sabato 15 ottobre 2011

Teresa d'Avila - Libro delle Fondazioni (capp. 1-15)


Teresa d’Avila

Libro delle fondazioni



JHS

[PROLOGO]

1. So per esperienza, prescindendo da ciò che ne ho letto in molti libri, il grande vantaggio che deriva ad un’anima quando non si allontana dall’obbedienza. So che da ciò dipende il progresso nella virtù e l’acquisto graduale dell’umiltà; nell’obbedienza sta la sicurezza contro il timore di smarrire la strada del cielo, timore che è bene sia sentito da noi mortali finché dura questa vita; nell’obbedienza sta la pace così apprezzata dalle anime che desiderano piacere a Dio. Se infatti con tutta sincerità esse si sottopongono a questa santa obbedienza e vi assoggettano l’intelletto, non volendo ascoltare altro parere che quello del proprio confessore – e se sono anime di religiosi, del proprio superiore – il demonio cessa di assalirle procurando continue cause di agitazione perché sa ormai che ne uscirà con perdita anziché con guadagno. Parimenti cessano i nostri inquieti movimenti volti sempre a farci agire in base alla nostra volontà e ad asservire la ragione a ciò che è di nostra personale soddisfazione, perché ci ricordiamo di aver decisamente sottomesso il nostro volere a quello di Dio, assoggettandoci a chi ne fa le veci. Avendomi Sua Maestà, nella sua bontà, illuminata circa la conoscenza del gran tesoro che è racchiuso in questa preziosa virtù, ho cercato – sia pur debolmente e imperfettamente – di praticarla, ma spesso vi si oppone la consapevolezza della mia scarsa virtù, che sento inadeguata all’esecuzione di alcuni ordini. Provveda la divina Maestà a ciò che mi manca per assolvere il compito del presente lavoro!

2. Mentre ero in San Giuseppe di Avila, nel 1562, che è l’anno in cui si fondò tale monastero, ricevetti dal padre fra García di Toledo, domenicano, allora mio confessore, l’ordine di scrivere la storia di questa fondazione, con molte altre cose che vedrà chi leggerà il mio scritto, se verrà alla luce. Stando ora, nell’anno 1573, cioè undici anni più tardi, a Salamanca, il padre rettore della Compagnia, chiamato maestro Ripalda, dal quale ora mi confesso, dopo aver visto questo libro della prima fondazione, ritenne utile al servizio di nostro Signore che scrivessi la storia degli altri sette monasteri che, a partire da allora, per la bontà del Signore, sono stati fondati, insieme con quella dei primi conventi di padri scalzi della Regola primitiva. Pertanto mi diede l’ordine di farlo. Tale obbedienza mi sembrava impossibile, a causa delle molte incombenze, sia di corrispondenza, sia di altre occupazioni a cui dovevo necessariamente attendere, essendomi state imposte dai superiori. Alquanto angustiata per la mia scarsa capacità e malferma salute, perché anche senza questo sovraccarico, spesso la mia misera natura mi rendeva insostenibile il lavoro, mentre mi raccomandavo a Dio, il Signore mi disse: «Figlia, l’obbedienza dà forza».

3. Piaccia a Sua Maestà che sia così e mi dia grazia di riuscire a raccontare, per la sua gloria, i doni da lui elargiti al nostro Ordine in queste fondazioni. Si può essere certi che lo farò con estrema sincerità, senza alcuna esagerazione, per quanto potrò rendermene conto, in modo del tutto conforme a quel che è avvenuto. Se in cose di scarsa importanza non direi una menzogna per nulla al mondo, molto più me ne farei scrupolo in questo scritto destinato a glorificare Dio: mi sembrerebbe non solo una perdita di tempo, ma un servirmi delle cose sante per ingannare la gente, ragion per cui Dio, anziché esserne lodato, ne rimarrebbe offeso. Sarebbe un gran tradimento! Sua Maestà non voglia ritirare da me la sua mano, perché io non abbia a commetterlo! Tratterò di ogni fondazione singolarmente e cercherò di essere breve, se saprò farlo, perché il mio stile è talmente pesante che, pur con la migliore buona volontà, temo di non riuscire a evitare di stancare gli altri e me stessa. Ma il grande affetto che hanno per me le mie figlie, alle quali dev’essere rimesso questo scritto dopo la mia morte, glielo renderà sopportabile.

4. Piaccia a nostro Signore che, non cercando io mai in nulla il mio vantaggio personale – del resto non avrei motivo di farlo –, ma guardando solo alla sua lode e alla sua gloria – infatti vi si troveranno molte cose che saranno motivo per elargirgliele –, nessuno di coloro che lo leggeranno abbia minimamente l’idea di attribuirmi qualche merito: sarebbe andare contro la verità. Si preghi piuttosto Sua Maestà di perdonarmi il cattivo uso che ho fatto di tante grazie. Le mie figlie, a causa di ciò, hanno ben più ragione di lamentarsi di me che d’essermi grate per l’opera compiuta. Rendiamo tutte, figlie mie, grazie alla bontà di Dio per i molti doni di cui ci ha favorito. In nome del suo amore chiedo a chi leggerà questo scritto un’Ave Maria, affinché mi sia d’aiuto a uscire dal purgatorio e giungere a vedere Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

5. A causa della mia poca memoria credo che ometterò molte cose importantissime, mentre ne dirò altre che avrei potuto tralasciare. In conclusione, il mio scritto risentirà del mio scarso ingegno, della mia ignoranza e anche del poco tempo di cui dispongo per attendervi. Mi è stato ordinato, inoltre, di trattare, qualora se ne presenti l’opportunità, alcune cose circa l’orazione e di segnalare gli errori che potrebbero arrestare il progresso delle anime dedite ad essa.

6. In tutto mi sottometto a ciò che insegna la santa romana Chiesa nostra madre, e voglio, sorelle e figlie mie, che tale scritto non sia rimesso nelle vostre mani prima che lo vedano persone dotte e spirituali. Comincio nel nome del Signore, affidandomi all’aiuto della sua gloriosa Madre, di cui porto l’abito, pur essendone indegna, e del mio glorioso padre e protettore san Giuseppe, che mi ha sempre assistita con la sua intercessione e nella cui casa mi trovo, poiché questo monastero di carmelitane scalze, è dedicato a lui.

24 agosto 1573, festa di san Luigi, re di Francia. Sia lodato Dio!

COMINCIA LA FONDAZIONE
DEL MONASTERO DI SAN GIUSEPPE DEL CARMINE

IN MEDINA DEL CAMPO

CAPITOLO 1

Racconta come si cominciò a trattare di questa ed altre fondazioni.

1. Dopo la fondazione del monastero di San Giuseppe di Avila, rimasi in esso cinque anni che – a quanto ora ritengo – saranno forse stati i più tranquilli della mia vita, quelli di cui la mia anima rimpiange spesso profondamente la pace e la quiete. In quel tempo entrarono nel monastero alcune pie ragazze molto giovani, che il mondo – a quel che sembrava, stando ai segni del loro sfoggio ed eleganza – teneva già per sue. Il Signore, strappandole sollecitamente a quelle vanità, le condusse alla sua casa, arricchendole di tanta perfezione da restarne io profondamente confusa. E così arrivammo al numero di tredici, cioè quello che si era stabilito di non oltrepassare.

2. Ero felice di trovarmi fra anime così sante e pure, la cui unica preoccupazione era servire e lodare nostro Signore. Sua Maestà ci mandava lì il necessario senza che lo chiedessimo, e quando ci veniva a mancare, il che accadde ben poche volte, la gioia di tali anime era ancora più grande. Lodavo il Signore alla vista di tante eccelse virtù, soprattutto ammirata nel considerare la noncuranza di queste consorelle per tutto ciò che non fosse il servirlo. Pur stando lì come priora, non ricordo di essermi mai preoccupata del vitto; ritenevo per certo che il Signore non avrebbe deluso quelle anime, di null’altro preoccupate se non di come piacergli. E se, talvolta, non c’era il cibo per tutte, quando dicevo che ciò di cui disponevamo doveva darsi alle più bisognose, ognuna riteneva di non essere ella tale, e così il cibo durava fino a quando Dio non lo mandava per tutte.

3. Quanto alla virtù dell’obbedienza (di cui sono molto rispettosa, sebbene non sapessi praticarla fino a quando queste serve di Dio non m’insegnarono a conoscerla), se ne avessi la capacità, potrei dire molte cose ad essa pertinenti che lì vidi. Me ne viene ora in mente una, ed è che, mentre un giorno stavamo in refettorio, ci furono date certe porzioni di cetrioli. A me toccò un cetriolo molto piccolo e internamente guasto. Come se nulla fosse, chiamai una consorella tra le più dotate d’ingegno e di buon senso ch’erano lì, per mettere alla prova la sua obbedienza, e le dissi di andare a piantare quel cetriolo in un nostro piccolo orticello. Mi chiese se doveva piantarlo diritto o disteso; le risposi di metterlo disteso. Ella andò e lo piantò, senza che le passasse per la mente che si sarebbe certamente seccato: il rispetto dell’obbedienza le accecò la ragione naturale, facendole credere che ciò avrebbe avuto sicuramente esito felice.

4. Mi accadeva qualche volta di affidare a una sola consorella sei o sette incombenze fra loro incompatibili e questa le accettava in silenzio, ritenendo possibile assolverle tutte. Avevamo un pozzo d’acqua assai cattiva, a giudizio di quelli che ne fecero la prova; sembrava impossibile renderla corrente, a causa della profondità del pozzo. Gli operai che avevo chiamato a questo scopo si ridevano di me, ritenendo che volessi buttar via il denaro inutilmente. Richiesi le consorelle del loro parere. Una disse: «Facciamolo; nostro Signore deve pur provvederci di persone che ci portino acqua e fornirci di che mantenerle; è certo più economico per Sua Maestà darci lui acqua in casa; pertanto, non tralascerà di farlo». Io, considerando la grande fede e decisione delle sue parole, mi ritenni sicura del risultato e, contro la volontà del fontaniere – che s’intendeva di acqua –, feci eseguire il lavoro. Piacque al Signore che tirassimo fuori da lì un getto d’acqua potabile largamente sufficiente per noi, e lo abbiamo tuttora.

5. Non lo racconto come un miracolo perché avrei da raccontarne molti altri, ma per la fede che avevano queste sorelle, essendo tutto avvenuto proprio come ho detto. Del resto, il mio intento principale non è lodare le monache di questi monasteri, che, per la bontà del Signore, si comportano tutte così. Di queste, come di altre cose, sarebbe troppo lungo scrivere, anche se non inutile, perché talvolta quelle che vengono dopo sono incitate ad imitare le consorelle. Se al Signore piacerà che queste cose si sappiano, i prelati potranno ordinare alle priore di scriverle.

6. Una così miserabile creatura, dunque, se ne stava tra queste anime angeliche: mi apparivano proprio tali, perché non mi nascondevano nessun difetto, per quanto intimo fosse; le grazie, gli ardenti desideri e il distacco che il Signore dava loro erano grandissimi; la loro consolazione era la solitudine, tanto che mi assicuravano di non stancarsene mai e di provare tormento per le visite, anche dei propri fratelli. Quella che aveva più tempo di starsene in un romitorio si riteneva più felice. Considerando il grande merito di queste anime e il coraggio, non certo femminile, che Dio concedeva loro per patire e servirlo, molte volte mi sembrava che le ricchezze di cui le favoriva il Signore dovessero avere qualche gran finalità. Non già che mi passasse per la mente ciò che poi si è fatto (perché allora sembrava cosa impossibile, non essendovi neppure un principio che potesse darmene un’idea), sebbene, man mano che il tempo passava, fossero molto aumentati i miei desideri di contribuire al bene di qualche anima, e molte volte mi sembrasse di essere come chi ha un grande tesoro da parte e desidera che tutti ne godano, ma si sente le mani legate per distribuirlo. Proprio così mi pareva che fosse legata la mia anima, poiché le grazie che in quegli anni il Signore mi concedeva erano molto grandi e tutto mi sembrava male impiegato in me. Servivo il Signore con le mie povere preghiere; mi adoperavo continuamente perché le consorelle facessero lo stesso e amassero il bene delle anime e lo sviluppo della Chiesa. Chi trattava con esse ne rimaneva sempre edificato e in ciò si appagavano i miei grandi desideri.

7. Dopo quattro anni – mi sembra, anzi, un po’ di più – venne a farmi visita un frate francescano, il cui nome era Alonso Maldonado, gran servo di Dio, che aveva i miei stessi desideri circa il bene delle anime e poteva metterli in pratica, cosa che gli invidiavo molto. Era arrivato recentemente dalle Indie. Cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che lì si perdevano per mancanza di istruzione religiosa, ci fece una predica con un’esortazione che ci animava alla penitenza, e poi se ne andò. Rimasi così afflitta per la perdita di tante anime da sentirmi fuori di me. Me ne andai, sciogliendomi in lacrime, in un romitorio: invocavo nostro Signore supplicandolo di darmi il mezzo per poter far qualcosa per guadagnare anime al suo servizio, poiché tante gliene portava via il demonio, e concedermi di operare un po’ di bene con la preghiera, visto che io non sapevo far altro. Invidiavo molto coloro che per amore di nostro Signore potevano dedicarsi alle missioni, anche a costo di affrontare mille morti: mi accade infatti, quando leggiamo nelle vite dei santi che operarono conversioni, di sentire ben più devozione, commozione e invidia per questo, che per tutti i martìri da essi patiti, essendo tale la vocazione che il Signore mi ha dato. Mi sembra infatti che egli ci apprezzi di più se, mediante la sua misericordia, riusciamo a guadagnargli un’anima con i nostri sforzi e con la nostra preghiera, che non per quanti altri servizi possiamo rendergli.

8. Mentre ero in questa grandissima pena, una notte, stando in orazione, mi si presentò il Signore nella maniera solita e, mostrandomi grande amore, quasi a volermi consolare, mi disse: «Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose». Tali parole restarono così impresse nel mio cuore che non potevo dimenticarle. Quantunque non riuscissi a coglierne il significato – per molto che ci pensassi – e non scorgessi la via o il cammino per far qualche supposizione, rimasi assai consolata e con assoluta certezza che tali parole si sarebbero avverate, ma in che modo non riuscii mai a immaginarlo. Così trascorse, mi pare un altro mezzo anno, dopo il quale avvenne ciò che ora dirò.

CAPITOLO 2

Come il nostro padre generale venne ad Avila e quali furono le conseguenze della sua visita.

1. I nostri padri generali risiedono sempre a Roma. Nessuno di loro era mai venuto in Spagna e sembrava impossibile che venissero proprio allora. Ma, poiché di fronte alla volontà del Signore non c’è nulla d’impossibile, Sua Maestà provvide all’attuazione di quello che non era mai accaduto. Quando io lo seppi, mi parve di provarne dispiacere perché, come già si è detto circa la fondazione di San Giuseppe, tale monastero non era soggetto ai religiosi dell’Ordine, per la ragione lì esposta. Temetti due cose: la prima che egli s’irritasse con me, e a ragione, non sapendo come si erano svolti i fatti; la seconda, che mi ordinasse di tornare al monastero dell’Incarnazione, dove si osserva la Regola mitigata, il che mi avrebbe fatto piombare nella desolazione, per molti motivi che non è necessario specificare. Bastava questo: che là io non avrei potuto osservare il rigore della Regola primitiva, senza dire che le religiose erano più di centocinquanta, mentre dove sono poche c’è sempre più concordia e tranquillità. Ma il Signore aggiustò le cose assai meglio di quanto non immaginassi, perché il generale è un così devoto servo suo e così dotto e prudente che riconobbe la bontà dell’opera e, per il resto, non mi mostrò alcun dissenso. Si chiama fra Giovanni Battista Rossi di Ravenna ed è una persona che, ben a ragione, gode di grande considerazione nell’Ordine.

2. Quando dunque giunse ad Avila, procurai che venisse a San Giuseppe, e il vescovo ritenne giusto che gli si facesse quell’accoglienza che si sarebbe fatta a lui stesso. Lo informai di ogni cosa con assoluta sincerità e franchezza, essendo nella mia indole trattare così con i superiori – qualunque conseguenza possa venirmene, perché adempiono le veci di Dio – e lo stesso faccio con i confessori. Mi sembra che, se mi comportassi altrimenti, la mia anima non potrebbe sentirsi sicura. Gli resi conto pertanto dei miei sentimenti e di quasi tutta la mia vita, benché assai spregevole. Egli mi consolò molto e mi assicurò che non mi avrebbe ordinato di andar via da lì.

3. Si rallegrava di vedere il nostro modo di vivere, che gli sembrava un’immagine, anche se imperfetta, dei primi tempi del nostro Ordine, e di costatare come si osservava in tutto il suo rigore la Regola primitiva che non veniva seguita allora in nessun monastero dell’Ordine, ov’era in vigore quella mitigata. Desideroso com’era che questo principio di riforma progredisse, mi dette le più ampie facoltà per fondare altri monasteri, con censure contro i Provinciali che vi si opponessero. Io non gliele avevo chieste, ma egli aveva capito, dal mio modo di procedere nell’orazione, il mio ardente desiderio di contribuire ad avvicinare maggiormente qualche anima a Dio.

4. Non ero io, ripeto, a cercare di aprirmi tali vie; anzi, il farlo mi sarebbe sembrato una follia, perché mi rendevo ben conto che una donnetta così priva di autorità come me non avrebbe potuto concludere nulla, ma quando l’anima è presa da questi desideri non è in suo potere respingerli. L’ardore di piacere a Dio e la fede rendono possibile ciò che a rigor di logica non lo è. Costatato pertanto il vivo desiderio del nostro reverendissimo padre generale circa la fondazione di altri monasteri, mi parve di vederli già costruiti. Ricordando le parole che nostro Signore mi aveva detto, cominciavo a scorgere qualcosa di ciò che prima mi restava oscuro. Soffrii molto quando vidi il nostro padre generale far ritorno a Roma: mi ero molto affezionata a lui e mi sembrava di restare totalmente priva di appoggio. Egli, nei miei riguardi, era molto affettuoso e pieno di benevolenza: tutte le volte che poteva sottrarsi alle sue occupazioni veniva al monastero per trattare di cose spirituali, e lo faceva come chi è favorito dal Signore di insigni grazie: pertanto ascoltarlo era motivo di gioia. Ancor prima che partisse, il vescovo, don Alvaro de Mendoza, molto propenso ad aiutare coloro che procurano di servire Dio con maggior perfezione, si adoperò perché gli desse l’autorizzazione di fondare nella sua diocesi alcuni conventi di frati scalzi della Regola primitiva, preghiera che gli fu rivolta anche da altre persone. Egli avrebbe voluto acconsentire, ma trovò opposizione nell’Ordine e, per non turbare la provincia, lasciò allora la cosa in sospeso.

5. Trascorsi alcuni giorni considerando quanto sarebbe stato necessario, se si fondavano monasteri di monache, che vi fossero anche frati della stessa Regola. Vedendo come in questa provincia ne esistessero ben pochi, che per giunta mi sembravano sul punto di estinguersi, raccomandata vivamente la cosa a nostro Signore, scrissi al nostro padre generale una lettera, rivolgendogli come meglio potei tale supplica. Gli esposi le ragioni per cui ciò sarebbe riuscito a gran servizio di Dio, e come gli ostacoli che potevano incontrarsi non bastavano a giustificare l’abbandono di un’opera così meritoria; gli prospettai anche il servizio che avrebbe reso a Nostra Signora, di cui era molto devoto. Fu la Vergine, indubbiamente, ad occuparsi della cosa, perché il padre generale, avuta la mia lettera mentre era a Valenza, da lì, come quegli a cui stava molto a cuore la maggior perfezione dell’Ordine, mi inviò l’autorizzazione di fondare due conventi. Per evitare l’insorgere di opposizioni, ne rimise il consenso al provinciale in carica e a quello precedente, cosa che era molto difficile ad ottenersi. Ma, siccome si era raggiunto il più, speravo che il Signore avrebbe fatto il resto. E fu così perché, grazie all’appoggio del vescovo, che aveva preso a cuore questa cosa come sua, i due provinciali diedero entrambi il loro consenso.

6. Se ero dunque ormai riconfortata dalla concessione delle autorizzazioni, vedevo però crescere le mie preoccupazioni non essendoci, a mia conoscenza, alcun frate nella provincia capace di realizzarle, né alcun secolare che volesse dar principio a tale opera. Non facevo che supplicare nostro Signore di suscitarne almeno qualcuno. Non avevo nemmeno casa né mezzi per procurarmela. Ecco qui, dunque, una povera monaca scalza, senza aiuti da nessuno, tranne che dal Signore, carica di autorizzazioni e di buoni desideri, ma impossibilitata ad attuarli. Il coraggio, però, non mi veniva meno: speravo sempre che il Signore, come aveva già dato una cosa, avrebbe dato anche il resto. Ormai tutto mi sembrava molto fattibile, pertanto mi misi all’opera.

7. Oh, grandezza di Dio! Come mostrate la vostra potenza nel concedere questa audacia a una formica! E come, mio Signore, non dipende da voi se coloro che vi amano non compiono grandi opere, ma dalla loro codardia e pusillanimità! Non prendiamo mai una ferma decisione, pieni sempre, come siamo, di mille timori e prudenze umane, e voi, mio Dio, pertanto, non operate le vostre meraviglie e grandezze. Chi più di voi sarebbe amante di dare, se trovasse a chi dare, o di ricevere servizi a proprie spese? Piaccia alla Maestà Vostra che io ve ne abbia reso qualcuno e non debba esservi ancor più debitrice per il molto che ho ricevuto! Amen.

CAPITOLO 3

In che modo si cominciarono le trattative circa la fondazione del monastero di San Giuseppe in Medina del Campo.

1. Mentre ero dunque fra tante preoccupazioni, mi venne in mente di ricorrere all’aiuto dei padri della Compagnia, che erano assai ben visti in quel luogo, cioè a Medina. Con costoro, come ho già scritto a proposito della prima fondazione, trattai per molti anni delle cose inerenti alla mia anima; ad essi sono particolarmente devota per il gran bene che sempre mi fecero. Scrissi ciò che il nostro padre generale mi aveva ordinato al rettore di quel collegio, il quale per combinazione era proprio quello che mi aveva confessato per molti anni, come ho già detto, senza tuttavia farne il nome. Si chiama Baltasar Alvarez, ed è attualmente provinciale. Egli e gli altri del collegio risposero che avrebbero fatto tutto il possibile per aiutarmi in quella circostanza. Infatti si adoperarono molto per ottenere il permesso dalla città e dal vescovo perché, trattandosi di un monastero senza rendite, è una cosa che presenta ovunque difficoltà: la negoziazione si prolungò quindi alcuni giorni.

