sabato 29 ottobre 2011

Al di là dello Specchio 1

Ancora per i prossimi giorni propongo questo lavoro di un grande uomo di preghiera...

HENRI J. M. NOUWEN
Al di là dello specchio
Riflessioni sulla vita e sulla morte

Queriniana
Titolo originale: Beyond the Mirror.Reflections on Death and Life
Traduzione dall'americano di CHERUBINO MARIO GUZZETTI

L'incidente

Ringraziamenti

Se ho potuto pubblicare questo libro lo devo all'incoraggiamento e al generoso aiuto della mia segretaria Connie Ellis e all'accurato lavoro redazionale di Conrad Wieczorek e Phil Zaeder. A tutti e tre desidero esprimere la mia profonda gratitudine.

Prologo

Questo libro è la storia spirituale di un incidente in cui sono stato coinvolto personalmente. L'ho scritto perché non potevo farne a meno. È stato un incidente che mi ha portato sull' orlo della tomba e mi ha procurato una nuova esperienza di Dio. Se non avessi scritto nulla, sarei venuto meno alla mia vocazione di proclamare la presenza di Dio in ogni tempo e in ogni luogo. Libri e articoli hanno avuto una parte importante nella mia ricerca di Dio, ma sono state soprattutto le 'interruzioni' intervenute nella mia vita di ogni giorno a rivelarmi il mistero divino di cui faccio parte.
Un lungo periodo di solitudine in un monastero trappista che interruppe un'intensa attività didattica, la morte improvvisa di mia madre che interruppe il vincolo più saldo con la mia famiglia, il trovarmi a faccia a faccia
con la povertà nell' America Latina che interruppe una vita comoda e borghese nell' America settentrionale, un invito a vivere con persone mentalmente handicappate che interruppe una carriera accademica, la rottura di una profonda amicizia che interruppe una sensazione sempre più forte di sicurezza affettiva - tutti questi avvenimenti mi obbligarono più volte a chiedermi: «Dov' è Dio? Chi è Dio per me?». Erano interruzioni che si presentavano come altrettante possibilità di andare al di là dei modelli normali della vita di ogni giorno e di trovare connessioni più profonde che non le antiche salvaguardie del mio benessere fisico, affettivo e spirituale. Ogni interruzione m'invitava a considerare in modo nuovo la mia identità davanti a Dio. Ogni interruzione mi portava via qualche cosa, ma mi offriva qualcosa di nuovo in compenso. Al di là del successo nell'insegnamento c'era la pace interiore della solitudine e della comunità; al di là del vincolo con mia madre c'era la presenza materna di Dio; al di là delle comodità dell' America settentrionale c'erano i sorrisi dei figli di Dio in Bolivia e in Perù; al di là della carriera accademica c'era la vocazione di 'toccare' Dio in coloro che hanno mente e corpo infermi; al di là di un' amicizia quanto mai fraterna c'era la comunione con un Dio che voleva ogni fibra del mio cuore. Insomma, al di là di una posizione sociale che mi rendeva piacevole la vita, c'erano le molte possibilità di una relazione con il Dio di Abramo e Sara, di Isacco e Rebecca, di Giacobbe, Lea e Rachele: col Padre di Gesù che si chiama Amore.
Tutte queste interruzioni che m'invitavano ad andare oltre mi costringevano a scrivere. Anzitutto, per il semplice motivo che lo scrivere mi sembrava l'unico modo che avessi per non scoraggiarmi nelle mie interruzioni, spaventose e spesso disastrose, e per non separarmi dalla mia più intima personalità quando mi trasferivo da luoghi noti a luoghi ignoti. Scrivendo, mi era più facile restare uri po' più raccolto in mezzo al tumulto che mi frastornava e discernere meglio la voce soave dello Spirito di Dio, guida sicura in mezzo alla cacofonia di voci che mi distoglievano dalla retta via. C'era però anche un secondo motivo. In un certo senso ero convinto che scrivendo potevo far emergere qualcosa di valore perenne dalle sofferenze e paure della mia povera, effimera vita. Ogni volta che la vita mi chiedeva di fare un altro passo avanti in un territorio spirituale sconosciuto, sentivo una forte spinta interiore di dirlo agli altri -
forse per un bisogno di compagnia, ma forse anche perché sono consapevole che la mia vocazione più profonda è di testimoniare la grazia che Dio mi ha fatto di poterlo intravedere fin da questa vita.
Quando fui colpito da un furgoncino che mi sfrecciò accanto mentre cercavo di ottenere un passaggio con l'autostop e poco dopo mi trovai di fronte alla possibilità della morte fui più che mai consapevole che ciò che stavo vivendo allora dovevo viverlo per gli altri. E adesso che. sono guarito e posso raccontare ciò che è accaduto, sono convinto che quell'interruzione, che avrebbe potuto essere l'ultima, mi ha fatto conoscere Dio in un modo completamente opposto a ciò che avevo imparato fino allora. Sento perciò un bisogno più forte che mai di parlarne e di presentare agli altri la mia nuova conoscenza di Dio, che non posso tenere solo per me.
Spero che questa occhiata «al di là dello specchio» possa dare conforto e speranza ai miei fratelli e alle mie sorelle che non osano pensare alla morte che si avvicina, oppure ci pensano in timore e tremore, ma mai in pace.

