sopra il Figlio, né l’espressione sarebbe corretta, se fosse portato sopra nulla. Quindi bisognava prima citare la cosa su cui era portato, poi lui, che non conveniva menzionare senza dire che era portato su qualcosa. Ma perché non conveniva introdurlo senza dire che era portato su qualcosa?


Il conforto dello Spirito

7. 8. D’ora innanzi chi può segua con intelletto il tuo Apostolo. Egli dice che il tuo amore è stato diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato, che c’insegna le cose spirituali, ci mostra la via sovrana dell’amore e piega per noi il ginocchio innanzi a te, affinché conosciamo la scienza sovrana dell’amore di Cristo. Ecco dunque perché lo Spirito, sovrano fin dall’inizio, era portato sulle acque. A chi parlare, come parlare del peso della passione, che ci trascina nell’abisso scosceso, e dell’elevazione della carità, che opera il tuo spirito, il quale era portato sopra le acque? A chi parlarne? come parlarne? Non si tratta di luoghi, dove siamo immersi ed emergiamo; nessuna espressione sarebbe più propria e impropria. Si tratta invece dei sentimenti, si tratta degli affetti, dell’impurità del nostro spirito, che sprofonda con l’amore degli affanni; e della santità del tuo spirito, che ci solleva con l’amore della sicurezza per farci tenere in alto il cuore verso di te, ove il tuo spirito è portato sopra le acque. E giungeremo al riposo sovrano, quando la nostra anima avrà varcato le acque, che non hanno sostanza.


Caduta ed elevazione degli spiriti

8. 9. Sprofondò l’angelo, sprofondò l’anima dell’uomo. Così rivelarono le profonde tenebre dell’abisso, ove giacerebbe tutta la creazione spirituale, se non avessi detto fin dall’inizio: “Sia fatta la luce”, e la luce non fosse stata fatta: se ogni spirito intelligente della tua città celeste non si fosse unito a te con l’ubbidienza e non avesse posato nel tuo spirito, che è portato immutabilmente sopra tutto ciò che è mutabile. Diversamente, lo stesso cielo del cielo sarebbe un abisso tenebroso in se stesso, mentre ora è luce nel Signore. Anche nella miserabile inquietudine degli spiriti che sprofondano e, denudati della veste della tua luce, mostrano le proprie tenebre, tu indichi abbastanza chiaramente la grandezza cui hai chiamato la creatura razionale; poiché nulla meno di te stesso, e quindi neppure se stessa le basta per la sua felicità e il suo riposo. Tu infatti, Dio nostro, illuminerai le nostre tenebre. Da te proviene la nostra veste, e le nostre tenebre saranno quale il mezzodì. Dammi te stesso, Dio mio, restituiscimi te stesso. Io ti amo. Se così è poco, fammi amare più forte. Non posso misurare, per sapere quanto manca al mio amore perché basti a spingere la mia vita fra le tue braccia e di là non toglierla finché ripari al riparo del tuo volto. So questo soltanto: che tranne te, per me tutto è male, non solo fuori di me, ma anche in me stesso; e che ogni mia ricchezza, se non è il mio Dio, è povertà.


La spinta dell’amore

9. 10. Ma il Padre o il Figlio non erano portati sulle acque? Se si pensa a un corpo nello spazio, neppure lo Spirito Santo lo era; se invece alla sovranità immutabile della divinità su ogni cosa mutabile, sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo era portato sopra le acque. Perché dunque fu detto soltanto del tuo spirito? Perché fu detto soltanto di lui, come di un luogo ov’era, mentre non è un luogo? Di lui solo fu detto che è dono tuo, il dono ove riposiamo, ove ti godiamo. Il nostro riposo è il nostro luogo. Là ci solleva l’amore, e il tuo spirito buono eleva la nostra bassezza, strappandola alle porte della morte. Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. L’olio versato dentro l’acqua s’innalza sopra l’acqua, l’acqua versata sopra l’olio s’immerge sotto l’olio, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Fuori dell’ordine regna l’inquietudine, nell’ordine la quiete. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme. Quale gioia per me udire queste parole: “Andremo alla casa del Signore”! Là collocati dalla buona volontà, nulla desidereremo, se non di rimanervi in eterno.


Beatitudine degli angeli

10. 11. Beata la creatura che non conobbe stato diverso. Ma pure il suo stato sarebbe diverso, se, appena creata, il tuo Dono, che è portato sopra tutto ciò che è mutevole, non l’avesse immediatamente elevata con quel tuo appello: “Sia fatta la luce”, e non fosse stata fatta la luce. Per noi il tempo in cui fummo tenebre è distinto da quello in cui diveniamo luce; per essa invece fu detto soltanto quale sarebbe stata, se non fosse stata illuminata. La presentazione che ne fa la Scrittura, come dapprima ondeggiante e tenebrosa, dà risalto alla causa che ne produsse il mutamento, per il quale, rivolta al lume inestinguibile, fu luce. Chi lo può, capisca, a te chieda. Perché molesta me, quasi io illumini qualche uomo che viene in questo mondo?


Immagine umana della Trinità

11. 12. Ma la Trinità onnipotente, chi la comprenderà? Eppure chi non parla di lei, se almeno parla di lei? Raramente l’anima che parla di lei sa di cosa parla. Si discute, ci si batte, ma nessuno, se non ha pace, vede questa visione. Vorrei invitare gli uomini a riflettere su tre cose presenti in se stessi, ben diverse dalla Trinità, ma che indico loro come esercizio, come prova e constatazione che possono fare, di quanto ne siano lontani. Alludo all’esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un’unica vita, un’unica intelligenza e un’unica essenza, come infine non si possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può. Ciascuno è davanti a se stesso; guardi in se stesso, veda e mi risponda. Ma quand’anche avrà scoperto su ciò qualcosa e saprà esprimerlo, non s’illuda di aver scoperto finalmente l’Essere che sovrasta immutabile il mondo, immutabilmente esiste, immutabilmente sa e immutabilmente vuole. L’esistenza anche in Dio di queste tre facoltà costituisce la sua trinità, o questa triplice facoltà si trova in ognuna delle tre persone, così da essere tre in ognuna? o entrambi i casi si verificano in modi mirabili entro una semplicità molteplice, essendo la Trinità in sé per sé fine infinito, così da essere una cosa sola, e come tale conoscersi e bastarsi immutabilmente nella grande abbondanza della sua unità? Chi potrebbe avere facilmente questo concetto? chi esprimerlo in qualche modo? e pronunciarsi, in qualsiasi modo temerariamente?


L’umanità morta e risorta, nei primi tre versetti della Genesi

12. 13. Procedi nella tua confessione, o mia fede. Di’ al Signore Dio tuo: “Santo, santo, santo Signore Dio mio”. Nel tuo nome siamo stati battezzati, Padre e Figlio e Spirito Santo; nel tuo nome battezziamo, Padre e Figlio e Spirito Santo. Anche presso di noi nel suo Cristo Dio creò il cielo e la terra, ossia i membri spirituali e carnali della sua Chiesa; anche la nostra terra prima di ricevere la forma della dottrina era invisibile e confusa, e noi eravamo immersi nelle tenebre dell’ignoranza, perché hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e i tuoi giudizi sono un abisso profondo. Ma poiché il tuo spirito era portato sopra l’acqua, la tua misericordia non abbandonò la nostra miseria. Dicesti: “Sia fatta la luce: fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino. Fate penitenza: sia fatta la luce. Nell’intimo turbamento della nostra anima ci siamo ricordati di te, Signore, dalle rive del Giordano e dal monte uguale a te, però rimpicciolito per noi. Provammo disgusto delle nostre tenebre e ci volgemmo verso di te: e fu fatta la luce. Ed eccoci un tempo tenebre, ora invece luce nel Signore.