2. Allo scopo di affrettarla, si recò lì un sacerdote, gran servo di Dio, profondamente staccato da tutte le cose del mondo e assai dedito all’orazione. Era cappellano del nostro monastero dove mi trovavo io e, poiché il Signore gli ispirava gli stessi miei desideri, mi aiutò molto, come si vedrà in seguito. Si chiama Giuliano d’Avila. Pur avendo ormai il permesso, non aveva però casa e nemmeno un centesimo per comprarla. Quanto al credito necessario per valermi di un prestito, se il Signore non mi aiutava, come poteva ottenerlo una povera pellegrina qual ero io? Per la provvidenza del Signore, una giovane molto virtuosa, che non aveva potuto trovare posto in San Giuseppe, sapendo che si fondava un’altra casa, mi venne a pregare di accoglierla in essa. Aveva un po’ di soldi, ben pochi, che non potevano bastare per comprare una casa, ma solo per prenderla in affitto – ciò che noi facemmo – e per sopperire alle spese del viaggio. Senza alcun’altra risorsa, all’infuori di questa, partimmo da Avila, io, due consorelle di San Giuseppe e quattro dall’Incarnazione, che è un monastero della Regola mitigata dove stavo io prima che si fondasse quello di San Giuseppe. Era con noi il nostro padre cappellano, Giuliano d’Avila.

3. Quando ciò si seppe in città, ci furono grandi mormorazioni: gli uni dicevano che ero pazza, gli altri aspettavano la fine di quella mia insensatezza. Al vescovo – com’ebbe a dirmi poi – tale insensatezza sembrava enorme, anche se allora non me lo fece capire né volle ostacolarmi, perché aveva per me molto affetto e temeva di addolorarmi. I miei amici, sì, mi avevano mosso una quantità di obiezioni, ma io vi facevo poco caso: mi sembrava infatti così facile ciò che essi ritenevano malsicuro, che non potevo convincermi dell’impossibilità di una buona riuscita. Già quando lasciammo Avila avevo scritto a un padre del nostro Ordine, chiamato fra Antonio de Heredia, pregandolo di comprarmi una casa. Egli era allora priore del convento tenuto in quella città dai frati del nostro Ordine, cioè il convento di Sant’Anna. Ne parlò con una signora che gli era devota, la quale ne aveva una che era andata tutta in rovina, tranne un appartamento, ma in ottima posizione. Fu così buona che promise di vendergliela. Pertanto si misero d’accordo, senza che ella esigesse garanzie né altra obbligazione che la sua parola; se avesse richiesto cauzioni, ci saremmo viste perse, ma il Signore andava sistemando tutto. Le mura della casa erano talmente rovinate che per questa ragione ne prendemmo in affitto un’altra, in attesa che si riparasse quella, perché il lavoro da fare non era certo poco.

4. All’arrivo ad Arévalo, la sera del primo giorno di viaggio, stanche per il cattivo equipaggiamento, ci venne incontro un sacerdote nostro amico, che ci aveva preparato un alloggio in casa di alcune pie donne. Mi disse in segreto che eravamo senza casa, perché quella presa in affitto si trovava vicino a un convento di Agostiniani, i quali si opponevano al nostro ingresso lì, ragion per cui bisognava per forza fare una causa. Ma, mio Dio, quanto servono a poco tutte le opposizioni, quando voi vi compiacete di dar coraggio! Mi parve perfino che quella notizia mi rianimasse, ritenendo che, se il demonio cominciava ad agitarsi, voleva dire che in quel monastero si sarebbe servito il Signore. Ciò nonostante pregai quell’ecclesiastico di mantenere la cosa segreta, per non turbare le mie compagne, specialmente le due del monastero dell’Incarnazione, perché le altre avrebbero sofferto per amor mio qualunque difficoltà. Una di esse era allora sottopriora di quel monastero, e l’uscita da esso le era stata assai contrastata; tutt’e due appartenevano a una buona famiglia e venivano contro la volontà dei loro parenti, perché il nostro progetto sembrava a tutti una follia. Vidi io stessa, da quanto seguì, che avevano ragione da vendere, ma allorché piace al Signore che io fondi una di queste case, nessuna ragione mi sembra sufficiente per tralasciare di farlo, per lo meno è così fino ad opera compiuta. Allora mi si presentano tutte insieme le difficoltà, come dirò in seguito.

5. Arrivate al nostro alloggio, seppi che nel paese si trovava un religioso domenicano, esemplare servo di Dio, dal quale mi ero confessata durante la mia permanenza a San Giuseppe. Avendo parlato a lungo della sua virtù a proposito di quella fondazione, qui mi limiterò a dirne il nome: è il maestro fra Domingo Báñez. Ha grande dottrina e discrezione, ragion per cui cercavo di agire secondo il suo parere. Ora, secondo lui, la fondazione non presentava le difficoltà che vi scorgevano tutti gli altri, perché chi più conosce Dio trova più facile le sue opere. Ed egli, conoscendo alcune grazie di cui mi favoriva Sua Maestà e ricordando quanto aveva visto circa la fondazione di San Giuseppe, riteneva il progetto molto fattibile. Mi fu di grande consolazione vederlo perché, forte del suo parere, mi sembrava che tutto sarebbe andato per il meglio. Venuto dunque a farmi visita, gli dissi in segreto ciò che accadeva. Egli ritenne che per la faccenda degli Agostiniani saremmo potute arrivare presto a una conclusione, ma per me ogni ritardo era cosa ben dura, non sapendo che fare di tante religiose. Così tutte passammo quella notte in ansia, perché l’intera casa non tardò ad essere al corrente della situazione.

6. L’indomani mattina, poi, arrivò lì il priore del nostro Ordine, il padre Antonio. Ci disse che la casa di cui aveva concordato l’acquisto era sufficiente per noi e disponeva di un portico dove si poteva fare una cappella, adornandolo con alcuni drappi. Seguimmo il suo consiglio che, almeno a me, pareva il migliore; quello che più ci conveniva era, infatti, agire con la massima celerità possibile, sia perché eravamo fuori dai nostri monasteri, sia anche perché temevo qualche opposizione, avendone fatto l’esperienza a mie spese durante la prima fondazione. Volevo pertanto che, prima della divulgazione di questa notizia, si fosse già preso possesso della casa. Risolvemmo, dunque, di farlo subito. Il padre maestro fra Domingo fu di questo stesso parere.

7. Raggiungemmo Medina del Campo la vigilia dell’Assunzione della Vergine, a mezzanotte. Per non far rumore, scendemmo al convento di Sant’Anna, e a piedi ci recammo alla nostra casa. Fu gran misericordia del Signore che a quell’ora in cui si rinchiudevano i tori destinati a correre l’indomani, non ne incontrassimo nessuno. Assorbite com’eravamo dal nostro intento, dimenticavamo tutto il resto. Ma il Signore, sempre memore di coloro che desiderano servirlo, poiché noi non avevamo altro scopo, ci liberò da questo pericolo.

8. Giunte alla casa, entrammo in un patio. Le mura mi sembrarono alquanto rovinate, ma non come quando le vidi di giorno. Pare che il Signore avesse voluto che quel benedetto padre diventasse cieco per non vedere come lì non si addiceva porre il Santissimo Sacramento. Visto il portico, costatammo che c’era da sgombrarlo di molta terra; il tetto era di tegole senza assito, i muri senza intonaco. Io non sapevo che fare, non sembrandomi quello il posto adatto a porvi un altare. Piacque al Signore, il quale voleva che la cosa avesse subito compimento, che il maggiordomo di quella signora a cui apparteneva la casa tenesse lì molti arazzi suoi, oltre una coltre di damasco azzurro, e ch’ella, buona com’era, gli avesse ordinato di darci quanto avessimo desiderato.

9. Io, quando vidi così bell’arredo, ne lodai Dio, come avranno fatto anche le altre anche se non sapevamo in che modo procurarci i chiodi, perché quella non era ora di comprarli. Si cominciò a cercarli nei muri e, alla fine, non senza sforzo, si riuscì a raccapezzarli. Allora gli uomini si diedero a stendere la tappezzeria, noi a pulire per terra, così di buona lena che, quando albeggiava, l’altare era sistemato, la campanella posta in un corridoio, e subito si celebrò la Messa. Questo era sufficiente per una presa di possesso, ma non avendoci pensato, vi ponemmo anche il santissimo Sacramento, e da certe fessure di una porta che era lì di fronte, non disponendo di altro posto, assistemmo alla Messa.

10. Fin qui io ero molto contenta, perché è per me di grande consolazione vedere una chiesa di più dove sia il santissimo Sacramento. Ma il mio entusiasmo durò poco: finita la Messa, infatti, avvicinatami allo spiraglio di una finestra per vedere il patio, mi accorsi che in certe parti i muri erano completamente a terra e che, per ripararli, sarebbero occorsi molti giorni. Oh, mio Dio! Quando vidi Sua Maestà in mezzo alla strada, in un momento così pericoloso come il nostro a causa di questi malaugurati luterani, quale non fu l’angoscia da cui mi sentii stringere il cuore!

11. Per giunta, mi si presentarono alla mente tutte le difficoltà sollevate da coloro che più mi avevano criticata, e mi resi chiaramente conto che erano obiezioni ragionevoli. Mi sembrava impossibile proseguire il lavoro intrapreso e, come prima tutto mi appariva facile al pensiero che si lavorava per Dio, così ora la tentazione riduceva talmente il suo potere che non ricordavo d’aver ricevuto alcuna grazia da lui; mi erano presenti solo la mia miseria e la mia incapacità. Appoggiata dunque alle mie miserabili forze, che buon esito potevo sperare? Se almeno fossi stata sola, credo che mi sarebbe riuscito più facile sopportare tale delusione; ma mi era estremamente duro pensare che le mie compagne sarebbero dovute tornare al proprio monastero, dal quale erano uscite dopo molti contrasti. Mi sembrava inoltre che, fallito quest’inizio dell’impresa, non sarebbe più avvenuto tutto ciò che io sapevo che il Signore avrebbe fatto in seguito. Per giunta poi c’era il timore che le parole da me udite nell’orazione fossero un’illusione: pena non certo piccola ma più grave di tutte, perché il pensiero che il demonio potesse ingannarmi mi procurava una grande apprensione. Oh, mio Dio! Quale è mai lo stato di un’anima che voi volete lasciare nell’angoscia! Non c’è dubbio che quando ricordo tale afflizione e qualche altra che ho sofferto in queste fondazioni, mi sembra che, al loro confronto, non debba far caso delle sofferenze corporali, anche se sono state molte.

12. Nonostante questa grande angoscia che mi stringeva fortemente il cuore, non lasciavo capire nulla alle mie compagne perché non volevo affliggerle più di quanto già lo fossero. Rimasi con questo tormento fino a sera, quando il rettore della Compagnia mandò a visitarmi uno dei suoi padri, che m’incoraggiò e mi consolò molto. Io non gli raccontai tutte le mie pene, ma solo quella che mi procurava il vederci sulla strada. Cominciai a occuparmi di far cercare, qualunque ne fosse il prezzo, una casa in affitto, dove trasferirci finché si riparasse l’altra. Una prima consolazione fu per me vedere l’affluenza della gente alla nostra cappella. Fu per la misericordia di Dio che nessuno si accorse della nostra imprudenza per quella sistemazione; diversamente sarebbe stato ben fatto toglierci il santissimo Sacramento. Ora io considero la mia idiozia e mi chiedo come nessuno abbia avuto l’idea di consumare le sacre specie. Mi pareva che, se si fosse fatto questo, era bell’e finita per la nostra fondazione.

13. Per quante ricerche si compissero, non si riuscì a trovare in tutta la città una casa da prendere in affitto. Passavo i giorni e le notti in grande angoscia, perché anche se lasciavo sempre alcuni uomini a vegliare il santissimo Sacramento, avevo la preoccupazione che potessero addormentarsi. Per questo motivo mi alzavo di notte, per guardarli da una finestra, essendoci un bel chiaro di luna che permetteva di vedere bene tutto. Frattanto continuava a venire gran folla di gente, che non solo non trovava nulla da criticare, ma si sentiva presa da devozione nel vedere un’altra volta nostro Signore in un portico. E Sua Maestà, da quello che egli è, mai stanco di umiliarsi per noi, sembrava non volesse abbandonarlo.

14. Passati ormai otto giorni, un mercante che abitava in una casa molto buona, vedendo la nostra necessità, ci offrì di andare al piano superiore di essa, dicendo che vi saremmo potute stare come in casa nostra. Disponeva di una grande sala decorata da dorature che ci mise a disposizione per farne la cappella. Inoltre una signora, gran serva di Dio, chiamata donna Elena de Quiroga, che abitava vicino alla casa da noi comprata, mi promise di aiutarmi affinché si cominciasse subito a costruire una cappella ove potesse stare il santissimo Sacramento e anche ove potessimo provvedere alla nostra sistemazione come in clausura. Altre persone ci facevano molte elemosine perché avessimo di che vivere, ma il maggior aiuto mi venne da questa signora.

15. Ciò mi valse a godere subito un po’ di pace, perché lì dove andammo stavamo in stretta clausura, e cominciammo a recitare le Ore. Per la riparazione della casa il buon priore si dava molta fretta ed ebbe a faticare non poco. Malgrado tutto, si dovette aspettare circa due mesi, ma riuscì ad essere sistemata in modo tale che vi potemmo stare discretamente alcuni anni. In seguito, il Signore ha permesso che andasse ancora migliorando.

16. Mentre stavo a Medina continuavo ad avere il pensiero ai conventi dei frati, e poiché non v’era alcun soggetto adatto allo scopo – come ho detto – non sapevo che fare. Mi decisi a parlarne in gran segreto al priore di là, per sentire il suo parere. Lo feci, dunque, ed egli, appena venne a conoscenza del mio disegno, se ne rallegrò molto e promise di esser lui il primo ad aderirvi. Io credetti che scherzasse, e glielo dissi. Infatti, benché sia stato sempre un buon frate, raccolto in se stesso, molto studioso e amante della sua cella, in quanto uomo dotto, non mi sembrava che sarebbe stato adatto per dare inizio a tale opera, né che avesse l’energia sufficiente a promuovere l’austerità necessaria, essendo di salute delicata e non fatto per questo. Egli si sforzava di rassicurarmi, affermando che da molto tempo il Signore lo chiamava a una vita più austera; e che aveva ormai deciso di entrare tra i Certosini i quali gli avevano già promesso di riceverlo. Ciò malgrado, non mi sentivo pienamente soddisfatta, pur ascoltandolo con piacere. Lo pregai, perciò, di attendere qualche tempo e di esercitarsi frattanto a praticare le osservanze cui doveva impegnarsi. Fu deciso così, e passò un anno durante il quale egli ebbe a patire tante prove e persecuzioni, divenuto oggetto di false testimonianze, da far pensare che il Signore volesse provarlo. Il priore sopportava tutto così bene e faceva tali progressi che io ne rendevo lode a nostro Signore, sembrandomi che lo andasse preparando alla realizzazione del nostro disegno.

17. Poco tempo dopo capitò in città un giovane padre, ancora studente a Salamanca; venne come compagno di un altro, il quale mi raccontò cose mirabili del suo genere di vita. Si chiama fra Giovanni della Croce. Io resi lode di ciò a nostro Signore e, dopo avergli parlato, ne rimasi soddisfattissima. Seppi da lui stesso che anch’egli voleva entrare tra i Certosini. Allora gli parlai del mio progetto e lo pregai vivamente di aspettare fino a quando il Signore ci desse un convento. Gli feci osservare quanto meglio sarebbe stato, se voleva condurre una vita più perfetta, che lo facesse nel suo stesso Ordine e quanto avrebbe servito di più il Signore. Egli s’impegnò ad aderire alla mia richiesta, purché non si dovesse tardare troppo. Quando vidi che avevo già due frati con cui cominciare, mi sembrò che la cosa fosse ormai fatta. Non ero però ancora del tutto soddisfatta del priore, pertanto tardavo un po’, anche perché bisognava trovare dove sistemarsi per dare inizio all’opera.

18. Frattanto le monache andavano acquistando ogni giorno di più la fiducia degli abitanti. La gente nutriva per loro grande venerazione e, secondo me, a ragione, perché ognuna di loro non si preoccupava se non di come potesse servire meglio nostro Signore. In tutto si attenevano alla maniera di vivere seguita a San Giuseppe di Avila, essendo una sola la Regola e le Costituzioni. Il Signore cominciò a chiamare alcune a prendere il nostro abito, ed erano tante le grazie di cui le favoriva, ch’io ne rimanevo stupita. Sia per sempre benedetto! Amen. Sembra che per amare non aspetti altro che d’essere amato.

CAPITOLO 4

In cui si tratta di alcune grazie elargite dal Signore alle religiose di questi monasteri. Si consigliano le priore suol come debbano comportarsi nei riguardi di tali favori.

1. Mi è sembrato opportuno, prima di procedere nella mia narrazione (non sapendo quanto da vivere mi riservi il Signore né se avrò ancora tempo disponibile, mentre in questo momento mi pare di averne un po’), dare alcuni consigli alle priore perché sappiano regolarsi e governino le consorelle ad esse sottoposte, mirando al maggiore profitto delle loro anime, sia pur con il sacrificio dei propri pareri. Occorre far presente che, quando mi hanno ordinato di scrivere di queste fondazioni (senza contare la prima di San Giuseppe di Avila, la cui storia è stata scritta subito), erano già sorti, con l’aiuto del Signore, sette monasteri, compreso quello di Alba de Tormes, che ne è l’ultimo. Ben altri se ne sarebbero fondati, se i miei superiori non mi avessero tenuta occupata in altre cose, come si vedrà più avanti.

2. Considerando le cose di ordine spirituale che sono avvenute in questi anni nei nostri monasteri, ho visto la necessità di quanto ora voglio dire. Piaccia a nostro Signore che riesca a farlo in modo adeguato al bisogno! E perché, come ho detto altrove, lì dove ho scritto alcune piccole cose per le consorelle, quando si procede con coscienza pura e si pratica l’obbedienza, il Signore non permette mai che il demonio abbia il potere d’ingannarci in modo da pregiudicare la nostra anima, anzi, sarà lui a restare ingannato. E siccome lo sa, credo che non ci faccia tanto male lui quanto la nostra immaginazione e i nostri cattivi umori, specialmente se vi è di mezzo la malinconia, perché le donne sono assai deboli per natura e l’amor proprio che regna in esse è sottilissimo. Pertanto in molte persone venute da me – uomini e donne –, senza contare le religiose di questi monasteri, ho visto chiaramente che spesso s’ingannavano da sole senza volerlo. Non c’è dubbio che il demonio ci mette lo zampino per prendersi gioco di noi; ma nel gran numero di persone che, ripeto, ho conosciuto, per la bontà del Signore, non ne ho visto nemmeno una che sia stata da lui abbandonata. Forse vuole permettere questi inganni perché ne escano alquanto sperimentate.

3. A causa dei nostri peccati, ciò che riguarda l’orazione e la perfezione è caduto tanto in ribasso nel mondo, che sono costretta a dare tali chiarimenti. Se si teme di intraprendere questo cammino dell’orazione, pur senza scorgervi alcun pericolo, che sarebbe se dicessimo che ve ne sono? Eppure, in verità, i pericoli non mancano dovunque, e per tutto è necessario, finché viviamo, procedere con timore, chiedendo al Signore di illuminarci e di non abbandonarci mai. Ma, come credo d’aver già detto, se vi sono anime che hanno da temere molto minor pericolo, sono quelle che più si elevano a pensare a Dio e cercano di perfezionare la propria vita.

4. Che cosa è mai questo, mio Signore? Se vediamo che ci liberate così spesso dai pericoli in cui ci mettiamo da noi stessi, perfino opponendoci a voi, come si può credere che non ce ne libererete quando non aspiriamo ad altro che a piacervi e a trovare in voi la nostra gioia? Non riuscirò mai a crederlo. Può darsi che Dio, nei suoi segreti giudizi, permetta certe cose che in tutti i modi sarebbero avvenute, ma il bene non è mai stato fonte di male. Pertanto, ciò serva non già ad abbandonare il cammino, ma a cercare di percorrerlo più speditamente, per meglio accontentare il nostro Sposo e trovarlo più presto; non già a scoraggiarci nella marcia, ma ad animarci a compiere intrepidamente una via così scoscesa, com’è quella della nostra vita. Alla fine, se procediamo con umiltà, dovremo pur giungere, con l’aiuto di Dio, a quella celeste Gerusalemme, dove tutto ciò che avremo sofferto ci sembrerà ben poca cosa, o meglio nulla, in confronto a quanto godremo.

5. Quando, dunque, questi piccoli colombai della Vergine nostra Signora cominciarono a popolarsi, la divina Maestà cominciò a manifestare le sue grandezze in semplici donnicciole, deboli per natura, anche se forti nei desideri e nel distacco da tutto il creato: virtù questa molto utile a unire più strettamente l’anima al suo Creatore, purché si abbia anche una purezza di coscienza. Di tale precisazione, in realtà, non c’era bisogno, perché mi sembra che il vero distacco renda impossibile peccare, allo stesso modo in cui la mancanza di esso fa sì che è impossibile non offendere il Signore. Siccome queste anime non parlano e non si occupano che di lui, Sua Maestà, da parte sua, sembra che non voglia allontanarsi da loro. È quanto ora vedo e quanto posso affermare con tutta verità. Quelle che verranno dopo di noi e leggeranno queste righe, abbiano motivo di temere se non troveranno nei nostri monasteri quello che oggi c’è, e non ne facciano ricadere la colpa sui tempi. Ogni tempo è buono per Dio, quando vuole favorire di grandi grazie coloro che lo servono con impegno: cerchino piuttosto di considerare se ci sia qualche rilassamento in questo impegno e procurino di porvi rimedio.

6. Sento dire, a volte, circa l’origine degli ordini religiosi, che il Signore faceva maggiori grazie a quei santi nostri antecessori, perché dovevano fungere da fondamenta dell’edificio; ed è così, ma dovremmo considerare che siamo tutti fondamenta per quelli che verranno. Se, infatti, noi che viviamo ora mantenessimo la perfezione dei nostri predecessori e se quelli che verranno dopo di noi facessero altrettanto, l’edificio resterebbe sempre saldo. Di quale giovamento è per me che i santi di una volta siano stati tali, se io poi sono così spregevole, che faccio rovinare l’edificio con le mie cattive abitudini? È evidente infatti che i nuovi venuti non hanno tanto in mente coloro che sono morti da molti anni quanto quelli che vedono al presente. Curioso davvero che io faccia ricadere la colpa sul fatto di non essere stata delle prime, e non consideri la differenza che c’è tra la mia vita e le mie virtù e quella di coloro ai quali Dio faceva così grandi grazie!

7. Oh, mio Dio! Che scuse tirate per i capelli e che inganni ben evidenti! Mi addolora, mio Dio, di essere così spregevole e di fare così poco in vostro servizio, ma so bene che la colpa è mia se non mi elargite le grazie di cui avete favorito i miei predecessori. Ho pietà della mia vita, Signore, quando la paragono alla loro, e non posso dirlo senza lacrime. Vedo d’aver mandato in rovina quello che essi avevano edificato con il lavoro, e in nessun modo posso lamentarvi di voi. Né deve farlo alcun’anima religiosa; piuttosto, se vedrà che il suo ordine va decadendo in qualche cosa, cerchi d’essere una pietra tale da poter con essa far rialzare l’edificio: il Signore l’aiuterà a riuscirvi.

8. Tornando, dunque, a ciò che dicevo – poiché me ne sono allontanata parecchio –, sono tante le grazie di cui il Signore favorisce queste case che, se in ogni monastero ci sono una o due religiose condotte attualmente da Dio per la via della meditazione, tutte le altre pervengono alla contemplazione perfetta; alcune vanno tanto avanti da giungere al rapimento. Ve ne sono poi di quelle favorite dal Signore in modo diverso, perché sperimentano rivelazioni e visioni di cui è evidente la provenienza divina. Oggi non v’è monastero dove non si trovino una, due e anche tre religiose così favorite. So bene che la santità non consiste in questo, né il mio intento è solo quello di tributar loro lodi, ma di far capire l’opportunità dei consigli che vi voglio dare.