L'incidente

Ricordo come fosse adesso quel preciso istante di un buio mattino d'inverno in cui il retrovisore esterno di un furgoncino che mi passava accanto mi urtò nella schiena, scaraventandomi a terra sul ciglio della strada. Compresi subito che per me non c'era più nulla da fare. Non sapevo se fossi stato ferito in modo molto grave: sapevo però che finiva una parte della mia vita e che stava per cominciarne un' altra, avvolta ancora nel mistero.
Mentre mi trovavo là per terra sull' orlo della strada con tante macchine che mi sfrecciavano accanto e invocavo aiuto, ebbi subito fin dal primo istante la chiara percezione che non si trattava solo di un incidente. Più tardi mi sarei reso conto con maggior chiarezza che tutto l'avvenimento era prevedibile, provvidenziale e misteriosamente
predisposto. In quel momento mi preoccupavo soprattutto di essere soccorso, eppure mentre ero là per terra, mi accorgevo che qualcosa di stranamente 'buono' stava accadendo.
Non avevo avuto un minimo di requie per tutta la settimana, preso com' ero da tante piccole cose, nessuna tremendamente importante ma che però mi assorbivano completamente e mi lasciavano stanco morto, e anche un po' irritato. Mi sembrava di non riuscire mai a mettermi in contatto diretto con la mia sorgente interiore. Per fortuna, c'era un' eccezione. Mi avevano chiesto di aiutare Hsi-Fu, un quattordicenne cinese gravemente handicappato, a prepararsi al mattino per la scuola. Nathan e Todd, che di solito aiutavano Hsi-Fu, erano assenti perché partecipavano a un ritiro spirituale, ed ero ben contento di sostituirli. Anzi, mi sentivo privilegiato di poter star vicino a Hsi-Fu. Hsi-Fu è cieco, non può parlare né camminare e ha gravi deformità fisiche; è però così pieno di vita e amore che stando con lui mi riesce più facile entrare in contatto con ciò che dà un vero senso alla vita. Lavandolo, spazzolandogli i denti, pettinandogli i capelli o anche solo guidandogli la mano mentre cerca di mettere un po' di cibo sul cucchiaio e di portarselo alla bocca, si crea una grande intimità, un legame sereno, un momento di vera pace - come se fosse un'ora di meditazione. Avevo già aiutato Hsi-Fu il lunedì, martedì e mercoledì mattina di quella settimana ed ero ben contento di trovarmi di nuovo con lui anche il giovedì.

Hsi-Fu abita nella cosiddetta 'Corner House' nel centro di Richmond Hill, a cinque minuti di macchina da dove abito io. Quel giovedì mattina mi svegliai di buonora e guardando fuori della finestra vidi che il terreno era diventato tutto una lastra di ghiaccio. Ovviamente, era impossibile percorrere in macchina gli ottocento metri fino a Y onge Street. La strada in terra battuta andava bene come pista di pattinaggio, ma se avessi voluto usare la macchina sarei andato a finire in un fossp. Stavo per uscire quando incontrai la mia amica Sue che andava in chiesa a pregare. «Non prendere la macchina», mi disse. «Non ce la fai». «Pazienza!», risposi. «Andrò a piedi. Sono appena le sei, e per le sette arriverò certamente da Hsi-Fu». Ma Sue continuò: «Henri, non uscire! È troppo pericoloso. Da' un colpo di telefono a Corner House, e una soluzione in un modo o nell' altro la troveranno». Ormai però avevo deciso. «Ma sì che posso farcela! E poi, ho promesso di andare e ci andrò». E così uscii di casa e cominciai a strascicare un piede dopo l'altro sulla strada ghiacciata in direzione di Yonge Street. Camminare non era facile e a un certo punto scivolai e caddi lungo disteso per terra. Eppure continuavo a dire a me stesso: «Tira avanti! Puoi farcela. Non lasciarti scoraggiare da un po' di ghiaccio!». Ormai non ero più motivato da spirito di servizio, ma dal desiderio di dimostrare a me stesso che ero in grado di fare quanto avevo promesso, e dal desiderio ancora più forte di non permettere che qualcuno mi portasse via Hsi-Fu, almeno per quella settimana.

