domenica 16 ottobre 2011

La sfida per uscire dall’indifferenza


Le violenze di ieri a Roma (a ROMA!) sono avvenute in perfetta concomitanza cronologica con l'incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione: non so che cosa possa aver spinto quel giovane "indignato" a profanare una Chiesa, a rovinarne gli arredi, a infierire sul Crocifisso e a distruggere la statua della Madonna. Di sicuro so che lui, come tutti gli altri, del resto, ha bisogno urgente di ascoltare la Buona Notizia della nostra (e sua, anche) Salvezza.

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Anticipo di seguito stralci dal primo capitolo del libro La nuova evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza (Milano, Mondadori 2011, pagine 146, euro 18) che si apre con il ricordo dell’udienza privata concessa il 29 marzo 2010 da Benedetto XVI all’autore.


di Rino Fisichella

Mai avrei pensato, sedendomi davanti a un Benedetto XVI sorridente e quasi compiaciuto, che egli mi dicesse testualmente: «Ho pensato molto in questi mesi. Desidero istituire un dicastero per la nuova evangelizzazione e le chiedo di esserne il presidente. Le farò avere dei miei appunti. Cosa ne pensa?». Ero molto sorpreso, riuscii solo a dire: «Santo Padre, è una grande sfida».

L’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ha radici in un retroterra importante da cui esso è sostenuto e che gli consente di trovare un solido fondamento e orientamento per il suo impegno futuro. Sono convinto che questo dicastero rappresenti uno dei frutti più maturi del Vaticano II. A cinquant’anni ormai dall’apertura di quel concilio è necessario ritornare alle parole di Giovanni XXIII per verificare le finalità del Vaticano II. Nel suo discorso programmatico, Gaudet Mater Ecclesia, più volte compare il riferimento alla capacità di guardare al contemporaneo nel suo mutato rapporto con Dio, per ritrovare le forme adeguate in grado di fargli intendere il Vangelo.

L’espressione teologicamente più forte, probabilmente, è anche quella più conosciuta: «Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione». Diverse volte, nello stesso discorso, il Papa fece riferimento a concetti che sono rapportabili al tema della nuova evangelizzazione. Egli parlò di «vigore di nuove energie», «un nuovo ordine di cose», «guardare al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico», «noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli». Tutte queste espressioni sono indice di una lungimiranza che vedeva un nuovo modo di annunciare il Vangelo di sempre.

Si potrà discutere molto su cosa il Vaticano II abbia rappresentato nella storia della Chiesa recente; da qualsiasi parte lo si osservi, comunque, esso continua a perseguire lo scopo di voler rimettere la Chiesa sulla carreggiata principale dell’evangelizzazione del mondo contemporaneo. Sia la Lumen gentium, sia laGaudium et spes, per far riferimento alle due costituzioni più ecclesiologiche, ma anche la Sacrosanctum concilium e la Dei Verbum, non fanno altro che esprimere la stessa idea di fondo con la problematica sottesa, vale a dire come esercitare la missione principale e prioritaria dell’annuncio del Vangelo in modo rinnovato ed efficace.

Circa dieci anni più tardi, Paolo VI convocava il sinodo dei vescovi sul tema dell’evangelizzazione e la sua Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) conserva intatta la propria attualità. Il Papa faceva eco alle parole di Giovanni XXIII e le confermava: «In questo decimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, i cui obiettivi si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo... è assolutamente necessario metterci di fronte ad un patrimonio di fede che la Chiesa ha il dovere di preservare nella sua purezza intangibile, ma anche di presentare agli uomini del nostro tempo, per quanto possibile, in modo comprensibile e persuasivo» (2-3). Non troviamo in questa Esortazione l’espressione «nuova evangelizzazione»; eppure, si parla concretamente di un nuovo modo di annunciare il Vangelo. Quelle pagine, tra l’altro, sono un’impressionante analisi dei cambiamenti avvenuti nel mondo toccato dal fenomeno della contestazione generalizzata.

Il concilio, per motivi cronologici, non aveva avuto neppure il tempo di accorgersene, ma nel sinodo quelle problematiche erano ben presenti, così come con evidenza emergeva il desiderio della Chiesa di ritrovare la via maestra della missione, anche se i vescovi non trovarono piena sintonia circa le modalità di realizzazione.

L’espressione di Paolo VI: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (20), se da una parte manifesta il nocciolo della questione, dall’altra provoca ancora una volta, dopo decenni passati a riflettere seriamente sul fatto, soprattutto alla luce di un’altra espressione sintomatica di Papa Montini ripresa nella Caritas in veritate da Benedetto XVI, secondo cui «Il mondo soffre per la mancanza di pensiero» (53). Certo, ricordava con vigore Paolo VI: «Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno che il Vangelo annunzia è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» (20). Per questo motivo sosteneva senza retorica che «Occorre evangelizzare — non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici — la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione Gaudium et spes, partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (20).