CAPITOLO 5

In cui si danno alcuni consigli sull’orazione e le rivelazioni. È un capitolo molto utile per coloro che si dedicano alla vita attiva.

1. Non ho la pretesa – non me lo sogno neppure – che quanto dirò sia così giusto da esser ritenuto regola infallibile: sarebbe un’insensatezza in materia così difficile. Siccome però ci sono molte vie in questo cammino spirituale, può darsi che riesca a dire qualcosa che convenga all’una o all’altra di esse. Se vi sono di quelli che non m’intendono, vuol dire che vanno per diversa strada. E se non dovessi giovare ad alcuno, il Signore accetterà la mia buona intenzione, sapendo che, quand’anche non di tutto abbia fatto esperienza io stessa, l’ho costatato però in altre anime.

2. Anzitutto voglio dire, nei limiti delle mie capacità, in che consista la sostanza della perfetta orazione. Mi sono, in verità, incontrata con alcune persone che credono che la questione consista tutta nell’esercizio dell’intelletto. Se possono applicarlo molto a Dio, sia pure a costo di grandi sforzi, sembra loro subito d’essere spirituali. Se invece sono distratte. loro malgrado, da occupazioni anche buone, eccole in preda a un grande scoraggiamento, convinte d’essere perdute. Non cadranno certo in questi errori dovuti ad ignoranza i dotti, pur avendo io incontrato chi fra essi non ne era esente, ma noi donne conviene che siamo prevenute contro ogni equivoco di tal genere. Non dico che non sia una grazia di Dio potersi applicare continuamente alla meditazione delle sue opere, ed è bene farlo. Bisogna, però, rendersi conto che non tutte le immaginazioni sono adatte per natura a questo esercizio, mentre tutte le anime sono capaci di amare. Ho già scritto altrove quelle che sono, a mio parere, le cause – non tutte, perché è impossibile, ma almeno alcune – di questo andar vagando della nostra immaginazione. Così ora non ne tratterò, ma vorrei far capire che l’anima non è il pensiero, e che la volontà non è diretta da esso, il che sarebbe una vera disdetta. Ne consegue che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare.

3. Ma come si acquisterà quest’amore? Determinandosi ad operare e a patire, per scendere poi alla pratica quando se ne presenta l’occasione. È pur vero che, riflettendo a quanto dobbiamo al Signore, a chi egli sia e a ciò che siamo noi, l’anima acquista la sua determinazione; è cosa molto meritoria e molto utile per i principianti purché, evidentemente, non sia d’intralcio ai doveri imposti dall’obbedienza o dal vantaggio del prossimo. Qualunque di questi due doveri ci si presenti, richiede tempo, a scapito di quello che noi tanto desideriamo consacrare a Dio e che, a nostro modo di vedere, consiste nello stare in solitudine pensando a lui e godendo dei doni che egli ci elargisce. Lasciare questo per attendere all’uno o all’altro di quei doveri è far contento lui, detto dalla sua stessa bocca: ciò che avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatto a me. E per quel che riguarda l’obbedienza, non vorrà certo che un’anima così innamorata di lui vada per una strada diversa da quella seguita da chi fu oboediens usque ad mortem.

4. Se, dunque, ciò è vero, da che proviene quel senso di disagio che generalmente si prova, quando non si è stati in gran parte del giorno in una profonda solitudine e assorti in Dio, anche se siamo occupate in opere di obbedienza e carità? A mio parere, da due ragioni: la prima, e principalissima, è un amor proprio che s’insinua in noi così sottilmente da non farci accorgere di ricercare più la nostra soddisfazione che quella di Dio, perché è evidente che quando si comincia a gustare quanto sia dolce il Signore, si prova più piacere a tenere il corpo in riposo e l’anima nei diletti spirituali anziché impegnarsi in qualche lavoro.

5. Oh, carità di coloro che amano davvero questo Signore e ne conoscono la natura! Il riposo non è loro possibile se vedono di poter contribuire, sia pur in minima parte, al progresso anche di una sola anima e far sì che ami maggiormente Dio, o esserle di aiuto per consolarla nelle sue pene o per liberarla da qualche pericolo. Come, in tal caso, il riposo personale diventa loro insopportabile! Se non possono essere utili con le opere, ricorrono all’orazione, importunando il Signore con preghiere per le molte anime di cui li affligge profondamente costatare la perdita. Essi rinunziano al loro piacere e lo ritengono una felice rinuncia, dimentichi della propria soddisfazione e intenti solo a compiere con maggiore perfezione la volontà di Dio. Altrettanto è per l’obbedienza. Sarebbe grave che, dicendoci Dio chiaramente di andare a fare una cosa che gli sta a cuore, non volessimo ascoltarlo, per rimanere a contemplarlo, perché ciò risponde di più al nostro piacere. Bel modo di progredire nell’amore di Dio! Legargli le mani convinti che non ci può condurre alla perfezione per altre strade!

6. Prescindendo, come ho detto, da ciò che ho sperimentato, conosco alcune persone che mi hanno aiutato a capire questa verità, allorché ero molto afflitta di avere poco tempo disponibile; nel vederle sempre occupate in affari e in numerosi impegni loro imposti dall’obbedienza, pensavo fra me – e lo dicevo anche – che non era possibile in tanta baraonda progredire nello spirito; infatti esse allora non erano molto avanzate. Oh, Signore, quanto sono diverse le vostre strade dalle nostre grossolane immaginazioni! E come da un’anima ormai risoluta ad amarvi e abbandonatasi nelle vostre mani, voi non volete altro se non che obbedisca e che, resa ben edotta di ciò che accresce di più la vostra gloria, desideri solo questo! Non ha bisogno di cercare e di scegliere le strade, visto che ormai la sua volontà è la vostra: Siete voi, mio Signore, a prendervi cura di guidarla attraverso quella che le è di maggior vantaggio. E anche se il superiore non si preoccupa del profitto dell’anima, ma del disbrigo degli affari che gli sembrano utili alla comunità, ve ne preoccupate voi, Dio mio. Andate disponendo le nostre anime e le nostre occupazioni in modo tale che, senza saper come, ci troviamo così avanzati nel cammino spirituale da restarne del tutto meravigliati.

7. Ciò è quanto è avvenuto a una persona con la quale ho parlato pochi giorni fa. L’obbedienza l’aveva talmente occupata per quindici anni in cariche e incombenze, che non si ricordava di aver avuto in tutto questo tempo una sola giornata per sé, anche se cercava di dedicare sempre alcuni momenti all’orazione e di mantener pura la coscienza. È una delle anime più inclini all’obbedienza che io abbia visto, e ne comunica il rispetto a chiunque tratti con lei. Il Signore l’ha ben ricompensata, perché, senza sapere come sia avvenuto, si è accorta di avere quella libertà di spirito così preziosa e così desiderata, patrimonio di chi è perfetto, e nella quale si trova tutta la felicità che si può desiderare in questa vita, perché, non volendo nulla, si possiede tutto. Non si teme né si desidera alcunché della terra, né si è turbati da prove né alterati da gioie; infine, nessuno può togliere a tali anime la pace, perché questa dipende solo da Dio, dalla quale non c’è alcuno che possa strapparle. Solo il timore di perderla può esser causa di pena, essendo tutto il resto del nostro mondo come inesistente ai loro occhi, perché non conta nulla né per far sorgere né per far sparire la loro gioia. Oh, felice obbedienza e felici le distrazioni che essa ha imposto, se ne è derivato un bene così grande!

8. E non è il solo caso, avendo conosciuto altre persone a cui è accaduto lo stesso. Rivedendole dopo qualche anno, e anche di più, chiedendo loro come avessero passato quel tempo, venivo a sapere che lo avevano trascorso interamente in opere di obbedienza e di carità; e, d’altra parte, mi apparivano così progredite nella vita spirituale, che ne rimanevo stupita. Dunque, su, figlie mie! Non vi affliggete quando l’obbedienza vi tenga occupate in cose esteriori: se attendete alla cucina, rendetevi conto che il Signore si aggira fra le pentole, aiutandovi interiormente ed esteriormente.

9. Ricordo che un religioso mi raccontò di essersi fermamente deciso a non rifiutarsi a un ordine del suo superiore, qualunque pena dovesse costargli. Un giorno che si sentiva a pezzi per aver tanto faticato, essendo ormai giunto a sera e non reggendosi in piedi, mentre andava a sedersi per riposare un poco, si imbatté nel superiore il quale gli disse di prendere una grossa zappa e andare a zappare l’orto. Egli tacque, benché fosse così sfinito fisicamente da non stare in piedi; prese la sua grossa zappa e mentre si disponeva a recarsi nell’orto attraverso un passaggio che lì si trovava (e che io vidi molti anni dopo questo suo racconto, perché riuscii a fondare in quella località un monastero), gli apparve nostro Signore con la croce sulle spalle, così stremato e affranto, da fargli ben capire che, in confronto, la sua stanchezza non era niente.

10. Credo che il demonio, sapendo che non vi è cammino che conduca al sommo della perfezione più rapidamente dell’obbedienza, ispira tante inquietudini e frappone tante difficoltà sotto forma di bene. Vi si faccia attenzione e si vedrà chiaramente che dico il vero. È evidente che la somma perfezione non consiste in diletti interiori né in grandi rapimenti né in visioni né in spirito di profezia, ma nella conformità del nostro volere a quello di Dio, in modo tale da non esservi alcuna cosa in cui riconosciamo la sua volontà che non sia da noi voluta risolutamente e della quale non sia accettato con la stessa allegrezza ciò ch’è dolce e ciò che è amaro, nella consapevolezza che tutto è voluto da Sua Maestà. Sembra, questo, assai difficile, non per quanto riguarda il farlo, ma il farlo con gioia, anche se si tratti di cose che ripugnano alla nostra volontà dal punto di vista delle nostre naturali inclinazioni, e realmente è così. L’amore però, se è perfetto, ha tale forza da farci dimenticare ogni nostra soddisfazione per piacere a chi amiamo. E questo è tanto vero che anche le più grandi tribolazioni ci diventano gradite, quando sappiamo di far piacere a Dio. Ecco perché le anime pervenute a tale grado di perfezione amano le persecuzioni, i disonori e gli oltraggi. Questo è così certo, così risaputo e chiaro, che non c’è motivo che io mi ci soffermi più a lungo.

11. Ciò che desidero far capire è il motivo per cui, a mio parere, l’obbedienza è il mezzo più rapido e anche il migliore che esista per arrivare a questo stato così felice. Il fatto è che, siccome non siamo minimamente padroni della nostra volontà, in modo da poter applicarla solamente e chiaramente tutta a servizio di Dio, se non dopo averla assoggettata alla ragione, l’obbedienza è il vero cammino per arrivare a questo. A tal fine non servono infatti le buone ragioni, perché la nostra natura e il nostro amor proprio ne possono opporre tante che non ne verremmo mai a capo. E spesso la cosa più ragionevole, se non ci va, trasforma ai nostri occhi in una pazzia l’avere il desiderio di farla.

12. Ci sarebbe tanto da dire di questa battaglia interiore e degli ostacoli frapposti dal demonio, dal mondo e dai nostri sensi per farci deviare dalla giusta ragione, che non si finirebbe più. Qual è dunque il rimedio? Come quaggiù in una lite molto dubbia le parti, stanche di litigare, prendono un giudice e rimettono la questione nelle sue mani, così la nostra anima se ne scelga uno, sia egli il superiore o il confessore, con il fermo proposito di non trascinare oltre la lite, né pensare più alla sua causa, ma di confidare nelle parole del Signore che dice: Chi ascolta voi, ascolta me e non badare alla propria volontà. Il Signore apprezza tanto questa sottomissione (e giustamente, perché significa renderlo padrone del libero arbitrio datoci da lui) che, esercitandoci in questo, ora fra tribolazioni, ora fra mille lotte dovute all’impressione che il giudizio sulla nostra causa sia un errore, arriviamo a conformarci a quello che ci comandano, sia pure con pena; ma con pena o senza, in conclusione, lo facciamo, e il Signore, da parte sua, ci aiuta tanto che, proprio perché assoggettiamo la nostra volontà e la nostra ragione per amor suo, ci rende padroni di esse. Allora, divenuti padroni di noi stessi, possiamo con perfezione dedicarci a Dio, consegnandogli una volontà pura affinché la unisca alla sua, pregandolo di mandare dal cielo il fuoco del suo amore che consumi questo sacrificio distruggendo tutto quello che può dispiacergli. Così facendo non avremo omesso nulla da parte nostra: sia pure con grandi sacrifici, abbiamo posto la vittima sull’altare e, per quanto è in noi, non tocca più la terra.

13. È chiaro che non si può dare quello che non si ha, e che, per dare, bisogna avere. Ebbene, credetemi: per acquistare questo tesoro non c’è via migliore che scavare e scavare con l’intento di estrarlo dalla miniera dell’obbedienza. Più scaveremo e più troveremo: più ci assoggetteremo agli uomini, non avendo altra volontà che quella dei nostri superiori, più saremo padroni di essa per conformarla a quella di Dio. Vedete un po’, sorelle, se non sarà ben pagata la rinuncia al piacere della solitudine! Vi assicuro che non per mancanza di essa lascerete di disporvi a conseguire questa vera unione di cui ho parlato, che consiste nell’uniformare la nostra volontà a quella di Dio. Ecco l’unione che io desidero e che vorrei vedere in tutte voi, non quei rapimenti così deliziosi a cui si dà il nome di unione, e che lo saranno se preceduti da questa forma di unione ora detta. Ma se dopo tali sospensioni la virtù dell’obbedienza è ancora poca, e molta, invece, la propria volontà, l’unione, a mio avviso, non sarà con la volontà di Dio, ma con l’amor proprio. Piaccia a Sua Maestà che io metta in pratica questi consigli così come li intendo.

14. La seconda causa a cui mi sembra si debba attribuire il disagio precedentemente detto è che l’anima, essendovi nella solitudine meno occasioni di offendere il Signore (giacché qualcuna non può mancare, visto che i demoni stanno dovunque, e anche noi stessi ci troviamo da per tutto), pare che si mantenga più pura e, se è un’anima che teme molto di offendere Dio, assai grande è la sua gioia nel non incontrare pericoli. Certamente, questo mi sembra un motivo sufficiente per rifuggire dal trattare con alcuno, anziché la ricerca di grandi delizie e godimenti divini.

15. Qui è dove, figlie mie, si dimostrerà l’amore, in mezzo alle occasioni, e non nei ritiri della solitudine; credetemi. Anche se si commettono più errori e si subiscono inoltre alcune piccole perdite, il profitto che se ne trae è senza confronto più grande. Badate che parlo sempre nel presupposto di esporsi alle occasioni per obbedienza e carità, altrimenti torno ancora a dire che è preferibile la solitudine, e che dobbiamo proprio desiderarla, pur in mezzo alle nostre occupazioni. In effetti questo desiderio è continuo nelle anime che amano veramente Dio. Quanto al dire che se ne trae un profitto, è perché riusciamo a capire chi siamo, e fin dove arrivi la nostra virtù. Infatti una persona sempre ritirata in solitudine, per santa che le sembri di essere, non sa se possieda pazienza e umiltà. né ha modo di saperlo. Così per il valore di un uomo, come sapere se ne ha, finché non lo si sia visto in battaglia? San Pietro credeva di essere molto coraggioso, ma guardate se fu tale, messo alla prova. Si rialzò, però da quella caduta, privo ormai interamente di fiducia in sé; la ripose quindi tutta in Dio e, infine, sopportò il martirio che sappiamo.

16. Oh, mio Dio, se riconoscessimo quanto è grande la nostra miseria! Senza tale coscienza, ci sono pericoli dovunque; per questo ci è assai utile che ci diano ordini: per sperimentare la nostra pochezza. E io ritengo maggior grazia del Signore un giorno di umile conoscenza di sé, anche se a prezzo di grandi afflizioni e sofferenze, che molti di orazione, tanto più che il vero amante ama ovunque e si ricorda sempre dell’amato. Sarebbe cosa ardua se si potesse fare orazione solo in luoghi appartati. So bene l’impossibilità di dedicare ad essa molte ore. Ma, mio Signore, quanta forza ha presso di Voi anche un solo sospiro venuto su dal profondo delle nostre viscere, per la pena di vedere che non basta l’essere in questo esilio, ma che ci viene tolto anche il tempo in cui avremmo potuto godere di Voi da solo a solo!

17. Allora ci mostriamo davvero schiavi di Gesù Cristo, venduti volontariamente, per amor suo, alla virtù dell’obbedienza, poiché a causa di essa rinunziamo, in qualche modo, a godere di Dio stesso. E non è niente, se pensiamo che egli è venuto, per obbedienza, dal seno del Padre a farsi nostro schiavo. Come si potrà mai pagare o ricambiare questa grazia? È necessario però avere l’avvertenza, anche nelle opere di obbedienza e carità, di sorvegliarsi scrupolosamente per non mancare di ritornare spesso a Dio nel proprio intimo. E, credetemi, non è lo stare a lungo in orazione a far progredire l’anima: quando si impiega una parte del tempo in buone opere, è un grande aiuto per avere assai più presto miglior disposizione ad accendersi d’amore, che in molte ore di meditazione. Ma tutto deve venire dalle mani di Dio. Sia egli per sempre benedetto!

CAPITOLO 6

Indica i danni che possono venire alle persone spirituali dal non sapere quando devono resistere ai trasporti di spirito. Tratta dei desideri di comunione da cui è presa l’anima e degli inganni che vi si possono nascondere. Vi sono cose importanti per le priore dei nostri monasteri.

1. Io ho posto ogni cura nel cercare di capire da dove provenga quello stato di profonda sospensione in cui ho visto immerse alcune persone favorite molto da Dio nell’orazione, le quali non trascurano nulla per disporsi a ricevere le grazie divine. Ora non parlo di quando la sospensione e il rapimento di un’anima vengono da Sua Maestà, avendone trattato a lungo in altro luogo. Su un tale argomento si può dire ben poco perché, se si tratta di vero rapimento, ci è impossibile qualsiasi resistenza, quali che siano gli sforzi a cui facciamo ricorso. D’altra parte, si deve notare che in questo stato la forza che ci toglie la padronanza di noi stessi dura poco, ma spesso accade di entrare in un’orazione di quiete, simile a un sonno spirituale, capace di assorbire l’anima così profondamente che, se non sappiamo come ci dobbiamo regolare, possiamo perdere molto tempo e sfinirci per colpa nostra e con poco merito.

2. Vorrei sapermi spiegare meglio in proposito, ma l’argomento è così difficile che non so se ci riuscirò; so bene però che le anime soggette a questo inganno m’intenderanno, se vogliono prestarmi fede. Ne conosco alcune – e si tratta di anime di grande virtù – che rimanevano assorte sette o otto ore, e che scambiavano tutto per un rapimento. Qualunque esercizio religioso le assorbiva in modo tale che si abbandonavano subito, persuase che non fosse bene resistere al Signore. Ma così facendo, a poco a poco, se non si cerca di porvi rimedio, si potrà arrivare alla morte o alla idiozia. Io mi spiego la cosa in questo modo: non appena il Signore comincia a favorire l’anima di grazie interiori, la nostra natura, avida com’è di diletti, s’immerge tanto in quel piacere che, per non perderlo, non vorrebbe fare alcun movimento. Siccome in verità è un diletto che sorpassa tutti i piaceri del mondo, se trova una persona dal temperamento debole o il cui intelletto – per meglio dire, l’immaginazione –, lungi dall’essere incostante, se si attacca ad una cosa, vi si fissa senza più divagare, lo stesso avviene a molte persone che, pensando a qualcosa, anche estranea a Dio, restano assorte, o guardando un oggetto non si rendono conto di quello che vedono, persone di natura pigra che, per effetto della distrazione, sembrano dimenticare anche quello che stanno per dire. Così accade qui, a seconda dei caratteri o della complessione o della debolezza fisica. Se poi sono anime inclini alla malinconia, l’immaginazione presenterà loro mille piacevoli illusioni.

3. Di questo umore parlerò più avanti, ma quand’anche non vi sia malinconia, accade quel che ho detto, e perfino a persone stremate dalla penitenza, le quali – ripeto –, appena l’amore comincia a dare un sensibile diletto, vi si abbandonano interamente, come ho già fatto notare. A mio parere il loro amore sarebbe assai più perfetto se non si lasciassero intontire così, perché in questo grado di orazione possono resistere molto bene. In caso contrario avviene come quando per debolezza si avverte uno sfinimento che non permette di parlare né di muoversi; se la natura è debole, la forza dello spirito se ne impadronisce e la domina.

4. Mi si potrà chiedere quale differenza vi sia tra questo stato e il rapimento, perché, almeno in apparenza, sembrano la stessa cosa; ed è giusto, quanto all’apparenza, ma non quanto alla realtà. Il rapimento infatti o l’unione di tutte le potenze – come ho detto – dura poco, produce grandi effetti e lascia una luce profonda nell’anima, con molti altri vantaggi. L’intelletto è del tutto inattivo, solo il Signore opera sulla volontà. Qui la cosa è ben diversa perché, anche se il corpo è come prigioniero, non lo sono la volontà, né la memoria né l’intelletto; solo che agiranno senza regola e, se per caso si concentrano su un oggetto, forse è il momento in cui non daranno pace.

5. Non vedo alcun vantaggio in questa debolezza del corpo – perché d’altro non si tratta – salvo che ha avuto un buon principio; ma bisogna che serva a impiegare bene il tempo, anziché a passarlo in così lungo assorbimento. Si può meritare molto di più con un solo atto e stimolando spesso la volontà ad amare maggiormente Dio, che non lasciandola in questo torpore. Pertanto consiglio alle priore di adoperarsi con ogni cura possibile a sopprimere questi troppo lunghi incantamenti. Questi ultimi, a mio parere, non servono ad altro che a paralizzare le potenze e i sensi, rendendoli incapaci di obbedire all’anima, la quale così perde il vantaggio che le potrebbe derivare procedendo con il dovuto zelo. Se la priora si rende conto che ciò dipende da debolezza, abolisca i digiuni e le discipline (intendo riferirmi a quelli che non sono d’obbligo, e all’occasione si potranno anche sopprimere tutti con tranquilla coscienza), ed impieghi tali religiose in qualche occupazione, per farle distrarre.

6. Ciò è necessario anche con persone che, pur non cadendo in tali stordimenti, lasciano che la loro immaginazione si concentri troppo, sia pure in cose assai elevate di orazione. Accade infatti, a volte, che non siano più padrone di sé: specialmente se hanno ricevuto dal Signore qualche grazia straordinaria o avuto qualche visione, la loro anima ne resta così impressionata che crederanno di vedere sempre quello che hanno visto non più di una volta. Bisogna che chi si accorga d’essere in questo rapimento da più giorni, procuri di cambiare soggetto di meditazione. Purché, infatti, ci si occupi delle cose di Dio, non c’è nulla in contrario che sia di alcune piuttosto che di altre; a patto, ripeto, che si tratti di cose sue: a volte Dio si compiace delle nostre meditazioni sulle sue creature e sulla potenza da lui mostrata nel trarle dal nulla, non meno che delle concentrazioni sullo stesso Creatore.