Arrivai finalmente a Yonge Street e vidi che avevo impiegato ben quindici minuti. Attraversai la strada e cominciai a camminare verso sud in direzione di Richmond Hill. Mentre camminavo, provavo una grande ansietà. Le macchine mi sfrecciavano accanto e, sebbene il fondo stradale sembrasse libero dal ghiaccio, i margini della strada erano molto pericolosi. Continuavo a inciampare, col rischio di cadere. Quando finalmente arrivai alla stazione di servizio, mi accorsi che erano già le sei e mezza e che ormai era impossibile arrivare a Corner House per le sette.
Proprio allora un camioncino con due uomini a bordo si fermò nella stazione. Decisi di chiedere aiuto. Bussai al finestrino del camioncino, e quando l'uomo seduto vicino all'autista abbassò il vetro, dissi: «Non potreste farmi il favore di portarmi in centro? Devo essere là per le sette, e con tutto questo ghiaccio non ci riesco. Con la macchina, in tre minuti si arriva». L'autista si sporse verso di me e disse: «No, non possiamo aiutarla. Siamo qui per aprire la stazione di servizio. Non abbiamo tempo». Decisi di provare una seconda volta. «Senta, è solo questione di qualche minuto. Sono troppo nervoso per camminare sul ghiaccio. Non potrebbe darmi una mano?». Ma anche questa volta l'autista rispose: «Mi dispiace, ma non abbiamo tempo». Cominciavo a provare un sentimento di rabbia e uno strano desiderio di costringere quei due uomini ad aiutarmi. Insistetti dunque: «Devo proprio essere là - indicai con la mano - dove si vede quel campanile, e se non mi aiutate non arrivo in tempo. Per adesso qui non c'è nessuno che abbia bisogno di voi». Ma l'autista cominciò a parcheggiare il suo camioncino dicendo: «Mi dispiace, ma non abbiamo tempo. Abbiamo il nostro lavoro da fare». Intanto il suo compagno chiuse il finestrino e mi
piantò in asso. D'un tratto fui preso da una grande rabbia. Quei due sconosciuti mi erano diventati nemici. Traboccavo di bile. Ero stato frainteso, respinto, e lasciato al mio destino. Provavo gli stessi sentimenti di un bambino abbandonato da tutti. Mi rimisi in cammino lungo il margine della strada. Sapevo che rischiavo grosso e che dovevo stare bene attento, ma non ci riuscivo. Mi trascinavo con fatica, accecato dai fari delle macchine che mi passavano accanto in una fila interminabile. Eppure ero deciso a ogni costo ad arrivare in tempo. Volevo far vedere a quei due benzinai che potevo fare a meno di loro, che non ne avevo affatto bisogno, che c'era molta gente più. compassionevole di quei due signori e che - a dirla breve - io avevo ragione, e loro torto.

A un certo punto mi voltai verso le macchine che mi venivano incontro con i fari accesi e alzai la mano per indicare che volevo andare verso il centro di Richmond Hill. Macchina dopo macchina sbucavano tutte dalla nebbia mattutina e mi passavano vicino senza fermarsi. E intanto pensavo a quegli autisti che se ne andavano comodi al lavoro, soli nelle loro macchine, e provavo un sentimento di stizza al vedere che nessuno sembrava accorgersi di me o mostrasse la minima voglia di fermarsi a darmi un passaggio per quelle poche centinaia di metri fino a Corner House. Sembrava che tutti - non solo i due benzinai - mi fossero diventati nemici
Ero in preda a una strana ambiguità. Da un lato comprendevo benissimo che in simili condizioni era del tutto irrealistico sperare che un autista mi vedesse, si rendesse conto che avevo bisogno di aiuto e si fermasse a darmi una mano. Erano cose che io stesso non avrei mai potuto fare, se mi fossi recato al lavoro in macchina alle sei e mezza di una gelida mattina d'inverno. D'altro lato, sentivo in cuore una specie di rabbia interiore, una sensazione sempre più forte di essere respinto, e nel mio intimo gridavo: «Perché mi passate tutti accanto, senza curarvi di me, ignorando le mie suppliche, e lasciandomi tutto solo sul margine della strada?». Capivo benissimo l'assurdità delle mie aspettative, eppure mi sentivo traboccare di bile.

