martedì 20 dicembre 2011

Dio sorprende sempre


Siamo entrati negli ultimi giorni di Avvento: per prepararci alla celebrazione del Natale, 
propongo di seguito alcune delle più belle meditazioni di un grande mistico e maestro di preghiera,
don Divo Barsotti. Buona lettura!

* * *

DIO SORPRENDE SEMPRE

Casa San Sergio, 24 dicembre 1974 L'umiltà di Dio
La grandezza di Dio si mostra sotto il segno della povertà più grande, dell'umiltà più profonda: la nascita di un bambino. Dio non si è manifestato mai così munifico nel suo amore come quando è venuto salvare il suo popolo e l'annientamento di Dio mai è stato così profondo come in questa nascita. Tutta la Liturgia sottolinea quest'umiltà, questa povertà di Dio: nel mezzo della notte, mentre tutto il mondo era ignaro di quanto avveniva, ecco; il Verbo di Dio nasce da un'umile donna. E Dio continua il compimento dei suoi disegni di misericordioso amore sotto gli stessi umili segni. Abbiamo una fede così grande da saper riconoscerlo sotto questi segni? A questo ci chiama proprio l'Ufficio delle Letture di questa notte. Ci chiama a prendere coscienza di questo modo di agire di Dio nei confronti dell'uomo.
Noi vorremmo riconoscere Dio soltanto attraverso degli avvenimenti di grande splendore, di grande potenza. Invece, quanto più Dio si incontra con l'uomo, tanto più dobbiamo riconoscerlo negli avvenimenti più umili, nella povertà più squallida della nostra vita.
Saper riconoscere Dio...
Chiedere a Dio grazie particolari vuol dire chiedere a Dio l'umiltà dello spogliamento da ogni esperienza, anche religiosa. Chiedere Dio la comunione più profonda dell'intimità con Lui, vuol dire affondare nel nulla. Se tu non lo sai riconoscere lì, non hai mai conosciuto il Signore, né mai potrai riconoscerlo, perché quando Egli si fa uomo per donarsi totalmente a te, Egli discende per te in una grotta e per te si fa Bimbo che aspetta da te l'aiuto e ogni difesa. Questo lo sottolinea anche l'inno parlandoci di questa nascita. Saperlo riconoscere vuol dire vedersi davanti trasfigurata tutta la vita, tutto il mondo, tutta la creazione; vuol dire vedersi trasfigurate questa notte e il rito che celebriamo in questa cappella, dove nel silenzio dobbiamo incontrarci con Lui. Il primo salmo nel mattutino (Salmo 2) vuole mostrarci il gioco di Dio: Egli stravolge tutte le opposizioni alla sua volontà nei modi più inaspettati. Tutto il mondo si scaglia contro di Lui, tutte le forze dell'Inferno fanno per sopprimere il Cristo e il Cristo si salva proprio per la sua debolezza. "La debolezza di Dio è più forte degli uomini", dirà Paolo nella lettera ai Corinzi (1Cor 1, 25).
...nella povertà...
Ed è così anche oggi che Dio salverà la Chiesa. La Chiesa è la più povera, la più impotente di tutte le forze che oggi vivono nel mondo. A me sembra che mai come oggi, la Chiesa affermi la sua dipendenza da Dio e dimostri di esserne sacramento visibile, proprio perché non ha più alcun potere. Fra due anni probabilmente l'Italia sarà sommersa dal comunismo; ma come è meraviglioso Dio! Prima che il comunismo inondasse tutta l'Europa, Egli ha voluto la nostra Comunità. Infatti magari, fra tre o quattro anni non sarà più possibile vivere la vita religiosa nelle case religiose e ognuno dovrà vivere per conto proprio la propria adesione a Dio. Sarà riconosciuto il Papa, come attualmente avviene in Russia per il patriarca. Ma la vita religiosa come tale sarà impedita e ogni affermazione sul piano esteriore sarà bandita.
Ma ecco quello che ci ha detto il Salmo: "Dio se ne ride". Ed Egli non ebbe bisogno allora di farsi imperatore né uomo di potere. Nacque bambino povero e sconosciuto, ma in quella nascita umile e povera, Dio si fece presente per salvare il mondo.
Così sarà oggi della Chiesa. È meravigliosa la fiducia che Dio ha avuto in noi. Quanto più vado avanti e tanto più mi rendo conto della grandezza della nostra Comunità. Presto finiranno gli ordini e congregazioni religiose e ogni vita religiosa associata sarà resa impossibile; ma prima che tutto questo accadesse, Dio ha voluto che ci fosse una famiglia religiosa, la nostra Comunità, dove uomini e donne, persone sposate e no, di ogni età e condizioni, senza opere proprie, potessero affermare il primato delle virtù teologali.
...della nostra vita
In tutto questo non si può non riconoscere il dito di Dio. Dobbiamo prepararci a vivere questa nostra imitazione di Cristo, realizzando fin d'ora fra noi un legame più profondo di carità, di semplicità, di amore. Soprattutto fede, fede in Dio! In un Dio che si fa presente nella nostra umiltà, ma la nostra umiltà è tale che può travolgere tutte le potenze dell'Inferno, tutte le forze del male vivendo nella semplicità la nostra adesione a Dio. Non abbiamo nessuna opera: che cosa possono toglierci?
Ma non voglio fare la profezia di quella che potrà essere la nostra vita di domani; quello che importa notare oggi è ciò che dice il Salmo: che Dio travolge tutte le opposizioni del mondo attraverso l'umiltà e la povertà. No, non può servire al Signore una congregazione che si è troppo affidata al potere. Egli non si servirà nemmeno di ordini o congregazioni religiose, ma si servirà di povere anime, come avviene già in Russia e come avvenne durante la Rivoluzione Francese. Anche allora non furono gli ordini o le congregazioni religiose a salvare la Chiesa in Francia, ma furono umili madri di famiglia che accoglievano i sacerdoti nella loro case e di notte li accompagnavano presso altre famiglie.
Stasera si inizia l'Anno Santo. Che anno sarà? Sarà santo perché scoppierà la guerra? Sarà santo perché scoppierà la rivoluzione in Italia? Sarà santo perché l'Italia precipiterà nel caos? Dio solo sa; possiamo prevedere solo un avvenire assai oscuro. Ma Dio è con noi per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo intero se nella nostra povertà e umiltà sapremo vivere la nostra adesione a Lui. È proprio nell'umiltà e nella povertà che Gesù nasce e vive anche oggi in mezzo agli uomini.
Omelia (Messa Vespertina della Vigilia di Natale)
Natale, unione nuziale
II Natale non è festa soltanto di Gesù; è la festa anche di Maria. Mai in nessun Mistero del Cristo l'uomo e Dio sono così intimamente congiunti: se Dio si fa un uomo, anche l'uomo entra in un rapporto così intimo con Dio come quello della Vergine che diviene sua Madre. La prima lettura che abbiamo ascoltato stasera (ls 62,1-12), diceva un elemento essenziale del Natale stesso: l'Alleanza, l'unione nuziale, perché è questo che si è compiuto nel Natale cristiano. È vero che Dio si è fatto uomo e che la Vergine Santa è divenuta Madre di Dio ma proprio in questa maternità divina si sono compiute le nozze. La Vergine, nel dare tutto quello che essa aveva a Dio, faceva sì che Dio stesso divenisse suo Figlio ed Ella consumava anche le sue nozze con Lui.
Può sembrare strano che il mistero della divina maternità sia anche il mistero che c'illumina su quello delle nozze divine di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. Ma mistero delle nozze è essenzialmente questo: nelle nozze l'uno dà all'altro tutto quello che ha, tutto quello che Egli è. Ed ecco la Vergine dona a Gesù quello che è proprio dell'uomo, come dice San Giovanni della Croce nella sua romanza: non solo la natura umana, ma la sua debolezza, il suo pianto, la sua umiltà, la sua povertà. L'uomo riceve in cambio tutto quello che è di Dio e la creatura entra nel mistero della Trinità, vivendo un rapporto con Dio il più intimo che si possa pensare al di fuori di quello fra le Persone Divine.
Dio rimane uomo per sempre
Ma non voglio parlarvi di questo perché le letture di stasera non ci chiamavano ad illuminare il mistero del Natale sotto questo aspetto. Quello che mi sembra invece particolarmente legato alla Messa di notte del Natale è il modo scelto da Dio per farsi presente e per comunicarsi al mondo. La Messa del Natale ci dice che Dio si fa ancora presente sotto il segno della stessa povertà, della stessa semplicità, della stessa umiltà, dello stesso silenzio. E se noi non lo sappiamo riconoscere sotto questo segno, rischiamo di non incontrarci con Dio. Non è vero che la resurrezione del Cristo porti la Chiesa ad un superamento della condizione che Dio si è scelta una volta per sempre per farsi presente agli uomini e comunicare loro la sua grazia. Dio rimane fedele a quello che una volta ha voluto. Nella sua umanità gloriosa il Cristo si è sottratto ai condizionamenti del tempo e dello spazio, ma se Egli vive ancora nel suo mistico corpo che è la Chiesa, in questo mistico corpo Egli ancora soffre, Egli ancora vive l'umiltà e la povertà della condizione umana, e ancora vive la passibilità propria dell'uomo di quaggiù.
Dio è la forza del cristiano
E allora ecco, miei cari fratelli, quello che c'insegna il Natale: riconoscere Dio presente nel mondo sotto il segno dell'umiltà e del silenzio. Forse la Chiesa ci chiama oggi a vivere più autenticamente il cristianesimo di quanto non lo abbiano vissuto prima di noi coloro che hanno creduto nel Cristo. Troppo spesso finora, il cristianesimo era legato ad una società che dava alla nostra testimonianza cristiana un riconoscimento legale, riconoscimento che implicava una posizione giuridica, una rappresentatività nei confronti del mondo. Ma Dio non può entrare nel mondo che come un corpo estraneo per tutto trasformare, per tutto trasfigurare; non per far parte di questo mondo, ma per far sì che questo mondo entri nella realtà di Dio e partecipi della pienezza della sua vita. Ora, se il Cristo entra nel mondo come uno che il mondo non conosce, come uno che non gli appartenga, è chiaro che anche la Chiesa, che anche il cristiano dovrà, nella misura che in Lui continua il mistero del Cristo, vivere nel mondo senza particolari difese, senza particolare protezione, tranne quella di Dio. E la protezione e la difesa che Dio ci dona è quella data a suo Figlio quando, facendosi uomo, lo rivestì della debolezza e della povertà umana; Io rivestì della condizione più umile, della più sprovveduta. Questa è la difesa. Ma c'è una difesa, come dice Paolo nella lettera ai Corinti, più grande della forza degli uomini: "Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Cor 1,25).
lo credo che la Chiesa potrà compiere la sua ambizione di salvezza nel mondo solo nella misura che rinuncerà al potere per tornare ad essere, come il Cristo, debole e impotente, solo nella misura che essa tornerà a farsi presente anche nelle persone più umili è più povere.
Che cosa avverrà tra pochi anni, fra pochi decenni? Saremo sommersi? Dio non voglia. Comunque, non dobbiamo impaurirci, perché il cristiano deve abituarsi a cantare anche se, come i tre fanciulli nella fornace, si troverà in mezzo alle fiamme. Il cristiano dovrà imparare a camminare sull'acqua, come Pietro, per andare incontro a Gesù; fintanto che non sa camminare sull'acqua, fintanto che non sa cantare pur vivendo nel fuoco, non è ancora cristiano.
Dobbiamo vivere, nella nostra povertà e umiltà la sicurezza che Dio ci sostiene e ci difende perché siamo i suoi figli ed Egli sa come attraverso di noi può continuare l'opera sua.
Sacramento del Cristo nel tempo
Che cosa io voglio insegnarvi stasera, miei cari fratelli? Una cosa molto semplice e pure grande: che il Cristo è nato ed è qui con noi nella nostra povertà. Il segno della sua presenza è il nostro nulla, la nostra impotenza; è precisamente il fatto che non rappresentiamo più nulla per il mondo. Sacramento della presenza del Cristo è la nostra umanità, purché la nostra umanità non sia amante di nessuna forza, di nessun potere, di nessuna gloria mondana.
Siamo delle umili creature che però credono in Dio e lo hanno ricevuto. È il Cristo che si è comunicato a noi, che ci ha unito a sé per fare della nostra stessa umanità il sacramento della sua presenza nel mondo. Non temiamo!
La prima cosa che dobbiamo fare, intanto, è credere a questa nostra dignità d'essere sacramento della presenza del Cristo, vivendo nel mondo, nella scuola, nella casa, anche nella nostra debolezza di persone anziane o ammalate. Dio è con noi. Tutta la grandezza del mondo è nulla - mondo, in senso evangelico, perché implica tutte le forze coalizzate contro il Cristo - tutte le forze del mondo non hanno nessun potere contro di noi. Noi siamo il Cristo presente per gli uomini che vivono oggi.
È veramente una nascita quella che noi celebriamo, la nascita non di uno al di fuori di noi, ma di uno che vuoi farsi presente in noi per comunicarsi attraverso di noi a tutte le anime. Nella nostra umiltà e semplicità noi abbiamo un potere e la nostra vita ha un'efficacia molto maggiore di quella di tutti i grandi uomini del mondo di quaggiù: come il bambino che nasceva nella grotta, da tutti ignorato ma che era il centro dell'universo. Noi dobbiamo avere la stessa consapevolezza, ma vivremo quest'efficacia, questa grandezza solo nella misura che rimarremo fedeli al segno che Dio si è scelto, a quest'umiltà, a questa debolezza che è il segno della sua presenza.
Siamo nati per amare
Com'è meraviglioso Dio che ci ha voluto poveri! Com'è meraviglioso Dio che ci ha voluto lasciare nella nostra impotenza ed umiltà per essere più vicini a Lui, per essere veramente il sacramento del Cristo! Che la nostra povertà, la nostra debolezza non siano per noi un motivo di scoraggiamento, di sfiducia, di sgomento, di paura. Sappiamo sorridere come il Cristo poteva sorridere a sua Madre, mentre tutto il mondo, coalizzato contro di Lui, voleva ucciderlo. Egli non sapeva nulla nemmeno di quella lotta spietata che Erode e gli altri potevano combattere contro di Lui. Egli veniva quaggiù soltanto per amare e imparava sorridendo alla Madre. Così in fondo noi dobbiamo vivere la nostra vita cristiana. Non ci angustiamo, miei cari fratelli. Il Cristo vive in noi e non solo il mondo non potrà farci nulla, ma noi stessi dobbiamo salvare il mondo, operando non al modo degli uomini, ma al modo di Dio, soffrendo, vivendo nella pace, accettando l'umiltà della nostra condizione, rimettendoci alla potenza del suo amore.