Giovanni Paolo II, con tutta la forza del suo magistero, introduceva la formula «nuova evangelizzazione». Difficile poter stabilire se il Papa con quell’espressione riuscisse a prefigurarsi pienamente il reale movimento che si sarebbe creato in seguito; pur nella sua ambiguità, comunque, essa indicava plasticamente il cammino da percorrere e trovava nelle diverse forme della pastorale un riscontro fortunato. A partire da qui, infatti, tante realtà ecclesiali compresero che la loro azione doveva essere indirizzata verso questo orizzonte. Molti compresero l’urgenza e applicarono a sé le parole di Paolo: «È un dovere per me predicare il Vangelo: guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Corinzi 9, 16), e riportarono entusiasmo e forza dove si erano infiltrate stanchezza e confusione.

Insomma, la questione dell’evangelizzazione, da una parte, mostra il nucleo fondamentale con il quale la Chiesa si deve confrontare nel corso dei secoli, perché appartiene alla sua stessa natura; dall’altra, evidenzia che le ripetute soluzioni avanzate negli ultimi decenni pur nella bontà e qualità delle proposte appaiono, comunque, insufficienti e richiedono un rinnovato impegno che coinvolga la Chiesa in prima persona.
Fonte: Osservatore Romano del 15.X.2011


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Indignados


CHI SONO GLI INDIGNATI?

di M. Introvigne

Chi sono gli "indignados" che scendono in piazza in Spagna, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Italia e la cui protesta sembra inarrestabile? Il nome viene da un libretto pubblicato nel 2010 in Francia da un piccolo editore (Indigène éditions di Montpellier) che si è trasformato in successo mondiale,Indignez-vous ! (Pour une insurrection pacifique) - trad. it., Indignatevi!, Add editore, Torino 2011 -, del vecchio (novantatré anni) ex militante della Resistenza francese, ambasciatore e uomo politico Stéphane Hessel. Questo nuovo "libretto rosso" di una rivoluzione fai da te è ampiamente sopravvalutato. Hessel attacca quella che in Italia siamo abituati a chiamare la "casta" - politici, industriali, Chiesa - ma i suoi critici fanno notare che ne ha sempre fatto parte. E il suo legame politico con Dominique Strauss-Kahn è diventato fonte d'imbarazzo dopo gli incidenti a sfondo sessuale che hanno coinvolto l'ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale.

Il contenuto, poi, è di una povertà desolante. Un critico davvero insospettabile, il giornalista del quotidiano di sinistra Libération Pierre Marcelle, ha chiamato Hessel «il Babbo Natale delle buone coscienze». Le trenta paginette che si vorrebbero anticonformiste di Indignatevi! sono in realtà un inno al più vieto conformismo politicamente corretto, e lasciano l'impressione che per superare la crisi in atto non ci sia bisogno di fare sacrifici. Basterebbe che i cattivi che si sono impadroniti della politica e dell'economia siano sostituiti da "buoni" dalle caratteristiche molto vaghe: leali, generosi, un po' antiamericani e anti-israeliani, fedeli ai "valori della Resistenza" - ci mancherebbe altro - e capaci di emozionarsi per i "nuovi diritti" rivendicati dalle femministe e dagli omosessuali.

I primi "indignados" - di qui il nome spagnolo - si sono manifestati il 15 maggio 2011 a Madrid. Come ha fatto notare il teologo spagnolo don Javier Prades-López a un convegno organizzato dal cardinale Angelo Scola a Venezia, gli "indignados" se la sono presa per prima cosa con la Chiesa e hanno finito pr contestare il Papa e la Giornata Mondiale della Gioventù. Questa è un'importante differenza sia con i vecchi no global, che non erano certo filocattolici ma che non avevano la Chiesa tra gli obiettivi principali, sia con le folle delle "primavere arabe", che anzi in parte, contestando dittature "laiche", chiedevano più e non meno religione.

L'aspetto anticattolico sottolineato da Prades-López e l'insistenza sui "nuovi diritti" non vanno in alcun modo sottovalutati. Ma ugualmente importante è la rivolta contro la politica in genere, contro la "casta" e l'idea che la crisi economica derivi da colpe individuali di singoli esponenti del mondo politico e finanziario, così che gli "indignados" non vogliono in nessun modo pagarne il costo. A Roma si è sentito rivendicare un «diritto all'insolvenza», a non pagare i debiti. A Londra si sono visti giovani sfasciare vetrine chiedendo non il pane - come in Tunisia -, ma il diritto al cellulare ultimo modello o all'abito di marca. A Parigi gli slogan contro tutti i partiti e gli inviti ad astenersi dal voto elettorale hanno turbato lo stesso Hessel, che ha sempre fatto politica di partito e che forse ora si è accorto di avere aperto un vaso di Pandora.