L’attesa della Chiesa militante

13. 14. Tuttavia finora siamo luce per la fede, non ancora per la visione. Nella speranza fummo salvati, e una speranza che si vede, non è speranza. L’abisso chiama ancora l’abisso, ma ormai con la voce delle tue cateratte. Chi dice ancora: “Non potei parlarvi come a esseri spirituali, ma carnali”, pensa di non aver ancora capito nemmeno lui. Dimentico delle cose che stanno dietro le spalle, si protende verso quelle che stanno innanzi e geme sotto il peso del suo fardello. La sua anima ha sete del Dio vivo come i cervi delle fonti d’acqua. Perciò dice: “Quando giungerò?”. Desideroso di essere rivestito della sua abitazione celeste, così apostrofa l’abisso inferiore: “Non uniformatevi a questo secolo, riformatevi invece, rinnovando il vostro cuore”; e così: “Non dovete divenire fanciulli di mente, ma siate piccoli nella malizia per essere perfetti di mente”; e così: “O galati insensati, chi vi ha incantato?”. Ma non è più la sua voce; è la tua, sei tu, che hai mandato il tuo spirito dal cielo per mezzo di Colui, che ascendendo in alto aprì le cateratte dei suoi doni, affinché la piena del fiume rallegrasse la tua città. Per lei sospira l’amico dello sposo, avendo già con sé le primizie dello spirito, ma ancora gemebondo fra sé nell’attesa dell’adozione, la redenzione del suo corpo. Per lei sospira, poiché è membro della sposa; per lei si affanna, poiché è amico dello sposo; per lei si affanna, non per sé, poiché con la voce delle tue cateratte, non con la voce sua, invoca l’altro abisso, oggetto del suo affanno e del suo timore. Teme che come il serpente ingannò Eva con la sua astuzia, così anche i loro pensieri non si corrompano allontanandosi dalla castità, che è nel nostro Sposo, il tuo unigenito. Ma quale non sarà lo splendore della sua luce, allorché lo vedremo com’è, e saranno passate le lacrime, che sono divenute il pane dei miei giorni e delle mie notti, mentre mi si chiede quotidianamente: “Ov’è il tuo Dio?”.


Fede e speranza

14. 15. Anch’io dico: “Dio mio, dove sei?”. Ecco dove sei! Respiro in te un poco, quando effondo su me la mia anima in un grido di esultanza e di lode, concento di una celebrazione festosa. Eppure l’anima è ancora triste, poiché ricade e torna abisso, o piuttosto sente di essere ancora abisso. La mia fede, da te accesa nella notte innanzi ai miei passi, le dice: “Perché sei triste, o anima, e perché mi turbi? Spera nel Signore. La sua Parola è lucerna che rischiara i tuoi passi. Spera e persevera finché sia passata la notte, madre degli empi; finché sia passata la collera del Signore, collera di cui fummo figli anche noi, un tempo tenebre. I residui di quelle tenebre ci trasciniamo dietro nel nostro corpo morto per colpa del peccato, finché aliti il giorno e siano dissipate le ombre. Spera nel Signore”. Fin dal mattino sarò in piedi a contemplare, sempre lo confesserò. Fin dal mattino sarò in piedi a vedere la salvezza del mio volto, il mio Dio, che vivificherà anche i nostri corpi mortali grazie allo spirito che abita in noi, misericordiosamente portato sopra il fiotto tenebroso della nostra intimità. Da lui abbiamo ricevuto in questo pellegrinaggio il pegno di essere presto luce. Ormai siamo salvati nella speranza e figli della luce e figli di Dio, non figli della notte e delle tenebre come un tempo. Fra questi e noi tu solo, nella perdurante incertezza della scienza umana, operi la separazione: poiché vagli i nostri cuori e chiami la luce giorno e le tenebre notte. Chi ci discerne, se non tu?. Ma cosa abbiamo, che non abbiamo ricevuto da te? Vasi d’onore, fummo tratti dalla medesima massa, da cui furono tratti anche altri, vasi di spregio.


Il firmamento simbolo della Scrittura (Gn 1. 7)

15. 16. Chi, se non tu, Dio nostro, creò per noi un firmamento di autorità sopra di noi, nella tua Scrittura divina? Il cielo sarà ripiegato come un libro, e ora si stende su noi come pelle di tenda: l’autorità della tua divina Scrittura è più sublime da che i mortali per cui ce l’hai comunicata incontrarono la morte della carne. Tu sai, Signore, tu sai come rivestisti di pelli gli uomini, allorché per colpa del peccato divennero mortali. Perciò hai disteso come una pelle il firmamento del tuo libro, le tue parole sempre coerenti, che hai posto sopra di noi con l’ausilio d’uomini mortali. Anche grazie alla loro morte il bastione d’autorità delle tue parole per loro mezzo annunciate si stende eccelso sopra ogni cosa, che sta più in basso di loro, mentre non si stendeva così eccelso durante la loro vita quaggiù. Non avevi ancora disteso il cielo come una pelle: non avevi ancora diffuso in ogni luogo la risonanza della loro morte.

15. 17. Fa’ che vediamo, Signore, i cieli, opera delle tue dita. Schiudi ai nostri occhi il sereno oltre la foschia in cui li avvolgesti. Là si trova la tua testimonianza, che comunica la sapienza ai piccoli. Completa, Dio mio, la tua gloria con la bocca degli infanti che ancora succhiano il latte. Davvero non conosciamo altri libri, che stronchino tanto bene la superbia, tanto bene stronchino il nemico, il difensore restio a riconciliarsi con te mentre difende i propri peccati. Non conosco, Signore, non conosco altre espressioni così pure e capaci d’indurmi alla confessione, di ammansire la mia cervice al tuo giogo, di sollecitare a prestarti un culto disinteressato. Fa’ che le capisca, Padre buono; concedimi questa grazia, perché mi sono sottomesso a te e tu hai stabilito saldamente quelle parole per le anime sottomesse.


Le acque sopra il firmamento simbolo degli angeli (Gn 1. 7)

15. 18. Esistono, io credo, altre acque sopra questo firmamento, acque immortali e separate dalla corruzione della terra. Lodino il tuo nome: ti lodino le schiere sopracelesti dei tuoi angeli, che non hanno bisogno di alzare lo sguardo a questo nostro firmamento, e di leggerla, per conoscere la tua parola. Essi vedono in continuazione il tuo volto e vi leggono senza sillabe distribuite nel tempo il volere della tua eterna volontà. Leggono, eleggono e prediligono; leggono perennemente, e ciò che leggono non passa mai, perché leggono, eleggendo e prediligendo, l’immutabilità stessa del tuo volere, codice che mai si chiude, libro che mai si ripiega; tu stesso infatti sei il loro libro, e lo sei in eterno; tu li hai stabiliti sopra questo firmamento stabilito sopra l’instabilità delle genti instabili della terra, affinché queste alzando lo sguardo conoscano la tua misericordia, che ti annuncia nel tempo, creatore del tempo. Nel cielo, Signore, è la tua misericordia, e la tua verità fino alle nubi. Passano le nubi, il cielo invece rimane: passano i predicatori della tua parola da questa vita all’altra vita, la tua Scrittura invece è stesa sopra le genti fino alla fine dei secoli. Anzi, il cielo e la terra passeranno, ma le tue parole non passeranno. Questa pelle sarà ripiegata, l’erba su cui si stenderà passerà col suo splendore; la tua parola invece permane eternamente. Essa ora non ci appare, nell’enigma delle nubi e attraverso lo specchio del cielo, qual è; noi stessi, benché diletti del tuo Figlio, non appare ancora cosa saremo; egli ci guardò attraverso la rete della carne, c’infiammò d’amore con le sue carezze, e noi corriamo dietro il suo profumo. Ma quando apparirà, saremo simili a lui, perché lo vedremo com’è. Vederlo qual è, Signore, è il nostro retaggio, che non è ancora in nostro possesso.