Il Cristo è nato, è nato oggi qui con noi, è nato in noi; è nato in noi per la salvezza del mondo d'oggi, dobbiamo saperlo. lo non credo ai grandi avvenimenti. I grandi avvenimenti tanto più sono grandi quanto più, come la nascita di Gesù, rimangono nascosti agli occhi degli uomini. Sant'Ignazio d'Antiochia, nella lettera agli Efesini, afferma che la nascita di Gesù fu nascosta non solo agli uomini di quaggiù, ma anche alle stesse potenze. Dio compie le sue opere nel silenzio più profondo. Il silenzio non è un ostacolo alla potenza divina; è, direi, piuttosto, la condizione perché la potenza di Dio si dispieghi. Dio, che è creatore, non può creare che dal nulla, ed Egli deve ridurti al nulla, se vuole vivere attraverso di te, se vuole operare attraverso di te.
Non spaventiamoci!
Non angustiamoci dunque; non dobbiamo smarrirci! Ho l'impressione che mai la Chiesa abbia vissuto un momento di grazia come oggi, in cui non ha più nessun potere e sta per perdere anche quel poco che ha. Ho l'impressione che mai la Chiesa si sia trovata in una condizione migliore di quella in cui vive oggi, in cui il mondo la rifiuta o sembra non conoscerla più. Ho l'impressione che mai il cristianesimo abbia vissuto un momento di grazia più alto di quello d'oggi, quando ormai per tutti sembra che il cristianesimo non sia altro che un relitto di un passato che non può risorgere - così sembra a questi uomini - perché la cultura, perché l'arte, perché tutto ormai ha superato il Cristo. II Cristo si può superare facilmente perché è un Bambino: un Bambino che credi di poter superare, ma che però ha l'innocenza di uno che non conosce la vecchiaia perché rimane "l'infanzia eterna", l'essere che è al di fuori del tempo, che vive veramente il giorno unico dell'eternità.
Miei cari fratelli, non sgomentiamoci, non ci lasciamo prendere da certe considerazioni, da certi pensieri, da certi discorsi che possiamo ascoltare. Non abbiamo bisogno nemmeno di combattere: abbiamo bisogno soltanto di sorridere e d'amare, come Gesù. Abbiamo bisogno di vivere nella nostra umiltà, la nostra fede in Colui che ci ha scelto, il nostro abbandono a Colui che ha voluto in qualche modo incarnarsi per noi per farci lo strumento della sua grazia, per fare di noi il sacramento di una sua rivelazione agli uomini d'oggi. Umiltà, semplicità e pace: questa è la nostra vita. Ringraziamo Dio! È la medesima vita che il Figlio ha scelto per sé e ha scelto per noi.
Ringraziamolo, perché in questa semplicità e in questa pace, il Cristo anche ora è presente nel mondo: nei poveri, negli umili, nei sofferenti e in noi tutti che siamo il suo corpo vivente.
Oh! lo non voglio, lo sapete bene, insegnarvi un Cristo che si risolve nell'umanità, ma voglio insegnarvi che la nostra umanità è stata assunta da Lui per essere oggi il sacramento della sua presenza di salvezza nel mondo. E la salvezza e la vita che Cristo anche oggi ci dona ce la dona nel medesimo modo onde la donò la prima volta nella sua povertà e nella sua debolezza. Così come Egli offrì la vita, così ancora torna ad offrirla. Ricordate quello che pochi minuti prima di morire diceva Bloy a chi gli chiedeva: "Che cosa prova, maestro, in questi ultimi momenti della sua vita?" "Oh! - Egli rispondeva - soltanto una grande curiosità, perché ho l'impressione che appena chiudo gli occhi tutta la visione del mondo mi si rovesci: tutto quello che mi sembrava grande divenga nulla, e quello che era nulla ora divenga veramente l'unica cosa grande e vera". Bene, non aspettiamo a vedere questo rovesciamento di valore con la morte.
Basta la fede per contemplare già, nella povertà di un Bambino, la presenza stessa di Dio, per saper riconoscere nell'umiltà della nostra povera vita il segno di una predilezione infinita. Per saper riconoscere, proprio nella nostra sofferenza e povertà, la garanzia di un'immensa volontà del Signore che ci ha scelto per sé. Ecco quello che mi sembra l'insegnamento del Natale questa notte.
Omelia della Messa dell'Aurora
"Oggi la luce di Dio rifulge su di noi"
Leggendo il Salmo Responsoriale (salmo 96) dopo la prima lettura, il lettore ha detto: "Tutti i popoli contemplano la sua gloria". E noi tutti si rispondeva a queste parole proclamando: "Oggi la luce di Dio rifulge su di noi".
In realtà il mondo non ha visto nulla, e anche noi abbiamo visto ben poco! Che cosa abbiamo visto? Che cambiamenti ci sono stati? Non sembra che Dio ci prenda in giro? Che cosa è avvenuto perché noi possiamo giustificare la gioia di questo giorno? Siamo noi che cerchiamo di conferire a questa giornata una luce che per sé non sembra avere, perché di per sé il giorno d'oggi somiglia al giorno di ieri: non solo sul piano fisico, ma anche - per quanto riguarda l'uomo - sul piano psicologico e sociale? Che cosa è avvenuto? Nulla apparentemente: chi ieri aveva fame, ha fame anche oggi; chi ieri era malato è malato anche oggi.
"I popoli contemplano la tua gloria". Di quale gloria siamo testimoni? Davvero il cristianesimo può sembrare una grande beffa! E lo è per chi non ha fede. Per chi non ha fede non vi può essere altra reazione nei confronti del messaggio cristiano che quello di crederci pazzi. Veramente saggi erano gli ateniesi che cominciarono a ridere quando Paolo annunziò loro il messaggio cristiano. "Farneticano", dice spesso il Libro degli Atti.
Ed è vero anche oggi. Non si può assolutamente pensare che sia diverso oggi l'atteggiamento di chi non crede. Il cristiano stesso, se non ha una fede viva, cerca di non pensare a quello che l'annuncio dice, perché è sconcertante, estremamente sconcertante quello che è il messaggio annunciato: Dio è venuto sopra la terra. Israele lo aspettava e, in base al linguaggio dei profeti, pensava ad una trasformazione dell'universo: il deserto che fiorisse come il giglio, il sole che risplende sette volte di più, la concordia e la pace che esiste fra la vipera e il bambino, fra il leone e il capretto. Questo era il linguaggio dei profeti ma il linguaggio apocalittico che precede immediatamente la venuta del Cristo, era anche più straordinario.
La conversione...
E che cosa è avvenuto? Nessuno se ne è accorto; nemmeno coloro che hanno accolto l'annuncio si sono accorti di nulla, perché tutti sono rimasti quelli che erano: erano malati e sono rimasti malati, erano dei poveri diavoli e sono rimasti tali, erano delle anime deboli e imperfette e tali sono rimaste. Che cosa è avvenuto dunque? Dio ci prende in giro? Sembra di sì. Sì, perché non è certo Lui che entra nelle nostre prospettive, non è certo Lui che ha bisogno di essere giustificato dagli uomini e che perciò deve rispondere a quello che l'uomo si aspetta da Lui. È l'uomo che deve entrare nella luce di Dio ed entrare nella luce di Dio implica una "conversio", un cambiamento di pensiero, di mente.
Infatti la gloria di Dio si manifesta nella nascita di un Bimbo, cioè in un avvenimento che non è neppure storico, perché la storia nasce dopo. Anche quando nacque Napoleone nessuno ne registrò la nascita come un avvenimento storico. Avvenimento storico sarà la battaglia di Marengo e poi tutto il resto. Prima dovette essere grande Napoleone, capace di atti che avessero una risonanza storica.
...ci fa riconoscere la Verità...
La nascita è l'avvenimento più comune: non appartiene alla storia, ma alla biologia. E noi invece celebriamo la nascita di un Bimbo! E questo vuol dire molte cose, e cose veramente impressionanti per la nostra vita cristiana. Lo accennavo anche ieri e mi sembra di doverlo sottolineare anche stamani perché è in fondo l'argomento della mia meditazione sul Natale di quest'anno: sapere riconoscere Dio sotto le vesti più dimesse, saperlo riconoscere e accettare proprio in questa suprema umiltà in cui Egli ha voluto farsi presente. E non farsi presente duemila anni fa: sarebbe troppo comodo se fosse apparso allora così, ma ora tutto fosse cambiato perché c'è la Chiesa, c'è Pietro, c'è l'apertura dell'Anno Santo. Storie! Storie! Storie! Siamo noi che vogliamo impedire a Dio di manifestarsi come Egli vuole manifestarsi e perciò, visto che c'è un Bambino, Io ricopriamo di oro e di pietre preziose per farlo apparire ricco e per nascondere almeno la sua nudità. Il Cristo però rimane quello che è: nella vita presente Dio realizza il suo dono di amore agli uomini nella suprema povertà di atti comuni, di situazioni concrete le più spaventosamente trite e banali. Chi potrebbe riconoscerlo? Gesù è qui; forse l'atto che noi compiamo ha meno valore, meno grandezza dell'apertura dell'Anno Santo? Non saremmo nemmeno cristiani se lo pensassimo. Tutta la grandezza del cristianesimo è qui, perché qui si è fatto presente ora il Signore, nella parola che io annuncio nel suo nome. Tutta la grandezza del cristianesimo è qui, perché nella celebrazione del mistero Eucaristico si fa presente tutto il Mistero di Dio.
Ma vedete, anche noi abbiamo bisogno dei segni: i fiori, i ceri. Non sono anche queste, cose che rischiano di ricoprire la nudità di Dio? La Messa di ieri è forse meno grande della Messa che celebro stamani? Tutto Dio è qui! Ci crediamo? È una cosa impressionante che Dio voglia proprio farci entrare nelle sue vie attraverso una rinuncia totale a tutti i nostri pensieri, a tutti i nostri desideri, a tutte le nostre aspettative e ci lascia così come siamo. Eppure ci dice: "Ti amo", ci dice "Non temere, sono io"; eppure ci dice: "Ecco, il Salvatore è nato oggi..." e tutto il Paradiso è qui. Non c'è nulla di più di quello che viviamo sotto il segno di questa povertà e opacità. Tutto il Paradiso è presente, non c'è nulla di più, perché il Paradiso è Dio e Dio è qui.
...nella fede
Allora non è vero quello che proclamava il lettore: "Tutti i popoli contemplano la sua gloria"? Chi è che contempla la gloria di Dio in questo umano squallore in cui viviamo? Ci vuole una grande fede! Senza la fede davvero il cristianesimo è soltanto una balla! Senza la fede è terribile: noi siamo dei matti per il mondo. Allora si cerca di giustificare la nostra presenza nel mondo facendo della dottrina sociale e così si dimostra, una volta di più, la nostra assoluta impotenza.
Che cosa è il cristianesimo per il mondo? Davvero un pallone gonfiato. Se voi leggete i libri dei più grandi uomini, professori di filosofia, di diritto, di scienze economiche, di scienze politiche, tutti, perfino l'uomo della strada, sanno benissimo che il cristianesimo è stato proprio una montatura. E che montatura! Come l'umanità è stata ingannata!
È proprio vero che l'umanità è stata ingannata, perché è proprio così che Dio fa: o tu entri nei piani divini, o tu con la fede guardi le cose con gli occhi di Dio o se no, davvero, è esasperante la povertà del cristianesimo. Che cosa ha fatto? Che cosa fa? Che cos'è? Ma se tu hai fede, c'è da trasecolare dalla meraviglia dalla mattina alla sera: c'è da perdere la testa! Dio si è fatto un uomo! Dio, che è l'immenso, si è fatto un Bambino perché tu lo portassi sulle braccia! Dio, che è l'infinito, si è fatto tuo figlio! Tu puoi toccarlo!
Ma ci vuole la fede! Che fede ci vuole! Perché non solo noi siamo quelli di prima, ma anche Lui, che è venuto a salvarci, ha freddo! Anche Lui, che è venuto a salvarci, ha bisogno del latte di una Madre, come diceva, nel testo latino, l'inno alle Lodi: "Colui che dà il cibo agli uccelli, ecco, ha bisogno di un po' di latte di una mamma..."!
Poter credere tutto questo è davvero perdere la testa: non possiamo altro che essere dei pazzi se siamo cristiani. Per non apparire pazzi, allora di queste cose non ne parliamo più.
È difficile credere! È estremamente difficile credere!
Dio si è fatto un uomo. Se noi riusciamo a contemplare questo Mistero, davvero possiamo contemplare la gloria di Dio, una gloria però che non somiglia nemmeno da lontano alla gloria degli uomini: la povertà e la debolezza sono la misura di questo amore infinito. Egli non si fa nemmeno come te, si fa più debole di te, perché tu lo prenda sulle braccia e lo difenda e lo nutra col tuo amore.
Viviamo nel Paradiso
È questo il Natale. E noi Io dobbiamo vivere oggi e sempre, vivendo la gioia del Paradiso proprio con i nostri malanni, con le piccole incomprensioni di ogni giorno, con questa vita che sembra così stupida e vuota. Dobbiamo vivere il Paradiso proprio in questa povertà, perché Dio si è fatto povero, perché Dio s'è fatto veramente uno di noi, senza cambiare la nostra condizione, ma assumendo Egli stesso questa nostra condizione di miseria, di povertà, di debolezza.
Che fede ci vuole! Sappiamo bene che è difficile saperlo riconoscere: chi lo ha conosciuto quando Egli è nato? La Vergine Maria, ma Ella è la Purissima; e poi, quattro o cinque pastori e nessun'altro. Ed è poi vissuto nel nascondimento per 30 anni. Ed era Dio! Ci vuole fede, sapete! Un Dio fatto uomo, vissuto trent'anni in un villaggio di poveri, in un villaggio sordido, sudicio, come ancora ce ne sono nel Medio Oriente, in cui entrare fa soltanto schifo. Ebbene: Egli è vissuto trent'anni lì e nessuno si è accorto di nulla. Di nulla! Nessuno! E noi dobbiamo dire: quell'uomo era Dio! Che fede ci vuole! Ma se Dio ci dona la fede, davvero allora possiamo dire di contemplare la gloria di Dio.