7. Oh, sventurata miseria umana, così ridotta a causa del peccato, che anche nel bene abbiamo bisogno di regola e misura per non rovinare la nostra salute in modo da non poterne godere! E veramente la moderazione conviene a molte persone, specialmente a quelle che sono deboli di testa o d’immaginazione. È necessario in sommo grado conoscere se stessi per servire meglio il Signore. E quando l’anima si accorge di avere l’immaginazione concentrata su un mistero della passione o sulla beatitudine celeste o su qualunque altra cosa del genere e di restare molti giorni fissa in questo pensiero, tanto che, pur volendolo, non può rivolgerlo ad altro né evitare di restarvi assorta, è conveniente che faccia quanto può per distrarsi. Altrimenti vedrà con il tempo il danno che ne deriva e come l’origine stia in ciò che ho detto: in una grande debolezza fisica, o dell’immaginazione, il che è molto peggio. Infatti, come avviene a un pazzo che si fissa su un’idea, che non è più padrone di sé né può distrarsi e pensare ad altro, né vi sono ragioni per rimuoverlo da essa, perché non ha il dominio della ragione, altrettanto potrebbe accadere qui, anche se si tratta d’una piacevole pazzia. Se poi vi si unisse la malinconia, il danno potrebbe essere molto grave. Io non vedo, insomma, da quale punto di vistala sospensione sia una cosa buona, tenuto conto del fatto che l’anima è capace di godere di Dio stesso. E se non è soggetta ad alcune delle debolezze di cui ho parlato, perché, essendo Dio infinito, dovrebbe farsi schiava d’una sola delle sue grandezze o dei suoi misteri, quando c’è tanto in lui di che occuparsi? Quanto più cercheremo di fermare l’attenzione su ciò che lo riguarda, tanto più si scopriranno ai nostri occhi le sue grandezze.

8. Non dico che in un’ora e neanche in un giorno si debba meditare su molte cose, perché questo equivarrebbe forse a non goder bene di nessuna: trattandosi di materia così delicata, non vorrei che si pensasse quello che neppure mi passa per la mente di dire, e s’intendesse una cosa per un’altra. È davvero così importante capire bene questo capitolo che, anche se ne riuscirà noiosa la lettura, non mi rincresce di averlo scritto, né vorrei che alle persone cui restasse difficile intenderlo a prima vista, rincrescesse tornare a leggerlo più volte. Mi riferisco specialmente alle priore e alle maestre delle novizie, che devono guidare nella preghiera le consorelle. Se, infatti, non procedono con ogni diligenza fin dal principio, vedranno da sé quanto tempo sarà poi loro necessario per rimediare a simili debolezze.

9. Se dovessi descrivere la gravità dei danni di cui sono a conoscenza, si vedrebbe che ho ragione di attribuire a questo argomento tanta importanza. Voglio darne solo un esempio, dal quale si potrà giudicare degli altri. In uno dei nostri monasteri si trovano una monaca e una conversa, entrambe di grandissima orazione, accompagnata da mortificazione, umiltà e altre virtù, essendo molto favorite dal Signore, che comunica loro le sue grandezze; più precisamente sono talmente staccate dal mondo e così piene di amore divino che, anche a seguirle ben da presso, non sembra che tralascino mai di corrispondere, per quanto lo consente l’umana pochezza, alle grazie che ricevono da nostro Signore. Ho insistito sulle loro virtù perché ne traggano motivo di maggior timore quelle che non le possiedono. Cominciarono ad avere così impetuosi desideri di unirsi a Dio che non potevano dominarsi; sembrava loro di calmarsi quando facevano la comunione, pertanto si adoperavano per ottenere dai confessori l’autorizzazione a riceverla spesso. Poiché questo loro tormento andava aumentando, se non ricevevano la comunione tutti i giorni, sembrava che ne morissero. I confessori, vedendo tali anime in preda a così violenti desideri, benché uno fosse molto spirituale, ritennero conveniente questo rimedio al loro male.

10. Ma la cosa non si fermava qui. Una di esse provava tali ansie che, a suo giudizio, per poter vivere aveva bisogno di comunicarsi di buon mattino. Né erano anime capaci minimamente di fingere, e per nulla al mondo avrebbero detto una bugia. Io non mi trovavo lì; pertanto la priora mi scrisse ciò che accadeva, dicendomi che non aveva più autorità su di loro e che i confessori erano del parere di ricorrere a quel rimedio, poiché il loro bisogno era irresistibile. Volle il Signore che io capissi subito di che si trattava: ciò nonostante decisi di tacere fino a che non fossi lì presente, perché temevo d’ingannarmi e perché non era giusto contraddire chi approvava tale modo d’agire, senza prima esporgli le mie ragioni.

11. Uno dei confessori era così umile, che non appena giunsi là e gli parlai, rimase convinto di quanto ebbi a dirgli. L’altro non era altrettanto spirituale, anzi, non lo era quasi affatto in paragone del primo, e non c’era modo di poterlo persuadere. Ma di lui m’importò poco, per il fatto di non essergli molto obbligata. Cominciai a parlare alle religiose, esponendo loro molte ragioni che, secondo me, dovevano essere sufficienti a convincerle che era un parto della fantasia pensare di morire senza quel rimedio. Ma erano talmente fissate in quest’idea che a rimuoverle da essa non fu sufficiente alcun motivo né si sarebbe venuti a capo di nulla per via di ragionamenti. Vedendo ormai che tutto era inutile, dissi loro che anch’io avevo gli stessi desideri e che mi sarei astenuta dal comunicarmi, perché si convincessero che esse non dovevano farlo se non con tutte le altre. Saremmo morte tutt’e tre? Meglio così, piuttosto che introdurre un simile costume nelle nostre case, dove altre anime amavano Dio esattamente come loro e avrebbero potuto desiderare di fare altrettanto.

12. Era giunto a tale estremo il danno causato dall’abitudine, in cui il demonio doveva avere la sua parte, che in realtà, appena furono private della comunione, sembrava che stessero per morire. Io mi dimostrai inflessibile perché, quanto più vedevo che rifuggivano dall’obbedienza (non potendo, a loro parere, fare altrimenti), tanto più riconoscevo chiaramente che si trattava di tentazione. Passarono il primo giorno con gran pena, il secondo soffrirono un po’ meno, e poi a poco a poco sempre meno, in modo che, anche se io facevo la comunione, perché me l’avevano comandato (io, vedendole così deboli, non l’avrei fatta), lo sopportavano senza turbamenti.

13. Di lì a poco esse, con tutte le altre, capirono la tentazione e quanto fosse stato bene porvi rimedio a tempo, perché in breve si ebbero in quella casa alcuni contrasti con i superiori (non per colpa delle monache; più avanti può darsi che ne dica qualcosa), che non avrebbero certo approvato né tollerato una simile abitudine.

14. Oh, quante cose di questo genere potrei dire! Ne riferirò solo un’altra. Il fatto non avvenne in un monastero del nostro Ordine, ma in uno delle religiose di san Bernardo. Ve n’era una non meno virtuosa di quelle anzidette; ella, per effetto di molte discipline e digiuni, era giunta a tale grado di debolezza da cadere subito a terra ogni volta che si comunicava o che aveva motivo d’accendersi di devozione, e così restava otto o nove ore, convinta, come tutte le altre, che si trattasse d’un rapimento. Questo le accadeva tanto spesso che, se non vi si fosse posto rimedio, credo ne sarebbe derivato un gran male. La fama di tali rapimenti si era sparsa in tutta la città; io ne ero afflitta, perché il Signore volle farmi capire, per sua grazia, di che si trattava e mi chiedevo con timore dove ciò sarebbe andato a finire. Il suo confessore, che era come un padre per me, venne a raccontarmi quanto accadeva. Io gli dissi quello che ne pensavo: vale a dire come fosse una perdita di tempo, essendo impossibile che si trattasse di rapimenti, ma solo di effetti della debolezza naturale. Gli consigliai di proibirle i digiuni e le discipline e di obbligarla a distrarsi. Ella era obbediente e adempì i suoi ordini. Dopo breve tempo, man mano che andò riacquistando le forze, non ci fu più alcun segno di rapimenti, mentre se si fosse trattato realmente di essi, nessun rimedio sarebbe stato utile a farli cessare, fino a quando il Signore non avesse voluto porvi termine. La forza dello spirito è, infatti, così grande, che le nostre energie non bastano a opporre una resistenza; inoltre, come ho detto, lascia grandi effetti nell’anima, mentre in caso diverso non ce ne sono altri, proprio come se non fosse avvenuto nulla all’infuori di una grande spossatezza fisica.

15. Da ciò resti dunque inteso che bisogna ritenere per sospetto tutto ciò che ci soggioga al punto da rendere evidente la mancanza dell’uso della ragione, ed essere convinti che mai per questa via si acquisterà la libertà dello spirito, poiché una delle caratteristiche di tale libertà è trovare Dio in tutte le cose e poter pensare alle cose stesse; il resto è schiavitù di spirito e, a prescindere dal danno che arreca al corpo, impedisce all’anima di progredire. Come quando si va per una strada e ci si caccia in un fondo di detriti o in un pantano dal quale non si riesce ad uscire, press’a poco avviene lo stesso nell’anima che, per avanzare, non deve solo camminare, ma volare.

16. Quando poi, come spesso accade, dicono e credono di essere assorte nella divinità e di non potere, in quello stato di sospensione, opporre resistenza né distrarsi, sappiano che torno a dare questo consiglio: per un giorno, o quattro, o anche otto, non c’è ragione di temere, perché non è strano che un temperamento debole resti assorto durante un tale lasso di tempo, ma se si oltrepassa questo limite, bisogna cercare un rimedio. Il lato buono di tutto ciò è che non c’è peccato e che non si lascia di acquistare meriti, ma vi sono gli inconvenienti di cui ho parlato e molti altri ancora. Per quanto riguarda la comunione, sarebbe ben grave se un’anima, quale che sia la forza del suo amore, non si rimettesse anche in questo all’autorità del confessore e della priora; se pur abbia a soffrire la solitudine, deve guardarsi dagli eccessi di non obbedire loro. È necessario anche in questa, come in altre circostanze, esercitare le anime nella mortificazione, facendo loro comprendere che giova più rinunciare alla propria volontà che cercare la propria consolazione.

17. Anche il nostro amor proprio può intervenire al riguardo. Io ne ho esperienza, perché mi è accaduto a volte che, appena ricevuta la comunione (mentre l’ostia doveva essere pressoché ancora intera in me), vedendo comunicarsi le altre, avrei voluto non essermi comunicata, per farlo di nuovo. Da principio non mi sembrava che fosse cosa da cui stare in guardia, ma dopo che ciò mi avvenne spesso, finii per rendermi conto che era un sentimento dovuto più al mio piacere personale che all’amore di Dio: siccome, infatti, quando ci accostiamo alla comunione, generalmente sentiamo tenerezza e diletto, io mi lasciavo trasportare da questo desiderio, perché, se avessi desiderato di avere Dio nell’anima mia, già lo avevo; se di obbedire al comandamento di accostarmi alla santa comunione, era già cosa fatta; se di ricevere le grazie che si accompagnano al santissimo Sacramento, già le avevo ricevute. Infine, riconobbi chiaramente che non c’era in quel desiderio nulla di più che voler tornare a godere di quel gusto sensibile.

18. Ricordo che in una città dove io fui, in cui avevamo un monastero, conobbi una donna, grandissima serva di Dio, a detta di tutti, e doveva esserlo davvero. Si comunicava ogni giorno, ma si recava una volta in una chiesa e una volta in un’altra per farlo, e non aveva un confessore personale. Io, che notavo questo, avrei preferito vederla obbedire a una sola persona anziché ricevere tante comunioni. Viveva sola in una casa dove faceva, io credo, quel che voleva, senonché, essendo buona, tutto quanto faceva era buono. Io le dicevo qualche volta il mio pensiero, ma ella non vi dava importanza, e con ragione, perché era assai migliore di me; ciò nonostante, se in questo mi avesse ascoltata, credo che non avrebbe sbagliato. Venne lì il santo fra Pietro d’Alcántara; feci in modo che le parlasse, e non rimasi contenta della relazione che ella gli fece. Probabilmente ciò era dovuto solo al fatto che, miserabili come siamo, non riusciamo mai ad essere veramente contenti se non di coloro che vanno per la nostra stessa strada. Credo, infatti, che avesse servito meglio il Signore e fatto più penitenza lei in un anno che io in molti.

19. Le sopravvenne, infine – ed è questo a cui volevo giungere –, la malattia che doveva darle la morte. Ella ebbe cura di fare in modo che ogni giorno le celebrassero la Messa in casa e le somministrassero il santissimo Sacramento. Siccome la malattia si protrasse, un sacerdote, gran servo di Dio, il quale gliela celebrava spesso, ritenne che non si poteva consentirle di ricevere ogni giorno la comunione in casa. Dovette essere certamente una suggestione del demonio, perché quel giorno venne a coincidere con l’ultimo della sua vita. Ella, vedendo che la Messa era finita e che rimaneva senza il Signore, ne fu così contrariata e andò talmente in collera con il sacerdote, che egli venne tutto scandalizzato a raccontarmi l’accaduto. Io me ne afflissi molto, perché non sono certa che abbia potuto riconciliarsi: morì, credo, subito dopo.

20. Compresi da ciò il danno che procura fare la propria volontà in qualunque cosa, soprattutto, poi, se si tratta d’una cosa di tale importanza. L’anima che si accosta al Signore con tanta frequenza dev’essere così compresa della propria indegnità, da non farlo di testa sua, ma in virtù dell’obbedienza a un ordine, che supplirà a quanto ci manca – e sarà inevitabilmente molto – per avvicinarci a un così augusto Signore. Questa benedetta donna aveva avuto l’occasione di umiliarsi profondamente, e se avesse capito che il sacerdote non aveva colpa, ma che era stato il Signore, vedendo la sua miseria e quanto fosse indegna di accoglierlo in una così spregevole dimora, a disporre le cose in questo modo, forse avrebbe meritato di più che comunicandosi. Tale era il pensiero di una persona alla quale prudenti confessori proibivano la comunione, perché troppo frequente. Ella, quantunque ne soffrisse fino alle lacrime, anteponendo, d’altra parte, l’onore di Dio al proprio, non faceva che lodarlo per avere indotto il confessore ad esserne custode, non permettendo che Sua Maestà entrasse in così spregevole dimora. A causa di queste considerazioni obbediva con gran serenità, e se pur sentiva una pena tenera e amorosa, per nessuna cosa al mondo avrebbe contravvenuto a quello che le era stato ordinato.

21. Credetemi: l’amore di Dio (non reale, ma apparente) che eccita le passioni, in modo da condurci a qualche offesa contro di lui o da turbare la pace dell’anima «innamorata» al punto da non farle ascoltare la voce della ragione, è chiaro che altro non è se non una ricerca di noi stessi. Il demonio veglierà, allora, per attaccarci quando ci potrà fare più danno, come fece con questa donna di cui, certo, mi spaventò molto ciò che le accadde, anche se non rinunzio a credere che non sarà stato questo un motivo per impedire la sua salvezza, perché la bontà di Dio è infinita; ma non c’è dubbio che la tentazione l’assalì in un brutto momento.

22. Ne ho parlato qui perché le priore siano messe sull’avviso e le consorelle abbiano il dovuto timore, non tralasciando di considerare ed esaminare il modo con cui si accostano a un così grande sacramento. Se lo fanno per piacere a Dio, sanno bene che lo si accontenta più con l’obbedienza che con il sacrificio. Se, dunque, questo è vero, e se così facendo acquisto maggior merito, perché turbarmi? Non dico che non si possa provarne una certa pena, sia pur accompagnata da umiltà, perché non tutte le anime sono pervenute a tal grado di perfezione da non averla, ed essere soddisfatte di fare solo ciò che sanno maggiormente gradito a Dio. È evidente che se la volontà è del tutto staccata da ogni suo personale interesse, non ci si affliggerà di nulla; anzi, ci si rallegrerà d’avere l’occasione di compiacere il Signore con una privazione così penosa, ci si umilierà e si resterà ugualmente soddisfatte di comunicarsi spiritualmente.

23. Ma, poiché all’inizio sono grazie del Signore questi grandi desideri di accostarsi a lui (e anche alla fine, ma dico «al principio» in quanto allora sono da stimarsi di più) e l’anima non è ancora ben affermata in tutta quella perfezione di cui ho parlato, si può ammettere che provi un dolore fino alle lacrime, quando viene privata della comunione, purché ciò non le tolga la pace interiore e le consenta di trarne motivo per atti di umiltà. Qualora invece ciò avvenisse con qualche turbamento o tormento, se avesse a cimentarsi con la priora o con il confessore, si può essere certi che si tratta di una manifesta tentazione, per non parlare di quando qualcuno s’induce a fare la comunione, nonostante la proibizione del confessore. Io non vorrei davvero il merito di quella comunione; in simili cose non siamo noi a dover essere giudici di noi stessi. Dev’esserlo colui che ha le chiavi per sciogliere e legare. Piaccia al Signore di darci luce per capire come comportarci in questioni di tanta importanza e di assisterci sempre con il suo aiuto, affinché dalle grazie che ci concede non ricaviamo motivo di dispiacergli.

CAPITOLO 7

Come bisogna regolarsi con le persone affette da malinconia. È un capitolo necessario per le priore.

1. Le mie consorelle del monastero di San Giuseppe di Salamanca – dove mi trovo mentre scrivo queste pagine – mi hanno pregato insistentemente di dire qualcosa su come bisogna comportarsi con le persone affette da malinconia. Malgrado ogni nostra cura per non accettare fra noi quelle che ne sono colpite, questo male è così sottile da apparire morto allorché gli conviene: pertanto non riusciamo a scoprirlo fino a quando non vi è più rimedio. Mi sembra d’averne già un po’ parlato in un mio libricino, ma non ricordo bene; non sarà male, quindi, dirne qualcosa qui, se piacerà al Signore che vi riesca. Potrà ben darsi che mi ripeta – ma sarei pronta a ripetermi cento volte, se pensassi di potere, almeno una volta, riuscire a dare un consiglio utile. Sono tanti gli espedienti a cui ricorre questo umore malinconico per soddisfare i suoi capricci, che è necessario scoprirli per sapere come sopportarlo e come regolarsi affinché chi ne è colpito non sia di danno alle altre.

2. Bisogna notare che non tutte le persone con quest’umore sono ugualmente difficili, perché quando la malinconia assale quelle umili e di carattere mite, esse, pur soffrendo molto nel loro intimo, non nuocciono alle altre, specialmente se sono dotate di buon senso. Inoltre quest’umore ha gradi diversi. Certo, credo che in alcune persone il demonio se ne serva come mezzo per cercare di guadagnarsele, e se non stanno bene in guardia, ci riuscirà. Infatti, poiché l’effetto principale che produce è offuscare la ragione, una volta che essa si sia oscurata, che cosa non faranno le nostre passioni? Pare che il non aver più l’uso della ragione equivalga ad essere pazzi, ed è proprio così. Ma in quelle persone di cui ora parliamo, il male non arriva a tanto, e se pur vi arrivasse sarebbe un male minore, perché il doverle considerare esseri ragionevoli e trattarle come tali, mentre non lo sono, è una fatica intollerabile. Quando cadono totalmente in preda a questa malattia sono degne di pietà, ma non possono nuocere e, se esiste un mezzo per dominarle, è infondere loro paura.

3. In coloro nei quali questo male pernicioso è solo agli inizi, anche se non ha preso ancora troppo piede, viene pur sempre da quell’umore e da quella radice, cioè nasce dalla stessa causa. Perciò, qualora non bastassero altri espedienti, è necessario far ricorso allo stesso rimedio. Le priore si servano quindi, per le religiose che ne sono affette, delle penitenze dell’Ordine e si adoperino a dominarle in modo che capiscano di non poter riuscire né in poco né in molto a fare la propria volontà. Se, infatti, si avvedessero che, talvolta, possono essere sufficienti al proprio scopo le grida di disperazione che il demonio ispira loro per cercare di rovinarle, sarebbero perdute, e una sola basta per mettere in subbuglio un monastero. Siccome l’anima, poverina, non ha in se stessa la forza di difendersi dalle suggestioni del demonio, occorre che la priora agisca con grande avvedutezza nel guidarla, non solo dal punto di vista esteriore, ma anche da quello interiore. Quanto più, infatti, la ragione è oscurata nell’inferma, tanto più dev’essere chiara nella priora, se si vuole evitare che il demonio giunga a impadronirsi di quell’anima, servendosi della sua malattia. Il pericolo sta nel fatto che, siccome gli attacchi violenti di questo male, quelli che tolgono l’uso della ragione, avvengono ad intervalli (e allora chi ne è vittima, per quante insensatezze faccia, non sarà colpevole, come non sono colpevoli i pazzi, mentre qualche colpa esiste nei riguardi di chi si trova in questo stato e ha solo offuscata a tratti la ragione, stando bene in altri momenti), è necessario che tali persone non comincino a prendersi qualche libertà nel periodo in cui sono malate, onde evitare che negli intervalli in cui stanno bene non siano padrone di sé, il che sarebbe un terribile inganno del demonio. Se vi si fa attenzione, ciò a cui esse sono maggiormente portate è fare quello che vogliono, dire tutto quello che viene loro alla bocca, badare ai difetti degli altri per ricoprire con essi i propri, cercare il proprio piacere; infine, comportarsi come chi non ha in sé alcun freno. Con le passioni, dunque, così sbrigliate che ognuna d’esse vorrebbe averla vinta, che avverrà se non c’è chi opponga loro resistenza?

4. Torno a dire, avendo visto e trattato molte persone affette da questo male, che non c’è altro rimedio per combatterlo se non ridurle in soggezione, servendosi di tutte le vie e di tutti i modi possibili. Se non bastassero le parole, si ricorra ai castighi; se non bastassero quelli lievi, ci si valga dei pesanti; se non fosse sufficiente tenerle in carcere un mese, vi si tengano quattro: è il più gran bene che si possa fare alle loro anime. Come ho già detto e ora torno a ripetere (essendo importante per queste persone capirlo bene, anche se qualche volta non riescono a dominarsi), non trattandosi di una pazzia completa, tale da togliere la responsabilità della colpa – lo è a intervalli, non sempre – l’anima corre il gran pericolo, nel tempo in cui l’uso della ragione non è completamente offuscato, d’essere spinta a fare e dire ancora quello che faceva e diceva quando non poteva reagire. È, dunque, una grande misericordia di Dio se le persone affette da questo male si sottomettono a chi le governa, perché in ciò sta tutta la loro salvezza di fronte al pericolo di cui ho parlato. E, per amore di Dio, se una di loro leggerà quanto scrivo, badi che ne va forse della sua salvezza eterna.

5. Conosco alcune persone alle quali manca ben poco per perdere del tutto il giudizio. Ma siccome sono umili e temono di offendere Dio, anche se segretamente si stanno sciogliendo in lacrime, non fanno se non quello ch’è loro comandato e sopportano il loro male come le altre [sopportano] le proprie malattie, sebbene questo sia un martirio più grande: ne avranno pertanto maggior merito e faranno qui il loro purgatorio per non averlo nel mondo di là. Ma, ripeto, quelle che invece non si sottometteranno di buon grado, vi siano costrette dalle priore, le quali non devono lasciarsi trarre in inganno da inopportuni sentimenti di compassione, onde evitare che tutto il monastero sia messo in subbuglio dalle loro intemperanze.

