sabato 29 ottobre 2011

Al di là dello Specchio 3



Guarigione

Nei giorni dopo l'intervento chirurgico, cominciai a scoprire che cosa volesse dire non esser morto e poter guarire presto. Mentre Sue e gli altri visitatori dimostravano grande gioia che stessi abbastanza bene e rin~ graziavano il Signore d'avermi scampato dal pericolo, dovetti affrontare il semplice fatto che ritornavo in un mondo da cui mi ero già congedato. Ero contento di essere ancora in vita, ma a un livello più profondo mi sentivo confuso e mi domandavo come mai Gesù non mi avesse richiamato a casa. Sì, ero felice di essere di nuovo con gli amici, eppure non potevo fare a meno di chiedermi perché fosse meglio che io tornassi a questa 'valle di lacrime'. Ringraziavo di cuore il Signore che mi lasciava vivere ancora un poco con la mia famiglia e la mia comunità, ma sapevo benissimo che continuare a vivere in questo mondo voleva dire affrontare altre lotte, dolori, angosce e solitudine. Nel mio intimo non mi era facile accettare le molte espressioni di gioia per la mia guarigione. Naturalmente, non potevo dire: «Sarebbe stato meglio per voi se io fossi morto, in modo che la mia scomparsa vi avesse avvicinato di più a Dio», eppure era proprio questo che dicevo in cuor mio.

C'era soprattutto un interrogativo che mi ossessionava: «Perché sono ancora in vita; perché non sono stato trovato pronto a entrare nella casa di Dio; perché Dio mi ha chiesto di tornare in un posto dove l'amore è così ambiguo, dove è così difficile vivere in pace e dove le poche gioie si pagano con tanti dolori?». Era una domanda che mi si presentava in molti modi, e dovetti persuadermi che non c'erano risposte belle e fatte da dare una volta per sempre. Negli anni di vita che mi stanno davanti, tale domanda sarà sempre con me e non potrò mai dimenticarmene completamente. Ed è anche una domanda che mi richiama all'essenza della mia vocazione: vivere col desiderio ardente di essere con Dio e non stancarmi di proclamare il suo amore, nell' attesa di goderlo nella sua pienezza.

Il trovar mi a faccia a faccia con la morte mi ha aiutato a comprendere meglio la tensione inerente a questa vocazione. Evidentemente, è una tensione non da risolvere ma da vivere con una profondità che la renda feconda. Una cosa che ho imparato riguardo alla morte è che sono chiamato a morire per gli altri. È fin troppo evidente che il modo in cui muoio influisce su molte persone. Se muoio pieno d'ira e amarezza, mi lascio dietro la famiglia e gli amici con sentimenti di confusione, colpevolezza, vergogna o debolezza. Quando sentii che mi avvicinavo alla morte, mi resi conto all'improvviso della grande influenza che potevo esercitare sul cuore di coloro che stavo per lasciare. Se avessi potuto dire in tutta verità che ringraziavo Dio della vita che mi aveva data, che desideravo perdonare ed essere perdonato, fiducioso che quelli che mi amavano avrebbero continuato a vivere in gioia e pace, e sicuro che quel Gesù che mi chiamava avrebbe guidato tutti coloro che in qualche modo appartenevano alla mia vita: se avessi potuto fare tutto questo, avrei rivelato nell' ora della morte una vera libertà spirituale, maggiore di quella che avevo potuto rivelare in tutti gli anni della mia vita. Mi resi conto a un livello quanto mai profondo che il morire è 1'atto più importante del vivere. Implica infatti una scelta: incatenare altri con la colpa, oppure liberarli con la gratitudine. Si tratta di una scelta tra una morte che dà vita e una morte che uccide. Conosco molte persone che vivono con il sentimento profondo di non aver fatto per quelli che sono morti ciò che volevano fare, né sanno come liberarsi da un tale persistente senso di colpa. Chi muore ha la grande possibilità di liberare coloro che lascia in questo mondo. Nelle ore in cui credevo di morire, i miei sentimenti più forti si concentravano sulla mia responsabilità verso quelli che avrebbero pianto la mia morte. Avrebbero pianto con gioia o con colpa, con gratitudine o rimorso? Si sarebbero sentiti abbandonati o liberati? Alcuni mi avevano recato gravi offese, altri erano stati offesi gravemente da me. La mia vita interiore era stata forgiata dalla loro. Provavo una vera tentazione di restare attaccato a loro nell'ira o nella colpa. Ma sapevo anche che potevo scegliere di separarmene e di arrendermi completamente alla nuova vita in Cristo.