* * *

Celebrare il Natale vuol dire comprendere che cos'è il Natale, oggi, per noi

Ritiro di Natale 24-12-1983
Prima Meditazione
Vigilia di Natale - L'incontro con Dio implica una novità assoluta per l'uomo, ed è sempre un morire e un risorgere

Siamo giunti dunque al Natale. Prima dei Vespri noi dobbiamo vivere l'ultima attesa di questo grande mistero. L'imminenza della celebrazione esige in noi un aprirsi di tutta l'anima nel desiderio e nell'attesa, così come fu nel desiderio e nell'attesa che il popolo di Israele si preparò negli ultimi secoli alla venuta del Cristo. Dobbiamo domandarci quale può essere questa attesa e di che cosa può essere questo desiderio per noi, che viviamo oggi l'imminenza della celebrazione natalizia.
Evidentemente, se pensiamo alla nascita di Gesù, non c'è da attendere quello che già è avvenuto. Se pensiamo alla fine del mondo presente per la seconda venuta del Cristo, per la manifestazione della gloria, dobbiamo dire che non siamo ancora preparati a questa venuta, oggi come oggi, dovremmo temerla., perché per la massima parte degli uomini la manifestazione del Cristo si risolverebbe in una grande catastrofe, in una dannazione quasi universale. Infatti gli uomini non sono più aperti ad accogliere la grazia; non conoscono più il Signore; in gran parte lo hanno rifiutato e quelli che non lo hanno rifiutato non lo conoscono più.
Dio ci dona di celebrare il Natale non come attesa dell'ultima manifestazione del Cristo e nemmeno come semplice ricordo di un avvenimento passato, ma ci dà la grazia di vivere questo Natale per un nostro in contro con Lui, incontro nuovo che non determina nulla nel Figlio di Dio, ma determina una vera nascita, un vero rinnovamento per noi.
Si tratta dunque di vivere oggi il Natale del Signore non come un avvenimento che riguarda il Figlio di Dio; del resto la stessa manifestazione ultima della sua gloria, non riguarderà, più l'umanità di Gesù glorificata, riguarderà l'umanità, che lo vedrà, come dice l'Apocalisse. Ma noi non vorremmo la novità ultima, sentiamo di non essere preparati. È preparata la nostra umanità ad accogliere il Cristo? L'incontro vero e definitivo anche per noi, sarà la morte. Vivere il Natale vuol dire per noi vivere il dies natalis? vivere la nostra morte? Sembra strano di unire il Natale col nostro morire e invece sarebbe la cosa più conforme a verità unire proprio la festa di Natale alla nostra morte, perché il vero dies natalis, per noi, non può essere la Natività di Gesù, ma il nostro nascere alla gloria nella visione di Colui che è già nato, di Colui che già ci ha redenti. Tuttavia anche questo ci sembra prematuro. Nessuno di noi si sente preparato a morire questa notte e non vorremmo moire stanotte, prima di tutto per non dare noia agli altri. Un giorno di festa così sarebbe un disastro se la nostra famiglia dovesse avere un morto in casa. Prima di tutto per la nostra famiglia, ma forse anche per noi, perché credo che nessuno si senta preparato a questo incontro supremo e definitivo col Cristo.
E allora celebrare il Natale che cosa vuol dire per noi? Se il giorno di domani ci lascia così come siamo oggi, evidentemente noi non celebriamo il Natale. Se noi domani dovessimo vivere soltanto la gioia di un incontro fra noi, il ricordo soltanto di un avvenimento passato, noi non avremmo celebrato il Natale, perché è vero che il Natale oggi riguarda noi più ancora di quanto non riguardasse noi la sua nascita temporale a Betlem: quella nascita si fa viva oggi per me, oggi però che io vivo. È vero dunque che riguarda noi, ma noi in quanto siamo toccati da Lui, noi in quanto ci incontriamo con Lui, noi in quanto, al contatto col Cristo, viviamo un nostro rinnovamento interiore. Non si tratta nemmeno di una nascita, perché la nostra vera nascita, indipendentemente dalla nostra morte, è anche il battesimo. E il battesimo per noi è già avvenuto; e la nascita vera, che è la morte, ancora è da venire.
Che cosa per noi vuol dire questo Natale? Celebrare il Natale vuol dire comprendere che cosa il Natale è, oggi, per, noi.
Si è detto che in questa imminenza della festa noi dobbiamo vivere il desiderio e l'attesa. Desiderio e attesa di che? Miei cari fratelli, l'incontro con Dio implica sempre una novità assoluta per l'uomo. Se noi crediamo di conoscere Dio e di vivere la vita che abbiamo vissuto finora, certamente queste nostre parole di volerci incontrare con Lui sono vane, sono vuote di senso. L'incontro con Dio non è un avvenimento che si scrive negli avvenimenti comuni della nostra vita, implica sempre una frattura. Vi ricordate quello, che dicono i salmi? "Tocca i monti e fumano". È impossibile che la creatura sia toccata da Dio, si incontri realmente con Lui rimanendo quella che è. Sia pur santa quanto si voglia, nessuna creatura può veramente essere visitata in un modo reale da Dio, senza che non subisca un trauma, non subisca una frattura nella sua vita interiore. Dio non lascia mai le anime così come le trova; non le può lasciare, perché Dio è tale che la creatura non regge al suo incontro. "Nessuno può vedermi e vivere". Giustamente, si deve morire, non della morte ultima, ma di una morte sì; di una morte a noi stessi, ai nostri pensieri, ai nostri programmi, alle nostre idee, a tutto quello che finora costituiva il nostro vivere, perché se Dio ci tocca, il tocco di Dio per sé determina questa frattura dell'essere creato. "Nessuno può vedermi e vivere". Rimane vero anche per noi, per tutti e sempre Questo vuol dire certamente che non si muore una volta sola; questo vuol dire che anzi vivere un contatto con Dio vuol dire morire continuamente. Sì, anche risuscitare, in un certo modo, ma prima di tutto morire.
Ci può essere una identificazione dell'essere umano coll'Essere divino? del vivere umano, sia pure in san Francesco, con la vita divina? Non c' e, non ci può essere una equivalenza. Allora se Dio ti tocca, anche se sei san Francesco, muori e risorgi: muori a. te stesso, al tuo pensiero, alle tue idee, ai tuoi propositi, alle tue virtù e ti apri ad accogliere Dio che è sempre assoluta novità.
Siamo disposti a vivere questo Natale in un desiderio vivo di una vita nuova, in una attesa viva di qualche cosa che veramente trasformi fino nelle radici la nostra vita e l'essere nostro? C'è in tutti noi certo, un desiderio di essere migliori, ma attenti, questo essere migliori non mi soddisfa. Essere migliori vuol dire che c'è una continuità di cammino in un certo processo etico della vita per il quale cerchiamo pian piano di modificare il nostro carattere, di modificare il nostro modo di sentire e di vivere, ma tutto questo è proprio dell'uomo, il quale vive secondo una norma che è quella di vivere come si deve vivere, di essere quello che deve essere. Ma qui non si tratta di essere quello che dobbiamo, si tratta di divenire, in qualche modo, compagni di Dio, in qualche modo amici di Dio, cioè di trascendere infinitamente l'umano. Attendere a Dio non si può che in quanto noi viviamo un salto qualitativo, non in quanto camminiamo. Camminare non ci porta mai lontano, non ci porta mai più vicini a Dio, perché non c'è una vicinanza di Dio: o sei in Dio o non sei.
Infatti, voi lo sapete benissimo, uno che abbia ammazzato cinquecento persone, se si converte e si pente, è subito in Dio perché la vita divina non si raggiunge attraverso un cammino, ma attraverso una rottura. È quello che si diceva: l'incontro con Dio opera una frattura nell'uomo, è sempre un morire e risorgere. Noi dobbiamo capire questo. Molto spesso abbiamo concepito la vita cristiana come un cammino continuo. Non è un cammino continuo; anche se c'è un processo nella vita cristiana, questo processo però avviene attraverso un continuo morire e un continuo risorgere.
Come tante altre volte si è detto anche in Comunità, la vita cristiana implica. per sé una conversione perenne. Cos'è la conversione perenne? È uno strapparci alle proprie radici, è un tendere verso Dio, è un essere presi da Lui. Tutto questo vuol dire continuamente morire a noi stessi per risorgere in Lui, in un modo sempre nuovo, perché Dio rimane sempre l'eterna Novità, ma è sempre un morire e risorgere.
Ora, per vivere il Natale, bisogna dunque sentire prima di tutto il bisogno di morire a noi stessi, bisogna sentire e vivere questa volontà di morire a noi stessi per essere presi da Lui, posseduti da Lui. Sentiamo tutto questo? Sentiamo, come sentivano i primitivi anche nella religione cosmica, che ogni anno la creazione precipita come nel vuoto, come nel nulla, come nella morte e Dio la riprende sempre all'ultimo tuffo per farla rivivere? Noi qualche cosa di simile dobbiamo vivere nel nostro rapporto con Dio. La continuità è soltanto apparente; perché di fatto, se tu non muori a te stesso, le tue virtù di oggi divengano, invece che virtù, impedimento all'unione con Dio.
Anche questo si è detto più volte, ora lo esprimo con altre parole e in un'altra luce, ma rimane sempre la stessa verità. Che cosa si è detto? Si è detto che se uno si ferma, precipita; che se uno si ferma non vive più nessuna perfezione ed è più perfetto colui che comincia il cammino verso Dio. Ma quando si parla di cammino il nostro linguaggio è un linguaggio non proprio, perché non vi può essere cammino che porti l'anima a Dio, se Dio è l'Infinito, se fra la creatura e Dio rimane questa distanza infinita; sempre s'impone il salto qualitativo, sempre, e il salto qualitativo implica per sé, necessariamente che ogni atto dell'uomo che voglia incontrarsi con Dio sia un atto di conversione interiore, sia un atto in cui l'uomo vive la sua abneget semetipsum. È quello che il Signore vi chiede stasera, prima di celebrare il Natale; che chiede a tutti noi stasera, prima che noi celebriamo il Natale. Abneget semetipsum; questo rinnegamento di sé questo morire a noi stessi, per aprirci ad accogliere Dio, secondo quella misura che noi gli offriamo, offriamo alla grazia, perché Egli si doni. È certo che c'è un processo, dicevo, ma attraverso dei salti, non attraverso un cammino continuo; attraverso una conversione perenne. E davvero non c'è processo senza questa conversione, appunto perché non c'è continuità tra la creatura e Dio. Tu lo accogli nella misura che ora la tua morte rende possibile a Dio di donarsi, o meglio, rende possibile a te di riceverlo, perché Egli si dona sempre. Siamo noi che rimaniamo incapaci di accoglierlo nella sua infinità.
Se dunque noi ora viviamo l'attesa ultima della celebrazione natalizia, dobbiamo vivere questa attesa in un bisogno di venir veramente meno a noi stessi, nel sentimento della povertà dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, nel sentimento vivo della mediocrità di tutta la nostra vita; nel bisogno di un rinnovamento interiore che ci strappi alle nostre consuetudini, alle nostre abitudini, a tutto quello che siamo, a quello che viviamo, perché un Altro viva in noi. Quando l'uomo risorge non è mai quello di prima. Nella religione cosmica, sì. Infatti quello che chiede l'uomo nella religione cosmica è precisamente la continuità di una vita che si esprime attraverso le stagioni, e le stagioni riportano sempre, con la primavera, la vita di prima. Ma nel cristianesimo, nella vita religiosa non è così. La risurrezione dona all'uomo veramente, una vita diversa.
Dobbiamo dunque vivere questa attesa di Dio, questo bisogno di una risurrezione, vivendo già ora questa volontà di venir meno a noi stessi per far posto nella nostra anima a Lui.
Importa poco, diceva, il Silesio - quasi quattrocento anni fa - che Gesù sia nato a Betlem; se Egli non nasce in te nulla vale la sua nascita temporale. La nascita a Betlem di Gesù è in ordine precisamente a noi. Per noi infatti Egli è nato, ma Egli è nato per noi solo nella misura in cui la sua nascita opera in noi questo rinnovamento, realizza per noi questa frattura, compie in noi questa conversione, questa morte e questa risurrezione in Lui. C'è in noi - ecco la prima cosa che dobbiamo domandarci - questo desiderio di essere nuovi? C'è in noi questa volontà di aprirci a Lui che viene, anche se questo aprirci a Lui che viene implica per noi un morire, una rinunzia, cioè una abnegazione di tutto quello che siamo e viviamo? Troppo spesso noi identifichiamo vita morale e vita religiosa. La vita religiosa non è una vita morale, non è che sia immorale, evidentemente, ma non è una vita morale. La morale è propria dell'uomo, la vita religiosa è la vita di. Dio, non è l'adempimento di una norma che fa parte della nostra natura, ma piuttosto un essere presi da Dio e sollevati a Lui; strappati a noi stessi per essere in Lui.
Ed ecco uno dei fondamenti della vita cristiana: questo bisogno che l'anima prova di una conversione che non finisce mai. Quanto più anzi, tu risorgi in Cristo, tanto più nasce in te vivo e doloroso il bisogno di una conversione più profonda, perché fra l'uomo e Dio l'abisso rimane infinito, e l'anima, quanto più veramente è trasformata, tanto più realizza e vive questa discontinuità infinita, questa sproporzione infinita fra sé e Dio stesso. È nella misura che Dio vive in noi che l'anima scopre questa infinita distanza. Perché è proprio la presenza di Dio in te, che dona a te la conoscenza di questa abisso che da Lui in qualche modo ti separa. E sembra paradossale il nostro linguaggio. Com'è che Dio, venendo in noi, ci fa sentire la nostra lontananza? Ma è proprio questo, perché è precisamente venendo in noi che Dio si fa conoscere. Tu non potresti conoscere né te stesso né Lui se non nella misura che Egli si dona. Di qui ne deriva quello che si diceva: la vita cristiana implica questa conversione perenne. Non abbiamo mai realizzato una nostra conversione. Si tratta di vivere giorno per giorno una conversione che diviene ogni giorno più esigente, nella misura che diviene sempre più grande la conoscenza che hai in te stesso e di quel Dio che vuol vivere in te.
Se noi non proviamo questo bisogno di conversione, la prima cosa che si impone in questa attesa del Natale è la preghiera che il Signore ci faccia capire e ci doni la grazia di desiderare davvero questo morire a noi stessi perché Lui solo viva in noi, almeno, Lui viva di più. Possiamo accettarci così come siamo? Possiamo essere soddisfatti di noi? Possiamo credere che così come siamo, abbiamo già realizzato il vero incontro, il definitivo incontro con Lui?
Vedete, se noi lo avessimo già realizzato dovremmo morire, e se anche noi pensiamo di essere giunti a tal punto che soltanto attraverso la nostra conversione di stasera possiamo raggiungere davvero una definitiva unione col Cristo, allora noi non desidereremmo tanto una conversione nel tempo, quanto il nostro morire. Non ha infatti senso la vita, non ha significato se non in quanto ci è stata donata proprio per vivere questo aprirsi continuo dell'essere creato alla grazia che in questo essere si vuole effondere per riempirla di Sé.
Si tratta dunque di chiedere a Dio la grazia di capire, prima di tutto, il bisogno di una nostra conversione; la grazia poi di chiedere a Dio di convertirci a Sé; la grazia poi di chiedere a Dio che in questa conversione noi viviamo sempre più reale e vera una nostra abnegazione dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri, del nostro vivere, perché non più siamo noi a vivere, ma sia il Cristo a vivere in noi. Questo dobbiamo chiedere stasera a Gesù che viene. La venuta di Gesù non può essere la sua nascita temporale e non è ancora la manifestazione ultima della sua gloria, che potrà venire soltanto con la nostra morte, né tanto meno noi chiediamo a Dio la manifestazione ultima della sua gloria per tutta l'umanità, che sarebbe la fine del mondo; noi sentiamo che l'umanità e noi stessi siamo ancora troppo lontani dall'aver realizzato il piano divino, per poter pensare di dover morire stanotte: si tratta invece per noi di vivere questo morire a noi stessi oggi perché Egli viva in noi, perché Egli cominci a vivere in noi in un modo più perfetto e più pieno.
Del resto che cos'è la vita religiosa? Impegno di perfezione. Ma che impegno di perfezione può essere la nostra vita religiosa, se non è l'impegno costante, sempre ripetuto, di convertirci al Signore? Se si è detto che un'anima che si ferma nel cammino precipita, vuol dire che non è possibile per noi vivere un impegno di vita religiosa che in questo incessante convertirsi dell'anima a Dio, in un incessante strapparci alle proprie radici, in un costante strapparci al nostro amor proprio, alla nostra vanità, alla nostra sensibilità, per offrirci a Dio in un morire a noi stessi perché Egli viva in noi.
Questo dunque dobbiamo chiedere, questo dobbiamo implorare stasera, prima di entrare proprio nella festa del Natale. Coi Vespri entreremo nella festa del Natale, perciò in questo momento dobbiamo chiedere questo e prima di tutto questo. Che cosa? È certo che noi potremo vivere una vera preghiera che implori questa nostra conversione interiore, solo nella misura che ci conosciamo e conosciamo Lui.
E allora, non vi sembra che la prima cosa che si impone dopo aver pregato il Signore che Egli ci converta a Sé, è quella di realizzare la nostra mediocrità, della meschinità della nostra vita. Guardiamoci un poco nella luce del Cristo che viene; guardiamoci un poco nella luce di questa santità di amore, per la quale santità un Dio si fa uomo per noi, per donarsi interamente a noi. Guardiamoci un po' in questa luce dell'amore infinito del Cristo per renderci conto del nostro egoismo, di quanto siamo indisponibili a Dio e ai fratelli, di quanto siamo ancora legati a noi stessi, di quanto siamo ancora chiusi in noi stessi, di quanto siamo ancora fermi nel nostro pensiero, nei nostri giudizi, nei nostri sentimenti, di quanto siamo meschini. Si tratta per noi di fare un esame di coscienza. Voi sapete che non sono molto amante dell'esame di coscienza, ma dovete anche sapere che non si può certamente chiedere a Dio di convertirci a Sé se noi non siamo veramente stomacati di quello che siamo. Non dico un'altra parola, è questa la vera parola. Era stomacata perfino santa Teresa quando era già santa, figuriamoci se non posso e non debbo essere stomacato io di me stesso. Ma non per essere amari contro noi stessi, perché anche questo è orgoglio, è amor proprio che non vuol riconoscere il proprio nulla e non sopporta la visione della propria povertà; si tratta si di conoscere quanto siamo meschini e mediocri così da essere rivomitati da Dio e rivomitati dagli uomini, ma per volgerci a Dio e implorare da Lui la conversione. La conoscenza che noi abbiamo di noi stessi è ordinata soltanto a rinnegare quello che siamo, a chiedere al Signore che Egli ci strappi alle nostre radici perché noi siamo impotenti. Possiamo vederci così come siamo, ma il vederci non opererebbe nulla se in noi immediatamente non nascesse poi la speranza, l'attesa di questa venuta del Cristo che fa succedere al morir nostro, a noi stessi, la sua vita divina. Nel cristianesimo non c'è morte senza risurrezione.
Ecco quello che noi dovremmo chiedere a Dio. E io penso che prima di iniziare veramente questo giorno di ritiro, si imponga per noi un po' di silenzio interiore, per metterci tutti davanti al Signore; e nel conoscimento di quello che siamo possiamo implorare la sua grazia che ci rinnovi; perché altrimenti il Natale passa proprio come olio sull'acqua, senza toccarci nemmeno. Sappiamo bene che Gesù è nato, ma si ripete quello che dicevo prima: nulla varrebbe che il Cristo fosse nato se non nascesse oggi in noi, e oggi in noi può nascere solo nella misura che noi, consapevoli della nostra povertà, ci apriamo ad accogliere il suo domo di amore, ci apriamo ad accogliere la sua grazia divina che ci rinnovi e ci trasformi. E allora vi chiedo che in silenzio noi meditiamo un poco sulla nostra vita, vediamo un poco quanto misera e povera sia la nostra esistenza, quanto indegna di anime che Dio ha voluto scegliere e fino dalla nascita ha chiamato, nell'adozione divina, a vivere la sua medesima vita.
Seconda Meditazione
Riflessione penitenziale alla luce di Dt 10,11