6. Infatti, senza tener conto del pericolo anzidetto, riguardante la religiosa inferma, vi è un altro danno grandissimo: che le altre, vedendola in buona salute – a quanto credono –, poiché non si rendono conto del male che la tormenta interiormente, potranno figurarsi, miserabile com’è la nostra natura, di soffrire anch’esse di malinconia e di dovere, pertanto, essere sopportate. È quanto effettivamente farà loro credere lo stesso demonio, il quale così provocherà una strage a cui, allorché se ne verrà a conoscenza, sarà ben difficile porre rimedio. Ciò è tanto importante, che in nessun modo si può ammettere alcuna negligenza in merito. Se dunque la religiosa affetta da malinconia resiste agli ordini del superiore, ne paghi la pena come una sana, e non le si perdoni nulla. Se dice una parola offensiva a una consorella, lo stesso. Così per ogni altra circostanza del genere.

7. Sembra ingiusto che, se non può agire diversamente, si castighi un’inferma come una sana. Ma allora sarebbe ugualmente un’ingiustizia legare e fustigare i pazzi, e bisognerebbe lasciare che ammazzassero tutti. Mi si creda, perché è una cosa di cui ho fatto esperienza; dopo aver provato molti rimedi, non mi pare che ce ne sia un altro. E la priora la quale per pietà lasciasse che tali religiose cominciassero a prendersi qualche libertà, alla fin fine dovrà ammettere che la situazione è intollerabile; e quando vorrà porvi riparo, già le altre ne avranno ricevuto un gran danno. Se si legano e si puniscono i pazzi per impedir loro di uccidere, ed è bene far così, per quanto possano sembrare degni di una gran pietà, poiché sono incapaci di dominarsi, a maggior ragione bisogna aver cura che queste persone non danneggino le anime con le loro libertà. In verità ritengo che molte volte – come ho detto – ciò provenga da una natura intemperante, poco umile e non domata, pertanto che i loro eccessi siano da mettere più in rapporto con tali cause che con la malinconia. Dico che «per alcune» almeno, è così, perché ho visto che, in presenza di una persona per cui provano timore, hanno la capacità di dominarsi. Allora, perché non ci riusciranno a causa di Dio? Temo che il demonio, sotto il pretesto di quest’umore – come ho detto – cerchi di guadagnarsi molte anime.

8. Oggi, in realtà, questo male è più che mai diffuso, tanto più che con il nome di malinconia si fa passare ogni espressione della propria volontà e di una malintesa libertà. Ritengo pertanto che nei nostri monasteri e in tutte le case religiose non si dovrebbe mai pronunciare la parola malinconia, che sembra avere implicita l’idea di libertà, ma darle il nome di grave malattia – e quanto grave! – e curarla come tale. Di tanto in tanto, infatti, è indispensabile somministrare qualche medicina che lenisca l’umore, per renderlo più sopportabile. L’ammalata sia tenuta in infermeria e sappia che quando ne uscirà per ritornare in comunità dev’essere umile come le altre, obbedire come le altre, e se non lo farà, il pretesto dell’umore non le gioverà a nulla. È opportuno che sia così per le ragioni già dette, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre. È necessario che le priore, senza che esse se ne accorgano, usino verso di loro una grande pietà, comportandosi come vere madri e cerchino tutti i mezzi possibili per guarirle.

9. Sembra che mi contraddica, perché finora ho sostenuto che vanno trattate con rigore. Pertanto, torno a ripetere che esse devono sapere di non poter spuntarla con i loro capricci, né si sopporterà che lo facciano, una volta stabilito che hanno l’obbligo di obbedire, giacché il loro danno consiste nel sentirsi libere. La priora può peraltro non ricorrere ad ordini con quelle che prevede che opporranno resistenza, non avendo in sé la forza di dominarsi. Dovrà allora guidarle, finché sarà necessario, con accortezza e con affetto, cercando, se sarà possibile, d’indurle a sottomettersi per amore. Ciò avverrà facilmente e non è raro che avvenga quando si fa veder loro di amarle molto, convincendole di ciò con opere e con parole. Tengano presente che il miglior rimedio di cui dispongono è di occuparle molto in mansioni domestiche, affinché non abbiano l’opportunità di fantasticare, che è ciò in cui consiste tutto il loro male. Se anche non le disimpegneranno troppo bene, sopportino in esse qualche mancanza di questo genere, per non doverne sopportare di peggiori, se perdessero il senno. Questo è, a mio giudizio, il rimedio più efficace che si possa usare con loro, procurando, insieme, che non stiano molto tempo in orazione, anche se si tratta di orazione ordinaria, perché avendo in generale, tali persone, debolezza d’immaginazione, una lunga orazione potrebbe risultare per loro assai nociva. Senza queste precauzioni avranno capricci improvvisi, inesplicabili tanto per loro quanto per chi ne verrà a conoscenza. Si vigili perché non mangino pese, se non raramente; anche i digiuni bisogna che non siano così frequenti come per le altre.

10. Sembra un’esagerazione dare tanti suggerimenti per questo male e non per alcun altro, pur avendone di così gravi nella nostra misera vita, specialmente noi donne, deboli come siamo. Lo faccio per due motivi: il primo, perché tali persone hanno l’apparenza d’essere sane e non vogliono riconoscere d’avere qualche malattia. Siccome è uno stato, il loro, che non le obbliga a rimanere a letto, perché non hanno febbre, né a chiamare il medico, è necessario che faccia da medico la priora, essendo un male di maggior pregiudizio per tutto l’insieme della perfezione, di quanto non lo sia una malattia che costringe a stare a letto, in pericolo di vita. Il secondo è che di altre malattie, o si guarisce, o si muore; di questa è ben raro che si guarisca, e neanche si muore, ma si viene a perdere del tutto il senno, cioè a morire d’una morte che uccide tutta una comunità. D’altra parte, è nel loro intimo dove tali persone soffrono una morte ben crudele e certo assai meritoria a causa delle afflizioni, delle immaginazioni e degli scrupoli, che scambiano sempre per tentazioni. Se capissero una buona volta che è un effetto del loro male, e non ne facessero alcun caso, si sentirebbero assai sollevate. Certamente io ne ho una gran pietà: ed è giusto che l’abbiano ugualmente tutte le consorelle, considerando che il Signore potrebbe inviare anche a loro la stessa infermità, e che cerchino di sopportarle, senza che esse se ne accorgano, come ho detto. Piaccia al Signore che sia riuscita a suggerire ciò che è opportuno fare riguardo a una così grave malattia!

CAPITOLO 8

Offre alcuni consigli circa le rivelazioni e le visioni.

1. Sembra che ad alcune persone faccia spavento anche solo udire il nome di visioni o di rivelazioni. Non capisco la causa per cui ritengono pericoloso questo cammino attraverso il quale Dio conduce le anime, né da dove proceda siffatta paura. Non voglio ora dire quali siano le vere visioni e rivelazioni e quali le false, né indicare i segni di cui sono stata informata da persone assai dotte per riconoscerle, ma solo esporre come debba regolarsi un’anima che si vedrà in tale circostanza, perché tra i confessori ai quali si rivolgerà saranno ben pochi quella che non la lasceranno in preda alla paura. Certo, farà loro molto meno impressione sentirsi dire che il demonio presenta all’anima vari generi di tentazioni con suggestioni di spirito blasfemo, intemperanze e disonestà, di quanto non li scandalizzerà sentirsi dire che le apparso o le ha parlato un angelo, o che le si è mostrato Gesù Cristo, nostro Signore.

2. Non voglio neanche parlare, ora, di quando le rivelazioni vengono da Dio (essendo orami chiaro per il grande bene che apportano all’anima), ma di quando si tratta d’immagini che il demonio suscita per ingannarci, servendosi della figura di Cristo, nostro Signore, o dei suoi santi. A questo riguardo sono convinta che Sua Maestà non gli darà il permesso né il potere d’ingannare nessuno con tali immagini, tranne che non sia per colpa della stessa anima; sarà invece lui a restare ingannato. Perciò, non c’è ragione di spaventarsi, ma bisogna confidare nel Signore e far poco conto di queste cose, se non è per lodarlo maggiormente.

3. So di una persona, gettata, a causa dei confessori, in preda a viva angoscia per simili cose, che poi, come fu dato d’intendere dai grandi effetti e dalle buone opere che ne seguirono, provenivano da Dio. E pensare che quando le appariva la sua immagine in qualche visione, doveva farsi segni di croce a non finire e ripetere un gesto volgare perché tale era l’ordine da lei ricevuto. In seguito, parlandone con un grande teologo, il maestro domenicano fra Domingo Báñez, questi le disse che ciò era mal fatto e che nessuno doveva agire così, perché ovunque si veda l’immagine di nostro Signore, bisogna riverirla, quand’anche l’abbia dipinta il demonio. Diceva, infatti, che questi è un gran pittore e quando ci dipinge un Cristo in croce o un’altra immagine così al vivo da lasciarla impressa nel nostro cuore, anziché farci del male ci fa del bene. Questa argomentazione mi piacque molto; infatti, di fronte a un’immagine di grande bellezza, anche se sapessimo che è opera di un uomo malvagio, non lasceremmo di ammirarla né faremmo caso del pittore per abbandonare la devozione. Il bene o il male, di conseguenza, non sta nella visione, ma in colui che la vede e che, per mancanza di umiltà, non se ne giova. Se questa c’è, la visione, pur essendo opera del demonio, non può fare alcun male; se invece manca, pur venendo da Dio, non sarà di alcun profitto. Quando, infatti, ciò che deve servire a rendere umile l’anima nella consapevolezza di non meritare quella grazia la fa, invece, insuperbire, le avverrà come al ragno che cambia in veleno tutto quello che mangia, e non come all’ape che lo converte in miele.

4. Voglio spiegarmi meglio: se nostro Signore, nella sua bontà, vuole mostrarsi a un’anima per essere meglio conosciuto e più amato, o per svelarle qualche suo segreto, o concederle particolari favori e grazie, ed essa – come ho detto – a causa di ciò, mentre dovrebbe sentirsi confusa e riconoscere quanto ne sia indegna la sua pochezza, si ritiene subito santa, persuasa che questa grazia è la ricompensa di qualche servizio da lei reso a Dio, è evidente che, come il ragno, cambia in male il gran bene che poteva trarne. Ora, invece, supponiamo che il demonio, per incitare alla superbia, sia lui l’autore di queste apparizioni: se allora l’anima, credendo che vengano da Dio, si umilia, riconosce di non meritare una grazia così eccelsa e si sforza di servirlo meglio; se, vedendosi ricca e non sentendosi degna neppure di mangiare le briciole che cadono dalla tavola delle altre che ha saputo favorite da Dio della stessa grazia, cioè sentendosi indegna d’essere serva di chiunque fra esse, si umilia e comincia a fare penitenza e a dedicarsi di più all’orazione, ad avere maggior cura di non offendere il Signore, al quale crede di dovere tali grazie, e ad obbedire con più perfezione, io affermo con sicurezza che il demonio, lungi dal tornare, se ne andrà via confuso, senza lasciare nessun nocivo effetto nell’anima.

5. Quando nelle visioni si riceve l’ordine di fare qualcosa, o l’annunzio di avvenimenti futuri, bisogna parlarne con un confessore prudente e dotto, e non fare né credere nulla all’infuori di quanto dirà lui. Una religiosa può renderne partecipe la priora, perché le dia un confessore che abbia le suddette qualità. Ma si tenga presente che se ella non obbedirà agli ordini del confessore e non si lascerà guidare da lui, o si tratta dello spirito maligno, o di una terribile malinconia. Posto infatti che il confessore non vedesse giusto, non s’ingannerà lei nell’obbedirgli, fosse anche a parlarle un angelo del cielo, perché Sua Maestà illuminerà il confessore o disporrà le cose come conviene. Così facendo non c’è alcun pericolo, mentre a fare il contrario i pericoli possono essere molti, con altrettanti danni.

6. Ricordiamoci che la debolezza umana è grandissima, specialmente nelle donne, e che si manifesta di più in questo cammino di orazione. Pertanto, per ogni piccola cosa che si presenti all’immaginazione, non dobbiamo pensare subito che si tratti di visione, perché quando lo è, credetemi, lo si riconosce molto bene. Molto maggiore attenzione bisogna avere nel caso che vi sia di mezzo un po’ di malinconia, perché riguardo a queste illusioni mi è giunta notizia di cose che mi hanno sbalordita: non capisco come si possa credere così fermamente di vedere ciò che non si vede.

7. Una volta venne da me un confessore oltremodo stupito, perché una sua penitente gli asseriva che la Madonna andava spesso a visitarla, si sedeva sul suo letto e si tratteneva a parlare per più di un’ora, dicendole cose che dovevano avvenire e molte altre. Siccome fra tante insensatezze qualcosa si rivelava vera, tutto il resto era ritenuto certo. Io capii subito di che si trattava, anche se non osai dirlo, perché viviamo in un mondo dove è necessario riflettere a quello che si può pensare di noi, se vogliamo che le nostre parole abbiano il loro effetto. Gli dissi pertanto che bisognava aspettare l’adempimento di quelle profezie, interrogarla circa altri effetti di queste visioni e informarsi della vita di tale persona. Infine, alla luce dei fatti, risultò che erano tutte insensatezze.

8. Potrei citare tanti di questi esempi, che servirebbero assai bene a provare l’opportunità del mio discorso: cioè che un’anima non deve credere subito a ciò che sente, ma prendere tempo e cercare di conoscersi bene prima di parlarne, onde evitare di trarre in inganno, senza volerlo, il confessore. Infatti, per dotto che sia questi, se non ha esperienza di tali cose, ciò non sarà sufficiente a fargli riconoscere di che si tratta. Non sono passati molti anni, anzi ben poco tempo, da quando un uomo mise in gran subbuglio alcune persone assai dotte e molto spirituali con simili fantasticherie, fino a che venne a trattarne con una che aveva esperienza di favori divini, la quale vide chiaramente ch’era tutto pazzia e illusione, anche se ciò allora, lungi dall’essere evidente, era molto oscuro. Di lì a poco il Signore mise tutto in chiaro, ma quella persona che aveva visto giusto ebbe prima molto a soffrire per il fatto di non essere creduta.

9. Da questi e altri esempi analoghi si vede quanto convenga che ogni consorella sia molto sincera nel parlare della sua orazione alla priora. Da parte sua questa si adoperi con molta cura a esaminare la complessione e il grado di perfezione della religiosa per informarne il confessore, affinché si renda meglio conto delle cose, e lo scelga adatto al caso, se quello ordinario non fosse idoneo a tale compito. Si ponga molta attenzione a non far parola di nulla con estranei, anche se sono favori indubbiamente divini e grazie chiaramente miracolose, nemmeno con quei confessori che non hanno la prudenza di tacere. Questo è molto importante, più di quanto si possa credere; non se ne parli, inoltre, neanche fra le religiose. La priora si faccia prudentemente vedere più incline a lodare le anime che si distinguono in umiltà, mortificazione e ubbidienza, che non quelle condotte da Dio per tale cammino di orazione del tutto soprannaturale, quand’anche abbiano le stesse virtù. Esse non ne riporteranno alcun danno perché, se ad agire è lo spirito del Signore, trae con sé l’umiltà che fa godere di essere disprezzati, e le altre ne riceveranno un grande vantaggio in quanto, non potendo arrivare a quei doni che Dio concede a chi vuole, correrebbero il rischio di scoraggiarsi circa l’acquisto delle altre virtù. È vero che anche queste sono un dono di Dio, ma ci si può adoperare di più per ottenerle e sono di gran pregio per lo stato religioso. Sua Maestà voglia concedercele! Egli certo non le negherà a nessuna di noi che, confidando nella sua misericordia, si adoperi ad acquistarle con l’esercizio, la vigilanza, l’orazione.

CAPITOLO 9

Tratta della sua partenza da Medina del Campo per la fondazione del monastero di San Giuseppe di Malagón.

1. Quanto mi sono allontanata dal mio soggetto! Ma può darsi che siano più opportuni alcuni di questi consigli da me dati che il racconto delle fondazioni. Mentre, dunque, mi trovavo a San Giuseppe di Medina del Campo, ero intimamente felice nel vedere come le consorelle di questo monastero seguissero le orme di quelle di San Giuseppe di Avila, per il fervore religioso, la carità fraterna, lo spirito interiore. Nostro Signore provvedeva man mano alla sua casa, sia di quanto era necessario per la chiesa, sia di quanto occorreva al sostentamento delle stesse consorelle. Nel frattempo cominciarono ad entrare alcune novizie, che sembravano scelte dal Signore quali conveniva che fossero per servire di fondamento a tale edificio. Da questi principi infatti ritengo che dipenda tutto il bene dell’avvenire perché, una volta che le prime trovino il cammino, le altre che vengono dopo non fanno che seguirlo.

2. C’era a Toledo una signora, sorella del duce di Medinaceli in casa della quale io ero stata per ordine dei superiori, come ho detto più a lungo trattando della fondazione di San Giuseppe. Ella mi si affezionò moltissimo, e questo affetto, indubbiamente, era un mezzo di cui Dio si servì per stimolarla a fare quanto poi si fece. Sua Maestà infatti spesso si vale, per i suoi fini, di certi mezzi che a noi, ignari del futuro, sembrano di poca importanza. Non appena la signora seppe che avevo il permesso di fondare monasteri, cominciò a chiedermi insistentemente di aprirne uno in un suo feudo che aveva nome Malagón. Io non volevo in alcun modo acconsentirvi per il fatto che si trattava di un villaggio così piccolo che il monastero, per potersi mantenere, aveva bisogno, senza meno, di una rendita, cosa a cui io ero assolutamente contraria.

3. Ne parlai con alcune dotte persone e con il mio confessore e tutti mi dissero che facevo male; poiché il santo Concilio consentiva di aver rendite, non si doveva, per un’opinione personale, tralasciare di fondare un monastero, dove il Signore poteva essere così ben servito. A ciò si aggiunsero le ripetute insistenze di questa signora e mi vidi costretta a consentirvi. Ella diede alla fondazione una rendita conveniente. Amo sempre infatti che i monasteri o siano del tutto poveri o abbiano disponibilità sufficienti onde evitare che le religiose debbano importunare chicchessia per ovviare alle loro necessità.

4. Feci ricorso a tutte le misure possibili perché nessuna possedesse la benché minima cosa e si osservassero integralmente le Costituzioni, come negli altri nostri monasteri improntati a povertà. Fatti tutti i documenti, mandai a chiamare alcune consorelle per provvedere alla fondazione e, insieme con quella signora, ci recammo a Malagón. Ma siccome la casa non era ancora pronta per accoglierci, ci trattenemmo più di otto giorni in un alloggio del castello.

5. La domenica delle Palme dell’anno 1568, essendo venuti a prenderci in processione gli abitanti del luogo, noi, con i veli calati sul viso e tenendo indosso le cappe bianche, andammo nella chiesa del villaggio. Dopo la predica, si portò il santissimo Sacramento nel nostro monastero. Ciò fu motivo di gran devozione per tutti. Lì mi trattenni alcuni giorni. Una mattina, mentre, dopo essermi comunicata, stavo in orazione, udii da nostro Signore ch’egli in quella casa sarebbe stato ben servito. Credo d’esser rimasta in quel luogo neanche due mesi, perché mi sentivo nell’intimo sollecitata a recarmi a fondare la casa di Valladolid, per la ragione che ora dirò.

CAPITOLO 10

In cui si tratta della fondazione del monastero di Valladolid, monastero intitolato alla Concezione di Nostra Signora del Carmine.

1. Quattro o cinque mesi prima che si fondasse questo monastero di San Giuseppe di Malagón, un giovane e illustre cavaliere con cui mi trovai a parlare, mi disse che, se avessi voluto fondare un monastero in Valladolid, egli mi avrebbe dato molto volentieri una sua casa, che disponeva di un orto assai fertile ed esteso con annessa una gran vigna. Voleva cederne subito la proprietà, che era di molto valore. Io accettai, anche se non ero ben decisa a fondare il monastero in quel luogo, perché distava un quarto di lega dalla città. Mi sembrò peraltro che, una volta presone possesso, ci saremmo potute trasferire in città; inoltre, poiché la sua offerta era fatta assai di buon animo, non volli opporre un rifiuto a un’opera così meritoria, né essere di ostacolo alla sua devozione.

2. Di lì a due mesi, più o meno, fu colpito da un male di tale rapido decorso da togliergli l’uso della parola prima che potesse fare una buona confessione, anche se manifestò con molti segni di chiedere perdono al Signore. Morì in brevissimo tempo, molto lontano dal luogo dove io allora mi trovavo. Il Signore mi disse che la sua salvezza era stata molto in pericolo e che aveva avuto misericordia di lui per il servizio reso a sua Madre con il dono di quella casa destinata a un monastero del suo Ordine. Aggiunse che non sarebbe uscito dal purgatorio finché lì non si fosse celebrata la prima Messa; solo allora se ne sarebbe liberato. Io avevo talmente presenti le grandi sofferenze di quest’anima che, sebbene desiderassi fondare un monastero a Toledo, per il momento vi rinunciai e mi adoperai, quanto più in fretta potei, a realizzare, in qualunque modo, la fondazione di Valladolid.

3. Tuttavia la cosa non poté farsi così presto come desideravo, perché mi vidi costretta a fermarmi parecchi giorni a San Giuseppe di Avila, ove ero priora, e in seguito a San Giuseppe di Medina del Campo, trovandomi a passare di là. Un giorno, mentre stavo in orazione in quest’ultimo monastero, il Signore mi disse di affrettarmi, perché quell’anima soffriva molto. Benché mancassi ancora di molte cose, partii subito e il giorno di san Lorenzo entrai a Valladolid. Quando vidi la casa fui presa da grande angoscia perché mi resi conto che era una pazzia per le nostre religiose stabilirsi in quel luogo, senza dover incorrere in ingenti spese. Inoltre, se il posto era molto attraente, grazie a quell’orto così delizioso, non poteva non essere malsano, per la vicinanza del fiume.

4. Pur essendo stanca, dovetti andare a Messa in un monastero del nostro Ordine, che era all’ingresso della città, ma tanto lontano da raddoppiarmi l’angoscia. Tuttavia non dicevo nulla alle mie compagne per non scoraggiarle. Anche se debole, avevo, peraltro, una certa fiducia che il Signore, il quale mi aveva esortato a fare quanto ho detto, mi avrebbe dato il suo aiuto. Feci così venire in gran segretezza alcuni operai per cominciare il lavoro dei muri di cinta della clausura e per quanto altro occorreva. Erano con noi Giuliano d’Avila, il sacerdote di cui ho parlato, e uno dei due frati che, come ho detto, volevano farsi scalzi, per conoscere il nostro modo di vivere in questi monasteri della Riforma. Giuliano d’Avila si occupava di ottenere l’autorizzazione dell’Ordinario che, prima del mio arrivo, aveva già dato buone speranze. Ma non si poté fare tutto tanto presto che, prima di aver ottenuto l’autorizzazione, non sopraggiungesse la domenica. Ci fu permesso tuttavia di far celebrare la Messa nel luogo da noi destinato a servire da cappella e così non mancammo di parteciparvi.