Il mio vivo desiderio di essere unito a Dio per mezzo di Gesù non nasceva da disprezzo per le relazioni umane ma da un' acuta consapevolezza della verità che il morire in Cristo può essere davvero il dono più grande che facevo agli altri. È una serie di piccole morti in cui possiamo liberarci da molte forme di legami, cosicché invece di aver bisogno degli altri viviamo per loro. Le molte fasi di transizione dall'infanzia all' adolescenza, dall' adolescenza all' età adulta e dall' età adulta alla vecchiaia ci offrono sempre nuove occasioni di scegliere per noi o di scegliere per gli altri. Durante queste fasi siamo sempre alle prese con interrogativi come: Desidero il potere o il servizio; voglio farmi vedere o restare nascosto; miro a una carriera coronata da successo o cerco invece di seguire la mia vocazione? Ci troviamo così di fronte a scelte difficili. In questo senso, possiamo dire che la vita è un lungo morire a noi stessi, per vivere nella gioia di Dio e dedicarci completamente agli altri.

Riflettendo su tutto questo alla luce del mio incontro cori la morte, mi rendo conto che è un modo di pensare ben poco familiare non solo per le persone con cui vivo e lavoro, ma anche per me stesso. È solo di fronte alla morte che ho visto chiaramente - e solo per qualche istante - il vero senso della vita. Da un punto di vista intellettuale avevo già capito prima il concetto di morire a me stesso, ma fu solo di fronte alla morte che mi parve di paterne afferrare tutto il significato. Quando vidi che Gesù m'invitava a distaccarmi da tutto, nella piena fiducia che così facendo la mia vita sarebbe stata feconda per gli altri, compresi pure immediatamente quella che era sempre stata la mia vocazione più profonda.

Il mio incontro con la morte mi rivelava qualcosa di nuovo sul significato della mia morte fisica e sul morire a me stesso, che deve durare tutta la vita e che deve precedere la morte del corpo. Adesso devo ricominciare a vivere e a lottare; e questo mi sembra voglia dire che devo proclamare l'amore di Dio in un modo nuovo. Finora ho pensato e parlato guardando dal tempo verso l'eternità, da questa realtà effimera verso una realtà che non vie n meno, dall' esperienza dell' amore umano verso l'amore di Dio. Ma dopo aver toccato 'l'altra sponda', mi sembra che devo essere un nuovo testimone: un testimone che si rivolge al mondo delle ambiguità dal luogo dell'amore incondizionato. E un cambiamento così radicale che potrebbe riuscirmi molto difficile, perfino impossibile, trovare parole che possano giungere al cuore dei miei fratelli. Ho però la sensazione che ci devono essere delle parole adatte a risvegliare le brame più profonde del cuore umano.

Mi risuonano all'orecchio le parole di Gesù al Padre: «I miei discepoli non sono del mondo, come io non sono del mondo... Santificali nella verità; la tua parola è verità» (Gv 17,16-18). La mia esperienza dell'amore di Dio nelle ore in cui ho sfiorato la morte mi ha fatto capire che non appartengo al mondo - alle potenze oscure della nostra società. È una verità che mi è penetrata più profondamente in cuore e mi ha aiutato ad accettare più pienamente la mia identità. Sono figlio di Dio, fratello di Gesù. Sono al sicuro nell'intimità dell' amore di Dio. Quando Gesù fu battezzato nel Giordano, si udì una voce dal cielo che diceva: «Questo è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Erano parole che rivelavano la vera identità di Gesù: Figlio prediletto. Gesù udì veramente quella voce, e tutti i suoi pensieri, parole e azioni provennero dalla sua profonda conoscenza di essere infinitamente amato da Dio. Fonte di tutta la vita di Gesù fu proprio quel luogo interiore di amore. Rifiuti, risentimenti, gelosie e odi degli uomini lo ferivano profondamente, ma egli restò sempre ancorato nell'amore del Padre. Al termine della sua vita disse ai discepoli: «Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv16,32).