Noi sappiamo che ogni incontro con Dio implica e insieme realizza una conversione del cuore; e noi non possiamo vivere questo Natale come ricordo soltanto di un avvenimento passato, né come un'attesa della fine o del mondo o anche di noi stessi nella morte. Sentiamo tutti di non essere ancora preparati a questo incontro definitivo con Dio. Vogliamo piuttosto vivere una nostra conversione profonda dall'incontro che noi vogliamo realizzare in questa notte, con Colui che è venuto. Ma la conversione può avvenire finché noi non avremo preso coscienza della nostra povertà? del nostro peccato? In questo tempo di silenzio che ci è stato concesso, ci siamo veduti nella luce di Dio? Così come siamo, poveri, indegni? Così come siamo, legati ancora a noi stessi, pieni di sentimenti meschini, di sentimenti di vanità, di amor proprio, di sensibilità non mortificata, di mancanza di amore verso i fratelli, di incapacità di accoglierli e di accettarli così come sono, sentendoci impegnati unicamente a loro servizio per loro amore. Ci siamo liberati da tutti gli ostacoli che ci impedivano di rispondere a Dio, oppure anche noi come Adamo, ci siamo nascosti pensando così di sfuggire alla sua parola che ci chiamava?
Dio ci ha posto dinanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Egli ci ha detto che unico suo comando è l'amore per Lui, perché è dall'amore per Lui che nasce anche l'amore per i nostri fratelli, che deriva per noi la liberazione da tutto quello che ci impedisce questa vita di amore in cui in fondo consiste tutta la nostra risposta all'amore infinito di Dio. Dall'amore di Dio tutto deriva, ma in che modo Dio è stato vivo per noi? in che modo davvero il nostro rapporto con Lui è stato un rapporto reale? Com'è stata la nostra fede? come noi abbiamo vissuto nella divina Presenza? e come nella sua Presenza noi abbiamo eliminato dalla nostra vita tutti gli idoli, i pensieri vani, le nostre piccole ambizioni, i nostri egoisti? Sono tutti idoli che ci impediscono di essere totalmente di Dio, di volgerci a Lui con quell'amore puro e totale che Egli ci ha chiesto. Sì è vero, l'unico peccato rimane l'idolatria e tutti noi ne sismo colpevoli. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze è davvero l'unico comandamento che Dio ha dato a Israele e che ha dato anche a noi, ma chi di noi veramente lo vive? Certo si impone, se vogliamo vivere questo comando, che noi ci strappiamo alle nostre radici di egoismo, di orgoglio e di sensualità per offrirci, nella nostra povertà, a Dio solo.
È questo che dobbiamo chiedere stasera a Gesù. Prima di celebrare coi Vespri l'ingresso nella festa del Natale, dobbiamo dunque metterci dinanzi al suo volto per vederci nella luce della sua santità e, senza sgomento col desiderio e con l'amore della Maddalena, gettarci ai suoi piedi e implorare il perdono. Dobbiamo chiedere davvero che questa notte sia per noi una nascita nuova, sia un rinnovamento di tutta la nostra vita. Non possiamo contentarci di noi stessi. Se domani siamo come oggi il Natale è passato invano. Che non sia invano: "Ti ho messo davanti la morte e la vita, la maledizione e la benedizione"; non c'è neutralità nella vita divina. Se l'incontro con Dio non rinnova il nostro spirito in una conversione vera e reale, evidentemente l'incontro con Dio ci fa maggiormente responsabili, ci chiude ancora di più alla sua grazia, ci allontana da Lui.
Come dobbiamo stasera implorare questo perdono! Come dobbiamo desiderare davvero col suo perdona quella conversione che volgendo tutta la nostra anima a Lui, la illumina della sua luce di grazia e di amore. Forse più grave di ogni nostro peccato particolare è proprio questa nostra tiepidezza, questa nostra vita così mediocre, povera di amore, superficiale, distratta. È evidente che non viviamo nella divina Presenza. E come dal vivere nella presenza di Dio nasce per noi davvero ogni vita santa, così è dall'oblio di Dio - dicevano i Padri della Chiesa - che nascono tutti peccati. Chiediamo al Signore che Egli davvero si faccia vivo per noi. Egli è presente, ma questo Natale deve farcelo vedere, deve farci incontrare con Lui e poi, una volta incontrato, non farcelo perdere più.
Gettiamoci ora ai piedi del Signore in umiltà profonda e in fiducia assoluta della sua misericordia, perché Egli ci sollevi a Sé nel suo amore.
Terza Meditazione: Tt 3, 4-7
"Quando piacque mostrarsi a noi la bontà e la benignità del Signore"

San Paolo ci dice stasera, che cosa è il Natale. Noi l'abbiamo udito:è la manifestazione della benignità e della bontà del Salvatore nostro Dio. Prima di tutto il Natale è rivelazione. Mai l'uomo avrebbe potuto conoscere Dio, se Dio non avesse voluto rivelarsi. La rivelazione di Dio trascende ogni nostra attesa, ogni nostro pensiero. L'umanità l'aveva atteso per migliaia di anni; ma quando Egli è venuto, l'umanità, non poté riconoscerlo, talmente la rivelazione che Egli dava di Sé trascendeva ogni pensiero e ogni attesa dell'uomo. Potevano pensare e attendere un Dio che era potenza, un Dio che era sapienza, ma non attendevano un Dio che era amore, soltanto amore, amore infinito. L'amore ci ordina all'amato. Tanto più grande, tanto più vero è l'amore, quanto più l'amante, ordinandosi all'amato, scompare perché non vive per sé, perché non vive in sé, ma vive nell'amato e per l'amato soltanto. E Dio nella sua infinita potenza, e Dio nella infinita sua sapienza rivelò Se stesso precisamente in questa povertà, in questa umiltà senza fondo: in un bambino che aveva bisogno dell'uomo, che chiedeva all'uomo di essere protetto e difeso.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che Dio si rivelasse così e quale trasformazione e conversione dell'uomo suppone questa conoscenza di Dio! Non è soltanto Dio che trascendendo il nostro pensiero si manifesta diverso, totalmente diverso da come noi potevamo pensarlo, ma in questa sua rivelazione ci chiama Lui stesso a una conversione dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, perché anche noi possiamo comprendere che solo nell'amore è la verità e solo nell'amore è la vita; in un amore che non è un amore centripeto per il quale noi vogliamo tutto possedere, tutto attrarre a noi, ma in un amore che totalmente ci ordina a Lui nella semplicità e nell'umiltà della nostra vita.
Come mirabile è Dio che continua il mistero del suo Natale nel mistero della nostra povertà umana, della nostra debolezza, della nostra umiltà! Voi lo vedete, anche i cristiani chiedono sempre a Dio nuovi segni; anche i Vescovi chiedono a Dio una nuova Pentecoste per la Chiesa, i nuovi trionfi. In un modo o in un altro si vuole sfuggire sempre a questa rivelazione dell'amore divino nell'umiltà e nella debolezza di un bimbo. Si vorrebbe che la Chiesa ora anticipasse la gloria futura. Ma la Chiesa, e ogni cristiano, vive solo nella misura che discende nel proprio nulla e scompare. Tanto più siamo grandi quanto più moriamo a noi stessi, quanto più scompariamo nella luce di Dio. Vivere per Iddio vuol dire vivere per noi il nostro morire, vuol dire cioè non vivere più per noi, non cercar più nulla per noi, non pretendere più nulla per noi, non volere più nulla, nemmeno la santità, perché il valore la santità è rifugiarsi ugualmente in una nostra pretesa di essere qualcuno, qualcosa. Sparire, che Dio solo sia, che Lui sia l'Unico amato. Come per Lui siamo noi che si conta, come per Lui siamo noi il suo volere, la sua ricchezza la sua gioia, così per noi non può essere altra gioia, altra ricchezza che Lui. E noi dobbiamo e vogliamo scomparire nella luce divina.
L'insegnamento del Natale è un'umiltà senza fondo. Se Dio che è l'Infinito, rivelandosi a noi ha manifestato - dice san Paolo - la sua benignità; rivelandosi a noi è disceso fino nel fondo della povertà umana e della umana debolezza; se ha voluto non essere quasi nulla, noi, noi che siamo già nulla che cosa pretendiamo di essere? Come mai non accettiamo almeno quello che siamo, la nostra povertà, e la nostra indigenza? Perché non troviamo la nostra gioia nell'essere nulla? Perché cerchiamo un compenso alla nostra povertà nel potere della cultura, nel potere politico, nel potere economico, nella stima degli altri, nell'affetto delle creature? Tutto pretendiamo per noi e nulla dovremmo chiedere tranne il potere di amare e di spogliarci sempre più di noi stessi, di ogni pensiero di noi stessi, di ogni volontà di affermazione di noi stessi, per essere totalmente amore.
Si è manifestata la bontà e benignità di Nostro Signore, del nostro Dio e Salvatore, del nostro Dio - ci dice san Paolo. Non è la manifestazione semplicemente di un grande Dio, è la manifestazione suprema di Dio, un bambino che vagisce, un bimbo che non parla, un bimbo che deve essere - dicevo prima - difeso e protetto. Ecco l'onnipotenza divina! Davvero l'onnipotenza è soltanto in ordine ad una sua morte, a un suo annientamento. Quando ci darà una prova ancora maggiore del suo amore, lo vedremo sopra urna croce, oltraggiato, vilipeso, abbandonato da tutti, tradito da coloro che Egli aveva amato di più.
È questo l'amore! E noi che cosa pretendiamo? Come noi dovremmo essere affamati di umiltà; come dovremmo cercare non di essere qualcosa, ma di non essere e non per volontà di morte, ma per volontà di amore, perché chi ama, noi lo sappiamo, si dimentica di sé, non può ricordarsi di sé, non può pensare a sé.
Questo noi dobbiamo chiedere stasera al Signore in questo Natale: Il cammino della santità, se vi è un cammino, è soltanto un cammino in discesa. Il cammino a cui ci chiama il Signore è un cammino soltanto di spogliamento e di morte. Di morte, ma la morte da sola non vale, la morte in quanto è precisamente il frutto dell'amore, come la morte di Cristo. Se la morte del Cristo non fosse stata volontaria, se Egli stesso non l'avesse scelta liberamente per amore di noi, per la nostra salvezza, Egli sarebbe morto come qualunque altro mortale. Aveva assunto una natura passibile, doveva morire. Ma no, nessuno poteva rapirgli la vita - Egli dice nel IV Vangelo - Lui liberamente la dà e la dà per amore nostro. Nulla riserba per Sé.
Che cosa noi vogliamo? Che cosa noi chiediamo a Dio? Non è forse vero che ancora noi siamo attaccati a noi stessi e a tante altre cose, quasi che ci mancasse la vita, se ci mancassero la stima degli uomini, l'affetto delle creature e la possibilità di un certo lavoro. Bisogna sapere amare sino in fondo, ecco l'insegnamento del Natale. Amare sino in fondo vuol dire sapere scomparire non chiedere nulla per noi, ma esser contenti piuttosto che Dio ci spogli e lasciarci spogliare da Lui per non vivere più che questo nostro venir meno a nei stessi perché Lui solo per noi rimanga, Dio solo. Proprio per questo sarà bella la morte, perché non ci rimarrà più nulla e Lui solo apparirà, e Lui solo, noi vedremo e nella sua visione saremo beati. Beati perché allora potremo dimenticarci totalmente di noi stessi, beati perché finalmente il nostro io potrà scomparire del tutto, questo io che esclude Dio perché se noi siamo, Dio non è, se Dio è, noi non siamo.
Certo sul piano metafisico la creatura rimane, ma non sul piano psicologico, non su quel piano per il quale l'uomo è ancora legato a se stesso e vive un ricordo di sé e vive la propria vita. Siamo pura condizione a un moltiplicarsi di Dio. Ecco che cos'è la creazione divina nel disegno di Dio: condizione a un suo moltiplicarsi perché Egli ci ha creati soltanto per potersi donare e per vivere in ciascuno di noi. Ma Egli non può donarsi, non può vivere in noi che in quanto è l'Unico ed è l'Assoluto. E la sua Presenza precisamente in ciascuno di noi suppone questa sparizione totale di ogni riferimento a noi stessi, di ogni coscienza di noi stessi, per non avere più altra coscienza che di Dio. L'Unico, l'Amato.
Ma prima di poter vivere questa suprema umiltà che è la perfezione dell'amore, noi dobbiamo già cercare in questa vita di vivere un'umiltà sempre più grande, perché noi non togliamo nulla a Dio, perché Dio sia davvero già ora, nella nostra vita, tutto per noi. Tutta la gioia, tutta la ricchezza, tutta la vita, tutta la santità, tutto. La manifestazione della bontà di Dio! È perfino inconcepibile anche dopo duemila anni di cristianesimo, questa rivelazione di Dio nell'umiltà di un bambino.
Vedete, sotto certi aspetti possiamo capire anche di più la morte di croce, perché nella morte di croce c'è, se non altro proprio l'espressione di una volontà. Nel bambino si è liberato anche di questo, è nulla. Egli si è ridotto proprio all'impotenza più grande, alla povertà più estrema ed è questo l'amore.
E noi viviamo stasera questa manifestazione dell'amore di Dio, ma come possiamo viverla se noi non sappiamo amare, se non amiamo il nostro scomparire, il nostro discendere, il nostro spogliarci di ogni pretesa, di ogni ambizione, di ogni volontà, di ogni stima di noi stessi, di ogni ricordo di noi stessi? Vorrei chiedere stasera, per me e per voi, che la sua Presenza divina come luce ci cancelli e rimanga per noi davvero soltanto questo amore immenso, infinito, inconcepibile di un Dio per noi. Noi dovremmo vivere sempre dinanzi a Dio, ma non al Dio dei filosofi, e nemmeno al Dio dei mistici, ma dinanzi al Dio dei cristiani, a quel Dio che si è fatto conoscere alla Vergine santa, che si è fatto conoscere ai pastori, quando lo hanno veduto. Il cielo tripudiava di gioia, ma quando l'hanno veduto, hanno veduto un bambino in una mangiatoia, deposto in una mangiatoia in una povera grotta. Tutto il cielo poteva tripudiare, ma tripudiava proprio per questa umiltà senza fondo di un Dio che si era spogliato di tutto per donare tutto agli uomini che Egli amava.
Rimanere dinanzi al Bambino Gesù ecco quello che io credo sarebbe opportuno per noi, per imparare come si vive, per imparare come si ama. Che il Signore ci doni una umiltà vera, che ci doni l'amore all'umiltà, che il Signore ci faccia comprendere che non c'è altro cammino per giungere a Lui che quello di spogliarci sempre di più di tutto perché Lui solo rimanga per noi. Dovremmo temere tutto quello che in qualche modo ci arricchisce: temere la stima, temere ogni onore, temere ogni ricchezza, temere ogni potere, temere anche l'affetto che gli altri ci portano. Usurpiamo tutto a Dio tutto quello che a noi è donato. A Lui solo deve essere donato quello che a noi viene offerto e che noi pretendiamo. Che cosa a noi è dovuto? Non siamo forse un nulla in noi e per noi stessi? Perché vogliamo una volta creati, pretendere qualche cosa? Si diceva già prima: Dio ci ha creati unicamente per essere la condizione di una sua Presenza, null'altro. Noi dobbiamo volere questo e null'altro.
Code si capisce il cammino di tante anime che le porta proprio alla solitudine estrema, al silenzio perpetuo, a voler essere dimenticate da tutti. Ma com'è difficile! Volere anche essere dimenticati da tutti e dimenticarci noi stessi. Ora il cammino vero dell'umiltà è meno di essere spogliati di quelle cose che ci vengono dal di fuori, che essere spogliati del ricordo di noi stessi, della coscienza che noi abbiamo di un nostro valore o di quello che siamo.
Che la luce di-Dio ci cancelli, ecco la nostra preghiera, stasera. Dinanzi al bambino Gesù possiamo noi pretendere di essere qualchecosa più di Lui? Non ci vergogniamo dunque di essere quello che siamo. La nostra gioia è soltanto sparire, morire totalmente a noi stessi, per far posto nella nostra anima a Dio. Sia davvero la nostra anima quella grotta che lo accoglie, meglio ancora della grotta, il seno della Vergine che lo portò per nove mesi, e che noi siamo questo e null'altro, un ostensorio del Cristo, null'altro; che gli uomini non vedano in noi null'altro, e non abbiamo più nome, ma Lui; essere davvero condizione perché Egli si faccia presente; ed Egli non si potrà mai far presente nel nostro potere dei miracoli, o nella nostra efficienza sul piano anche pastorale o apostolico, ma si farà presente nell'umiltà più vera, nella povertà più grande; in questa debolezza dell'uomo che pur nella sua debolezza crede e si affida, che nella debolezza si apre alla visione di Dio e sa amare come Egli ha amato.
"Quando piacque manifestarsi a noi la bontà e benignità del Signore". Quale religione ha mai potuto dare una rivelazione di Dio così? e quale religione ha potuto chiedere all'uomo un amore così vero che si esprima anche per l'uomo nella più fonda umiltà, nella semplicità più pura? No, i santi non sono degli eroi, sono dei poveri che si aprono a ricevere il dono dell'amore, sono dei poveri che non sanno altro che amare e vivono questo donarsi senza ricordo di sé, senza voler nulla per sé.
Miei cari fratelli, non è soltanto il Signore, è anche la Vergine santa che ci insegna. È Lei che, prima di ogni altra creatura, ha avuto la manifestazione della divinità di Dio e l'ha compresa così da, vivere nell'umiltà più vera e profonda per tutta la sua vita. Ella scompare; appare soltanto ai piedi della croce. Non partecipa alla gloria del Cristo quando Egli fa i miracoli; non è chiamata dal Cristo alla visione della sua trasfigurazione sul Tabor; non è invitata dal Cristo a seguirlo nel suo apostolato. Ella rimane dimenticata da tutti, sembra perfino dimenticata dal suo Figlio divino; Egli non la ricorda, sembra respingerla, vuole che viva nel silenzio, vuole che affondi come nel nulla; ed Ella rimane pura, semplice, Ella sa amare, nulla chiede per sé. Si ritrova soltanto ai piedi della croce. Questo è il suo posto. Se noi dobbiamo volere qualcosa è soltanto di partecipare agli obbrobri del Cristo, alla Sua Passione, alla sua morte; l'unica cosa che possiamo chiedere, se partecipare alla sua morte vuol dire - come per Maria - saper amare fino in fondo, come fino in fondo ha amato Gesù.
Proprio nel mistero dell'Incarnazione che noi stasera vogliamo contemplare, noi vediamo non solo la rivelazione suprema dell'amore di Dio nel bambino, ma possiamo anche contemplare la risposta dell'uomo all'amore di Dio nella semplicità, nella povertà, nell'umiltà di Maria. Non e forse Lei, più di ogni altro santo la causa esemplare di ogni santità? E come ci insegna! Chi di Lei potrebbe dire qualcosa? Nemmeno oggi, dopo duemila anni, si può dire qualche cosa della Vergine. Si sa della sua Annunciazione, la vediamo ai piedi della croce; poi la sua vita è il silenzio, il nulla. Nell'Annunciazione di Gesù Ella è sola, e nella nascita di Gesù Ella è sola: sola a contemplare la manifestazione della bontà di Dio, ed è sola ai piedi della croce. Tutti hanno abbandonato il suo Figlio. L'anima più santa la si riconosce qui, non nel partecipare - dicevo prima - alla grandezza, ai miracoli, all'amore che la folla portava a Gesù, ma nella partecipazione alla sua passione dolorosa, ma il vivere il silenzio stesso del Bambino, sola nella grotta, insieme con Lui.
Sia questa la nostra vita. Impariamo da Maria come si ama, in risposta all'amore di un Dio che di tutto si è voluto spogliare per noi, che ha manifestato Sé soltanto nella perfezione di un amore senza limiti.
Quarta Meditazione: At 13, 16-17; 22-25
Vivere il Natale non vuol dire che Gesù rinasce, ma che Egli assume la nostra natura per vivere in noi