5. Ero molto lontana dal pensare che quanto mi era stato detto di quell’anima dovesse compiersi allora. Mi era stato riferito della «prima Messa» ed io ero persuasa che bisognava riferirsi a quella in cui sarebbe stato posto nella nostra cappella il santissimo Sacramento. Mentre il sacerdote veniva con la santa Eucaristia fra le mani dove noi dovevamo comunicarci e io mi appressavo a riceverla, mi apparve vicino al sacerdote il cavaliere di cui ho parlato, con volto splendente e pieno di gioia. Mi ringraziò a mani giunte di quello che avevo fatto perché uscisse dal purgatorio; poi, la sua anima salì al cielo. Certo, la prima volta che mi fu detto che egli era sulla via della salvezza, ero ben lontana dal pensarlo, anzi, provavo una gran pena, sembrandomi che avrebbe avuto bisogno di un’altra morte, dopo il genere di vita che aveva condotto. Difatti, sebbene non gli mancassero buone qualità, era molto invischiato nelle cose del mondo. Tuttavia, come aveva detto alle mie compagne, aveva sempre presente il pensiero della morte. È davvero una cosa straordinaria quanto riesca gradito a nostro Signore qualunque servizio reso a sua Madre e quanto sia grande la sua misericordia. Sia di tutto lodato e benedetto, egli che ricompensa con la vita eterna e con la gloria del paradiso la pochezza delle nostre opere e le rende grandi, nonostante il loro scarso valore!

6. Giunto dunque il giorno dell’Assunzione di nostra Signora, che cade il 15 agosto, nell’anno 1568, si prese possesso di questo monastero. Ma vi restammo poco, perché ci ammalammo gravemente quasi tutte. Lo seppe una signora del luogo, chiamata donna María de Mendoza, moglie del commendatore Cobos, madre del marchese di Camarasa, profondamente cristiana e di straordinaria carità (come davano a vedere le sue generose elemosine). Avevo sperimentato la sua grande benevolenza prima ancora del nostro incontro, perché sorella del vescovo di Avila, che ci aveva favorito molto nella fondazione del primo monastero e in tutto quello che riguarda il nostro Ordine. Dotata com’è di tanta carità, vedendo che lì non saremmo potute restare senza gravi inconvenienti, sia per l’insalubrità del luogo, sia anche per la distanza che rendeva difficile le elemosine, ci propose di cedere a lei quella casa, in cambio di un’altra. E così fece, dandocene una che valeva molto più della prima, e fornendoci da allora fino ad oggi di tutto il necessario, cosa che farà per l’intero corso della sua vita.

7. Il giorno di san Biagio ci trasferimmo nel nuovo monastero con grande processione e devozione del popolo, devozione tuttora viva, perché il Signore usa grandi misericordie a questa casa, conducendovi anime di cui un giorno sarà messa in luce la santità a lode sua. Egli si compiace con tali mezzi di rendere più grandi le sue opere e concedere grazie alle sue creature. Vi entrò infatti una giovinetta, la quale diede ben a vedere che cosa sia il mondo, con il disprezzo che ella ne fece in così tenera età. Mi è sembrato opportuno parlarne qui, a confusione di coloro che tanto lo amano, e a edificazione delle giovani alle quali il Signore farà dono di buoni desideri e sante ispirazioni, affinché li mettano in pratica.

8. In questa città risiede una signora, chiamata donna María de Acuña, sorella del conte di Buendía. Sposatasi con l’Adelantado di Castiglia, rimase vedova in giovanissima età con un figlio e due figlie. Cominciò a condurre una vita di tale santità e ad educare i figli in tanta virtù, da meritare che il Signore li chiamasse al suo servizio. Mi sono sbagliata circa il numero dei figli: di figlie ne aveva tre. La prima si fece subito religiosa; la seconda non si volle sposare e conduceva con sua madre una vita di grande edificazione; il figlio, fin da piccolo cominciò a capire che cosa fosse il mondo e come Dio lo chiamasse alla vita religiosa con tale invito che nessuno fu in grado d’impedirgli di ascoltarlo. Sua madre ne era tanto contenta che, credo, l’aiutasse con la sua preghiera presso nostro Signore, pur non facendo trapelare nulla, a causa dei parenti. In conclusione, quando Dio vuole per sé un’anima, le creature valgono poco a impedirlo. Fu quanto avvenne qui, perché, dopo tre anni in cui si tentò di bloccare la decisione del giovane con ogni genere di esortazioni, egli entrò nella Compagnia di Gesù. Un confessore di questa signora mi riferì ch’ella gli aveva detto che mai nella sua vita aveva sentito in cuore tanta gioia come il giorno in cui suo figlio fece la sua professione.

9. Oh, Signore! Di quale insigne grazia voi favorite coloro cui date tali genitori, che amano i propri figli di un amore così vero da non volere per loro possessi, maggioraschi e ricchezze se non in quella beatitudine che non avrà fine! Che pena vedere oggi il mondo in tanta miseria e cecità da far sì che i genitori fanno consistere il loro onore nell’aver sempre presente questo sterco dei beni terreni senza ricordarsi che, presto o tardi, devono tutti finire! No, tutto ciò che ha fine non merita stima perché, per quanto possa durare, un giorno finirà. Ma certi genitori, a spese dei loro poveri figli, vogliono mantenere le loro vanità ed hanno la gran temerità di togliere a Dio le anime che egli vuole per sé, privando esse stesse di un così grande bene. Infatti, a prescindere dal fatto che sarà una felicità eterna quella a cui Dio li invita con lo stato religioso, non è forse un vantaggio inestimabile vedersi liberi dagli affanni e dalle leggi del mondo, peso tanto più grave quanto maggiori sono i beni mondani posseduti? Aprite loro gli occhi, mio Dio; fate loro intendere quale sia l’amore a cui sono tenuti verso i propri figli, per non recare ad essi un così gran male e non dover udire le loro lagnanze alla vostra presenza, nel giorno del giudizio finale in cui, pur controvoglia, comprenderanno il valore di ogni cosa.

10. Quando, dunque, la misericordia di Dio fece lasciare il mondo a questo cavaliere, figli di donna María de Acuña (egli si chiama don Antonio de Padilla), all’età, più o meno, di diciassette anni, tutti i beni e i titoli restarono alla figlia maggiore, donna Luisa de Padilla, perché il conte di Buendía non ebbe figli e chi ereditava la contea e il titolo di Adelantado di Castiglia era don Antonio. Siccome non riguarda il mio argomento, non dico quanto ebbe a soffrire da parte dei suoi parenti per riuscire nel suo scopo. Potrà bene immaginarlo chi sa quanto la gente del mondo desideri che non manchi discendenza al proprio casato.

11. Oh, Figlio dell’Eterno Padre, Gesù Cristo, nostro Signore, vero Re dell’universo! Che cosa avete lasciato voi nel mondo? Che cosa hanno potuto ereditare da voi i vostri discendenti? Che cosa avete posseduto voi, mio Signore, se non sofferenze, dolore, ignominia, fino ad avere solo l’aiuto di un tronco d’albero per inghiottire l’amaro calice della morte? Infine, mio Dio, se vogliamo essere vostri figli legittimi e non rinunziare alla vostra eredità, non dobbiamo rifuggire dalla sofferenza. Il vostro stemma è fatto di cinque piaghe. Su, dunque, figlie mie, questa deve essere la nostra insegna, se dobbiamo ereditare il suo regno: non con il riposo, non con i piaceri, non con gli onori, non con le ricchezze si deve guadagnare ciò ch’egli ha acquistato a prezzo di tanto sangue. Oh, gente illustre, per amor di Dio, aprite gli occhi! Considerate che i veri cavalieri di Gesù Cristo e i principi della sua Chiesa, un san Pietro, un san Paolo, non hanno seguito il cammino che seguite voi. Credete forse che per voi il cammino debba essere un altro? Non pensatelo davvero. Osservate come il Signore cominci ad indicarvelo con l’esempio di persone così giovani come quelle di cui ora parliamo.

12. Ho visto qualche volta questo don Antonio e ho parlato con lui; avrebbe voluto possedere molto di più allo scopo di abbandonare tutto. Fortunato giovane e fortunata giovinetta, per aver così ben meritato presso Dio, che nell’età in cui il mondo, generalmente, domina chi vi ha la sua dimora, essi lo hanno calpestato. Benedetto sia colui che si è mostrato con loro tanto generoso!

13. Quando la sorella maggiore si vide in possesso di tutti gli averi, li disprezzò come aveva fatto suo fratello, perché fin da bambina si era dedicata tanto all’orazione – proprio dove il Signore dà luce per intendere la verità – da non averne, come lui, alcuna stima. Oh, Dio mio, a quante fatiche, tormenti, processi e anche con quale rischio della vita e dell’onore, si sarebbero esposti molti per assicurarsi quest’eredità! Essi, invece, ebbero a soffrire non poco per ottenere di spogliarsene. Così va il mondo, le cui follie ci sarebbero bene evidenti se non fossimo ciechi. Di tutto cuore, per liberarsi di quest’eredità la giovinetta ne fece rinuncia in favore di sua sorella, l’ultima che restasse in casa, dell’età di dieci o undici anni. Subito, perché non si estinguesse la miserabile gloria del casato, i parenti stabilirono di far sposare questa fanciulla con uno zio, fratello di suo padre. Ottenuta la dispensa dal Papa, si celebrarono gli sponsali.

14. Ma il Signore non volle che la figlia di una tale madre e la sorella di tali fratelli avesse, diversamente da loro, gli occhi chiusi alla verità. Avvenne, pertanto, quello che ora dirò. Quando la ragazza cominciava a disporre di vestiti e di ornamenti mondani che, adeguati al suo rango, avrebbero dovuto allettare una fanciulla di tenera età come la sua, e non erano trascorsi ancora due mesi dal suo fidanzamento, il Signore prese ad illuminarla, pur senza che allora ella se ne accorgesse. Dopo aver trascorso una giornata molto felice con il suo promesso sposo, che ella amava con un trasporto superiore a quanto comportasse la sua età, si sentiva presa da una gran tristezza costatando come quel giorno fosse ormai passato e pensando che così sarebbero passati anche tutti gli altri. Oh, grandezza di Dio! Dalla stessa gioia provata nei piaceri fugaci di questo mondo fu tratta a detestarli. La sua tristezza era così profonda che non riusciva a nasconderla al suo fidanzato, né sapeva quale ne fosse la causa né cosa dirgli, quando gliene chiedeva il motivo.

15.Nel frattempo al fidanzato capitò di essere obbligato a fare un viaggio per recarsi assai lontano dalla città. Ella ne soffrì molto, perché lo amava profondamente. Ma subito il Signore le scoprì la causa della sua pena: cioè la sua anima cominciava a propendere per ciò che non avrà fine. Prese infatti a considerare come i suoi fratelli si fossero aggrappati al partito più sicuro, lasciando lei fra i pericoli del mondo. Questo, da una parte; dall’altra l’affliggeva il pensiero che la sua situazione era senza rimedio, non essendo venuto ancora a sua conoscenza – come poi seppe, dietro sua richiesta – che, pur essendo fidanzata, poteva ugualmente abbracciare la vita religiosa. Ma, soprattutto, l’amore che aveva per il suo promesso sposo le impediva di prendere una tale decisione, ragion per cui viveva in grande angoscia.

16. Siccome però il Signore la voleva per sé, le tolse a poco a poco questo amore e le fece crescere il desiderio di abbandonare tutto. In quel tempo era animata solo dal desiderio di salvarsi e di cercare i mezzi migliori a tal fine. Le sembrava infatti che, invischiata di più nelle cose del mondo, si sarebbe dimenticata di adoperarsi per quelle eterne. Questa la saggezza che Dio le infondeva nell’anima per la quale, pur in così tenera età, si sentiva spinta a cercare il modo d’impossessarsi di ciò che è eterno. Anima felice che così presto si liberò della cecità nella quale muoiono tanti vecchi! Non appena si sentì padrona del suo volere, decise di impiegarlo tutto al servizio di Dio. Fino a quel momento aveva taciuto; da allora cominciò a parlarne con sua sorella. Questa, credendola una fanciullaggine, cercava di dissuaderla dicendole, fra l’altro, che si poteva salvare anche nello stato matrimoniale. Per tutta risposta la giovinetta le chiese perché lei vi avesse rinunciato. Così passarono alcuni giorni, durante i quali il suo desiderio non faceva che aumentare. A sua madre, tuttavia, non osava dire nulla, e forse era proprio lei, con le sue sante preghiere, a suscitarle quelle lotte.

CAPITOLO 11

Prosegue sull’argomento iniziato, raccontando gli espedienti a cui donna Casilda de Padilla fece ricorso per realizzare i suoi santi desideri d’essere religiosa.

1. In questo tempo avvenne che prendesse l’abito nel nostro monastero della Concezione una sorella conversa, della quale forse racconterò la vocazione perché, sebbene di diversa condizione, essendo un’umile contadina, per le insigni grazie di cui Dio l’ha favorita è stata da lui elevata talmente da meritare, a lode di Sua Maestà, che se ne faccia speciale menzione. Donna Casilda (si chiamava così questa prediletta di Dio), recatasi ad assistere alla vestizione con la nonna, che era la madre del suo promesso sposo, si affezionò molto a questo monastero, sembrandole che in esso le religiose, essendo in poche e povere, potessero servire meglio il Signore. Pur tuttavia non era decisa a lasciare il suo sposo, giacché era questo – come ho detto – il legame più forte che ancora la trattenesse.

2. Considerava che, prima di fidanzarsi, era solita dedicare un po’ di tempo all’orazione, abitudine in cui era cresciuta con i fratelli, per la bontà e la santità di sua madre. Infatti questa, sin dall’età di sette anni, li conduceva di tanto in tanto in un oratorio, insegnava loro a meditare sulla passione del Signore e li faceva confessare spesso; per questo ha assistito al pieno successo dei suoi desideri, che erano di vederli consacrati a Dio. Ella mi ha detto che glieli offriva di continuo e lo supplicava di tirarli fuori dal mondo, essendo ormai consapevole del poco conto che si deve farne. Penso, a volte, quanto questi figli dovranno ringraziare una tale madre, una volta in possesso dei beni eterni, nel riconoscere che la madre è stata per loro il mezzo per conseguirli, e quale sarà la gioia di questa madre nel vedere i suoi figli in paradiso. Al contrario, quanto diversa la sorte di coloro che, per non aver cresciuto i propri figli come figli di Dio (di cui sono più figli, che non di loro stessi), si vedranno con essi nell’inferno! Quali maledizioni si scaglieranno e quale disperazione li tormenterà!

3. Tornando dunque a quello che dicevo, Casilda, vedendo che attendeva di malavoglia anche alla recita del rosario, temette molto di dover andare sempre peggio, e le sembrò evidente che, entrando in questo monastero, si sarebbe assicurata la salvezza. Prese pertanto la sua risoluta decisione. Una mattina, essendo venuta qui con sua sorella e sua madre, si diede loro l’occasione di entrare in monastero, senza il minimo sospetto da parte di alcuno che ella facesse ciò che fece. Non appena si vide lì dentro, non ci fu verso di mandarla fuori. Versava tali fiumi di lacrime perché ve la lasciassero e diceva tali cose commoventi, da far restare tutte le religiose sbigottite. Sua madre, benché nel suo intimo ne godesse, temeva dei parenti e non voleva che rimanesse lì in quel modo, onde evitare di essere accusata d’averla indotta lei a fare quel passo. Anche la priora era della stessa opinione: riteneva la fanciulla troppo giovane e pensava che fosse necessario provarla più a lungo. Questo accadeva al mattino; dovettero restare lì fino a sera; fu mandato a chiamare il suo confessore, come anche il padre maestro fra Domingo, domenicano, di cui ho fatto menzione all’inizio, che era il mio confessore. In quel momento non mi trovavo in tale monastero. Questo padre riconobbe subito che si trattava dello spirito del Signore e aiutò molto Casilda, sopportando ben ardue difficoltà da parte dei suoi parenti (così dovrebbero fare tutti coloro che pretendono di servire il Signore, quando vedono che un’anima è chiamata da Dio, e non badare tanto a considerazioni umane!). Egli promise di aiutarla a rientrare nel monastero un altro giorno.

4. Dopo una lunga opera di persuasione e soprattutto affinché la colpa non dovesse ricadere su sua madre, per questa volta ella se ne andò via da lì. Ma i suoi desideri non facevano che aumentare. La madre, allora, cominciò a parlarne segretamente con i suoi parenti, e la ragione di questa segretezza stava nella speranza che, così facendo, il fidanzato non venisse a saperlo. Essi dissero che era una bambinata e che Casilda doveva aspettare d’avere un’età conveniente, visto che non aveva compiuto dodici anni. Ella rispondeva che se l’avevano trovata di un’età adatta per sposarla e lasciarla nel mondo, come mai non la trovavano matura per darsi a Dio? Diceva cose che davano ben a vedere come non fosse lei a parlare a questo riguardo.

5. La cosa, tuttavia, non poté restare così segreta, che non ne fosse informato il fidanzato. Quando ella lo seppe, non le sembrò opportuno attendere il suo ritorno, e il giorno della festa della Concezione, trovandosi in casa di sua nonna, che era anche la sua futura suocera e che non sapeva nulla di questo, la pregò caldamente di lasciarla andare in campagna con la governante, a ricrearsi un poco. La nonna vi acconsentì per farle piacere, dandole una carrozza con vari suoi servitori. Casilda diede a uno di essi un po’ di denaro, pregandolo di aspettarla alla porta del monastero con alcuni fasci di sarmenti, mentre ella faceva girare la carrozza in modo da essere condotta davanti a questa casa. Appena giunta alla porta, fece chiedere alla ruota una brocca d’acqua, raccomandando di non dire per chi servisse, e scese in gran fretta dalla vettura. Le dissero che gliel’avrebbero portata dov’era, ma ella non volle. Già i fasci erano là. Fece allora pregare le suore di venire alla porta per prenderli, ed ella vi rimase accanto. Apertasi la porta, si precipitò dentro, corse ad abbracciare una statua della Madonna, piangendo e supplicando la priora di non cacciarla. Frattanto i servi lanciavano alte grida e bussavano con violenza alla porta. Casilda si recò alla grata per parlare con essi: disse loro che in nessun modo sarebbe uscita di là e li incaricò di riferirlo a sua madre. Le donne che l’avevano accompagnata emettevano grandi lamenti, ma a lei importava poco di tutto questo. La nonna, non appena ebbe la notizia di quanto era avvenuto, volle subito andare lì.

6. In conclusione, né lei né lo zio né il fidanzato che, al suo ritorno, si diede molto da fare per convincerla attraverso la grata, riuscirono ad altro che a tormentarla con la loro presenza, e lasciarla poi più radicata nella sua decisione. Il fidanzato le diceva, dopo molti lamenti, che avrebbe potuto servir meglio il Signore facendo elemosine. Ella gli rispondeva che le facesse lui; alle altre sue argomentazioni replicava che soprattutto doveva pensare alla propria salvezza, che si sentiva debole e che vedeva di non potersi salvare fra i pericoli del mondo; dopo tutto egli non aveva motivo di lamentarsi di lei, perché non l’aveva lasciato se non per Dio, pertanto non gli recava offesa alcuna. Ma, vedendo che nulla riusciva a persuaderlo, si alzò e lo lasciò solo.

7. Le sue parole non la turbarono minimamente; anzi, restò del tutto sdegnata con lui perché, quando Dio dà a un’anima la luce della verità, le tentazioni e gli ostacoli frapposti dal demonio le sono di maggior aiuto, perché allora è Sua Maestà a combattere per lei; questo appariva chiaro in Casilda, essendo evidente che non era lei a parlare.

8. Quando il suo fidanzato e i suoi parenti videro che, a volerla far uscire di buon grado, non si ricavava nulla, cercarono di ricorrere alla forza. Presentarono, così, un provvedimento reale che ordinava di metterla fuori del monastero e di lasciarla libera. In tutto questo intervallo di tempo, cioè dalla festa della Concezione a quella degli Innocenti in cui la fecero uscire, nel monastero non le fu dato l’abito, ma ella attese a tutte le pratiche religiose come se lo avesse, e con grande gioia. Nel giorno stabilito venne a prenderla la giustizia e fu portata in casa di un gentiluomo. La condussero via mentre, sciogliendosi in lacrime, continuava a dire che non v’era ragione di tormentarla, poiché non avrebbe loro giovato a nulla. In questa casa dovette subire un’insistente opera di persuasione, tanto da parte di religiosi come di altre persone: gli uni, infatti, vedevano nel suo comportamento una fanciullaggine, le altre desideravano che godesse del suo stato. Sarebbe dilungarmi molto se dicessi le dispute che dovette sostenere e il modo in cui si liberava da tutte le argomentazioni. Le sue risposte lasciavano tutti sbalorditi.

9. Quando videro l’inutilità dei loro sforzi, la riportarono a casa di sua madre per trattenervela un po’ di tempo. La madre, stanca ormai di tante agitazioni, non l’aiutava minimamente, anzi, a quanto sembrava, le era ostile. Può darsi che lo facesse per provarla maggiormente; perlomeno così poi mi ha detto: è così santa che si deve assolutamente credere alle sue parole. Ma la giovinetta non si rendeva conto di questo modo di agire. Anche un sacerdote dal quale si confessava le era oltremodo contrario. Così non trovava altra consolazione che in Dio e in una damigella di sua madre. In queste lotte ed angosce trascorse il tempo che le restava per compiere dodici anni, quando scoprì che, non potendo impedirle di essere religiosa, cercavano di farla entrare nel monastero in cui stava sua sorella, perché vi si praticava minore austerità.

10. Appena si rese conto di questo, decise di adoperarsi con tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere l’agognata felicità, portando avanti il suo disegno. Un giorno andò con sua madre a Messa. Mentre erano in chiesa, sua madre entrò in un confessionale. A quel punto, Casilda pregò la sua governante di andare a chiedere a uno dei padri di celebrare una Messa per lei; appena la vide allontanarsi, si mise le scarpette nella manica, si alzò la gonna e corse quanto più celermente poté verso il monastero, che era molto distante. La sua governante, non trovandola più, si mise a inseguirla e, quando era già vicina a raggiungerla, pregò un uomo di fermarla. Ma questi la lasciò andare perché, come ebbe poi a raccontare, si sentì nell’impossibilità di muoversi. Casilda, dopo aver varcato la prima porta del monastero, la chiuse e cominciò a chiamare. Quando giunse la governante, già era dentro. Le diedero subito l’abito, e così poté appagare i santi desideri che il Signore le aveva messo nel cuore. Sua Maestà prese a ricompensarla assai presto con grazie spirituali ed ella, da parte sua, a servirlo con grandissima gioia, profonda umiltà e completo distacco.

11. Sia benedetto per sempre, egli che rende felice, sotto povere vesti di bigello, colei che era prima così attaccata a quelle eleganti e ricche. Tali povere vesti peraltro non riuscivano a nascondere la sua bellezza, giacché il Signore le aveva concesso insieme alle grazie spirituali anche quelle naturali. Ella è dotata infatti di un carattere e di un ingegno così piacevoli che le consorelle lodano il Signore. Piaccia a Sua Maestà che siano in molte a rispondere come lei alla sua chiamata.