Alla fine dovetti concludere che l'unico modo per arrivare a Corner House era di andare a piedi. Intanto, però, era passato un bel po' di tempo, e non potevo certamente trovarmi con Hsi-Fu per le sette. E così, arrabbiato, confuso, nervoso e consapevole di fare una grande sciocchezza, mi misi a correre per Yonge Street, mentre mi risuonavano all' orecchio le parole di Sue: «Henri, è troppo pericoloso...».
Fu allora che avvenne il disastro. Sentii una grossa botta che mi trafisse dalla testa ai piedi e provai un dolore atroce alla schiena, poi inciampai e caddi per terra lungo disteso invocando aiuto. A un certo punto pensai: «Chissà se l'autista che mi ha colpito se n'è accorto, o se invece ha tirato avanti come se nulla fosse?». Poi mi venne un altro pensiero, molto più profondo e importante: «È cambiato tutto! I miei piani non hanno più senso. È una cosa dolorosa, spaventosa, ma forse è per il mio bene». Mi risuonarono all' orecchio le parole di Sue: «È troppo pericoloso, è troppo pericoloso!». Poi più nulla. Ero là bocconi al margine della strada, bisognoso di aiuto. Non riuscivo quasi a muovermi, dipendevo completamente dagli altri, eppure tutto ciò non mi spaventava. Avevo quasi l'impressione di essere stato afferrato da una mano forte che m'avesse costretto a una specie di capitolazione, necessaria per ilmio bene.

Cercavo di attirare l'attenzione dei due benzinai, ma erano troppo lontani per potermi vedere o sentire. Ed ecco, con mia sorpresa, venirmi incontro di corsa un giovanotto che si curvò su di me dicendo: «Lei è stato ferito. Lasci che l'aiuti!». Aveva una voce molto dolce e amichevole. Sembrava un angelo che volesse proteggermi. «Devo essere stato colpito da una macchina che mi è passata accanto», gli dissi. «Non so nemmeno se l'autista se n'è accorto». «Sono io l'autista», mi disse. «L'ho urtata io col retrovisore destro del camioncino, ma poi mi sono fermato per prestarle soccorso... Riesce ad alzarsi?». «Spero di sì», risposi, e col suo aiuto mi rimisi in piedi. «Faccia attenzione», mi disse, «faccia molta attenzione», e insieme ci avviammo verso la stazione di servizio. «Mi chiamo Henri», dissi. E lui: «E ioJon. Vediamo se riesco a far venire un' ambulanza». Entrammo nella stazione di servizio. Jon mi aiutò a sedermi e andò a telefonare. I due benzinai guardavano da lontano senza dir nulla. Dopo un po', Jon cominciò a preoccuparsi. Alla fine mi disse: «Non riesco a mettermi in contatto con nessuna ambulanza. Forse è ancora meglio che la porti io stesso allo York Central Hospital». Andò a prendere il suo camioncino e intanto telefonai a Sue per informarla dell'incidente. Poi salii sul camioncino e partimmo subito per l'ospedale. Guardando fuori dal finestrino, vidi lo specchietto retrovisore tutto contorto e mi resi conto della botta tremenda che avevo preso. Jon era ancora visibilmente sotto shock. A un certo punto mi domandò: «Cosa faceva sul bordo della strada?». Non mi sentivo di dare troppe spiegazioni e mi limitai a dire: «Sono un prete. Vivo in una comunità di handicappati mentali. Stavo andando in una delle nostre case». Tutto costernato, esclamò: «Mio Dio, ho colpito un prete! Mio Dio». Provai simpatia per Jon e cercai di consolarlo dicendo: «Le sono tanto riconoscente perché mi porta all' ospedale. Quando starò meglio, deve venire a trovarmi e a visitare la nostra comunità». «Sì, mi piacerebbe», rispose; ma i suoi pensieri erano altrove.