Dobbiamo ora raccoglierci per iniziare l'ultima parte della Veglia di questa solennità natalizia.
Il raccoglimento che dobbiamo vivere per entrare nel Mistero sarà aiutato in noi da alcune brevi riflessioni sul Mistero stesso che celebriamo. Non abbiamo celebrato la Messa vespertina, ma abbiamo letto la seconda lettura e l'abbiamo ascoltata ora. Alla fine del Mattutino poi, ascolteremo il Vangelo di questa Messa, che è il Vangelo della vigilia. E leggendo la lettura degli Atti noi possiamo ritrovare il motivo fondamentale della liturgia anche nella Messa di stamani: Gesù che nasce dalla famiglia di David. Dio trasse dalla famiglia, di David, dice, un Salvatore, trasse. Dice il salmo 85 che la giustizia scende dal cielo e la salvezza sboccia dalla terra. Gesù è il frutto insieme della generazione del Padre e anche è il frutto della Madre, della terra. Ora è molto importante capire che sì, Gesù è Figlio di Dio, ma è importante ancora che noi insistiamo e vediamo come Egli è Figlio anche di Maria, è il Figlio dell'uomo, perché comprendiamo che veramente tutta la vita spirituale consiste nel dare al Verbo di Dio la nostra stessa natura perché Egli viva attraverso di noi. Vivere il Natale non vuol dire che Gesù rinasce, ma vuol dire che Egli assume la nostra natura per vivere in noi. Una volta Egli è nato in una natura umana che aveva tratto dal seno della Vergine, oggi si può far presente nel mondo solo se noi prestiamo a Lui la nostra umanità, se noi doniamo a Lui la nostra umanità perché Egli viva in noi.
Vivere la vita cristiana vuol dire non vivere la nostra vita, ma lasciarci possedere dal Verbo perché il Cristo viva in noi. Certo che come persone noi siamo e rimaniamo distinti dal Verbo di Dio; ma per vivere in unione col Verbo la sua medesima vita.
Si è detto altre volte che il mistero cristiano è analogo al mistero della Trinità. Per questa analogia rimane vera la distinzione delle persone, della persona creata di ciascuno di noi dalla Persona eterna del Verbo di Dio, rimane vera questa distinzione ed eterna, ma rimane vera nella distinzione delle persone anche l'unità di un corpo. Il cristianesimo non è altro, diceva Bossouet, che il Cristo dilatato nello spazio e prolungato nel tempo. Tutto il cristianesimo non è altro che un mistero di incarnazione che si prolunga. La Chiesa non sarebbe nulla, il cristianesimo non sussisterebbe, perché sarebbe soltanto una dottrina teologica, ma una dottrina non sarebbe un mistero. Se il cristianesimo è un mistero è perché continua il mistero d'una incarnazione. Non come se il Cristo avesse bisogno ancora di farsi uomo, ma nel senso che, attraverso il tempo e attraverso tutta la terra, Egli trae a Sé - trasse dalla famiglia di David un Salvatore - trae a Sé la nostra umanità per vivere in essa. E oggi Gesù non vive nel mondo, non può vivere nel mondo se noi non prestiamo a Lui la nostra umanità, perché Egli vive nel cielo - Egli ascese ai cieli - vive alla destra di Dio, non vive nella storia, non è visibile agli uomini, deve vivere in me.
Che cos'è questo Natale che noi celebriamo? Il Signore ci chiede quello che ha chiesto a Maria, e noi stasera dobbiamo ripetere a Dio quello che ha detto la Vergine quando si è abbandonata alla forza dello Spirito perché in Lei fosse concepito il Figlio di Dio, perché da Lei nascesse Gesù. Dobbiamo dare a Dio la nostra umanità perché Egli viva attraverso di noi e non sia più che Lui a vivere in noi. Voi lo sapete che il difetto, anzi più che il difetto, l'opposizione alla vita, cristiana in noi è la voluntas propria, è la proprietà, il senso di voler vivere una nostra vita invece che la sua vita; è il fatto di voler avere una nostra volontà, invece che la sua, è il fatto di voler avere una nostra vita, i nostri pensieri, le nostre ambizioni, i nostri desideri, i nostri programmi, invece che viva in noi unicamente il Signore.
Che cosa dunque ci chiede stasera questo nostro entrare nella celebrazione del santo Natale? Ci chiede di abbandonarci a Lui totalmente, di strapparci alle radici del nostro egoismo per appartenere unicamente al Signore, perché il Signore viva in noi. E noi dobbiamo credere che in forza del nostro abbandono non saremo più noi a vivere, ma sarà Gesù che vive in noi, secondo le parole di Paolo: "Vivo io, ma non son più io che vivo, è il Cristo che vive in me". Notate la sapienza di queste parole: se il Cristo vive in me, la persona rimane distinta, io non sono Gesù, però è Lui che vive, cioè è l'unico Cristo che vive pur nella distinzione delle persone, l'unico Cristo. Ma non può vivere l'unico Cristo in me se io non mi lascio possedere da Lui. È la sua presenza in noi che implica il Natale. La festa di Natale vuol essere un farsi presente Gesù nella nostra umanità. Si fece presente allora nel tempo, si fece presente allora a Betlem nella grotta, si deve far presente oggi per me, in questo luogo, a Settignano, nel luogo dove voi siete e nella vita che voi vivete oggi, non domani; oggi, non ieri, perché oggi voi dovete prestare a Lui questa vostra umanità, perché Egli viva.
Che cosa ci insegna dunque la lettura che abbiamo ascoltato? Che Dio ha voluto avere bisogno di noi. Vi ricordate la grande, la bellissima lettura del giorno 21 dicembre? Si chiama il giorno aureo per eccellenza dell'Avvento, non so se lo sapete, è il giorno in cui viene letto il Vangelo dell'Annunciazione e il giorno in cui nella lettura che è di san Bernardo, si rivolge alla Madonna e le dice: "tutto il mondo attende, che aspetti tu a dire il tuo fiat?" È una delle letture più belle di tutto l'anno liturgico. Bene, quello che allora avvenne, ora avviene, perché Dio allora ha voluto aver bisogno di Maria, oggi vuol avere bisogno di me, vuol aver bisogno di noi tutti, perché senza di noi Egli non si fa presente agli uomini quaggiù. Senza di noi Egli non opera per gli uomini quaggiù. È Lui che opera, intendiamoci. bene, è Lui che battezza, non sono io che battezzo; è Lui, che assolve, non sono io che assolvo, è Lui che vive anche in voi, non siete voi che dovete vivere. Ecco, donare a Lui la vostra umanità come l'ha donata Maria; il fiat di Maria, l'atto di abbandono di Maria deve continuare nell'atto di abbandono di ogni persona creata alla potenza dello Spirito del Cristo, perché il Cristo vive in ciascuno.
È questa la spiritualità cristiana. Di questa vita cristiana la causa esemplare è Maria, è Maria soprattutto in questo atto di abbandono alla potenza dello Spirito, perché si incarni in lei il Figlio di Dio.
Ora è questo atto di abbandono che il Signore ci chiede. Voi avete fatto questo atto di abbandono, di donazione di voi stessi a Lui col santo Battesimo, ma avete dovuto rinnovarlo quest'atto, farlo vostro quest'atto, quando siete giunti all'uso di ragione. Ma si può dire di aver mai compreso sino in fondo l'esigenza di Dio. Non è forse vero che ci siamo donati; ma soltanto con grandi riserve, con grandi condizioni e mai pienamente ci siamo abbandonati a Lui così da perdere una nostra vita, così da non voler vivere più una nostra vita, non è forse vero?
Non è forse vero che è difficile per noi dimenticare totalmente noi stessi e lasciarci possedere da un Altro che è Dio? Non è forse vero che noi tutti vogliamo programmare la nostra vita, che vogliamo tutti sapere dove andiamo e essere noi piuttosto a voler insegnare a Gesù, insegnare a Dio per quale via dobbiamo tendere alla nostra salvezza? Non è forse vero che in noi troviamo sempre delle resistenze a questa divina volontà? Vorremmo che il Signore ci chiamasse per una via di gusti interiori piuttosto che di aridità, in un luogo piuttosto che in un altro, una certa forma di vita piuttosto che un'altra? Non è forse vero che noi vorremmo imporre a Dio un nostro modo di pensare e di vedere, piuttosto che abbandonarci totalmente a Lui, eliminando da noi ogni nostra volontà propria? Ora è precisamente questo che la Vergine ci insegna. Il nostro abbandono a Dio non è stato mai pieno, non è stato mai perfetto. Perché l'abbandono di Maria fu pieno e perfetto, nacque da Lei Gesù. Ella lo concepì nel suo seno, lo partorì per la salvezza del mondo.
Se dunque Gesù deve vivere oggi nel mondo e operare, o almeno applicare la salvezza che Egli ha ottenuto con la sua morte di croce, Egli ci chiede questo abbandono, che fu l'abbandono della Vergine, alla potenza dello Spirito. Il Fiati mihi, quella parola che era attesa da tutto l'universo, dagli angeli e dagli uomini, che eran precipitati nel peccato, dalla creazione intera, quel "Fiat" da cui è dipesa la salvezza del mondo, è il fiat che noi dobbiamo ripetere stasera: fa' di me ciò che vuoi. E anche la parola che Gesù medesimo ha detto, noi la dobbiamo dire nei riguardi dello Spirito del Cristo, perché Cristo stesso viva in noi le parole che Egli, secondo la lettera agli Ebrei, ha detto e pronunciato quando si è fatto uomo! Tu non hai voluto sacrifici ed olocausti, mi hai dato un corpo, ecco, o Dio, io vengo a compiere la tua volontà. Ecco, sono qui. Anche Maria: "Ecce", ecco la serva del Signore. È la prontezza dell'anima che finalmente si scioglie da tutto, è la prontezza dell'anima che finalmente si strappa a tutti i suoi legami, per abbandonarsi alla potenza dì Dio che deve trasformare l'anima nostra e far sì che noi viviamo la sua medesima vita.
Miei cari fratelli, consapevoli di aver sciupato tanto tempo perché avevamo cercato di contrattare con Dio, scegliendo noi il cammino che doveva condurci a Lui, consapevoli di aver sciupato tanto tempo perché non abbiamo mai creduto fino in fondo al suo amore e alla sapienza di Dio, che intesse il nostro cammino, che guida il nostro cammino, noi stasera vogliamo abbandonarci interamente a Dio. Che cosa il Signore ci donerà, che cosa il Signore vorrà da noi? Non lo sappiamo, non vogliamo saperlo, perché già saperlo ci mette nella condizione di riprendere noi il timone della nave, perché crediamo, se dobbiamo andare in un certo posto, di dovere portare subito la nave in quella direzione. Voi lo sapete che Dio è solito scrivere diritto con linee storte. Ti vuol chiamare al sacerdozio e intanto ti fa perdere un mucchio di tempo facendoti fare l'avvocato o il perito industriale; ti vuol chiamare a una vita di solitudine e intanto invece, sembra che Egli ti immetta, ti inserisca in un cammino, in un lavoro apostolico dal quale non riesci a liberarti. Ma è proprio nell'abbandono a Dio con semplicità, senza volere giudicare l'azione divina, che Dio compirà il suo disegno. Perché se tu non ti abbandoni con fede pura all'azione di Dio, la tua intelligenza prende il posto della Sapienza stessa divina. E tu credi quasi di raggiungere più facilmente una méta che non sai nemmeno se e quella cui Dio ti vuol portare e che comunque, anche se fosse quella alla quale Dio ti vuol portare, tu non raggiungerai mai coi tuoi mezzi, anche se ti sembrava di seguire la via più breve e più diritta.
Abbandono a Dio; abbandono nell'umiltà e nella fede, abbandono nella fede e nell'umiltà. È tutta qui la vita cristiana, miei cari fratelli il fiore più alto della vita cristiana, secondo tutti i grandi dottori della spiritualità cattolica, ha una sola parola e questa parola si esprime così: abbandono a Dio nella fede e nell'umiltà, abbandono a Dio nell'umiltà e nella fede. Parola di umiltà, perché dice la nostra esperienza psicologica, che si esige una liberazione da noi stessi; parlo di fede, perché questa liberazione può avvenire soltanto nella misura che veramente ci doniamo a un altro che prende le redini della nostra vita, che prende il timone della nostra nave e Lui stesso ci conduce.
Ecco, miei cari fratelli quello che vuole da noi questa festa del santo Natale. Noi non celebriamo ora la nascita, di un bimbo, celebriamo la nostra nascita in Cristo. Celebriamo la nascita del Cristo in noi, celebriamo il rinnovamento profondo del nostro essere che finalmente preso da Cristo, posseduto da Cristo, diviene come una umanità nuova nella quale il Cristo vive ora il suo mistero. Non è dunque la nascita di un bimbo, avvenuta duemila anni fa, è quello stesso mistero fatto presente in me, vissuto da me. La celebrazione del Natale non è la celebrazione di un evento lontano, è la celebrazione di un evento che è l'evento della mia vita, il mio inserimento nel mistero. Non c'è divisione fra me e Cristo; la distinzione delle persone è in ordine all'unità, come diceva Maritain: distinguere per unire. La distinzione delle persone è in ordine all'unità della vita, all'unità del mistero, Cristo Gesù.
Miei cari fratelli, che cosa meravigliosa sarebbe se da oggi in avanti noi sapessimo rinunziare alla nostra volontà, ai nostri, progetti, alle nostre ambizioni, al nostro attaccamento alle cose, al nostro attaccamento alle persone, al nostro attaccamento a noi stessi, alla nostra medesima vita e ci lasciassimo possedere da Dio. Che cosa grande sarebbe se veramente da oggi in avanti non vivesse più in noi che Lui solo.
Ma è questo che dobbiamo volere, cioè volere la nostra morte, come si diceva nella prima meditazione che abbiamo fatto stasera. Volere la nostra morte perché si possa vivere una partecipazione alla risurrezione; la quale risurrezione non è il ritornare alla vita di prima, ma far sì che la nostra umanità, investita dalla potenza dello Spirito, non viva più ora che la vita di Cristo Signore.
E tutto questo è vero; è vero per chi vive la vita contemplativa, è vero per chi vive la vita dei voti, è vero per chi vive nel terzo grado, è vero per chi vive nel quarto grado: Non c'è differenza soggettivamente, perché soggettivamente ciascuno deve vivere ugualmente questo abbandono al Signore, non si appartiene più. Proprio perché non si appartiene Dio può chiamare uno nel matrimonio e invece chiamare l'altro a una vita di castità perfetta, o a una vita di preghiera perpetua. Non ti appartieni, lascia che Dio viva in te e non prescrivere tu il cammino; lascia che Egli abbia ogni diritto su di te e non ti sottrarre alla sua potenza di amore. Abbandonarsi al Signore come la Vergine. Io vi chiedo precisamente solo questo, soltanto questo, Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum. Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola. E anche le altre parole sono le parole di Gesù: Ecce, veni ut faciam voluntatem tuam. Ecco, vengo; questo è il nostro Natale. E tanto più sarà vero e tanto più lo celebreremo con verità, quanto più questo abbandono sarà pieno, perfetto. quanto più questo abbandono sarà puro, totale, senza ritorni su di noi sapendo che all'atto dell'abbandono di noi stessi al suo amore, segue soltanto il possesso di Dio; e Lui solo avrà diritto su di noi, sulla nostra vita e sulla nostra morte, sul nostro lavoro e sui nostri sentimenti, su tutto quello che noi dovremmo fare e su tutto quello che dovremmo patire, Lui solo ha questo diritto. Non abbiamo più nulla da chiedergli tranne che in noi venga meno ogni ricerca di noi stessi, venga meno ogni nostra volontà, ogni nostro desiderio, e rimanga vivo Lui solo. Sapendo che se rimane vivo Lui solo non abbiamo nulla da perdere, ma vivendo Egli in noi, vivrà in noi l'amore infinito, vivrà in noi l'amore perfetto, vivrà in noi l'amore eterno.
Omelia Prima Messa - 24 dicembre 1983: Lc 2, 1-14
"Oggi vi è nato un Salvatore"