CAPITOLO 12

Vi si tratta della vita e della morte di una religiosa condotta da nostro Signore in questo stesso monastero, chiamata Beatriz de la Encarnación, di tale perfezione nella sua vita e di tale santità nella morte, che è giusto se ne faccia memoria.

1. Una giovinetta che si chiamava donna Beatriz Oñez, lontana parente di donna Casilda, entrò qualche anno prima di lei in questo monastero per farsi monaca. Le rare virtù di cui il Signore l’arricchiva riempivano tutte d’ammirazione. Sia le consorelle, sia la priora affermavano che in tutto il tempo della sua vita non scoprirono mai in lei nulla che si potesse ritenere un’imperfezione, né mai, per nessuna ragione, la videro mutarsi d’aspetto, ma sempre mantenere un’espressione di riservata letizia, segno evidente dell’intima gioia di cui godeva la sua anima. Il suo silenzio era tale che, lungi dal pesare ad alcuno, pur essendo assai rigoroso, non evidenziava nulla di particolare. Non risulta che abbia mai pronunziato una parola meritevole di rimprovero, né la si vide mai ostinarsi a discutere né scusarsi, sebbene la priora, per metterla alla prova, l’incolpasse di ciò che non aveva fatto, come si usa nelle nostre case per esercitare alla mortificazione. Non si lamentò mai di nulla né di nessuna consorella. Qualunque ufficio adempisse, né con l’espressione del suo viso né con le sue parole procurò il minimo dispiacere ad alcuna, né diede motivo di pensare che ci fosse in lei un’imperfezione. Non si è trovato nessun punto d’accusa a suo riguardo nel Capitolo, ove pur le zelatrici rivelano le più lievi mancanze da loro notate. In ogni cosa era straordinario l’ordine che regolava i suoi atti interiori ed esteriori: ciò nasceva dal pensiero sempre presente dell’eternità e del fine per cui siamo stati creati. Aveva continuamente sulle labbra le lodi di Dio e gli accenti della più profonda gratitudine: la sua vita, in conclusione, era una perenne preghiera.

2. Riguardo all’obbedienza, non commise mai una mancanza, pronta com’era ad eseguire con sollecitudine, perfezione e gioia tutto ciò che le veniva ordinato. Grandissima era la sua carità verso il prossimo, tanto da farle dire d’essere disposta a lasciarsi ridurre a pezzi per chiunque, in cambio della salvezza della sua anima e della possibilità di far godere a tutti di suo «fratello Gesù Cristo», come soleva chiamare nostro Signore. Sopportava le sue sofferenze, pur essendo dure, a causa di terribili malattie – come dirò in seguito – e i suoi tremendi dolori così di buon animo e con tanto piacere, come se fossero grandi favori e delizie. Certamente nostro Signore doveva fargliene dono nell’anima, non essendo altrimenti possibile spiegarsi la gioia con cui sopportava i suoi mali.

3. Avvenne che in questa città di Valladolid si portassero al rogo alcuni individui, colpevoli di gravi delitti. Ella, avendo certo saputo che andavano a morte senza quella buona disposizione che era loro necessaria, ne provò profonda afflizione. Si recò con grande pena ai piedi di nostro Signore e lo supplicò ardentemente per la salvezza di quelle anime, chiedendogli in cambio di quanto esse meritavano, o per rendersi ella stessa meritevole di ottenere questa grazia – non ricordo in modo preciso le parole a cui fece ricorso –, di darle nell’intero corso della sua vita tutte le tribolazioni e le sofferenze che ella potesse sopportare. Quella stessa notte ebbe il primo attacco di febbre, e fino alla morte non fece che soffrire. Quei condannati morirono bene e ciò fa pensare che Dio avesse ascoltato la sua preghiera.

4. Le venne, poi, un ascesso intestinale con così atroci dolori, che era proprio necessario, per sopportarli pazientemente, la grazia di cui il Signore aveva arricchito la sua anima. Si trattava di un ascesso interno, contro cui tutti i rimedi della medicina non giovavano a nulla, finché il Signore permise che si aprisse e gettasse fuori l’infezione; così cominciò a star meglio a questo riguardo. Ma, desiderosa com’era di patire, non si contentava di poco; pertanto il giorno della festa della Croce, nell’ascoltare la predica, il suo desiderio crebbe tanto che, finita la cerimonia, scoppiata in lacrime, andò a gettarsi sul letto. Interrogata su che cosa avesse, rispose che pregassero Dio di mandarle molte sofferenze, perché solo con esse sarebbe stata felice.

5. Parlava con la priora di tutto ciò che avveniva nel suo intimo, e questo le era di conforto. Per l’intera durata della sua malattia non diede mai a nessuno il minimo fastidio, né si discostava dalle prescrizioni dell’infermiera, si trattasse anche solo di bere un po’ d’acqua. Per le anime dedite all’orazione, desiderare sofferenze, quando non si hanno, è cosa assai consueta, ma rallegrarsi, stando tra le pene, di soffrirle, non è di molte. Ella, invece, mentre il male aumentava di violenza, tanto che durò ancor poco in vita, con dolori terribili e un ascesso alla gola che le impediva di inghiottire, alla presenza di alcune consorelle disse alla priora (la quale cercava certo di confortarla e incoraggiarla a sopportare così gran male) che non avvertiva alcuna afflizione, né avrebbe cambiato il suo stato con nessuna delle consorelle che stavano in perfetta salute. Aveva talmente presente quel Signore per il quale pativa, che ricorreva a tutti i mezzi possibili perché non si capisse quanto grande fosse la sua sofferenza. Pertanto, tranne quando il dolore aumentava notevolmente d’intensità, si lamentava pochissimo.

6. Le sembrava che non ci fosse sulla terra creatura più miserabile di lei, e così, da tutto quel che il suo comportamento rivelava, era grande la sua umiltà. Si compiaceva moltissimo di parlare delle virtù di altre persone; in materia di mortificazione era perfino esagerata. Riusciva con così abile dissimulazione a sottrarsi ad ogni specie di sollievo che, se non la si osservava attentamente, non si poteva rendersene conto. Sembrava che non trattasse né vivesse più sulla terra, indifferente com’era a tutto. In qualunque modo andassero le cose, le sopportava talmente in pace da apparire sempre inalterata, tanto che una volta una consorella le disse che somigliava a certe persone così gelose del loro onore da preferire, pur morendo di fame, di sopportarlo in silenzio, piuttosto che renderne consapevoli gli estranei. E ciò perché nessuna poteva credere che ella fosse insensibile a certe cose di cui non sembrava minimamente risentire.

7. In tutto quello che faceva, sia nei riguardi del lavoro, sia delle sue occupazioni, aveva un fine così alto da non perderne alcun merito. E diceva alle consorelle: «La più piccola cosa che si faccia, se è fatta per amor di Dio, è di un valore inestimabile. Non dovremmo neppure muovere gli occhi, sorelle, se non in vista di questo fine e di piacere a Dio». Non s’intrometteva mai in cose di cui non avesse avuto l’incarico; così non vedeva i difetti altrui, ma solo i propri. Soffriva tanto per il minimo elogio che le venisse fatto che stava attenta a non lodare le altre in loro presenza, per non procurare ad esse ugual dispiacere. Non cercava mai alcun conforto, sia recandosi in giardino sia in ogni altra cosa creata, perché, a quanto diceva, sarebbe stato indelicato cercare sollievo ai dolori che le mandava nostro Signore. Per questo motivo non chiedeva mai nulla, contenta di ciò che le veniva dato. Diceva anche che per lei sarebbe stata una croce ogni consolazione attinta fuori di Dio. Sta di fatto che io, informatami presso le religiose del monastero, non ne ho trovata alcuna la quale avesse visto in lei la minima cosa che non denotasse un’anima di grande perfezione.

8. Giunto ormai il momento in cui nostro Signore aveva deciso di toglierla da questa vita, aumentarono i suoi dolori e i suoi mali si complicarono: per costatare la gioia con cui li sopportava e lodarne nostro Signore, le consorelle andavano talvolta a vederla. Specialmente il cappellano, gran servo di Dio, confessore di quel monastero, ebbe un vivo desiderio di trovarsi presente alla sua morte perché, confessandola, la riteneva una santa. Piacque a Dio esaudire il suo desiderio. Infatti, benché avesse ricevuto l’unzione degli infermi ed ella fosse ancora presente a se stessa, chiamarono ugualmente il cappellano perché, se quella notte ce ne fosse stato bisogno, la confessasse o almeno l’aiutasse a morire. Un po’ prima delle nove, mentre tutte le consorelle erano da lei insieme con il cappellano, le scomparve ogni dolore: con un’espressione di profonda pace, alzò gli occhi al cielo e le si dipinse in volto una gioia tale che parve illuminarla di una luce splendente. Se ne stava nell’atteggiamento di chi contempla qualcosa che è causa di grande letizia, perché sorrise due volte. Tutte le religiose presenti e lo stesso sacerdote sperimentarono una gioia e un’allegrezza spirituale così intense da non saper dire altro se non che sembrava loro di stare in paradiso. Con questa letizia che ho detto e con gli occhi levati al cielo, spirò, restando lì come un angelo. E possiamo ben credere, in base alla nostra fede e alla sua vita, che Dio l’abbia condotta all’eterno riposo, in ricompensa di quanto aveva desiderato di patire per lui.

9. Il cappellano afferma – e l’ha detto a molte persone – che nel momento in cui si calava il corpo nella sepoltura, egli sentì esalarne un acuto e soavissimo profumo. La sagrestana, inoltre, asserisce di non aver trovato nessuna diminuzione nella cera che bruciò durante gli onori funebri e il seppellimento. Tutto ciò è assai credibile per la misericordia di Dio. Avendo io parlato di queste cose con una padre della Compagnia di Gesù, che ella aveva avuto come confessore e direttore spirituale per molti anni, mi disse che non v’era in questo nulla di straordinario, né egli se ne meravigliava, conoscendo quanto il Signore si comunicasse al suo spirito.

10. Piaccia a Sua Maestà, figlie mie, che noi sappiamo trarre profitto dagli esempi di una così eccellente compagna e di molte altre che nostro Signore manda alle nostre case. Forse ne dirò ancora qualche cosa, affinché quelle che procedono con alquanta tiepidezza si sforzino di imitarle, e affinché tutte insieme lodino il Signore che fa risplendere così le sue grandezze in così deboli donnicciole.

CAPITOLO 13

In cui si racconta come e da chi fu dato avvio al primo convento dei carmelitani scalzi della Regola primitiva. Anno 1568.

1. Prima della mia partenza per la fondazione di Valladolid, si era convenuto con il padre fra Antonio de Jesús, allora priore di Sant’Anna di Medina, convento appartenente all’Ordine del Carmine, e con fra Giovanni della Croce – come ho già detto – che qualora si fosse fondato un monastero della Regola primitiva degli scalzi, essi sarebbero stati i primi ad entrarvi. Ma, non trovando il modo di procurarmi una casa, non facevo che supplicare di questa grazia nostro Signore, perché – ripeto – di questi due padri ero già soddisfatta. Il padre fra Antonio de Jesús, nell’anno trascorso dopo che io avevo trattato di ciò con lui, era stato sottoposto a dura prova dal Signore, per gravi sofferenze che aveva sopportato in modo esemplare. Per il padre fra Giovanni della Croce non c’era bisogno di alcuna prova perché, sebbene fosse fra quelli del panno, cioè fra i calzati, aveva sempre condotto una vita di grande perfezione e di piena osservanza degli obblighi religiosi, Piacque, infine, al Signore, dopo avermi dato il più, vale a dire frati adatti a cominciare l’opera, di provvedere anche al resto.

2. Un cavaliere di Avila, chiamato don Rafael, con il quale non avevo mai avuto rapporti, venne a sapere, non so come – perché la memoria mi fallisce –, della nostra intenzione di fondare un convento di scalzi. Venne a offrirmi una casa di sua proprietà in un piccolo villaggio di pochissime famiglie, mi pare neanche venti – perché ora non me ne ricordo bene –, che serviva a un fittavolo incaricato di raccogliere il grano prodotto dalla proprietà. Io, anche se capii subito quale genere di casa dovesse essere, resi lode a nostro Signore e ringraziai molto il cavaliere. Egli mi disse che era sulla strada di Medina del Campo, proprio quella che dovevo fare per recarmi alla fondazione di Valladolid, essendo quella la via più diretta, e che potevo vederla. Gli risposi che l’avrei fatto e mantenni la parola. Partii infatti da Avila nel mese di giugno con una compagna e con il padre Giuliano d’Avila, che era il sacerdote cappellano di San Giuseppe di Avila il quale, come ho detto, mi assisteva nei miei viaggi.

3. Pur essendo partiti di mattina, siccome non conoscevamo la strada, ci smarrimmo e, poiché il villaggio era poco noto, non si riusciva a saperne molto. Pertanto ci aggirammo tutto quel giorno con molta fatica, perché il sole scottava. Quando credevamo di essere vicini alla meta, c’era altrettanta strada da fare. Non dimenticherò mai la stanchezza e le giravolte di quel viaggio. Arrivammo, così, poco prima di notte. Entrati nella casa, la trovammo in tale stato che non ci arrischiammo a pernottare lì a causa della eccessiva sporcizia che vi regnava e della gran quantità di parassiti estivi. Aveva un ingresso discreto, una camera divisa in due con il suo soppalco, e una piccola cucina: ecco tutto l’edificio del nostro monastero! Considerai che nell’ingresso si poteva fare la cappella, che nel soppalco stava bene il coro e nella camera il dormitorio. La mia compagna, benché assai migliore di me e molto amante della penitenza, non poteva sopportare l’idea che io pensassi di far lì un monastero e mi disse: «Vi assicuro, madre, che non ci sarà nessuna anima, per buona che sia, capace di sopportare questo. Non parlatene più». Il padre che mi accompagnava, sebbene fosse dello stesso parere della mia compagna, quando gli ebbi esposto i miei disegni, non mi fece opposizione. Ci recammo a passar la notte in chiesa, giacché, a causa della grande stanchezza che avevamo, non avremmo voluto passarla vegliando.

4. Giunti a Medina, parlai subito con il padre fra Antonio: gli dissi quale fosse la situazione e che se gli bastato il coraggio di stare lì qualche tempo, poteva esser certo che Dio avrebbe presto sistemato tutto; che l’essenziale era cominciare. (Mi sembrava di aver avuto così presente ciò che il Signore ha poi fatto e che ne fossi così sicura – in certo modo – come lo sono ora che ne vedo la realizzazione, e anche più di quanto finora abbia visto, benché nel momento in cui scrivo, per la bontà di Dio, siano stati fondati dieci monasteri di scalzi). Dissi inoltre al padre Antonio che né il provinciale passato, né il presente (il cui consenso, come ho detto al principio, era indispensabile) ci avrebbero dato la loro autorizzazione se ci avessero visto in una casa assai migliore, prescindendo dal fatto che non avevamo modo di procurarcela, mentre in quel piccolo borgo e in quella misera casa, non vi avrebbero fatto caso. Dio aveva dato a lui più coraggio che a me, e pertanto mi rispose che era disposto a stare non solo lì, ma anche in un porcile. Fra Giovanni della Croce era del medesimo parere.

5. Ora ci restava di ottenere il consenso dei due padri di cui ho parlato, perché era questa la condizione con la quale il nostro padre generale ci aveva dato la sua autorizzazione. Io speravo in nostro Signore di riuscire ad averla, e così, raccomandato al padre fra Antonio di adoperarsi a far tutto ciò che potesse per raccogliere qualche cosa per la nuova fondazione, partii con fra Giovanni della Croce per la fondazione già descritta di Valladolid. Siccome restammo alcuni giorni senza clausura a causa degli operai che lavoravano per adattare al bisogno la casa, ebbi l’opportunità d’informare il padre Giovanni della Croce di tutto il nostro sistema di vita, in modo che conoscesse a fondo ogni nostra pratica, sia riguardo alla mortificazione, sia alla forma di fratellanza e di ricreazione che abbiamo in comune. Questa procede con tanta moderazione, che serve solo a farci conoscere i nostri difetti e a darci un po’ di svago per sopportare meglio il rigore della Regola. Quel padre era così buono che avrei potuto, da parte mia, imparare da lui molto più di quel che egli apprendeva da me. Ma non era questo ciò che io facevo; pensavo solo a informarlo del modo di vivere di noi consorelle.

6. Piacque a Dio che si trovasse lì il provinciale del nostro Ordine, dal quale dovevo avere il permesso. Si chiamava fra Alonso González. Era vecchio, d’indole assai buona e privo di malizia. Nel presentargli la mia richiesta gli addussi tante ragioni, senza escludergli il conto che avrebbe dovuto rendere a Dio se avesse ostacolato una così santa opera. Il Signore, che voleva si facesse quella fondazione, gli toccò il cuore ed egli si mostrò favorevole. Venuti poi la signora donna María de Mendoza e il vescovo di Avila, suo fratello, che è quegli che ci ha sempre appoggiate e protette, sistemarono la cosa con lui e con il padre fra Angel de Salazar, l’ex provinciale, del quale io più temevo. Ma si diede l’occasione che egli avesse bisogno, per un certo affare, dell’aiuto della signora donna María de Mendoza, e credo che questo ci abbia molto giovato; prescindendo dal fatto che, anche se non ci fosse stata questa occasione, nostro Signore lo avrebbe ispirato in nostro favore, come aveva fatto col padre generale, quando era ben lontano dall’aiutarci.

7. Oh, quante cose ho visto, in queste trattative, mio Dio, che sembravano impossibili e che Sua Maestà ha appianato con estrema facilità! E quale confusione è per me, avendo visto quello che ho visto, non essere migliore! Ora che son qui a scriverne, resto sbigottita e vorrei che nostro Signore facesse conoscere a tutti come in queste fondazioni noi, sue creature, non abbiamo fatto quasi nulla. Tutto è stato disposto dal Signore, e l’edificio ha avuto così umili basi che solo Sua Maestà poteva elevarlo all’altezza in cui ora lo vediamo. Sia per sempre benedetto! Amen.

CAPITOLO 14

Continua a parlare della fondazione della prima casa dei carmelitani scalzi. Dice qualcosa della vita che lì essi conducevano e del bene che per loro mezzo Nostro Signore cominciò a operare in quei luoghi, tutto a onore e gloria di Dio.

1. Avuti questi due consensi, mi parve che ormai non mi mancasse nulla. Stabilimmo che il padre fra Giovanni della Croce andasse nella nuova casa e la sistemasse in modo che si potesse abitarla, comunque fosse. Tutto il mio desiderio era che si cominciasse presto, perché temevo molto che sopravvenisse qualche ostacolo. E così si fece. Il padre fra Antonio aveva già raccolto qualcosa di quel che era necessario. Noi l’aiutavamo come potevamo, ma si trattava di poca cosa. Venne a trovarmi a Valladolid, pieno di gioia, e mi elencò quel che aveva raccolto, che era quasi niente. Era provvisto solo di orologi, perché ne aveva cinque, il che mi divertì molto. Mi disse che per avere le ore ben regolate, non voleva esserne sfornito. Credo che ancora non disponesse di qualcosa per dormire.

2. Si tardò poco a preparare la casa perché, pur essendoci il desiderio di far di più, mancava il denaro. Finito il lavoro, il padre fra Antonio rinunziò con ferma decisione al suo priorato e promise di osservare la Regola primitiva. Sebbene gli dicessero di farne prima la prova, non volle acconsentirvi. Se ne andò alla sua casetta con la più grande allegria del mondo. Fra Giovanni era già là.

3. Il padre fra Antonio mi ha detto che, quando arrivò in vista del piccolo villaggio, provò una straordinaria gioia interiore e gli parve di averla finita con il mondo, abbandonando tutto per seppellirsi nella solitudine di quella casa che, sia all’uno sia all’altro, lungi dall’apparire disagiata, sembrava che offrisse grandi diletti.

4. Oh, mio Dio! Come servono a poco gli edifici e gli agi esteriori per l’appagamento dell’anima! Per amor suo io vi supplico, sorelle e padri miei, di andarci piano in fatto di case grandi e sontuose. Teniamo presenti i nostri veri fondatori, che sono quei santi Padri dai quali discendiamo, e che sappiamo essere pervenuti al godimento di Dio attraverso il cammino della povertà e dell’umiltà.

5. Ho proprio costatato, del resto, che vi è più spirito e anche maggiore gioia interiore quando sembra che il corpo non si trovi a suo agio che quando si disponga di un’ampia e comoda casa. Per quanto grande essa sia, che vantaggio ci procura, visto che solo una cella è ciò di cui facciamo uso continuamente? Che essa sia spaziosa e ben costruita, che c’importa? Non dobbiamo certo starvi a contemplare le pareti. Se considereremo che non è la casa in cui abiteremo per sempre, ma il breve tempo com’è quello della nostra vita, per quanto grande essa sia, tutto ci diventerà dolcemente grato, pensando che quanto meno avremo avuto quaggiù, tanto più godremo in quell’eternità dove sono le dimore corrispondenti all’amore con cui avremo imitato la vita del nostro buon Gesù. Se diciamo che son questi i principi per rinnovare la Regola della Vergine, Madre sua, nostra Signora e patrona, non facciamole l’affronto – a lei come ai nostri antichi santi Padri – di non curarci di adeguare la nostra vita alla loro. Se per la nostra debolezza non ci è possibile farlo in ogni cosa, per lo meno dovremmo avere molta cura d’imitarli quando non ne va di mezzo la salute. Infine, tutto si riduce a un po’ di gradevole fatica, qual era questa di questi due padri; e nella ferma determinazione di sopportarla sparisce la difficoltà, perché tutta la sofferenza è solo un po’ al principio.

6. La prima o la seconda domenica dell’Avvento di quell’anno 1568 (non ricordo quale sia stata delle due), si celebrò la prima Messa in quel piccolo andito che posso chiamare di Betlemme, perché non credo fosse migliore della stalla dove nacque Gesù. La Quaresima successiva, recandomi alla fondazione di Toledo, passai di là. Arrivai di mattina. Il padre fra Antonio de Jesús stava scopando davanti alla porta della cappella, con quel viso allegro che egli ha sempre. Io gli chiesi: «Che cos’è questo, padre mio? Dov’è andato a finire l’onore?». Mi rispose con queste parole che esprimevano tutta la sua gioia: «Maledetto sia il tempo in cui vi feci caso!». Entrata nella piccola cappella, rimasi sbalordita costatando lo spirito di devozione che il Signore vi aveva fatto fiorire. E non ero io sola ad esserne impressionata, perché due mercanti miei amici, che erano venuti fin lì da Medina con me, non facevano che piangere. C’erano tante croci e tante teste da morto! Non ho mai dimenticato una piccola croce di legno posta sull’acquasantiera, alla quale era attaccata un’immagine in carta di Gesù Crocifisso che mi pareva ispirare maggiore devozione di qualunque raffinata opera d’arte.