Ora so che le parole dette a Gesù mentre veniva battezzato sono dette anche a me e a tutti quelli che sono fratelli e sorelle di Gesù. La mia tendenza a rifiutare e deprezzare me stesso mi rende difficile ascoltare bene queste parole e farle scendere in fondo al cuore. Ma una volta che io abbia accolto pienamente queste parole, non mi sentirò più costretto a dimostrare al mondo le mie capacità e potrò vivere nel mondo senza appartenere al mondo. Una volta che io abbia accettato la verità che sono un figlio prediletto di Dio, amato senza condizione alcuna, potrò essere mandato nel mondo a parlare e fare come Gesù.
Il grande compito spirituale che mi sta di fronte è di essere talmente sicuro che appartengo a Dio da poter essere libero nel mondo - libero di parlare anche quando le mie parole non sono accolte; libero di agire anche quando le mie azioni sono criticate, derise o considerate inutili; libero anche di accettare l'amore degli altri e di ringraziare Dio per tutti i segni della sua presenza nel mondo. Credo che sarò veramente capace di amare il mondo quando sarò pienamente convinto di essere amato ben al di là dei confini del mondo.

Quando mi risvegliai dopo l'operazione e mi accorsi che non ero nella casa di Dio ma ancora vivo in questo mondo, ebbi la percezione immediata di essere mandato da Dio a far conoscere l'amore infinito del Padre a coloro che hanno fame e sete di amore, ma che spesso lo cercano in un mondo in cui non lo si può trovare.
Ora comprendo che il 'far conoscere' non riguarda in primo luogo parole, argomenti, linguaggio e metodi. Riguarda invece un modo nuovo di essere nella verità, che cerca non tanto di persuadere quanto piuttosto di dimostrare. È così che fanno i testimoni. Sono stato rinviato in terra, ma devo restare dall'altra parte. Devo vivere l'eternità mentre mi occupo dei problemi umani nel tempo. Devo appartenere a Dio mentre mi dedico al prossimo.

Avendo toccato l'eternità, mi sembra impossibile tendere ad essa come se non fosse già qui. Gesù parlò al mondo, restando però sempre in intima comunione col Padre e unendo in tal modo la terra al cielo. A Nicodemo egli disse: «Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto» (Gv3,11). Posso anch'io diventare come Gesù e testimoniare ciò che ho visto? Certamente! Posso vivere in Dio e parlare alla realtà umana. Posso sentirmi a casa mia in ciò che è eterno e vedere il vero significato di ciò che passa. Posso abitare nella casa di Dio e sentirmi a mio agio nelle case degli uomini. Nutrendomi del pane di vita posso lavorare per la giustizia e per chi muore di fame per mancanza di cibo. Posso pregustare la pace che non è di questo mondo e impegnarmi nelle lotte umane per consolidare la giustizia e la pace qui in terra. Posso nutrire fiducia di avere in certo senso già raggiunto il cielo, e dal cielo posso partecipare alla continua ricerca di Dio che mi vede impegnato insieme ai miei fratelli. Posso fare in modo che 1'esperienza di appartenere a Dio sia il luogo dal quale posso vivere il dolore umano di chi è senza tetto e senza affetta.