Miei cari fratelli, l'annuncio dell'angelo è stato ripetuto per noi in questa notte e l'annuncio è incredibile, è impossibile credere quello che gli angeli anche stasera ci hanno ripetuto: un Dio è nato per noi.
Chi siamo noi perché Dio ci conosca e ci ami? Chi siamo noi perché un Dio si debba fare uomo, bambino, nella povertà della sua nascita, per me? È possibile credere, è possibile davvero pensare che la nostra umile vita debba essere non solo conosciuta da Dio, ma il termine di questo amore infinito? Dagli abissi del cielo Egli è disceso fino a me e mi ha donato Se stesso.
Troppo grande è quello che la Chiesa ci insegna, perché noi riusciamo anche soltanto a pensarlo. È giusto che il mondo di oggi veda nel cristianesimo un mito. Si esige davvero qualche cosa di eroico nella fede, per credere all'annuncio che ci è stato fatto stanotte. Sono amato da un Dio, un Dio mi ama, un Dio che vuol vivere per me, un Dio che si fa bambino perché io lo porti sopra le braccia, un Dio che aspetta da me di esser nutrito, difeso, protetto. Già incomprensibile il fatto che abbia voluto che io nascessi, che Egli abbia voluto che io fossi; quale ragione vi era perché dal nulla io comparissi all'esistenza e mi fosse donata una vita che non conosce più fine? Già incomprensibile il fatto che Dio fin dall'eternità abbia voluto pensarmi, ma è veramente impossibile anche a pensare che questo Dio non mi abbia voluto creare che per darmi Se stesso infinito.
Che cosa dunque ha attirato a me il suo amore immenso? Quale ragione al suo amore? Io che mi sento così indegno di avere anche altri che mi pensi e mi ami, debbo credere che Dio stesso, l'Infinito, l'Eterno, voglia vivere per me, voglia morire per me, voglia farsi mio cibo, voglia divenire il compagno di tutta la mia esistenza, voglia essere Lui la mia ricchezza e la mia gioia, la mia vita. Miei cari fratelli, è difficile crederei e penso che nessuno veramente creda, perché, se credessimo, la nostra vita quaggiù sarebbe già paradiso. Che cosa importano tutte le malattie, tutte le disgrazie, tutte le rovine? Che cosa importano se ci sentiamo amati da un Dio? Come potrebbero mai tutte le sofferenze, tutte le umiliazioni, togliere qualche cosa alla nostra gioia, alla pienezza di questa gioia che ci dovrebbe riempire e colmare? Ma noi non possiamo avere questa, gioia perché non sappiamo credere di esser; amati così.
Il Natale non è una festa soltanto di tenerezza perché è nato un bambino, ma perché nel bambino che è nato è Dio stesso che ci ha rivelato il suo amore, e il suo amore è immenso, e il suo amore è infinito. Tanto ci ama che non è Lui che sembra volerci donare ogni cosa, è Lui, piuttosto che aspetta da noi la sua vita. Sì, perché proprio questo è l'amore; chi ama non è consapevole di donare, ma trova in quello che riceve la sua gioia. Così Dio non ha la sua gioia e la sua vita che in questo: nell'esser portato sulle braccia dalla sua Vergine Madre, nell'essere stretto al suo seno, nel sentirsi protetto e difeso dalle braccia materne, da noi, che pure siamo sue creature. Questo è l'amore che Egli non ci dona, ma accetta e vuole in quello che noi gli doniamo, vuole trovar la sua vita, vuol avere la sua gioia e la sua ricchezza.
Possibile che Egli aspetti qualche cosa da me? Eppure facendosi bambino, Egli deve aspettar tutto da me. L'amore veramente ha trasformato veramente i ruoli, Dio che è l'Immenso, ecco, si fa più piccolo di me, per essere, dicevo, da me difeso e protetto. Lui che è l'infinito, si fa debole perché io debba essere la sua forza; si fa impotente perché io debba essere la sua difesa e la sua protezione.
No, non e possibile credere, troppo grande, ci ha amato troppo, perché noi potessimo veramente accettare di essere amati così, finché ci amava per darci il suo paradiso, l'avremmo accettato, ma è troppo quello che Egli ci dà e non so che farmene nemmeno del paradiso, dal momento che mi ha dato Se stesso e che ha voluto, oltre che a darmi Se stesso, ricevere qualche cosa da me, come se io fossi la sua vita e la sua gioia.
"Oggi vi è nato un Salvatore", diceva il testo liturgico, ma Dio non dice questo quando nasce. Quando nasce Egli piange, vagisce perché vuole il latte della Madre, perché vuole che la Madre lo stringa al suo petto perché non senta più il freddo della notte. È Lui che chiede qualcosa, Lui che ci dà tutto. Eppure, finirà la Messa e noi andremo a dormire. Finirà la Messa e noi continueremo a vivere come se nulla fosse avvenuto: possiamo dire di credere? Possiamo dire davvero che il messaggio cristiano veramente è stato accolto da noi? Com'è possibile che possa dire di credere, quando io posso ancora mangiare e bere e vivere come sempre e non morire di amore dinanzi a tanto amore che Egli ha avuto per me? No, non so che farmene di una vita buona, di una vita santa, l'unica cosa che voglio è morire davvero di amore come Egli è morto, morto per me così. Che me ne faccio della santità e del paradiso? Ho ricevuto ben di più della santità e del paradiso se Egli si è dato a me, se veramente Egli ha voluto essere tutto per me?
Miei cari fratelli, una cosa chiedo per me e la chiedo anche per voi, che riusciamo a credere un poco di essere amati così, ma crederlo veramente. Allora la nostra vita non potrà non cambiare, allora la nostra vita non potrà non essere nuova, una festa, una gioia immensa, pur nella debolezza di questi giorni di vita, pur nella povertà della nostra esistenza terrena. Pensa forse, un innamorato, uno che sposa, alle difficoltà della vita, al lavoro che lo attende, alla pazienza che dovrà avere coi datori di lavoro, alla salute che può mancare? A nulla può pensare, l'amore è sufficiente a se stesso, l'amore può coprire ogni cosa, farci dimenticare di tutto, l'anima che ama già vive fuori di sé. E noi, noi che siamo amati da un Dio e che dobbiamo amarlo, perché Egli ci chiede questo amore - e non so che se ne faccia - noi che dobbiamo amarlo, noi non riusciremo ancora a vivere senza essere ebbri, senza uscire fuori di noi stessi, senza far della nostra vita un solo volo di amore, un solo canto di amore? No, credo che veramente non crediamo, credo che sia tutta una menzogna quello che noi diciamo di credere.
Ma stasera noi vogliamo accogliere l'annuncio dell'angelo; Egli è nato per me "Vi è nato" - dicevano gli angeli ai pastori e ce l'ha ripetuto la Chiesa - è nato per me, è nato per voi. Non è un fatto lontano, non è un avvenimento che non ci riguarda, è l'unica cosa che ci riguarda, perché nessuno vive per noi, nessuno è per noi come lo è il figlio di Dio, nella sua umiltà, nella sua morte di croce; Egli non ha per termine che me, non vede che me, non vuole che me, a me totalmente si dona. Questo è l'annuncio. E io chiedo, per me e per voi, che sappiamo accettare l'annuncio, accogliere questo dono di amore, credere a questo amore infinito, abbandonarci a questo amore infinito, lasciarci possedere da questo amore infinito, lasciarci colmare da questa pienezza di amore per trasformarci anche noi davvero, in una risposta sia pure di amore povero, ma trasformati in amore anche noi, per vivere nella gioia di essere amati e di amare Colui che tanto ci ha amato.
In questa notte del mondo, finché non sorga la luce del giorno ultimo e noi lo possiamo vedere faccia a faccia, che prosegua il nostro cammino verso di Lui nell'umiltà e nella pace, nella fede e nell'amore e sia domani una festa, la festa che non termina più nel possesso eterno di quel Dio che così tanto ci ha amato e ha voluto essere per noi la gioia eterna del cielo.
Omelia 2a Messa: Lc 2, 15-20
L'annuncio traboccante di gioia dei pastori: l'interiorità e il silenzio di Maria