Anelito alla conoscenza di Dio

16. 19. Come tu solo pienamente sei, così tu solo conosci, tu, che sei immutabilmente e conosci immutabilmente e vuoi immutabilmente. Il tuo essere conosce e vuole immutabilmente, la tua conoscenza è e vuole immutabilmente, la tua volontà è e conosce immutabilmente. Ora ai tuoi occhi non sembra giusto che come il lume immutabile si conosce, così sia conosciuto dalla creatura illuminata, mutabile. Perciò la mia anima è quale terra senz’acqua davanti a te, perché, come non può illuminarsi da sé sola, così non può saziarsi da sé sola. Presso di te la fonte della vita, come alla tua luce vedremo la luce.


La riunione delle acque simbolo del mondo pagano (Gn 1. 9)

17. 20. Chi riunì le acque amare in una massa sola? Tutte infatti hanno il medesimo fine: una felicità temporale, terrena, per cui fanno ogni cosa, pur fluttuando nell’infinita varietà delle loro cure. Chi le riunì, se non tu, Signore, che dicesti all’acqua di riunirsi in una sola unione, e alla terra asciutta, assetata di te, d’apparire? Tuo è anche il mare e tu l’hai creato; la terra asciutta le tue mani l’hanno formata. Non è l’amarezza delle volontà umane, ma l’unione delle acque, che ha nome mare. Tu reprimi anche i desideri malvagi delle anime, stabilisci i limiti cui è permesso di giungere, in modo che i loro flutti s’infrangano sopra se stessi. Così crei il mare, secondo l’ordinamento del tuo dominio su tutto.


La terra arida e i suoi frutti simbolo dei fedeli e delle loro opere (Gn 1. 9-12)

17. 21. Invece le anime assetate di te, che appaiono alla tua vista, le distingui con un fine diverso dalla massa del mare, le irrori con riposta e dolce fontana, affinché pure la terra dia il suo frutto: dà il suo frutto la nostra anima e germina per tuo ordine, Signore Dio suo, secondo la sua specie, le opere di misericordia, amando il prossimo e soccorrendolo nei bisogni materiali. Ha in sé il seme per la somiglianza: la nostra debolezza ci muove a compassione e soccorso dei bisognosi, e li aiutiamo come vorremmo essere aiutati se ci trovassimo in uguale bisogno. I suoi non sono soltanto benefìci esili, com’è l’erba di seme, ma si estendono alla protezione, all’aiuto vigoroso e solido, com’è l’albero da frutto; ossia sottrae chi è angariato alle mani del prepotente, fornendogli un’ombra protettiva col valido sostegno di un giusto giudizio.


Il sole, la luna e le stelle simboli delle attività spirituali (Gn 1. 14-18)

18. 22. Così, Signore, così, ti prego, nasca come fai nascere, come dài la gioia e la forza, nasca dalla terra la verità, e la giustizia guardi dal cielo, e siano fatti nel firmamento i lumi: spezziamo all’affamato il nostro pane, introduciamo nella nostra casa il povero senza tetto, vestiamo il nudo e non disdegniamo chi ci è parente, della nostra schiatta. Alla nascita di questi frutti sulla terra, vedi che è bene, e sfolgori mattiniera la nostra luce, e da questa bassa messe dell’azione raggiungendo nelle delizie della contemplazione l’alto Verbo della vita, potessimo apparire come lumi nel mondo, fissi al firmamento della tua Scrittura! Lì tu ci insegni a distinguere le cose intelligibili dalle sensibili, come il giorno dalla notte, o le anime dedite alle cose intelligibili da quelle dedite alle sensibili. Dunque non sei più solo, come prima della creazione del firmamento, a distinguere nel segreto del tuo discernimento la luce dalle tenebre. Anche le tue creature spirituali, poste con diversi gradi proprio in quel firmamento, dopo l’apparizione della tua grazia nell’universo brillino sulla terra e distinguano il giorno dalla notte e segnino il tempo. Infatti i vecchi tempi sono passati, ecco se ne sono costituiti di nuovi; la nostra salvezza è più vicina di quando cominciammo a credere, la notte è andata oltre, il giorno invece si è avvicinato: coroni l’anno con la tua benedizione, mandando operai alla tua messe che altri faticarono a seminare, e ancora ad altre seminagioni, la cui messe si avrà alla fine. Così esaudisci i voti del bramoso e benedici le annate del giusto. Tu invece sei sempre il medesimo e nei tuoi anni, che non finiscono, allestisci il granaio per gli anni che passano. Secondo un disegno eterno certamente tu dispensi alla terra i beni del cielo a tempo debito.

18. 23. Ad alcuni è data per mezzo dello Spirito la parola della sapienza: lume maggiore, destinato a coloro che godono della luce di una verità sfolgorante come a guida del giorno; ad altri la parola della scienza ad opera dello stesso Spirito: lume minore; ad altri la fede, ad altri il potere di guarire, ad altri l’esecuzione di miracoli, ad altri la profezia, ad altri il discernimento degli spiriti, ad altri la varietà delle lingue: e tutti questi ultimi sono come le stelle. Infatti sono tutte operazioni di un unico e medesimo Spirito, il quale le assegna ad ognuno in modo appropriato, secondo il suo volere e facendo apparire questi astri a manifesto vantaggio di tutti. Però la parola della scienza, che comprende tutti i misteri mutevoli nel tempo come la luna, e la conoscenza degli altri doni che ho via via elencato assomigliandoli alle stelle, quanto differiscono dal candido fulgore della sapienza, gaudio del giorno che si annuncia, tanto stanno a guida della nostra notte. Sono infatti necessarie a coloro, cui il tuo prudentissimo servo non poté parlare come a esseri spirituali, ma carnali, lui, che predica la sapienza tra i perfetti. Quanto all’uomo animale, è come un pargolo in Cristo e beve latte finché abbia la forza per ricevere un cibo solido, e la pupilla ferma per sostenere la vista del sole. Non si creda quindi in una notte desolata, ma si soddisfi della luce della luna e delle stelle. Questo ci insegni con sapienza grandissima, Dio nostro, nel tuo libro, il tuo firmamento, per farci distinguere ogni cosa in una visione mirabile, sebbene ancora espressa in segni e in tempi e in giorni e in anni.


Esortazione agli eletti

19. 24. Ma prima lavatevi, purificatevi, eliminate la malvagità dai vostri animi e dalla vista dei miei occhi, affinché appaia la terra asciutta. Imparate a fare il bene, rendete giustizia all’orfano e soddisfazione alla vedova, affinché la terra germini erba da pascolo e alberi da frutta. Venite, discutiamo, dice il Signore, affinché siano fatti i lumi nel firmamento del cielo e brillino sulla terra. Il ricco chiedeva al buon Maestro cosa dovesse fare per ottenere la vita eterna. Gli risponda il buon Maestro, che egli credeva un uomo e nulla più, e invece è buono perché è Dio, gli risponda di osservare, se vuole giungere alla vita, i comandamenti, separare da se stesso le acque amare della malizia e della nequizia, non uccidere, non commettere adulteri, non rubare, non testimoniare il falso, affinché appaia la terra asciutta e germini il rispetto del padre e della madre e l’amore del prossimo. “Ho fatto tutto ciò”, risponde l’altro. Qual è dunque l’origine di tante spine, se la terra può dare frutti? Va’, estirpa i folti pruneti dell’avarizia, vendi quanto possiedi e provvediti di messi dando ai poveri: possederai un tesoro nei cieli. Segui il Signore, se vuoi essere perfetto; assòciati a coloro, fra cui predica la sapienza chi sa cosa assegnare al giorno e alla notte, per impararlo anche tu, perché anche per te siano fatti i lumi nel firmamento del cielo. Ma ciò non si farà, se non sarà là il tuo cuore; non si farà, se non sarà là il tuo tesoro, come udisti dal buon Maestro. E invece la tristezza si diffuse sulla terra sterile, e le spine soffocarono la parola.