7. Il coro stava nel soppalco che, verso il centro, era un po’ elevato, in modo che i padri vi potevano dire le ore e ascoltare la Messa. Ma, per entrarvi, dovevano abbassarsi molto. Nei due angoli che davano sulla cappella si trovavano due piccoli romitori, dove non potevano stare che stesi a terra o seduti e, ciò malgrado, con la testa toccavano quasi il tetto. Li avevano riempiti di fieno perché il luogo era estremamente freddo. Due finestrelle davano sull’altare, due pietre servivano da guanciali, e ogni religioso aveva lì la sua croce e la sua testa da morto. Seppi che, dopo aver finito il Mattutino, fino a Prima, non si ritiravano in cella, ma restavano là in orazione, ed essa era così profonda che accadeva loro di trovarsi con gli abiti pieni di neve quando andavano a Prima, senza che se ne fossero accorti. Recitavano le Ore con un padre di quelli del panno, che andò a stare con loro, pur non mutando abito, perché era molto malato, e con un altro giovane frate, il quale non aveva preso ancora gli ordini e stava lì anche lui.

8. Andavano a predicare in molti villaggi vicini, i cui abitanti non avevano alcuna istruzione religiosa. Anche per questo mi ero rallegrata che si fondasse lì la casa: mi avevano detto, infatti, che non c’era vicino alcun monastero e che la gente pertanto non aveva modo d’istruirsi, cosa che non poteva non dare una gran pena. In breve tempo si erano acquistati tanta stima che, quando lo seppi, il cuore mi si riempì di gioia. Come dicevo, andavano dunque a predicare a una lega e mezzo o due di distanza, scalzi (perché allora non portavano alpargatas che in seguito fu loro imposto di avere), con la neve alta e il freddo intenso. Dopo aver predicato e confessato, ritornavano assai tardi al convento per prendere i pasti, ma con la gioia che sentivano in sé non vi facevano alcun caso.

9. Quanto al cibo, ne avevano a sufficienza perché gli abitanti dei villaggi vicini li provvedevano di più del necessario. Andavano là a confessarsi alcuni cavalieri dei dintorni, e già offrivano loro posti e case migliori nei luoghi in cui essi abitavano. Fra questi fu un certo don Luis, signore delle «Cinque Ville», che aveva fatto costruire una chiesa per collocarvi un’immagine di Nostra Signora, in verità ben degna d’essere esposta alla venerazione dei fedeli. Suo padre l’aveva inviata dalla Fiandre a sua nonna o a sua madre (non ricordo a quale delle due), per mezzo di un mercante a cui piacque tanto, che se la tenne per molti anni e poi, giunta l’ora della morte, la fece consegnare a chi spettava. È un quadro grande, più bello del quale io non ho visto mai nulla in vita mia, e molte altre persone dicono altrettanto. Il padre fra Antonio de Jesús, recatosi in quel luogo su richiesta di questo cavaliere, vista l’immagine, se ne innamorò a tal punto, e ben a ragione, che accettò di trasferire il monastero. Mancera è il nome del villaggio. Benché non vi fosse acqua di pozzo, e sembrasse che in nessun modo si potesse averne lì, il cavaliere fece costruire per essi un convento piccolo, in conformità della loro professione, li fornì di arredi sacri e regolò tutto assai bene.

10. Non voglio omettere di dire in che modo il Signore li provvide di acqua, che fu un fatto ritenuto come qualcosa di miracoloso. Mentre una sera, dopo cena, il padre fra Antonio, che era priore, stava nel chiostro con i suoi frati parlando della necessità che si aveva dell’acqua, a un tratto si alzò, prese il bastone che aveva in mano e fece in un punto del chiostro, mi pare, il segno della croce, benché non mi ricordi bene se facesse proprio il segno della croce. Comunque, indicò il posto col bastone e disse: «Ora scavate qui». Avevano appena cominciato a scavare, allorché uscì tanta acqua che, ancora oggi, quando si vuol pulire il pozzo, è faticoso vuotarlo. L’acqua è assai buona da bere; è stata adoperata per tutti i lavori del convento e – ripeto – non si esaurisce mai. In seguito i frati, recinto un tratto di terreno per farvi un orto, hanno cercato d’immettervi acqua, costruendo una noria e spendendo molto denaro, ma finora non hanno ottenuto il benché minimo risultato.

11. Ritornando ora a quel che dicevo prima, quando io vidi quella piccola casa, che poco prima era inabitabile, animata da uno spirito tale di devozione che, dovunque mi volgessi, trovavo – mi pare – di che restare edificata, e seppi del modo di vivere di quei padri, della mortificazione e dell’orazione che praticavano e del buon esempio che davano – perché vennero a trovarmi lì un cavaliere di mia conoscenza, che abitava in un villaggio vicino, con sua moglie ed entrambi non finivano di parlarmi della santità dei due padri e del gran bene che facevano lì intorno – non finivo di ringraziare nostro Signore, con una grande felicità interiore, sembrandomi di vedere dato inizio ad un’opera che avrebbe apportato gran profitto al nostro Ordine e reso il dovuto servizio a Dio. Piaccia a Sua Maestà di farli proseguire nella via che seguono ora e le mie speranze si effettueranno. I mercanti che mi avevano accompagnata mi dicevano che per tutto l’oro del mondo non avrebbero non essere venuti lì. Che gran cosa è la virtù, e quanto quella povertà piacque loro più di tutte le ricchezze che possedevano, tanto da restarne con l’anima pienamente soddisfatta e consolata!

12. Ci trattenemmo, quei padri e io, a parlare di alcune cose: in particolare – essendo io debole e dappoco – li pregai molto di non fare pratiche di penitenza troppo rigorose, perché la loro austerità era eccessiva. Siccome mi era costato tanto, di desideri e orazione, ottenere che il Signore mi mandasse persone adatte a dar principio all’opera e vedevo così felici inizi, temevo che il demonio cercasse il modo di troncare i loro giorni prima che si effettuassero le mie speranze. Imperfetta e di poca fede com’ero, non consideravo che era opera di Dio e che Sua Maestà l’avrebbe condotta innanzi. Essi, avendo le virtù che mancavano a me, fecero poco caso al mio invito di tralasciare le loro pratiche. E così me ne andai con l’anima ripiena di consolazione, anche se non rendevo a Dio le lodi che avrebbe meritate per così somma grazia. Piaccia a Sua Maestà, nella sua bontà, che io sia degna di servirlo in qualcosa per il moltissimo che gli devo! Amen. Capivo bene, infatti, che questa era una grazia ben più grande di quella che mi faceva concedendomi di fondare monasteri di religiose.

CAPITOLO 15

In cui si tratta della fondazione del monastero del glorioso San Giuseppe nella città di Toledo, avvenuta nell’anno 1569.

1. C’era nella città di Toledo un mercante, uomo onorato e vero servo di Dio, il quale non aveva mai voluto sposarsi; conduceva una vita di buon cattolico, si mostrava molto leale ed era di sani costumi. Con un commercio onesto aumentava i suoi beni nell’intento di servirsene per qualche opera che fosse particolarmente gradita al Signore. Ma fu colpito dal male che doveva condurlo alla morte. Si chiamava Martín Ramírez. Un padre della Compagnia di Gesù, Pablo Hernández, dal quale mi ero confessata quando a Toledo preparavo la fondazione di Malagón, saputo lo stato in cui si trovava, siccome desiderava molto che si fondasse un monastero del nostro Ordine a Toledo, andò a fargli visita. Gli disse, in quell’occasione, quale gran servizio avrebbe reso al Signore con quest’opera: avrebbe potuto assegnare le Messe e le cappellanie, che desiderava istituire, a quel monastero nel quale si sarebbero celebrate certe feste e si sarebbero fatte le altre opere pie che egli aveva deciso di affidare a una parrocchia della città.

2. Stava già così male che, vedendo di non aver tempo per concordare la cosa, rimise tutto nelle mani di un fratello di nome Alonso Alvarez Ramírez e, fatto questo, rese l’anima a Dio. Scelse bene, perché questo Alonso Alvarez è un uomo assai prudente e timorato di Dio, veritiero, caritatevole e dotato di raro buon senso. Avendolo trattato molto, posso affermarlo, quale testimone oculare, con assoluta verità.

3. Quando Martín Ramírez morì, io mi trovavo ancora alla fondazione di Valladolid, dove mi scrissero il padre Pablo Hernández della Compagnia di Gesù e lo stesso Alonso Alvarez, informandomi di quanto accadeva e dicendomi che, se volevo accettare questa fondazione, mi affrettassi ad andare lì. Così partii poco dopo che si finì di sistemare la casa. Arrivai a Toledo la vigilia dell’Annunciazione e andai a casa della signora donna Luisa, fondatrice del monastero di Malagón, presso la quale ero stata altre volte. Mi accolse con gran gioia, perché mi vuole molto bene. Avevo con me due compagne di San Giuseppe di Avila, gran serve di Dio. Ci diedero subito, secondo il solito, un appartamento, dove stavamo così ritirate come in un monastero.

4. Mi misi senza indugio a trattare la faccenda con Alonso Alvarez e con un suo genero chiamato Diego Ortiz il quale, benché fosse assai buono e avesse studiato teologia, era più ostinato nelle sue opinioni di Alonso Alvarez e non si arrendeva tanto facilmente alle ragioni altrui. Cominciarono entrambi a pormi molte condizioni che a me non sembrava conveniente accettare. Mentre proseguivano le trattative, si cercava una casa in affitto per la presa di possesso, ma, per quante richieste si facessero, non se ne poté trovare una che fosse adatta a noi. Io, da parte mia, non riuscivo ad ottenere l’autorizzazione dell’amministratore della diocesi (poiché allora non c’era arcivescovo), benché la signora presso cui stavo si adoperasse molto per ottenerla, e altrettanto faceva un gentiluomo, canonico della cattedrale, chiamato don Pedro Manrique, figlio dell’Adelantado di Castiglia, il quale era ed è – perché ancora vive – un gran servo di Dio: pur avendo ben poca salute, qualche anno dopo la fondazione del nostro monastero, entrò nella Compagnia di Gesù, dove si trova tuttora. Era molto stimato in Toledo per la sua notevole intelligenza e i suoi meriti; ciò nonostante non riusciva a ottenere che mi dessero quest’autorizzazione, perché quando il governatore cominciava a cedere, i membri del Consiglio ecclesiastico tenevano duro. D’altra parte, Alonso Alvarez ed io non riuscivamo a metterci d’accordo, a causa di suo genero, al quale egli dava mano libera. Infine, rompemmo ogni trattativa.

5. Io non sapevo che fare, perché, non essendo venuta per altro che per la fondazione, capivo che ripartirmene senza aver fatto nulla, poteva dar luogo a molti spiacevoli commenti. Ciò malgrado, mi rincresceva di più il rifiuto dell’autorizzazione che tutto il resto, perché ero convinta che, avvenuta la presa di possesso, il Signore avrebbe provveduto a ogni cosa, come aveva fatto in altri luoghi. Così mi decisi a parlare con l’amministratore; andai in una chiesa, che si trova vicino alla sua casa, e mandai a supplicarlo di degnarsi d’accordarmi un colloquio. Già da più di due mesi si cercava di ottenere il permesso e ogni giorno era peggio. Quando fui alla sua presenza, gli dissi che era cosa ben strana che, essendoci donne le quali volevano vivere con grande rigore, perfezione e in clausura, coloro che, lungi dal sottoporsi ad alcuna esperienza di tal genere, vivevano fra gli agi, volessero ostacolare opere volte a così gran servizio di Dio. Queste e altre cose gli dissi con la ferma determinazione che m’ispirava il Signore. La sua grazia gli toccò talmente il cuore che, prima di congedarmi da lui, ricevetti l’autorizzazione.

6. Me ne andai piena di gioia, perché mi sembrava d’aver già tutto, pur senza aver nulla. quello che possedevo infatti dovevano esser tre o quattro ducati con i quali comprai due tele dipinte (mancando di qualunque immagine da porre sull’altare), due pagliericci e una coperta. Di casa non c’era idea, poiché ero in disaccordo con Alonso Alvarez. Un mercante mio amico, di quella stessa città, che non si è mai voluto sposare e che si occupa solo di fare il bene, assistendo i carcerati, per esempio, e attendendo a molte altre opere di pietà, mi aveva detto di non darmi pena, perché egli me ne avrebbe cercata una (si chiamava Alonso de Avila), ma si ammalò. Poco prima era venuto a Toledo un frate francescano molto santo, chiamato fra Martín de la Cruz. Si trattenne alcuni giorni e, quando ripartì, mi mandò un giovane che egli confessava, di nome Andrada, per nulla ricco, anzi assai povero, raccomandandogli di fare tutto ciò che io gli dicessi. Questi, mentre un giorno assistevo in chiesa alla Messa, venne a parlarmi e a riferirmi la raccomandazione di quel sant’uomo, esortandomi ad essere certa che egli avrebbe fatto per me tutto quello che avesse potuto, pur non potendomi aiutare con null’altro che con la sua persona. Io lo ringraziai, e mi divertì molto – ancor più poi, divertì le mie compagne – vedere l’aiuto che quel santo ci inviava, perché Andrada non ci sembrava adatto, giudicandolo dall’apparenza, a trattare con carmelitane scalze.

7. Avuta, dunque, l’autorizzazione, ma senza nessuno che mi aiutasse, non sapevo che cosa fare né a chi raccomandare che mi cercasse una casa da prendere in affitto. Mi ricordai allora del giovane mandatomi da fra Martín de la Cruz e ne parlai alle mie compagne. Esse risero molto di me e mi dissero di non pensare di rivolgermi a lui, perché non sarebbe servito ad altro che a rendere pubblico il piano della fondazione. Io non volli ascoltarle perché, essendomi stato inviato da quel servo di Dio, pensavo che ciò non fosse avvenuto senza una ragione segreta e nutrivo la speranza che avrebbe fatto qualcosa. Così lo mandai a chiamare e, dopo avergli raccomandato il più assoluto segreto, gli esposi la situazione, pregandolo di cercarmi una casa adatta al mio scopo e assicurandolo che c’era chi si sarebbe fatto garante dell’affitto. Questi era il buon Alonso de Avila di cui ho detto che si era ammalato. Ad Andrada la cosa parve assai facile e mi disse che l’avrebbe cercata. Subito, il mattino seguente, mentre ascoltavo la Messa nella chiesa della Compagnia di Gesù, venne a parlarmi e mi disse che la casa era pronta, che ne aveva le chiavi, che era lì vicino e che andassimo a vederla. Vi andammo e ci parve così buona che vi rimanemmo quasi un anno.

8. Spesso, quando penso a questa fondazione, resto sbalordita dei mezzi di cui si serve Dio. Da circa tre mesi – per lo meno da più di due, perché non ricordo bene – persone ricche erano andate in giro per tutta Toledo a cercarci una casa e, come se case lì non ve ne fossero, non erano riuscite a trovarla, finché venuto questo giovane, che ricco non è, anzi assai povero, il Signore volle che la trovasse subito. Inoltre, poiché se mi fossi accordata con Alonso Alvarez, la fondazione si sarebbe fatta senza fatica, il Signore permise che, lungi dall’accordarmi con lui, le trattative si rompessero, affinché il monastero si fondasse in povertà e fra tribolazioni.

9. Siccome dunque la casa ci piacque, disposi subito le cose perché se ne prendesse il possesso prima che vi si facesse alcun lavoro, a scanso di qualunque difficoltà. Quasi subito il suddetto Andrada venne a dirmi che quel giorno stesso la casa sarebbe stata libera e che vi portassimo i nostri mobili. Gli risposi che sarebbe stato fatto, poiché non avevamo altro che due pagliericci e una coperta. Dovette restarne sbalordito. Alle mie compagne dispiacque che gli avessi detto questo e me lo rimproverarono, temendo che, vedendoci così povere, non volesse più aiutarci. Io non ci avevo pensato, ma egli non vi diede importanza, poiché chi gli ispirava quel buon volere gliel’avrebbe mantenuto fino al compimento della sua opera. Infatti lo zelo da lui manifestato nel dare assetto alla casa e far venire operai, non credo che fosse da meno del nostro. Chiesto in prestito quanto era necessario per celebrare la Messa, ci recammo nella nuova casa con un operaio sul far della notte, portando, per la presa di possesso, uno di quei campanelli che si suonano durante l’elevazione, non avendone altro. Passammo tutta la notte a disporre ogni cosa, con mio grande timore che fossimo scoperte. Non c’era, per la cappella, altro luogo che una stanza alla quale si accedeva attraverso una piccola casa attigua alla prima, che il proprietario ci aveva ugualmente dato in affitto, anche se ancora abitata da alcune donne.

10. Non appena tutto fu pronto e stava già per spuntare il giorno, senza che fino a questo momento avessimo osato dir nulla a quelle donne nel timore che svelassero tutto, cominciammo ad aprire una porta, chiusa con un tramezzo di mattoni, che dava in un cortiletto assai piccolo. All’udire i colpi, esse, che erano ancora a letto, si alzarono impaurite. Dovemmo faticare non poco per calmarle, ma era ormai giunta l’ora della Messa che fu celebrata subito; così, anche se si fossero ostinate nel loro atteggiamento, non ci avrebbero potuto nuocere. Quando videro a che uso era destinata la casa, il Signore le calmò.

11. Mi resi conto dopo di quanto avessimo fatto male le cose, perché sul momento, con l’esaltazione che Dio ispira per la realizzazione di un’opera, gli inconvenienti sfuggono. Quando, infatti, la padrona della casa seppe che vi si era eretta una cappella, cominciarono i guai, giacché, essendo moglie dell’erede di un maggiorasco, ci faceva grande opposizione. Finalmente, ritenendo che, se ci lasciava contente, gliela avremmo comprata a buon prezzo, piacque a Dio che si calmasse. Quando, poi, quelli del Consiglio seppero che si era aperto il monastero, per il quale essi non avevano mai voluto dare l’autorizzazione, montarono su tutte le furie. Si recarono subito a casa di un dignitario della cattedrale (che io avevo messo al corrente di tutto in segreto), dicendogli che avrebbero fatto fuoco e fiamme. Erano andati a raccontare ogni cosa a lui, perché il governatore, avendo dovuto fare un viaggio, dopo avermi dato l’autorizzazione, non si trovava sul posto; si mostrarono sbalorditi della temerità con cui una donnicciola, contro la loro volontà, impiantasse lì un monastero. Egli finse di non sapere nulla e cercò di calmarli come meglio poté, dicendo loro che li avevo fondati in altre città e che senza dubbio avevo proceduto con la dovuta autorizzazione.

12. Ma essi, dopo non so quanti giorni, ci mandarono l’intimazione di non far celebrare la Messa, sotto pena di scomunica, fino a che io non avessi mostrato le autorizzazioni in base alle quali si era fondato il monastero. Io risposi con molta dolcezza che avrei fatto ciò che m’imponevano, benché non fossi obbligata a obbedir loro a questo riguardo. Pregai, così, don Pedro Manrique, il gentiluomo sopra menzionato, di andare a parlare con tali signori e di mostrar loro come avessimo le carte in regola. Egli riuscì a pacificarli, trattandosi di cosa fatta, altrimenti avremmo dovuto penare non poco.

13. Passammo alcuni giorni disponendo di pagliericci e di una coperta. Il primo giorno non avevamo neanche qualche truciolo di legno per arrostire una sardina, e non so a chi il Signore ispirò di mettercene in chiesa un fascetto con cui salvammo la situazione. Di notte si soffriva un po’ il freddo perché il tempo era rigido, anche se cercavamo di ripararci da esso con la coperta e le cappe di bigello che portiamo addosso e che molte volte ci sono assai utili. Sembrerà impossibile che essendo state in casa di quella signora che mi voleva tanto bene, fossimo entrate lì in così estrema povertà. Non so vedervi altra ragione se non che Dio volle farci sperimentare il bene di questa virtù. Io non le avevo chiesto nulla perché non voglio essere importuna, e lei, forse, non se ne rese conto; d’altronde, ciò di cui le sono debitrice supera quello che ci avrebbe potuto dare.

14. La povertà fu per noi un gran bene, perché ne avevamo così grande gioia e consolazione interiore che spesso, pensandovi, ammiro le ricchezze che il Signore racchiude nelle virtù. L’essere prive di ogni cosa mi sembrava procurarci una soave contemplazione, anche se durò poco, perché subito Alonso Alvarez e altri ancora ci provvidero man mano di più di quel che avremmo voluto. Ne provavo sinceramente una grande tristezza, perché mi pareva proprio di essere come una persona che, ricca di molti gioielli d’oro, se li vedesse portar via e fosse lasciata nell’indigenza. Pertanto mi affliggeva che la nostra povertà avesse fine, e altrettanto afflitte erano le mie compagne. Vedendole infatti malinconiche e chiedendo loro che cosa avessero, mi risposero: «Che dobbiamo avere, Madre? Ci sembra di non esser più povere».

15. D’allora in poi mi crebbe il desiderio di esserlo in sommo grado: mi rimase il senso di una specie di sovranità, che m’induce a non curarmi di cose che costituiscono beni temporali, perché la loro mancanza fa aumentare i beni interiori, dai quali l’anima trae certo ben altra pace e sazietà. Nei giorni in cui trattavo della fondazione con Alonso Alvarez, erano molte le persone alle quali ciò pareva biasimevole. Me lo dicevano anche per il fatto che tanto lui quanto i suoi parenti non avevano né casato né cavalierato, benché nella loro condizione fossero – come ho detto – assai rispettabili, e che in una città come Toledo non mi sarebbe mancata la possibilità di scegliere a mio agio. Io non ci badavo molto perché, grazie a Dio, ho sempre stimato più la virtù che la discendenza. Purtroppo però erano arrivate tante chiacchiere all’amministratore, che egli mi aveva dato l’autorizzazione a patto che fondassi il monastero alle stesse condizioni stabilite per quelli fondati in altri luoghi.

16. Io non sapevo che fare, perché, fondato il monastero, le persone di cui ho parlato all’inizio vollero riprendere le trattative. Ma, siccome la fondazione era già fatta, mi appigliai alla soluzione di dar loro la cappella maggiore, a patto che nei riguardi del monastero non pretendessero nulla, e così stanno ora le cose. C’era già chi avrebbe voluto la cappella maggiore, persona assai ragguardevole, e i pareri erano tanti che non sapevo quale decisione prendere. Nostro Signore si degnò d’illuminarmi in tale circostanza. Così, un giorno mi disse quanto sarebbero stati fuor di luogo davanti a Dio, nel giorno del giudizio, questi titoli nobiliari e queste dignità. Per questo motivo, mi rimproverò severamente per aver prestato ascolto a coloro che mi parlavano di queste cose, indegne di tutti noi che abbiamo ormai disprezzato il mondo.

17. Queste e altre ragioni mi riempirono di tale confusione che decisi di concludere l’accordo avviato per dare ad Alvarez e al genero la cappella. Non me ne sono mai pentita perché abbiamo visto chiaramente in quali difficoltà ci saremmo trovate, altrimenti, per l’acquisto della casa. Infatti, con il loro aiuto abbiamo comprato quella in cui stanno oggi le consorelle, che è una delle migliori di Toledo, del costo di dodicimila ducati. Poiché vi si celebrano tante Messe e tante feste, tale casa è di grande consolazione alle religiose e agli abitanti della città. Se avessi badato alle vane opinioni del mondo, per quanto ci è dato di capire, sarebbe stato impossibile avere un tale beneficio. Avremmo inoltre recato offesa a chi ci faceva questa carità tanto di buon cuore.