Ma per capire gli «indignados» non bastano gli analisti politici. Ci serve una teologia della storia. Papa Benedetto XVI ha parlato questo mese in Calabria della «mutazione antropologica» di una generazione che vive nella realtà virtuale di Internet e degli smartphone e rischia di perdere il contatto con il mondo reale. Il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), nel suo grande affresco della scristianizzazione dell'Occidente, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (cfr. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario, a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009), vedeva la Rivoluzione, con la "R" maiuscola, come un processo di progressiva distruzione dei legami sociali che avevano fatto dell'Occidente cristiano quello che era. Prima i legami religiosi, con la rottura con Roma del protestantesimo; poi i legami politici organici fondati sulla ricchezza dei corpi intermedi, sostituiti da un freddo rapporto fra il cittadino e lo Stato moderno, con la Rivoluzione francese; infine i legami economici, con il comunismo e l'assorbimento di tutta la vita economica nello Stato. Più tardi, Corrêa de Oliveira aggiunse alle prime tre fasi quella che chiamava Quarta Rivoluzione, che aveva il suo momento emblematico nel 1968 e non attaccava più legami macrosociali, ma microsociali - la famiglia, il legame fra madre e figlio con l'aborto - e perfino i legami dell'uomo con se stesso con la droga, l'ideologia di genere, l'eutanasia.

Il 1968 era tutto questo, ma la Terza Rivoluzione - quella comunista - era ancora così forte da riuscire largamente a recuperarlo. I no global - in parte professionisti del disordine, in parte nostalgici di forme arcaiche di marxismo - rappresentano la transizione fra un movimentismo di Terza e uno di Quarta Rivoluzione. Gli "indignados" sembrano essere insieme la causa e l'effetto di una Quarta Rivoluzione che ha portato alle estreme conseguenze lo spappolamento del corpo sociale, la solitudine di tutti da tutti, e contro tutti, il rifiuto di ogni responsabilità - ben simboleggiato dalla rivendicazione del diritto a non pagare i debiti e dagli insulti al Papa, in quanto richiama all'esistenza di doveri -, la mancanza assoluta di prospettive e, in fondo, anche di speranza. Ci volevano oltre quarant'anni di Quarta Rivoluzione perché le piazze potessero riempirsi di "indignados".

Si tratta di movimenti che sono stati sempre manipolati e riassorbiti da qualche demagogo politico. Avverrà anche questa volta? Si è candidato Beppe Grillo, che si è affrettato ad accorrere anche a Madrid ai primi segni di vita degli "indignados". E abbiamo visto emergere partiti paradossali, del nulla, intitolati alla pirateria informatica o, com'è appena avvenuto in Polonia, a una collezione raffazzonata di «nuovi diritti» tenuti insieme dall'anticlericalismo. Questi partiti non vincono le elezioni, ma è già inquietante che ottengano seggi ed entrino nei parlamenti.
Quanto ai politici tradizionali - compresi quelli di sinistra - sperano talora di sfruttare gli "indignados" ma ne ricavano principalmente uova marce. L'incomprensione, e le uova marce, spiegano perché la politica non solo non sia in grado di rispondere alle poche rivendicazioni sensate degli "indignados" - che sono di carattere economico immediato, ovvero denunciano lo scandalo reale di classi dirigenti che chiedono sacrifici cui non sono disponibili a partecipare di persona -, ma anche perché, intimidita, non sia neppure in grado di garantire l'ordine pubblico come dovrebbe fare quando le proteste degenerano in intollerabili violenze.

La presenza degli "indignados" dà ragione a Benedetto XVI: siamo di fronte a un degrado antropologico che spesso inizia con il manifestarsi come ostilità alla Chiesa e al cristianesimo. È certo necessaria una risposta di ordine pubblico alle frange violente, che non si lasci intimidire da nessuna retorica buonista. Ma affrontare seriamente il problema degli "indignados" significa operare con pazienza per ricostituire i legami sociali e personali spezzati da una lunga Rivoluzione. Per gli uomini e le donne di buona volontà - lo ha detto il Papa al Parlamento Federale tedesco - questo si chiama ritorno al diritto naturale, all'idea che esistono doveri e non solo diritti, a una chiara nozione del bene e del male. Per i cattolici, si chiama nuova evangelizzazione.

Fonte: La Bussola Quotidiana del 14.X.2011