19. 25. Però voi, stirpe eletta, debolezza del mondo, che vi siete spogliati di ogni cosa per seguire il Signore, camminate dietro a lui e sgominate la forza; camminate dietro a lui con i vostri piedi radiosi e brillate nel firmamento, affinché i cieli narrino la sua gloria, separando la luce dei perfetti, non ancora simili agli angeli, e le tenebre dei piccoli, non però privi di speranza. Brillate su tutta la terra; il giorno, fulgido del sole, diffonda al giorno la parola della sapienza, e la notte, illuminata dalla luna, annunzi alla notte la parola della scienza. La luna e le stelle brillano alla notte, ma la notte non le oscura, poiché esse la illuminano nella giusta misura. Ecco: quasi Dio avesse detto: “Siano fatti i lumi nel firmamento del cielo”, si produsse improvvisamente un fragore dal cielo, come d’un vento che soffi impetuoso; e apparvero lingue quasi di fuoco, che si divisero e posarono sopra ciascuno di loro. Così si accesero lumi nel firmamento del cielo, che possedevano la parola della vita. Diffondetevi ovunque, fiamme sante, fiamme belle. Voi siete il lume del mondo e non siete sotto il moggio. Colui, a cui vi appiccaste, fu esaltato e vi esaltò. Diffondetevi e manifestatevi a tutte le genti.


I rettili simbolo dei sacramenti, i cetacei dei miracoli, i volatili dei messaggeri evangelici (Gn 1. 20 s.)

20. 26. Anche il mare concepisca e partorisca le vostre opere: le acque producano rettili con anime vive. Separando ciò che è prezioso da ciò che è vile, diveniste la bocca di Dio, per cui dica: “Le acque producano”, non l’anima viva, che produrrà la terra, ma rettili con anime vive e volatili che volano sopra la terra. Come rettili, i tuoi sacramenti, o Dio, ad opera dei tuoi santi attraversano i marosi delle tentazioni mondane per impregnare le genti dell’acqua del tuo battesimo, impartito nel tuo nome. Frattanto si produssero meraviglie grandiose simili agli enormi cetacei, le voci dei tuoi messaggeri volarono sopra la terra in accordo col firmamento del tuo libro. Se lo ponevano innanzi per avere autorità, e sotto di esso volavano ovunque andassero. Né esistono favelle o discorsi, ove non echeggino le loro parole, poiché su tutta la terra si sparse la loro voce, le loro parole sino ai confini della terra. Tu, Signore, le hai moltiplicate con la tua benedizione.


Le acque simbolo delle genti (Gn 1. 21)

20. 27. Io mentisco forse, o confondo confusamente, senza distinguerle, la chiara conoscenza delle cose poste nel firmamento del cielo, e le opere corporee, fluttuanti nel mare e sotto il firmamento del cielo? In verità le nozioni di queste cose sono fisse, determinate, non crescono col succedersi delle generazioni: tali i lumi della sapienza e della scienza; ma le cose per se stesse comportano ricca varietà di operazioni fisiche e si moltiplicano in un continuo crescendo sotto la tua benedizione, o Dio. Tu hai consolato la noia dei sensi umani facendo sì che per i movimenti del corpo una cosa unica si atteggiasse ed esprimesse in molti modi nella conoscenza dello spirito. Le acque produssero queste opere, ma nella tua parola: le necessità dei popoli estraniati dall’eternità della tua verità hanno prodotto queste opere, ma nel tuo Vangelo. Le acque espressero dal loro seno queste opere e la loro languida amarezza fu il motivo per cui producessero queste opere nella tua parola.

20. 28. Tutto è bello, quando è opera tua. Ma tu, ecco, sei indicibilmente più bello, essendo l’autore di ogni opera. Senza la sua caduta, dal seno di Adamo non si sarebbero diffuse le onde salse del mare, ossia il genere umano con la sua curiosità profonda, la sua vanità procellosa, la sua instabilità fluida; non sarebbe stato necessario che i dispensatori della tua parola attuassero materialmente e sensibilmente nella profondità delle acque le tue opere e parole mistiche. Sotto questa luce mi si presentarono ora i rettili e i volatili. Ma gli uomini, pur iniziati e permeati da questi misteri, non progredirebbero, con tutta la loro dedizione, oltre i sacramenti corporali, se l’anima non salisse ancora alla vita spirituale e dopo la parola dell’iniziazione non mirasse alla conoscenza completa.


L’anima viva simbolo dell’anima credente (Gn 1. 24)

21. 29. Perciò grazie alla tua parola non già il mare profondo, ma la terra separata dalle acque amare espresse invece di rettili con anime vive, e volatili, l’anima viva. Questa non ha più bisogno del battesimo, di cui hanno bisogno i gentili, come ne aveva bisogno essa pure, mentre era coperta dalle acque, perché non esiste altra via per entrare nel regno dei cieli, dal momento che hai fissato questa via per entrarvi. Neppure chiede grandiosità di meraviglie per credere: crede anche senza vedere segni e prodigi, è terra credente, già separata dalle acque del mare amare d’incredulità; e le lingue sono un segno non per i credenti, ma per gli increduli. Né ha bisogno, la terra da te stabilita sopra le acque, della specie dei volatili, che produssero le acque a una tua parola. Infondivi la tua parola mediante i tuoi messaggeri. Noi narriamo, sì, le loro opere, ma tu sei che operi in loro, ed esse operino l’anima viva, prodotto della terra, poiché la terra è il motivo per cui fanno ciò in essa, come il mare fu il motivo per cui fecero i rettili con anime vive e i volatili sotto il firmamento del cielo. Di tali esseri la terra non ha più bisogno, sebbene mangi il pesce tratto dal profondo, alla mensa da te preparata davanti agli occhi dei credenti; e tratto dal profondo appunto per nutrire la terra arida. Anche gli uccelli sono prole del mare, eppure si moltiplicano sulla terra: cioè, se l’incredulità degli uomini fu il motivo della prima predicazione evangelica, quest’ultima costituisce di giorno in giorno un incitamento e una benedizione copiosa anche per i credenti; però l’anima viva trae la sua origine dalla terra, poiché solo ai credenti giova la mortificazione dell’amore del secolo, che fa vivere la loro anima per te, mentre era morta quando viveva nelle delizie, delizie, o Signore, mortali. Tu sei infatti la delizia vivificante di un cuore puro.

21. 30. Operino dunque ormai i tuoi ministri sulla terra in altro modo che nelle acque dell’incredulità. Allora predicavano e parlavano attraverso miracoli, simboli e frasi misteriose, ove si affissa l’ignoranza, madre della meraviglia, per il timore ispirato dalle espressioni arcane. Per queste vie entrano nella fede i figli di Adamo, dimentichi di te finché si nascondono alla tua vista, divenendo abisso. Ma operino ancora come su terra arida, finalmente distinta dai gorghi dell’abisso; siano modello ai credenti con la loro vita pubblica, che stimoli a imitarli. Così i credenti non prestano l’orecchio soltanto per udire, ma anche per agire. Cercate Dio, e la vostra anima vivrà, affinché la terra produca l’anima vivente. Non uniformatevi a questo secolo, astenetevi da esso. L’anima vive evitando le cose che cercando muore. Astenetevi dalla ferocia inumana della superbia, dalla voluttà oziosa della lussuria, dal nome ingannevole della scienza, e le fiere diverranno mansuete, le bestie docili, i serpenti innocui: sono infatti espressioni allegoriche dei sentimenti dell’anima. Invece il fasto della vanità, i piaceri della sensualità, il veleno della curiosità sono i sentimenti dell’anima morta. L’anima non muore perdendo ogni sentimento; muore allontanandosi dalla fonte della vita. Il secolo passando la raccoglie, e si uniforma ad esso.


Le fiere e le bestie simbolo degli affetti buoni dell’anima (Gn 1. 24 s.)