Due sono gli atteggiamenti che il Vangelo riferisce, a proposito dell'incontro degli uomini col mistero di Dio. I pastori ascoltano, vedono e poi riferiscono a tutti. Ritornano, dopo aver veduto il Signore lodando e glorificando Dio. È uno degli atteggiamenti propri dell'uomo davanti al mistero divino. L'altro è l'atteggiamento di Maria. "Ella serbava tutte queste cose - dice il Vangelo - meditandole nel suo cuore". Sono due atteggiamenti non solo legittimi, ma sotto certi aspetti anche necessari, e non voglio nemmeno dire quale sia il migliore, voglio sapere soltanto da me che cosa vivo, perché l'avvenimento è sempre presente. L'evento del Cristo per un cristiano, per uno che ha fede, è il contenuto stesso della sua vita. Vivere al di fuori di un rapporto con tale evento, vuol dire non essere più cristiano.
Che cosa vivo? Rendo veramente testimonianza di quello che ho veduto? "Riferirono tutto quello che avevano udito e visto", i pastori. Io parlo: la mia parola è veramente testimonianza di quello che ho veduto, di quello che io stesso ho udito? D'altra parte, il ritornare in mezzo agli uomini, come fanno i pastori, non può avere altra ragione, altro contenuto che quello di rendere testimonianza del Cristo.
Se vivo ed ho rapporto con gli uomini - sacerdoti, suore, giovani, anziani - se debbo vivere un rapporto con gli uomini di questo tempo, tale rapporto non deve, non può avere altro contenuto che quello di rendere testimonianza, e non si rende testimonianza se non di quello che abbiamo veduto.
Possiamo dire noi di essere testimoni veraci? Che cosa abbiamo visto: Settignano, il cupolone o Gesù? Che cosa abbiamo visto? quello che c'è in dispensa o Gesù? Che cosa abbiamo visto? Il ciclostile o Gesù? Qual è il contenuto della nostra vita? Si sogna soltanto l'evento cristiano o veramente si ha un impatto con questo evento? o veramente questo evento costituisce il contenuto della nostra vita interiore, della nostra vita umana? Che cosa vivo? Vivo il mio contatto col Cristo, un contatto reale? Veramente il Cristo è reale per me? Questo è fondamentale perché se Egli non è reale, se non lo vedo, se non ho veramente un'esperienza di questa Presenza, che cosa posso dire al mondo, che cosa posso portare agli uomini? Ed ecco perciò quello che il Signore mi chiede: una fede così viva che la realtà d'una Presenza si imponga al mio spirito più di quanto non si imponga la realtà di questo mondo. Se per me è più reale il mondo nel quale vivo dell'evento salvifico, io ancora devo essere evangelizzato; non posso essere il testimone, devo piuttosto ricevere la testimonianza di chi ha veduto.
"I Pastori riferirono tutto quello che avevano udito e veduto". Ecco che cosa diviene la vita dei pastori, una volta che hanno veduto Gesù. Non possono far altro, e riferire tutto quello che hanno udito e veduto, vuol dire lodare e glorificare Iddio. Certamente avranno continuato anche a pascolare il gregge, ma in fondo, tutto quello che avevano vissuto finora, ora aveva un altro contenuto per loro. Dovevano pascolare, ma in fondo essi sentivano che qualche cosa di nuovo era entrato nella loro vita; erano stati testimoni di un evento che li superava, che non soltanto non potevano dimenticare, ma era il contenuto unico della loro esperienza, perché questo solo ricordavano e di questo solo essi parlavano. Ed ecco noi viviamo qui, in questa casa e in questa casa è presente il Signore. In che misura la presenza del Signore è veramente la realtà più grande della nostra vita? In che misura la presenza reale del Cristo in tal modo ci prende da non lasciare a noi la possibilità di distrarci, di pensare ad altro, di vivere altra cosa? È uno degli atteggiamenti propri di chi ha veduto. L'altro atteggiamento è quello di non entrare più in rapporto con gli uomini, ma di affondare nell'intimo. Tutta la vita diviene puro silenzio, un affondare nel cuore.
"Serbava questi avvenimenti meditandoli in cuor suo". È la Vergine. La vita allora non è più il rapporto con gli uomini, non è più quello che si fa, non e più dove si vive, è un affondare sempre più in questa Presenza del Cristo. L'incontro col Cristo non diviene per noi l'occasione di un ministero, di una testimonianza che dobbiamo rendere, diviene piuttosto l'inizio di una vita che sempre più ci seppellisce nel silenzio di Dio, che sempre più ci fa affondare in questo silenzio. Quale vita è più importante? Non si può nemmeno porre questa domanda, perché i pastori dovevano lodare e glorificare Dio, dovevano riferire quello che avevano visto e udito; gli angeli li avevano chiamati alla grotta proprio perché essi dovessero essere i primi testimoni del Cristo, e non potevano rifiutarsi di rendere questa testimonianza, mentre questo non era chiesto a Maria. Maria doveva invece sempre più affondare nel silenzio. Tutta la vita di Maria è all'inizio del Vangelo, poi Sparisce. Come si diceva ieri, Ella non è associata alla vita pubblica di Gesù, non partecipa al potere dei suoi miracoli, non partecipa alla sequela del Cristo, come discepola che ascolta. Rimane nella sua casa per meditare nel cuore un avvenimento solo, l'avvenimento di questa nascita; l'annunciazione dell'angelo, ma soprattutto la nascita del Figlio di Dio da Lei, furono l'unica sua vita. Poteva vivere arche molto di più di quello che ha vissuto, Ella non poteva uscire da questa meditazione, da questo affondare nel cuore meditando questo avvenimento che l'aveva coinvolta, perché Lei non vede soltanto, non ascolta soltanto. Nel vedere e nell'ascoltare sì rimane passivi; l'Evento si fa manifesto a noi, ma noi non lo compiamo, invece Maria e Gesù, lo vivono in modo quasi uguale. Lui in quanto nasce. Lei in quanto né è la Madre. L'evento del Cristo è il suo medesimo atto, ed Ella, non ne esce più, questo atto diviene sempre più interiore ed Ella vi rimane meditandolo. È certo che in questa meditazione Ella sempre più sfugge al tempo che passa, si sottrae alla differenza dei luoghi. Prima che Egli nascesse era andata in montagna a trovare la sua parente lontana Elisabetta, che doveva partorire, poi il Vangelo non ci dice più nulla. Dove è stata? che cosa ha fatto? Non ha fatto nulla, non è stata in nessun luogo, perché se anche è potuta andare negli altri luoghi, queste cose non la riguardavano; quello che ha vissuto non la riguardava, Ella ha vissuto soltanto l'Evento, e giustamente. L'Evento era talmente grande che poteva benissimo sempre più meditarlo e non trovarne fine.
E se io debbo parlare agli altri rendendo testimonianza di quello che ho veduto e udito, e debbo anche nella misura che veramente questo evento si è fatto presente per me, debbo vivere questo evento, devo sempre più rendermi conto che la molteplicità dei luoghi e delle azioni non costituiscono la mia vita. La mia vita diviene sempre più la Presenza, la presenza del Cristo. Essere qui o altrove, fare una cosa o l'altra dev'essere così relativo per me che non deve nemmeno toccarmi questa molteplicità delle azioni, questa molteplicità, dei luoghi, questo passare del tempo. La sua Presenza è talmente grande che veramente relativizza ogni cosa; Egli rimane per me l'unica vita.
Ecco, sono questi i due aspetti d'una vita cristiana e non vi è altra vita cristiana che in questi due elementi. Uno dice il nostro rapporto con gli altri, come contenuto di questo rapporto abbiamo il rendere testimonianza di quello che abbiamo visto e udito. Ma vi è una vita più fonda ed è la nostra vita intima, è il nostro vivere non in quanto siamo in rapporto con gli altri, ma in quanto noi siamo rapporto con Dio. Se l'abbiamo incontrato, in questo evento noi dobbiamo sempre più inserirci e vivere questo: la presenza del Cristo; solo la presenza del Cristo, la presenza del Cristo che è nato per me.
Questo, miei cari fratelli, dev'essere tutta la vita, questo. Certo, Dio mi chiede anche di rendere testimonianza, ma tuttavia questo elemento, pur essendo necessario, non è il principale. L'evento principale della vita cristiana è espresso chiaramente in quello che dice il Vangelo di Maria Santissima: serbare nel cuore, meditando, affondare nell'Evento, vivere l'Evento, l'evento del Cristo: Viviamo questo? Che cosa è per noi veramente vivo? Le notizie che ci dà il giornale, la radio, che cos'è per noi veramente reale e vivo? Sono gli avvenimenti che intessono la nostra vita o la presenza di Lui, del Signore? Certo, è un po' diverso per noi il vivere nella fede e il vivere nella visione, è un po' diverso, e tuttavia non è così diverso che non vi sia una continuità: La presenza del Cristo già ora - dicevo prima - relativizza ogni luogo e ogni tempo. Quando saremo nella vita futura, liberi da questo legame col mondo, davvero la presenza di Dio sarà tutta la nostra eternità; non vivremo un altro atto, vivremo in Cristo la visione di. Dio. Ma ancora qui noi dovremo sempre più raccogliere, riassumere tutta la nostra vita interiore in questo vivere la Presenza. A questo ci chiama proprio la Comunità dei Figli di Dio, se veramente noi dobbiamo rendere testimonianza del primato delle virtù teologali. La fede ce lo fa vedere, la speranza ce lo fa in qualche modo possedere, e la carità in Lui ci trasforma sempre più, ci fa una sola cosa con Lui.
Vivere la fede, la speranza e la carità come la fede, la speranza e la carità l'ha vissuta Maria, la Vergine santa.
Che il. Signore ci aiuti a vivere questi due elementi della vita cristiana, così ben caratterizzati, nel Vangelo di questa Messa.
Omelia 3a Messa: Gio 1, 1-18
"Il Verbo che era presso Dio si è fatto carne"

Poco tempo fa mi telefonava una persona. Ho interrotto la telefonata perché al telefono non faccio conversazione, ma la mia risposta era anche una reazione, piuttosto secca, a un suo discorso, che vanificava per sé il cristianesimo ed era questo: non capiva che cos'era la nascita del Cristo se in fondo questa nascita lasciava il mondo nel dolore, nella pena. "Vengo dall'ospedale diceva - c'era una mamma che assisteva il bambino morente". E io dico che la morte è nel conto, morirà anche lei, morirò anch'io, morirà questo figliolo e morirà poi anche la mamma. Non si può distruggere il cristianesimo in questo modo. Se il cristianesimo dovesse oggi essere soltanto una panacea per i mali di quaggiù, non saprei di che farmene. Ma è tutto qui invece il cristianesimo - l'avete ascoltato - lo splendore della Sua gloria, "il Verbo che era presso Dio si è fatto carne", è l'incontro dell'uomo con Dio. Di fronte a questo incontro tutti i mali del mondo spariscono, non hanno più nessun senso e nessun peso.
È evidente che per dare una garanzia che questo è avvenuto, Dio potrà dare dei segni. Ci sono i miracoli anche nel Vangelo, ma anche i miracoli hanno lasciato il mondo come l'hanno trovato. E questi segni ci saranno, ma non sono quelli che determinano la grandezza del cristianesimo. O noi accettiamo che veramente Dio si è fatto uomo, che Dio veramente ci ama o altrimenti lasciamo il cristianesimo, perché il cristianesimo diventa una pura menzogna. I segni non sono ciò che distingue la natura del cristianesimo, ma il cristianesimo è questo: un Dio che ti ama, un Dio che si è fatto uomo per te. Se tu accetti questo tutto è accettato, è accettato il miracolo ed è accettata anche la lebbra. Bisogna capire che cos'è il cristianesimo e smettiamo di strumentalizzare Dio per i beni di quelli due giorni che vivremo ancora quaggiù. Bisogna renderci conto che il cristianesimo è tutto qui: l'Infinità, l'Eterno che si è fatto uomo per me; l'Infinito e l'Eterno che mi ama. Tutto qui è il cristianesimo. Ed è naturale che in questa vita presente l'amore stesso di Dio non può darmi prova di Sé, perché io non sono capace di accogliere l'immensità del suo amore. Direi che l'immensità del suo amore mi schiaccia, mi distrugge proprio perché che cosa sono io, povera creatura, per reggere all'immensità di questo amore, per reggere al peso di questa gloria, per poter anche avere un'esperienza dell'amore di Dio?
Certo, se veramente Egli si dona a me, non posso che morire. La morte è nel conto, precisamente nel conto, guai se non fosse nel conto. Non so che farmene di questa vita se questa vita non è per me l'attesa beata del mio incontro con Lui, quando nella mia natura, potrò sostenere questo peso, quando nella mia natura potrò vivere veramente l'esperienza di questo amore ineffabile.
Oggi è bella anche la lebbra, oggi è bella qualunque cosa, perché, in fondo, nessuna cosa quaggiù potrà essere per me la misura di questo mistero immenso. Di fatto noi crediamo che Dio si è fatto uomo e lo vediamo fatto uomo in una grotta, e lo vediamo bambino che non sa nemmeno parlare; lo vediamo in un bambino che non sa nemmeno difendere se stesso. Ma è questo l'amore di Dio. Se noi volessimo riconoscere Dio dalla grandezza che può manifestare nella vita presente, questo Dio sarebbe un giocattolo qualunque. Che cosa sarebbe se Egli trasportasse anche i monti? Oggi la scienza può fare questo e anche altro. Che Dio sarebbe? un Dio da baraccone, un Dio da fiera. Dio è Dio e se Egli è Dio, Egli vince infinitamente ogni mio pensiero, Egli vince infinitamente ogni mia attesa umana. Noi dobbiamo saper accettare Dio proprio nella nudità di una vita spoglia, proprio nell'umiltà di una vita che non ha alcun splendore; proprio perché non dobbiamo mai identificare Dio ai suoi doni. Il dono di Dio supera tutti i suoi doni, e per riceverlo bisogna che Egli ci spogli di tutto. Non chiediamo al cristianesimo nessun rimedio ai mali di quaggiù. Anche se qualche cosa il cristianesimo fa, è semplicemente per dare garanzia di quello che farà o meglio sarà con la manifestazione ultima del Cristo. Dio è l'Infinito, miei cari fratelli. Proprio per questo dobbiamo credere a Lui nello spogliamento di tutto; Egli ci ha lasciato quello che siamo, ci ha lasciato nella nostra povertà umana, ci ha lasciato ancora a risolvere tutti i nostri problemi, per i quali si tratta di mangiare, di vivere, di vestirsi. Ha lasciato a noi di far tutto questo e ci sembra davvero che il cristianesimo abbia veramente lasciato il mondo come l'ha trovato. È la fede soltanto che ci fa catapultare nel mondo di Dio. Dio, che è l'Amore, mi ama, Dio.
Ecco quello che devo credere. Per questo posso rinunziare, voglio rinunziare, chiedo a Dio di saper rinunziare ad ogni dono di orazione, che voglia pretendere di darmi una certa esperienza di Lui. Come più grande è l'aridità dei santi! Come più grande è lo spogliamento totale a cui Egli riduce le anime che Egli maggiormente ama. La semplicità, la povertà della vita di Maria, che è la Madre di Dio! La semplicità, la povertà, l'umiltà della vita di Giuseppe che è stato scelto per essere "l'ombra del Padre".
Miei cari fratelli, sappiamo vivere questo Natale, perché il Natale è questo: la contemplazione del Figlio di Dio, la visione del Figlio di Dio e l'umiltà di un bimbo che vagisce. Questo è il Natale.
Ci sono tanti bambini che nascono. Il Natale non e il fatto del bambino che nasce, e il fatto che in questo bambino Dio si fa a me presente, Dio è tutto per me. Questo è il Natale. Saper vedere nel l'umiltà di questo segno, che è il sacramento primario della Divinità: "Nessuno ha visto Dio, l'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre, Egli ce l'ha rivelato" - saper riconoscere in questo segno di umiltà, di povertà estrema, l'immensità dell'amore. Ecco che cos'è il Natale, ma in questa umiltà, ma in questa povertà. Quando faceva i miracoli - per questo nostro Signore non voleva farne - gli uomini erano portati a strumentalizzare Dio, facendolo servire ai loro bisogni umani. Invece Maria non ha chiesto alcun miracolo, è vissuta nell'ombra, nel silenzio, nell'umiltà. E nell'umiltà e nel silenzio ha contemplato il mistero che si era compiuto per Lei ed in Lei, la divina Maternità.
È questa la vita dei santi: riconoscere nell'umiltà di una semplice vita, la presenza immensa di Dio, la presenza ineffabile dell'Amore. È questa la vita dei santi, saper riconoscere nel fallimento umano, la Presenza ineffabile di un Dio che ci ama.
Com'è più bello il fallimento di ogni successo, com'è più bello, perché altrimenti troppo spesso potremmo identificare il successo con Dio; si vedrebbe l'amore di Dio solo in quello che Egli ci fa, per venire incontro ai nostri miserabili desideri, alle nostre miserabili ambizioni; giustamente, se Dio si dona, deve spogliarci di tutto, per colmarci di Sé, ed Egli è il nulla di tutto.
Oh, saper vivere come Maria l'incontro con Dio, il possesso di Dio nella povertà più totale, nell'umiltà più profonda, nel silenzio più puro. Ecco, miei cari fratelli, il cristianesimo. Il cristianesimo è Dio, non è la pace della nazione; il cristianesimo è Dio, non è la concordia dei cuori; il cristianesimo è Dio; non è nemmeno la nostra gloria, la nostra santità futura. Non so che cosa farmene, perché non so che cosa farmene di me, perché voglio Lui. Che Egli sia, ed Egli è e si fa presente a me precisamente nello spogliarne di ogni mio pensiero, di ogni mio sentimento; si fa presente Lui, Lui nel segno più povero.
Miei cari fratelli, è questo il Natale. Lo possiamo celebrare stasera come lo celebrò la Vergine Maria nella grotta di Betlem. Siamo qui poche persone, non c'è nessuno di fuori, e qui tuttavia non è nulla di meno grande di quello che si compì allora: Dio è qui presente per te, Dio è qui presente per noi. "Ecco ci è nato un pargolo, ci fu largito un Figlio"; proprio questo era l'Introito della Messa che noi celebriamo oggi. Puer natus est nobis, et Filius datus est nobis, un Figlio ci è stato donato, un pargolo è nato per noi, per noi, ed è Dio. Vederlo, vivere con Lui, come viveva Maria, nella semplicità, della più umile vita.
Quando si scende in refettorio a mangiar le patate lesse, quando si scende in biblioteca per scartabellare i libri, sapere che Dio è presente ed è tutto per me. Che cosa cerco? che cosa posso volere di più grande? C'è qualche cosa di più grande che Dio mi può dare, più di Se stesso? Ed Egli si dona a me in questa umile vita. Non ho bisogno di successi, non ho bisogno nemmeno della salute, non ho bisogno di nulla; ho bisogno soltanto di una fede che mi apra gli occhi, per poterlo contemplare, "Quello che i nostri occhi hanno contemplato...". L'abbiamo noi contemplato, Gesù vivente in mezzo a noi, presente qui con noi, ecco la vita, miei cari fratelli. E questa vita è più grande del Paradiso, perché se il Paradiso non fosse questo, veramente ci potrei rinunziare e ci rinunzierei volentieri, subito e qui. Il Paradiso è Dio che si dona; Egli si dona a me ora, sotto questo segno, domani si donerà invece nella visione pura. Se il segno lo nasconde, anche realmente lo dà e non c'è differenza fra me che vivo qui nell'ombra della fede e i santi che vivono nella visione, perché Dio rimane lo stesso. Dio, ed è l'infinito Amore, Dio, ed è l'immensità dell'Amore.
Come si diceva ieri, questo è il Natale. Dio ha manifestato la benignità - dice il greco la filantropia - l'amore di Dio per gli uomini nel bambino che nasce. Che noi sappiamo contemplare questa immensità dell'Amore per vivere nella gioia sia pure in una vita che agli occhi del mondo può sembrar la più stupida e la più vuota. Ma questo vuoto è pieno di una divina Presenza. Io lo vedo, io lo accolgo, io lo porto sulle mie braccia, io lo posso stringere al cuore. Egli è mio.
"Ci è nato un pargolo, ci fu elargito un figlio".


