martedì 11 ottobre 2011

Dio ci ha dato gli occhi, però...




Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono duramente condannandolo. Il maestro, invece, non reagì e non lo punì. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: «Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!». «Ãˆ vero, ma anche le palpebre!», replicò il maestro.

A proposito di occhi, come non ricordare che il miglior commento a questo bell'apologo della spiritualità indiana è proprio nel Vangelo? «Perché guardi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello e non t'accorgi della trave che hai nel tuo occhio?» (Matteo 7,3). Ci sono in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, questi occhiuti censori del prossimo, implacabili nel denunciare gli errori altrui, sdegnati perché si è troppo corrivi e misericordiosi. Si ergono altezzosi nel loro compito di giudici, attestando che essi vogliono rendere un servizio alla verità e alla giustizia e che il loro sdegno è profondo e amaro ma sincero. In realtà, essi si crogiolano nel gusto di sparlare degli altri e si collocano su un piedestallo che spesso è falso e artificioso: la parabola del fariseo e del pubblicano è il miglior ritratto di questi personaggi. Il racconto indiano sopra citato è accompagnato da un paio di versi dello sterminato (almeno 106 mila distici!) poema epico indiano Mahabharata: «L'uomo giusto si addolora nel biasimare gli errori altrui, il malvagio invece ne gode». Purtroppo, si deve confessare che questo sottile e perverso piacere di aprire tutti e due gli occhi sulle colpe del prossimo è una tentazione insopprimibile che lambisce tanti. Infatti — ed è il Cortegiano dell'umanista Baldesar Castiglione a ripeterlo — «tutti di natura siamo pronti più a biasimare gli errori, che a laudar le cose ben fatte».


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A commento del "Mattutino" del Card. Ravasi, che ho riportato sopra, propongo una pagina di
Simone di Taibuteh, monaco a Rabban Shabur in Siria vissuto tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo.

"Carissimo, fà in modo di acquisire la bontà dell'anima, che è ciò che ti fa assomigliare a Dio. E' scritto infatti: "Colui il cui occhio è puro non vede il male". Tu dunque acquisisci un occhio buono che non invidi nè veda le debolezze altrui,e non giudichi il prossimo...
Non disperare assolutamente, pensando che i tuoi peccati di un tempo non ti siano stati rimessi. Il Signore è vicino ai contriti di cuore e salva coloro che gridano a Lui.
Non confidare assolutamente nelle tue fatiche, nella tua ascesi, nelle tue veglie, nei tuoi digiuni, come se fossero queste realtà a procurarti la corona della giustizia, senza l'aiuto, nascosto o manifesto di Cristo nostro Signore. Quella bocca che non mente ha decretato infatti: "Senza di me non potete far nulla".
Certo, le fatiche della conversione sono i sentieri in cui hanno camminato i nostri padri secondo lo Spirito, in quella via stretta che conduce alla vita e chiunque, facendo a meno di queste (le fatiche della conversione, n.d.r.), cammina in questa via di santità con leggerezza e rilassatezza, con un modo di fare segnato da errore e ignoranza, ha nella perdizione la sua fine e si prepara un posto nella geenna.
Ma tu, caro fratello, incidi nel tuo cuore i comandamenti di Dio! Scrivili su carta e appendili davanti ai tuoi occhi, e meditali continuamente! Ed essi ti condurranno alla verità immutabile.
Fà attenzione a non abituare la tua lingua alla vanità o a discorsi verbosi, anche se fossero utili, o alla menzogna, o ai giuramenti, o alle disquisizioni astratte.
Rigetta lontano da te i guadagni impuri, il desiderio di spuntarla, l'amore per l'onore e il riposo del corpo.
Non disprezzare nessuno come cattivo e non rovinare la reputazione di alcuno, nè con il volto nè con il cuore. Il tuo pensiero non ruggisca in te contro nessuno".
Dal "Discorso per la consacrazione della cella" di Simone di Taibuteh, monaco