21. 31. Ma il Verbo, Dio, è fonte di vita eterna e non scorre. Perciò nella tua parola s’intriga quel distacco. “Non uniformatevi a questo secolo”, ci si dice, affinché la terra irrorata dalla fonte della vita produca l’anima vivente, un’anima che per la tua parola e il tramite dei tuoi evangelisti si mantiene nell’imitazione degli imitatori del tuo Cristo. Questo è il senso dell’espressione secondo la specie, poiché l’uomo emula l’amico: “Siate, dice l’Apostolo, come me, poiché anch’io sono come voi”. Così le fiere dall’anima viva saranno buone per la mansuetudine della loro condotta secondo la tua raccomandazione: Compi le tue opere con mansuetudine, e sarai amato da tutti; e buone le bestie, non appesantite se mangeranno, né affamate se non mangeranno; e buoni i serpenti buoni, privi di veleno per nuocere, ma forniti di astuzia per difendersi, curiosi della natura temporale solo quanto basta per scorgere l’eternità comprendendola attraverso il creato. Questi animali ubbidiscono infatti alla ragione quando, trattenendosi da un’avanzata mortale, vivono e sono buoni.


L’uomo creato a immagine di Dio simbolo dell’uomo rinnovato (Gn 1. 26)

22. 32. Ecco dunque, Signore Dio nostro, creatore nostro, che quando i nostri affetti, causa per noi di morte per una mala vita, si saranno mortificati dall’amore del secolo, e la nostra anima comincerà ad essere davvero viva per una buona vita, e si sarà compiuta la tua parola, che dicesti per bocca del tuo Apostolo: “Non uniformatevi a questo secolo”; allora seguirà anche quanto aggiungesti subito dopo, dicendo: “Riformatevi invece, rinnovando il vostro cuore”, non però secondo la specie, quasi dovessimo imitare i nostri simili che ci precedettero, o vivere sul modello autorevole di un uomo più perfetto. Tu non dicesti: “Sia fatto l’uomo secondo la sua specie”, bensì: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, per farci riconoscere quale sia la tua volontà. Perciò quel tuo ministro, generando dei figli attraverso il Vangelo, per non averli sempre piccoli da nutrire e allattare e tenere fra le braccia come una nutrice, esclama: “Riformatevi, rinnovando il vostro cuore, affinché possiate riconoscere da voi quale sia la volontà di Dio, che è buona, gradevole e perfetta”. Perciò tu non dici: “Sia fatto l’uomo”, bensì: “Facciamo”; non dici: “secondo la sua specie”, bensì: “a nostra immagine e somiglianza”. Chi, rinnovato nel cuore, contempla e comprende la tua verità, non ha bisogno delle indicazioni di altri uomini per imitare la propria specie, ma con le tue indicazioni riconosce da se stesso quale sia la tua volontà, che è buona, gradevole e perfetta. Tu gli insegni, poiché ormai ne è capace, a vedere la trinità dell’Unità e l’unità della Trinità. Quindi è detto al plurale: “Facciamo l’uomo”, e poi aggiunto al singolare: “e fece Dio l’uomo”; è detto al plurale: “a nostra immagine”, e aggiunto al singolare: “a immagine di Dio”. Così l’uomo si rinnova, nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine del suo creatore e, divenuto spirituale, giudica tutte le cose, quelle evidentemente che sono da giudicare, mentre egli non è giudicato da nessuno.


La giurisdizione dell’uomo spirituale (Gn 1. 26)

23. 33. Giudica tutte le cose” significa questo: che ha potere sui pesci del mare e i volatili del cielo, su tutte le bestie e le fiere, su tutta la terra e tutti i rettili che strisciano sulla terra, potere che esercita mediante l’intelligenza della sua mente, con cui ha la percezione di ciò che appartiene allo spirito di Dio. Altrove l’uomo, messo in posizione onorata, non capì; scese al livello delle bestie prive di ragione e divenne simile ad esse. Quindi nella tua Chiesa, Dio nostro, in virtù della tua grazia a lei concessa, perché siamo un tuo prodotto, creature fra opere buone, si trovano, accanto a chi governa secondo lo spirito, altri che secondo lo spirito ubbidiscono ai governanti: e questa è la tua creazione dell’uomo maschio e femmina nella grazia spirituale, perché là non esiste maschio e femmina rispetto al sesso corporeo, non esistendo giudei né greci, servi né liberi. Ebbene, gli esseri spirituali, governanti o sudditi, giudicano spiritualmente: non delle conoscenze spirituali che brillano nel firmamento, poiché non spetta loro il giudizio sopra un’autorità così sublime; nemmeno del tuo stesso Libro, sia pure nei passi oscuri, poiché ad esso sottomettiamo la nostra intelligenza, certi che anche le parti rimaste chiuse ai nostri sguardi furono espresse giustamente e veracemente: l’uomo, benché ormai spirituale e rinnovato nella conoscenza di Dio secondo l’immagine del suo creatore, deve attuare la legge, non giudicarla. Neppure giudica distinguendo gli uomini in spirituali e carnali, che sono noti ai tuoi occhi, Dio nostro, e a noi non ancora rivelati da nessun’opera, così da poterli riconoscere dai loro frutti. Tu invece, Signore, li conosci già, li hai divisi e chiamati in segreto prima che esistesse il firmamento. Neppure delle folle torbide di questo secolo egli giudica, sebbene uomo spirituale. Come potrebbe infatti giudicare coloro che sono fuori, ignorando chi ne verrà nella dolcezza della tua grazia, e chi invece rimarrà nell’amarezza perpetua dell’empietà?

23. 34. Dunque l’uomo che hai fatto a tua immagine non ricevette il potere sui lumi del cielo, né sullo stesso cielo segreto, né sul giorno e sulla notte, da te nominati prima della creazione del cielo, e neppure sull’unione delle acque, ossia il mare. Ricevette il potere sui pesci del mare e i volatili del cielo, su tutte le bestie e tutta la terra e tutti i rettili che strisciano sulla terra: ossia giudica e approva ciò che scopre sano, disapprova invece ciò che scopre guasto nella celebrazione dei sacramenti, cui s’iniziano coloro che la tua misericordia ricerca nella vastità delle acque; nella cerimonia in cui si offre il pesce che viene tratto dalle profondità quale cibo per la terra fedele; nelle espressioni e nei discorsi posti sotto l’autorità del tuo Libro come i volatili sotto il firmamento, quindi le interpretazioni, esposizioni, discussioni, dispute, benedizioni, invocazioni che si rivolgono a te ed erompono dalla bocca in espressioni sonore, cui il popolo risponderà: “Amen”. Se tutte queste parole devono essere pronunciate fisicamente, ne è causa l’abisso del secolo e la cecità della carne. Incapace di scorgere i pensieri, essa richiede fragori nelle orecchie. Così, sebbene i volatili si moltiplichino sulla terra, è però dalle acque che traggono origine. Ancora, lo spirituale giudica approvando ciò che scopre sano e disapprovando ciò che scopre guasto nelle opere e nei costumi dei fedeli, nelle elemosine, paragonabili alla terra ferace, e, quanto all’anima viva, nei sentimenti, ammansiti attraverso la castità, digiuni, i pensieri pii sopra le cose percepite dai sensi del corpo. Si vuol dire insomma che giudica delle cose ove ha pure un potere di correzione.