C'è tuttavia il pericolo di falsa sicurezza, d'immaginaria chiarezza e perfino di assolutismo o dogmatismo: la vecchia tentazione di dominare. Un discorso fatto nell' eternità e rivolto al tempo può facilmente sembrare oppressivo, in quanto presenta risposte prima ancora che si facciano domande. Ma tutta la vita pubblica di Gesù proveniva 'dall'alto'; il suo apostolato nasceva dalla sua relazione col Padre in cielo. Tutte le domande che Gesù ha fatto, tutte le risposte che ha dato, tutte le contestazioni che ha suscitato e le consolazioni che ha offerto erano radicate nella sua conoscenza dell' amore incondizionato del Padre. Il suo apostolato non era oppressivo, poiché proveniva dalla sua profonda esperienza di essere amato in modo incondizionato e non era affatto motivato da un bisogno personale di affermazione e accettazione. Gesù era assolutamente libero appunto perché non apparteneva al mondo, ma esclusivamente al Padre. L'apostolato di Gesù è modello di ogni apostolato. Perciò, un discorso che provenga 'dall'alto' non può essere autoritario, subdolo od oppressivo. Dev'essere però ancorato in un amore che sia non solo libero dalle costrizioni e ossessioni che contaminano le relazioni umane, ma libero anche di intervenire nelle sofferenze umane, in spirito di compassione e perdono.

Quanto a me, si tratta di sapere se il mio incontro con la morte mi abbia liberato dai legami del mondo in misura tale che mi permetta di essere fedele alla mia vocazione, come la vedo adesso che sono stato 'mandato' dall' alto. Tutto questo implica evidentemente un invito alla preghiera, alla contemplazione, al silenzio, alla solitudine e al distacco interiore. Devo continuare a scegliere di 'non appartenere' al mondo per appartenere a Dio, di non provenire dal basso per provenire dall' alto. Il gusto dell' amore incondizionato di Dio scompare subito quando ricompaiono e si fanno sentire le potenze della vita di ogni giorno. La chiarezza del significato della vita percepita su un letto di ospedale svanisce quando ritornano i molti obblighi quotidiani e ricominciano a dominare la vita. Ci vuole una disciplina enorme per continuare ad essere discepolo di Gesù, per restare ancorato nel suo amore e per vivere soprattutto 'dall'alto'. Ma non posso negare la verità dell' esperienza dell' ospedale, anche se mi sembrò soltanto un raggio di sole in un cielo ricoperto di nubi. Le molte nubi della vita non possono più ingannarmi fino al punto di farmi credere che non è il sole che dà luce e calore. Gesù dice: «lo sono la via, la verità e la vita». Ormai non ho più bisogno di ricordare o meditare queste parole, perché hanno toccato il centro del mio essere e sono diventate tangibile realtà. Nella prospettiva di questa realtà, persone, cose e avvenimenti sono reali a motivo della loro connessione con l'amore e la vita di Dio, che mi si sono rivelati in Gesù. Senza questa connessione divina, persone, cose e avvenimenti perdono ben presto la loro qualità eterna e diventano cose e fantasie evanescenti. Appena non sono più in contatto col Dio che è Verità, Vita e Luce, sono di nuovo irretito nelle infinite 'realtà' di ogni giorno che mi si presentano come se avessero un valore supremo. Senza uno sforzo molto deciso e personale di tenere Dio al centro del mio cuore, non ci vorrà molto tempo prima che l'esperienza dell' ospedale si riduca a un pio ricordo.

Il modo in cui i miei amici reagirono alla mia guarigione mi fece riflettere sul modo in cui la vita e la morte sono percepite nella nostra società. Tutti quanti si congratularono con me perché mi ero ristabilito in salute e ringraziarono Dio che stessi così bene. Da parte mia ero profondamente grato per l'attenzione e 1'affetto che mi dimostravano, eppure l'incontro con Dio nelle ore in cui sfiorai la morte m'induceva a chiedermi se lo stare 'così bene' fosse proprio la cosa migliore per me. Non sarebbe stato meglio se Dio mi avesse completamente liberato da questo mondo ambiguo e ricondotto a casa, in piena comunione con lui? Non sarebbe stato meglio lasciare questo mondo mortale e raggiungere la definitiva salvezza nella realtà incorruttibile di Dio? Non sarebbe stato meglio arrivare alla mèta anziché essere ancora in viaggio? Eppure tutti quelli che mi mandarono lettere o fiori o che mi telefonarono erano di parere contrario. Il che non mi sorprese, perché anch'io avrei reagito alla malattia di un amico nello stesso modo. E tuttavia un po' sorpreso lo fui al vedere che nemmeno uno prospettò l'idea che il mio ritorno alla vita di prima non fosse necessariamente la migliore conclusione possibile del mio incidente. Non ci fu nessuno che mi scrivesse: «Dev'essere stata per te una delusione il vedere che non sei stato trovato pronto a essere riunito completamente col tuo Signore al quale hai dato la tua vita; però, come tuo compagno di viaggio, ti accolgo volentieri in mezzo a noi a lottare in questa vita». È chiaro che gli innumerevoli testi liturgici che parlano della nostra brama di vivere con Dio nella gioia e nella pace eterna non esprimono il nostro vero desiderio. I miei amici sono convinti che la vita in questa terra, per quanto dolorosa e infelice, è preferibile al compimento delle promesse di Dio, al di là dei limiti della nostra morte. Non dico affatto questo con cinismo. So fin troppo bene che non sono diverso dai miei amici. Ma avendo dato un' occhiata furtiva al di là dello specchio della vita, mi chiedo adesso se la nostra brama di restare attaccati a questa vita non indichi che abbiamo perso il contatto con uno degli aspetti più essenziali dei nostro credo: la fede nella vita eterna.