La moltiplicazione della specie simbolo della varietà dei significati e delle espressioni (Gn 1. 28)

24. 35. Ma che è ciò? di quale mistero si tratta? Ecco, tu, Signore, benedici gli uomini per farli crescere e moltiplicare e riempire la terra: non è un’indicazione che ci dài per farci intendere qualcosa? Perché non hai benedetto allo stesso modo la luce, che chiamasti giorno, il firmamento del cielo, i lumi, gli astri, la terra, il mare? Direi che tu, Dio nostro, che ci creasti a tua immagine, direi che concedesti all’uomo il dono di questa benedizione come un privilegio singolare, se non avessi così benedetto i pesci e i cetacei per farli crescere e moltiplicare e riempire le acque del mare, i volatili per farli moltiplicare sulla terra. Direi quindi che questa benedizione è riservata alle specie che si propagano da se stesse con la generazione, se la ritrovassi per gli alberi, le piante e gli animali della terra. Invece né alle erbe, né agli alberi, né alle bestie né ai serpenti fu detto: “Crescete e moltiplicatevi”, mentre anche queste creature come i pesci, gli uccelli e gli uomini tutte si propagano e preservano la loro specie con la generazione.

24. 36. Che dirò allora, o mio lume, verità? Che ci ritroviamo davanti a una frase vuota e pronunciata inutilmente? No certo, Padre di pietà; lontano dal servo della tua parola una simile asserzione. Se io non comprendo il significato di quel tuo discorso, possa farne un uso migliore chi è migliore, ossia più intelligente di me, in proporzione all’acume da te dato a ciascuno. Gradisci però anche la mia confessione: io ti confesso sotto i tuoi occhi di credere, Signore, che non invano hai parlato così. Neppure tacerò i pensieri che mi suggerisce l’incontro con questa lettura, pensieri veri; né vedo ostacoli alla mia interpretazione del racconto figurato dei tuoi Libri. È chiaro che un’idea intesa dalla mente in un unico modo può essere espressa dal corpo in molti modi, così come la mente può concepire in molti modi un’unica espressione del corpo. Ad esempio, il semplice amore di Dio e del prossimo con quale molteplicità di formule e infinità di lingue, e in ogni lingua con quale varietà infinita di frasi viene esposto materialmente! Così crescono e si moltiplicano i germi delle acque. Considera ancora, o mio lettore, quest’altro fatto: ciò che viene presentato dalla Scrittura ed enunciato dalla voce in un unico modo: In principio Dio creò il cielo e la terra, non viene interpretato in molti modi senza essere travisato, bensì riproducendosi fra interpretazioni giuste?. Così crescono e si moltiplicano i germi degli uomini.

24. 37. Se pensiamo soltanto all’essenza delle cose, non in senso allegorico, ma proprio, le parole: crescete e moltiplicatevi convengono ad ogni creatura che nasce da seme. Se invece le prendiamo come usate figuratamente, quale fu piuttosto, a mio giudizio, l’intenzione della Scrittura, che certamente non attribuì senza motivo questa benedizione ai soli germi degli animali acquatici e degli uomini, troviamo invero delle moltitudini anche nel creato spirituale e corporeo, come nel cielo e nella terra; nelle anime giuste e inique, come nella luce e nelle tenebre; negli autori sacri, per il cui mezzo fu divulgata la Legge, come nel firmamento, che fu stabilito fra acqua e acqua; e nell’associazione dei popoli amari, come nel mare; nello zelo delle anime pie, come sulla terra arida; nelle opere di misericordia attuate nella vita presente, come nelle erbe da seme e negli alberi da frutto; nei doni spirituali manifestati a vantaggio dell’uomo, come nei lumi del cielo; nei desideri moderati, come nell’anima viva. In tutti questi elementi troviamo moltitudini e feracità e sviluppi. Quanto invece alla crescita e alla moltiplicazione di un unico episodio espresso in molti modi, o di un’unica espressione interpretata in molti modi, non le troviamo che nelle immagini espresse materialmente e nelle idee elaborate intellettualmente. Immagini espresse materialmente vedemmo nelle generazioni delle acque, necessariamente originate dall’abisso della carne; idee elaborate intellettualmente nelle generazioni umane, originate dalla fecondità del nostro intelletto. Perciò, secondo il nostro convincimento, tu, Signore, dicesti all’una e all’altra delle due razze: “Crescete e moltiplicatevi”. Con questa benedizione, a mio avviso, ci hai concessa la facoltà e la potestà di esprimere in molti modi un unico concetto che abbiamo acquisito, e di concepire in molti modi un’unica espressione oscura che abbiamo letto. Così si riempiono le acque del mare, mosse soltanto dalla varietà delle interpretazioni; e così la terra si riempie di germi degli uomini, trasparendo la sua aridità alla brama del sapere, e dominandola la ragione.


L’erba e gli alberi simbolo del soccorso prestato agli evangelizzatori (Gn 1. 29)

25. 38. Voglio ancora dire, Signore Dio mio, i pensieri che mi suggerisce il seguito della tua Scrittura. Dirò senza timore, perché dirò la verità, ispirandomi tu a dire ciò che volesti ch’io dicessi di quelle parole. Non credo di dire il vero per ispirazione di altri, che tua: tu sei la verità, ogni uomo invece è menzognero. Perciò chi dice una menzogna dice del suo; per dire il vero, devo dire del tuo. Ecco, tu ci desti per cibo ogni erba da seminare che semina il proprio seme, sopra tutta la terra, e ogni albero che porta su di sé il frutto del proprio seme da seminare. E non solo a noi, ma anche a tutti gli uccelli del cielo, agli animali della terra e ai serpenti. Non li desti invece ai pesci e ai grandi cetacei. Dicevamo infatti come questi frutti della terra designino e rappresentino allegoricamente le opere di misericordia, che offre per le esigenze della vita presente la terra ferace. Era di questa terra il pio Onesiforo, sulla cui casa spargesti misericordia, poiché sovente rifocillò il tuo Paolo e non arrossì delle sue catene. Così fecero, e fruttarono di questa messe, anche i fratelli che dalla Macedonia fornirono a Paolo ciò che gli mancava. Come Paolo si duole invece di certi alberi, che non avevano dato il frutto a lui dovuto, là dove dice: “Al tempo della mia prima difesa nessuno mi assistette, ma tutti mi abbandonarono. Che Dio non gliene chieda ragione!”. È un cibo dovuto ai dispensatori di una dottrina razionale attraverso la comprensione dei misteri divini; a loro dovuto come uomini, ma a loro dovuto anche come anime vive, che si offrono a modello di mortificazioni d’ogni genere; e così a loro dovuto come volatili per le benedizioni che moltiplicano sulla terra, poiché su tutta la terra si diffuse la loro voce.


Intenzione spirituale dell’offerta

26. 39. Si nutrono di questi cibi coloro che li gustano, e non li gustano coloro che hanno per dio il ventre; agli stessi che li offrono, il frutto non è l’offerta, ma l’intenzione dell’offerta. Vedo bene di che gode il servitore di Dio e non del proprio ventre; lo vedo e ne gioisco intensamente con lui. Aveva ricevuto da Epafrodito i doni inviati dai filippesi, ma di che gode lo vedo. Di che gode, di lì anche si nutre. Parlando schiettamente, dice: “Ho goduto straordinariamente nel Signore, perché infine una volta avete rigerminato il pensiero di me, a cui pensavate, ma poi vi siete intorpiditi. Costoro dunque si erano guastati e inariditi, per così dire, in un lungo torpore infecondo di opere buone, ed egli gode per loro, che abbiano rigerminato, non per sé, che sia stato soccorso nell’indigenza. Dunque prosegue dicendo: “Non perché io abbia bisogno, parlo così. Imparai infatti a bastarmi con ciò che ho. So essere povero come so vivere nell’abbondanza. In tutto e dappertutto mi sono avvezzato a essere sazio e affamato, ad avere abbondanza e soffrire miseria. Tutto posso in Colui che mi fortifica”.