Tutto questo però non mi aiuta a scoprire che cosa significhi veramente ritornare a vivere. Mi chiedo con apprensione sempre maggiore se Dio non mi abbia regalato alcuni anni di vita proprio perché io li viva come se fossi già sull' altra sponda. 'Teologia' vuoI dire guardare il mondo dalla prospettiva di Dio. Forse mi viene data la possibilità di vivere in modo più teologico, e di aiutare gli altri a fare lo stesso senza dover essere colpiti dal retrovisore di un furgoncino, come sono stato colpito io.

A mano a mano che mi rimetto pienamente in forze, scopro che il dilemma di Paolo - se onorare Cristo vivendo o morendo è diventato il mio dilemma. La tensione creata da questo dilemma sta ormai alla base della mia vita. Ecco le parole di Paolo:

Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più che necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere di aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi (Fill,21-26).

E adesso che ritorno alla vita normale, prego il Signore che queste parole di Paolo mi siano sempre più di guida nella vita. Mi san reso conto che la mia morte avrebbe potuto essere un dono per gli altri, ma ora so pure che la vita che mi resta da vivere è anch' essa un dono, perché morte e vita trovano il loro vero significato nella gloria di Gesù Cristo. Perciò, nulla deve angustiarmi. Il Cristo risorto è Signore dei vivi ed è Signore dei morti. A lui ogni gloria, onore e lode! Forse il retrovisore di un furgoncino mi ha toccato proprio per ricordarmelo.

Epilogo

È già passato qualche mese da quando ho scritto queste pagine sulla mia esperienza con la morte. Rileggendole adesso che sono immerso di nuovo nei problemi della vita di ogni giorno, devo chiedermi: «Sarò capace di praticare ciò che ho imparato?».

Qualche tempo fa un amico mi ha detto: «Quando eri malato eri raccolto e calmo, e le molte persone che venivano a trovarti sentivano che emanavi una grande pace; ma adesso che sei guarito e hai ripreso le tue numerose attività, sei quasi diventato inquieto e ansioso come prima». Sono parole che devo meditare con grande attenzione. Ciò che ho intravisto «al di là dello specchio», pur essendo reale e potente, riesce ancora per caso a tener mi concentrato in Dio quando tornano a farsi sentire le esigenze della nostra convulsa società? Sono in grado di restar fedele alla verità della mia esperienza di ospedale? A prima vista, sembrerebbe di no. Come si fa a continuare a credere al potere di Dio che unisce e guarisce, quando altro non vedo che rottura e separazione?