Godimento per il valore spirituale del beneficio

26. 40. Di che godi dunque, o grande Paolo? Di che godi, di che ti nutri, uomo rinnovato nella conoscenza di Dio secondo l’immagine del tuo creatore, anima viva per la sua mortificazione così intensa, lingua alata che predica i misteri? A tali anime è certamente dovuto questo cibo. Che ti nutre, dunque? La gioia. Ascoltiamo il seguito: “Eppure - dice - avete fatto bene a condividere la mia angustia”. Ecco di che gode, ecco di che si nutre: della loro buona azione, non del suo sollievo dall’angustia. Può dirti: “Nell’angustia mi hai aperto un varco”, perché sa avere abbondanza e soffrire miseria in te, che gliene dài la forza. “Anche voi infatti, o filippesi, scrive, sapete come all’inizio della mia predicazione evangelica, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi concesse un conto di crediti e debiti, eccetto voi soli. Voi m’inviaste a Tessalonica una prima e una seconda volta di che far fronte alle mie necessità”. Ora gode che siano tornati alle buone pratiche, e si rallegra che abbiano rigerminato, come un campo rinverdito a fertilità.

26. 41. Pensava forse alle proprie necessità quando scriveva: “inviaste di che far fronte alle mie necessità”? gode per questo? No, non per questo. Come lo sappiamo? Perché egli stesso prosegue dicendo: “Non cerco il dono, ma ricerco il frutto”. Ho imparato da te, Dio mio, a distinguere fra il dono e il frutto. Il dono è la cosa in sé, donata da chi offre il necessario, ad esempio denaro, cibo, bevanda, vestito, riparo, aiuto. Il frutto invece è la buona e retta volontà del donatore. Il buon Maestro non si limitò a dire: “Chi accoglierà un profeta”, ma soggiunse: “perché profeta”; non si limitò a dire: “chi accoglierà un giusto”, ma soggiunse: “perché giusto”. Allora sì il primo percepirà la ricompensa dei profeti, il secondo dei giusti. Né si limitò a dire: “Chi darà da bere un bicchiere di acqua fresca a uno dei miei infimi”, ma soggiunse: “unicamente perché mio discepolo”, e concluse: “in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa”. L’accoglienza del profeta, l’accoglienza del giusto, il bicchiere di acqua fresca offerto al discepolo sono i doni; il frutto è l’azione compiuta perché profeta, perché giusto, perché discepolo. Elia è nutrito con frutto dalla vedova consapevole di nutrire un uomo di Dio, e che perciò lo nutriva; dal corvo invece riceveva il dono che lo nutriva, che nutriva non la parte interna, ma l’esterna di Elia, la quale poteva anche deperire per difetto di tale cibo.


Materialismo degli infedeli

27. 42. Quindi dirò la verità in tua presenza, Signore. Uomini indotti e infedeli, che per essere iniziati e guadagnati alla fede hanno bisogno di riti misteriosi e grandiosità di miracoli, designati, noi siamo giunti a credere, col nome di pesci e cetacei, accolgono i tuoi fanciulli per ristorarli fisicamente o comunque aiutarli nelle necessità della vita presente, ignari del motivo e dello scopo per cui bisogna fare questo. Allora né i primi offrono ai secondi, né i secondi ricevono dai primi nessun nutrimento, poiché né i primi compiono le opere con intenzione santa e retta, né i secondi si rallegrano dei loro doni, non vedendovi ancora nessun frutto. In verità nutre l’anima solo ciò che la rallegra: quindi i pesci e i cetacei non mangiano i cibi che la terra produce solo dopo di essere stata distinta e separata dall’amarezza dei flutti marini.


La bella armonia del creato (Gn 1. 31)

28. 43. Finalmente vedesti, o Dio, tutte le cose che avevi creato; ed eccole buone assai. Anche noi le vediamo ed eccole tutte buone assai. L’una e l’altra, in ognuno dei generi delle tue opere, dopo aver detto ad esse di esistere, ed esistettero, vedesti che erano buone. Sette volte ho calcolato che fu scritto che tu vedesti come la tua opera fosse buona. L’ottava è quando vedesti tutte le tue opere, ed eccole non solo buone, ma anche assai buone, siccome tutte insieme. Una per una erano soltanto buone; tutte insieme erano buone e assai. Lo si dice anche di ogni corpo bello: un corpo costituito di tutte membra belle, è di gran lunga più bello delle singole membra che con la loro armoniosissima riunione formano il complesso, sebbene anch’esse siano, singolarmente, belle.


Eternità della visione e della parola divina

29. 44. Ho cercato, dunque, se vedesti per sette o per otto volte che le tue opere erano buone, quando ti piacquero. Ma non ho scoperto nella tua visione l’esistenza di tempi, con cui capire che vedesti tante volte le tue opere. Dissi allora: “O Signore, la tua Scrittura non è forse veritiera, poiché espressa da te, verace e Verità? Perché dunque tu mi dici che nella tua visione non esistono tempi, mentre d’altra parte la tua Scrittura mi dice che vedesti giorno per giorno che le tue opere erano buone, e io calcolandole ho scoperto quante volte?”. Ecco la tua risposta. Tu sei il mio Dio, e dici con voce forte all’orecchio interiore del tuo servo, squarciando col grido la mia sordità: “O uomo, certamente le parole che dice la mia Scrittura, io le dico. Però essa le dice nel tempo, mentre la mia parola non è soggetta al tempo, ferma com’è in un’eternità pari alla mia. Ciò che voi vedete attraverso il mio spirito, io lo vedo; ciò che voi dite attraverso il mio spirito, io lo dico. Ma mentre voi lo vedete nel tempo, io non lo vedo nel tempo; così come, mentre voi lo dite nel tempo, io non lo dico nel tempo”.


Errata concezione manichea della creazione

30. 45. Ho udito, Signore Dio mio, ho delibato una stilla della tua dolce verità. Ho compreso che esistono uomini, cui le tue opere dispiacciono. Essi sostengono che ne compisti molte per forza di necessità, ad esempio gli edifici dei cieli e i sistemi degli astri; per di più, esse non derivarono da te, ma già esistevano, create altrove e diversamente. Tu non avresti fatto altro che concentrarle, connetterle e collegarle, innalzando sulla sconfitta dei tuoi nemici le muraglie del mondo, sì che, sgominati da questa costruzione, non potessero nuovamente ribellarsi contro di te. Il resto poi non sarebbe stato creato e neppure connesso dalle tue mani, ad esempio tutti i corpi di carne, gli animali minori e quanto si radica in terra; è invece uno spirito avverso, un’altra natura non stabilita da te e a te ostile, che li produce e li forma nelle regioni inferiori dell’universo. Così parlano i pazzi, che non vedono attraverso il tuo spirito le tue opere e non ti riconoscono in esse.


Visione nello Spirito divino della bontà di tutto il creato

31. 46. Quanti invece vedono le tue opere attraverso il tuo spirito, sei tu che vedi in loro. Vedono che sono buone, e tu vedi che sono buone; qualunque piace loro per la tua persona, tu piaci loro in quella cosa; e se piace a noi qualcosa per il tuo spirito, piace a te in noi. Chi fra gli uomini conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche ciò che è di Dio nessuno lo conosce, se non lo spirito di Dio. Quanto a noi, continua l’Apostolo, non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo spirito proveniente da Dio, per conoscere i doni ricevuti da Dio. Sono indotto a chiedere: “È vero, nessuno conosce ciò che è di Dio, se non lo spirito di Dio. Come dunque conosciamo anche noi i doni ricevuti da Dio?”. La risposta è che le stesse conoscenze che abbiamo attraverso lo spirito di Dio, nessuno le conosce, se non lo spirito di Dio. Come fu detto giustamente a chi parlava ispirato dallo spirito di Dio: “Non siete voi che parlate”; così si dice giustamente a chi conosce attraverso lo spirito di Dio: “Non siete voi che conoscete”; e altrettanto giustamente a chi vede nello spirito di Dio: “Non siete voi che vedete”. Sempre, quando vediamo nello spirito di Dio che una cosa è buona, non noi, ma Dio vede che è buona. C’è dunque chi giudica cattivo ciò che è buono, ad esempio quei tali, che si menzionano sopra. C’è chi vede buono ciò che è buono, ad esempio i molti, cui piace la tua creazione perché buona, ma in essa non piaci tu, cosicché preferiscono godere di essa, che di te. E c’è l’uomo che vede che una cosa è buona, ma Dio vede in lui che è buona. Allora evidentemente è Dio amato nella sua creazione. Ma Dio non potrebbe essere amato se non attraverso lo Spirito che ci diede, poiché l’amore di Dio fu diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato. Attraverso lo Spirito noi vediamo come tutto ciò che in qualche modo è, è buono, poiché è da colui che non è in qualche modo, ma è Colui che è.