Il mondo in cui vivo oggi non sembra più un suolo fertile in cui il seme della grazia possa crescere vigoroso e dare frutti. Guardandomi intorno qui dove abito e vedendo tanti bulldozer che stanno rovinando questa splendida campagna per costruirci su delle case l'una accanto all' altra come tante macchine in un parcheggio sono costretto a concludere che è giunta l'ora di dire addio alla solitudine, al silenzio e alla preghiera: cose tutte che sono fuggite via insieme ai cervi che una volta abitavano qui. Concorrenza, ambizione, rivalità e un vivo desiderio di prestigio e potere sembrano costituire le vere finalità della vita. Il mio letto nell'unità di cura intensiva e quello al quinto piano dello 'York Central Hospital' sembravano luoghi sicuri e santi, se paragonati al caos dello 'sviluppo' urbano. Ma poi c'è la mia comunità di persone handicappate e dei loro assistenti. Che sarà di loro? Sono convinto che riusciranno a rendere possibile anche l'impossibile, perché in questo ambiente assetato di potere, la nostra comunità è così debole e vulnerabile, che Dio continua a dimostrarci lo stesso amore dimostrato a me quando mi trovavo a faccia a faccia con la morte.

Tra le esperienze più belle e confortanti delle mie ultime settimane all'ospedale ci furono le visite di mio padre e di mia sorella, degli amici e dei membri della mia comunità. Specialmente questi ultimi disponevano di tutto il tempo che volevano. Non avevano nulla di più importante da fare. Se ne stavano seduti tranquilli vicino al mio letto, ed erano soprattutto i più handicappati che partecipavano più intensamente alle mie sofferenze. Adam, Tracy e Hsi-Fu vennero con le loro sedie a rotelle. Non dicevano niente: se ne stavano là a ricordarmi che mi amavano come io li amavo. Sembrava volessero dirmi che avevo sfiorato davvero la morte, e col loro silenzio mi promettevano di aiutarmi a restar fedele a quell'esperienza. Quando Hsi-Fu venne a trovarmi si mise a saltare su e giù nella sedia a rotelle, e quando lo abbracciai, non finiva più di baciarmi. La mattina dell'incidente volevo andare da lui, ma alla fine è stato lui a venire da me, come per dirmi: «Non preoccuparti: il bagno me l'hanno fatto lo stesso. Se mi starai vicino, non dimenticherai ciò che hai imparato nel tuo letto d'ospedale».

Ho già perduto gran parte della pace e libertà che godevo all' ospedale. Me ne dispiace e me ne rattristo. Sono qui di nuovo in mezzo a un continuo viavai di gente, sommerso da progetti e tirato da una parte e dall'altra. Non ho mai il tempo di fare tutto quello che vorrei per sentirmi soddisfatto. Non sono più sereno e raccolto come durante l'ultima malattia. Vorrei esserlo. Ne ho un vivo desiderio. È un desiderio che condivido con molta gente sempre indaffarata. Hsi-Fu e tutte le persone deboli e malate del mondo, proprio perché non hanno nulla da dimostrare, nulla da compiere, sono lì a ricordarmi continuamente la morte che ho conosciuto come luogo di suprema verità. Essi non devono ottenere nessun successo, non devono salvaguardare nessuna carriera né devono difendere l'onore di nessun nome. Sono sempre «sotto cura intensiva», sempre dipendenti, sempre a due passi dalla morte. Possono dunque mettermi in contatto e tenermi sempre vicino a quel luogo in me dove sono come loro: debole, malato e totalmente dipendente da altri. È il luogo della vera povertà dove Dio mi proclama beato e mi dice: «Non temere. Tu sei il mio figlio diletto in cui mi sono compiaciuto». Sento risuonare continuamente all' orecchio le parole di Gesù:

«In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). E in realtà, il mio incidente mi ha reso - almeno per un po' di tempo - come un bambino e mi ha fatto pregustare qualcosa del regno dei cieli. Ma purtroppo tutte le tentazioni sconosciute ai bambini mi hanno già assalito e non mi sorprende che alcuni dei miei amici pensino che potevo dare molto di più quando ero malato che non adesso che sono guarito. In ogni modo, non posso certo starmene ad aspettare che un altro incidente mi ricordi il regno dei cieli. Devo semplicemente aprire gli occhi al mondo in cui sono stato posto e scorgervi le persone che possono sempre aiutarmi a diventare bambino. So di certo che il mio incidente aveva il solo scopo di ricordarmi chi sono e che cosa devo diventare.