Conclusione

Ringraziamento a Dio per tutta la creazione

32. 47. Grazie a te, Signore. Noi vediamo il cielo e la terra, ossia la parte corporea superiore e inferiore, come la creazione spirituale e corporea. Ornamento delle due parti, di cui consta tanto il complesso della mole del mondo, quanto in generale il complesso della creazione, vediamo la luce, creata e divisa dalle tenebre. Vediamo il firmamento del cielo, quello situato fra le acque spirituali superiori e le acque corporee inferiori, corpo primario dell’universo, come la distesa fisica dell’aria, cui pure si dà il nome di cielo, ove vagano i volatili del cielo fra le acque che sono portate sopra di esso in forma di vapore per poi cadere in rugiada nelle notti serene, e le acque pesanti, che scorrono sulla terra. Vediamo il bell’aspetto delle acque riunite nelle distese del mare, e la terra arida, ora spoglia, ora ornata, fatta visibile e armoniosa quale madre di erbe e di alberi. Vediamo i lumi brillare sul nostro capo, il sole bastare da solo al giorno, la luna e le stelle confortare la notte, tutti insieme regolare e indicare il tempo. Vediamo l’elemento umido pullulare dovunque di pesci, di mostri e di esseri alati, poiché la densità dell’aria, sostegno al volo degli uccelli, si forma mediante l’evaporazione delle acque. Vediamo la faccia della terra adornarsi di animali terrestri, e l’uomo, fatto a tua immagine e somiglianza, collocato sopra tutti gli animali privi di ragione appunto perché tua immagine e somiglianza, ossia dotato di ragione e intelletto. E come nell’anima dell’uomo v’è una parte che delibera e quindi domina, e una parte che soggiace, per ubbidire, così vediamo la donna fatta anche fisicamente per l’uomo. Essa possiede, sì, uguale natura nell’intelligenza razionale, ma nel sesso fisico è sottoposta al sesso maschile, come è sottoposto l’impulso dell’azione, per generare dalla ragione una norma di condotta sagace. Queste cose vediamo, singolarmente buone e tutte buone assai.


I modi della creazione

33. 48. Le tue opere ti lodano affinché ti amiamo, e noi ti amiamo affinché ti lodino le tue opere. Esse hanno inizio e fine nel tempo, ascesa e tramonto, progresso e regresso, bellezza e difetto. Hanno dunque via via il loro mattino e la loro sera, ora occulti, ora evidenti. Dal nulla da te non di te furono create; non da una qualche materia non tua e preesistente, ma da una concreata, ossia da te creata con loro e portata dall’informità alla forma senza alcun intervallo di tempo. La materia del cielo e della terra è infatti altra cosa dall’aspetto del cielo e della terra. La materia deriva dal nulla assoluto, l’aspetto del mondo invece dalla materia informe. Eppure furono due operazioni simultanee, la forma successe alla materia senza l’interstizio di alcun ritardo.


Ricapitolazione dei simboli nel primo capo della Genesi

34. 49. Abbiamo anche esaminato le verità che volesti adombrare con le tue opere, distribuite in quel certo ordine, e in quel certo ordine descritte. Le vedemmo buone una per una, e tutte buone assai. Nel tuo Verbo, tuo unico Figlio, vedemmo il cielo e la terra, il capo e il corpo della Chiesa predestinati prima dell’esistenza di ogni tempo, in assenza di mattino e sera. Poi cominciasti a eseguire nel tempo le opere predestinate. Volevi manifestare i tuoi disegni occulti e ordinare il nostro mondo, disordinato perché i nostri peccati erano su di noi e ci eravamo allontanati da te entro una voragine tenebrosa. Il tuo spirito buono era portato su di noi per soccorrerci nel tempo opportuno. Allora giustificasti gli empi, li separasti dai malvagi, affermasti l’autorità del tuo libro fra gli uomini superiori, che si inchinassero a te, e gli inferiori, che ad essa si piegassero. Riunisti la società degli increduli in una massa unica, per far apparire lo zelo dei credenti, desiderosi di produrti opere di misericordia distribuendo persino le ricchezze terrene ai poveri per acquistare i tesori celesti. Allora accendesti nel firmamento alcuni lumi, i tuoi santi, che possedevano la parola della vita, e che il privilegio dei doni spirituali faceva rifulgere di sublime autorità. Poi, per diffondere la fede tra le genti incredule, producesti dalla materia corporea i sacramenti, i miracoli palesi, gli ammaestramenti verbali conformi al firmamento del tuo Libro, quali benedizioni anche per i credenti. Poi desti forma all’anima viva dei credenti con gli affetti ordinati da una vigorosa mortificazione; rinnovasti a tua immagine e somiglianza la loro intelligenza sottomessa ormai a te solo e non più bisognosa del modello di alcuna autorità umana; sottomettesti, come la donna all’uomo, l’attività razionale al predominio dell’intelligenza, e volesti che a tutti i tuoi ministri, necessari al perfezionamento dei credenti in questa vita, i credenti stessi fornissero il fabbisogno temporale, non senza frutto in futuro. Tutte queste cose vediamo, e sono buone assai, perché le vedi in noi tu, che ci hai dato lo Spirito con cui vederle e amarti in esse.


Invocazione per il riposo del settimo giorno (Gn 2. 2)

35. 50. Signore Dio, poiché tutto ci hai fornito, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. Tutta questa stupenda armonia di cose assai buone, una volta colmata la sua misura, è destinata a passare. Esse ebbero un mattino, e una sera.

36. 51. Ma il settimo giorno è senza tramonto e non ha occaso. L’hai santificato per farlo durare eternamente. Il riposo che prendesti al settimo giorno, dopo compiute le tue opere buone assai pur rimanendo in riposo, è una predizione che ci fa l’oracolo del tuo Libro: noi pure, dopo compiute le nostre opere, buone assai per tua generosità, nel sabato della vita eterna riposeremo in te.

37. 52. Anche allora sarai tu a riposare in noi, come ora sei tu a operare in noi. Sarà, quello, un riposo tuo per mezzo nostro, come sono, queste, opere tue per mezzo nostro. Tu però, Signore, operi sempre e riposi sempre. Non vedi nel tempo, non ti muovi nel tempo, non riposi nel tempo, e tuttavia compi le nostre visioni temporali, il tempo stesso e il riposo dopo il tempo.

38. 53. Noi vediamo dunque la tua creazione perché esiste; ma essa esiste perché tu la vedi. Noi vediamo all’esterno che è, all’interno che è buona; ma tu la vedesti fatta quando e dove vedesti che doveva essere fatta. Noi ora siamo spinti a fare il bene, dopo che il nostro cuore ne ebbe il concetto dal tuo spirito, mentre prima eravamo spinti a fare il male abbandonandoti; ma tu, Dio unico buono, mai cessasti di fare il bene. Possono alcune opere nostre essere buone, certamente per tuo dono, ma non eterne; eppure dopo di esse speriamo di riposare nella tua grandiosa santità. Tu però, Bene mancante di nessun bene, riposi eternamente, poiché tu stesso sei il tuo riposo. La comprensione di questa verità quale uomo potrà darla a un uomo? quale angelo a un angelo? quale angelo a un uomo? Chiediamo a te, cerchiamo in te, bussiamo da te. Cosi, così otterremo, così troveremo, così ci sarà aperto. Amen.