* * *



Il Natale continua nella nostra umile vita

Ritiro 24-25 dicembre 1984
Firenze Casa san Sergio Letture: Is 62,1-5; Atti 13,16-17;22-25; Mt 1,1-25
Prima meditazione 24-12-1984 ore 16,30
Questo ritiro è proprio a cavallo fra l'Avvento e il clima natalizio; siamo ancora nell'Avvento e alla fine già entriamo nella festa del Natale, con i primi Vespri. È importante notare la funzione che deve avere questo ritiro: di introdurci veramente nella festa natalizia. E questo impone che riviviamo in quest'ora, più che i temi dell'Avvento, i sentimenti che ispira la Liturgia dell'Avvento cristiano: è l'attesa ed è già la speranza.
Che cosa l'uomo attende? Che cosa spera? C'è una venuta che ancora attendiamo, anche se sappiamo che in senso assoluto, misteriosamente, le promesse di Dio hanno già trovato il loro compimento nella nascita del Figlio di Dio, nella sua morte e nella sua risurrezione. È un'attesa, e quest'attesa si fa veramente dolorosa, più dolorosa di quanto non fosse per Israele, l'attesa del primo avvento messianico. Proprio in forza della presenza del Cristo nei nostri cuori, proprio in forza di questa presenza di Dio nel cuore del mondo, il mondo più tragicamente ancora sente l'esigenza di quella giustizia e di quella pace che secondo le promesse di Dio, dovevano colmare la terra.
Parlo dopo la notizia terrificante della strage compiuta al Vernio. Non vi potrebbe essere nulla di più contrastante col Natale, di quello che noi dobbiamo vivere in queste ore; eppure è invece proprio quella strage che ci dice che qualche cosa ancora deve arrivare, che qualche cosa ancora deve compiersi e non si è compiuto. Dio dunque ci ha mentito? Dio veramente non ha realizzato quello che aveva promesso? Dov'è la giustizia e dov'è la pace? La violenza sembra anzi incrudelire oggi più di ieri, più dopo la venuta del Cristo, che prima della sua venuta. Notavano già infatti gli asiatici qualche decennio fa, che le guerre sono il privilegio proprio della civiltà Occidentale cosiddetta cristiana. È vero? È vero! Ma noi dobbiamo spiegare tutto questo.
Com'è possibile per noi celebrare il Natale mentre dobbiamo vivere l'angoscia di sapere tante famiglie nella desolazione, nello smarrimento, per la morte di tanti loro congiunti, voluta dall'uomo? Com'è possibile celebrare il Natale? Non è veramente una menzogna questa celebrazione? Ripeto: Dio ci ha mentito? Ed ecco allora quello che noi dobbiamo cercare di comprendere.
Forse anche prima della venuta del Cristo avvenivano stragi e stermini: basta leggere un po' l'Antico Testamento, basta conoscere la storia degli antichi imperi; Assiro-Babilonese, Persiano, Romano. Forse avvenivano anche prima queste stragi, pure non erano sentite così dolorosamente come sono sentite oggi, non erano considerate una prova della inesistenza di Dio, come invece oggi il popolo le considera. Perché? Come mai nei confronti di quello che avvenne a Stalingrado e di quello che avvenne nelle camere a gas durante l'ultima guerra, molti hanno perduto la fede, molti hanno detto che era impossibile ormai accettare Dio? È che, precisamente, Dio vivendo nel cuore dell'uomo, fa sentire ancora più dolorosamente non solo l'iniquità, ma la gravita della violenza, dell'odio e della morte. Proprio Dio, che vive nel cuore dell'uomo, ha reso più sensibili gli uomini nei confronti di questi fatti, che sembrano dover negare una Provvidenza divina.
È certo che questi fatti però ci mettono nella condizione di dover capire meglio quello che è il Cristianesimo, senza falsi intendimenti e senza voler ad ogni costo presentare un Cristianesimo che non è quello vero. Noi infatti presentiamo sempre un Cristianesimo falso, tutti noi, cominciando da coloro che dovrebbero predicare la verità. Il Cristianesimo non ha operato nulla sul piano cosmico, nulla sul piano sociale, nulla sul piano psicologico. O accettiamo un Cristianesimo così, o altrimenti dobbiamo dire che tutto è una menzogna, e allora il Natale è soltanto una bella favola per i bambini, e noi che non siamo più bambini, di fronte a una strage come quella che è avvenuta, non possiamo nemmeno vivere il Natale come una favola.
Nell'antichità anche lo scatenamento delle guerre e della violenza, l'ambizione degli imperi che volevano fare di tutta la terra un deserto, potevano sembrare dei fatti ineluttabili come i fenomeni cosmici, perché non vi era la grazia, non vi era Dio che viveva nel cuore degli uomini, e dominando allora il peccato e il male, era naturale che nulla potesse opporsi al male e alla violenza dell'uomo. Anche l'uomo, peggio ancora delle forze della natura, era una forza selvaggia che nessuno poteva dominare. Ma oggi non è più così. E Dio che vive nel cuore dell'uomo fa sentire ancora più paurosamente il contrasto fra questa esigenza di ordine, di pace, di gioia, di vita e lo scatenamento dell'odio e della violenza al quale assistiamo.
Ha potuto per lunghi millenni la Cina vivere in pace l'ordinamento del tutto ingiusto che era proprio della società cinese, come di ogni altra società, come del Giappone, eccetera, e nessuno si ribellava; c'era una rassegnazione passiva. Col Cristianesimo la rassegnazione passiva non c'è più, non può esserci più; io non posso accettare questa violenza, non posso accettare questo odio, ripugna tutto l'essere mio il quale, proprio perché in esso vive Dio, ha questa volontà di pace e di amore e allora noi viviamo l'Avvento.
Il Cristo che vive nel cuore del mondo fa sentire ancora di più l'esigenza che questo mondo si trasformi, che questo rapporto degli uomini sia totalmente diverso, non dominato dall'orgoglio, dalla violenza, ma dall'amore. Ma quando sarà? Noi viviamo stasera il passaggio dall'Avvento al Tempo natalizio, ma questo passaggio lo vivremo ancora sul piano reale dal primo Avvento al secondo Avvento? Addirittura, per il secondo avvento del Cristo, che sarà proprio il ristabilimento della pace e la vittoria del bene, sono annunciate catastrofi dal Nuovo Testamento; non un processo ordinato verso la pace, ma catastrofi. E ci sembra davvero che la violenza di questi ultimi anni, le minacce che pesano sull'umanità in questi anni, siano il preludio di grandi dolori. Io non so; sarei un profeta bugiardo se dovessi dirvi che so se siamo alla fine. Tuttavia debbo dire che questi avvenimenti sono quelli che Dio stesso ha annunciato; venuto nel mondo, vivendo nel mondo, morendo per noi sulla croce, questo ci ha annunciato. Non ci ha annunciato una pace esteriore, una pace sociale. Per questo tante volte vi ho detto che certi discorsi sulla pace mi sanno di demagogia, anche se fatti da uomini fra i più autorevoli del Cristianesimo, perché nostro Signore non ha promesso la pace; la pace verrà soltanto alla sua seconda venuta, quando veramente trionferà sul piano anche sociale, sul piano anche cosmico. Ed Egli apparirà non più nell'umiltà di un Bambino, non più nella passibilità di un Uomo che muore sulla Croce, ma apparirà nella gloria. Solo allora. Oggi invece Gesù stesso vive non solo a Betlem, non solo a Gerusalemme, ma in tutti noi che siamo le sue membra, l'umiltà di Betlem, l'ingiustizia, l'invidia, la gelosia, l'odio del popolo giudaico che si accanisce contro di Lui, dell'umanità che si accanisce contro gli innocenti.
È questa la situazione del Cristianesimo, dobbiamo rendercene conto. Dobbiamo renderci conto che noi non possiamo essere cristiani che vivendo l'umiltà di Betlem e la morte di Croce. Se non fosse cosi dovremmo rinunciare ad essere cristiani, dovremmo dire che è tutta una favola, tutta una menzogna il Cristianesimo: "Tutte queste storie buttiamole via, viviamo la nostra vita, sia pure nel buio di una assurdità (perché veramente ci sarebbe soltanto l'assurdità nella vita nel mondo), nel piano di un'assurdità universale". È quello che hanno fatto molti cristiani i quali hanno rinunciato ad esser cristiani e sono caduti nell'ateismo. Gli atei di Europa sono atei in gran parte per colpa della predicazione cristiana; sì, proprio in forza anche della predicazione cristiana, che ha promesso a questi uomini quello che il Cristianesimo non ha dato.
Il Cristianesimo ha dato la grazia, ha dato di vivere quello che ha vissuto il Figlio di Dio quando è venuto nel mondo. Era il Figlio di Dio ed è vissuto nella povertà, nell'umiltà, ed è morto sopra una Croce; così anche il Cristianesimo continuerà sino alla fine in forza precisamente della sua risurrezione gloriosa. Noi ora siamo membra del suo mistico Corpo, ma non siamo impassibili: siamo passibili come lo era Gesù nella sua vita mortale. L'umanità passibile del Cristo, ecco che cosa continua in noi. E la nostra passibilità è nei confronti precisamente dell'odio, del peccato, del male che ancora domina il mondo, perché il principe di questo mondo è il Maligno. È indiscutibile, o buttiamo fuori di finestra il Nuovo e il Vecchio Testamento, oppure è incontrovertibile che è così, "Totus mundus in Maligno positus est", "Tutto il mondo è dominato dal Maligno".
Noi continuiamo il mistero del Cristo, dobbiamo saperlo; e vivremo certo il Natale, ma lo vivremo proprio in questo smarrimento nei confronti di questo odio e di questa violenza che imperversano fra gli uomini. Lo viviamo, sì, nella dolcezza di sapere che Egli è con noi, ma con noi soltanto per farci vivere il suo stesso destino di povertà e di umiltà. Ed è in questa povertà ed umiltà che noi paghiamo il prezzo della redenzione del mondo. Io vorrei dire agli atei: non illudetevi, non lasciatevi ingannare dai preti, rendetevi conto che la Chiesa salverà sempre il mondo, ma lo salverà precisamente attraverso la sua povertà, le sue crisi, la sua umiltà, la sua impotenza, come Gesù che ci ha salvato così. Ed è stupido pensare che la Chiesa possa rimediare ai mali del mondo, è perfettamente stupido; non ne ha i mezzi. È perfettamente stupido pensare che i cristiani possano cambiare il volto del mondo; perché i poteri del mondo sono in mano degli altri. Perfino i politici, anche se prima erano cristiani, divengono poi gli strumenti del diavolo.
Dobbiamo capirlo; è il mistero del Cristianesimo. Se noi accettiamo questo mistero possiamo essere cristiani, se non lo accettiamo siamo soltanto degli imbecilli a essere cristiani, perché è soltanto per gli imbecilli credere a un Cristianesimo che opera la salvezza del mondo sul piano sociale, quando sul piano sociale non vediamo altro che rovine, distruzioni e morte, quando non vediamo altro che violenza e, peggio ancora, l'ipocrisia degli uomini i quali appariscono come coloro che salvano e invece sono conniventi col male: magistrati che son legati alla mafia; politici che fanno il doppio gioco, e così via. Se vogliamo esser cristiani senza essere imbecilli, dobbiamo capire che il mistero del Cristianesimo è questo.
Se crediamo che si possa andare oltre il Cristo, possiamo rinunziare ad essere cristiani. Tutta la liturgia della Chiesa che cosa ci dice? Che il Cristo si fa presente, ma non in modo continuo. Una continuità di presenza del Cristo che importi per la Chiesa entrare nella dimensione di gloria, implica la fine di questo mondo. Quaggiù, sì, il Cristo è presente, ma è presente come quando era presente sulla terra, non di più: come era presente nel Bambino della grotta di Betlem, come era presente nell'Uomo che, sì, predicava e faceva miracoli, ma era un uomo che non aveva nessun potere, era un emarginato, perché non aveva nessuna funzione pubblica presso il popolo suo. Vi era un altro che era sommo sacerdote; vi erano altri che governavano il paese, ma Lui, Re di tutti i secoli, Re di tutti i popoli, era un Uomo che non aveva nome. E la Chiesa continua così. Ed ecco allora, se noi viviamo questo, se noi ci rendiamo conto di questo, possiamo celebrare il Natale, il Natale che è la nascita e la presenza del Figlio di Dio nella notte del mondo; la presenza di un Dio nella debolezza di un Bimbo. E anche oggi il Cristianesimo è umiltà, è dolcezza. Quali sono le virtù che maggiormente caratterizzano il Cristianesimo? Forse la forza e la potenza o non piuttosto quello che Gesù medesimo ha detto: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore". Questo è il Cristianesimo. Siamo miti per ricevere i colpi della violenza, umili per rimanere sconosciuti, per non avere potere: questo è il Cristianesimo.
È duro esser cristiani, ve lo dico e ve lo assicuro. Noi cerchiamo sempre dei compromessi, cerchiamo sempre (ed è questa la tentazione continua degli uomini di Chiesa, dei preti, dei laici, di tutti nel Cristianesimo), di voler anticipare l'era escatologica, il trionfo della Chiesa, la vittoria del bene. Il bene trionfa soltanto sulla Croce, nel martirio. Non per nulla è costante pensiero della Chiesa che i martiri sono dei vittoriosi, che la vittoria è di colui che sa dare la vita.
Che cosa vuol dire per noi dunque vivere questo Natale? Accettare di essere degli emarginati nel mondo, ma di sapere che nella nostra emarginazione, nella nostra umiltà, nella nostra povertà è propria di noi la salvezza degli uomini. Gli altri credono di salvare uccidendo, noi salviamo rimanendo uccisi; gli altri pensano di salvare il mondo, di rinnovare la società e gli uomini attraverso la forza, la potenza; noi sappiamo invece che la salvezza è opera nostra, misteriosa, com'è stata misteriosa la salvezza degli uomini quando Egli è morto sulla Croce, ed era solo, abbandonato da tutti e abbandonato dal Padre. Anche noi sappiamo di salvare il mondo. Dovete essere coscienti che la Chiesa ha sempre compiuto la sua missione, che è la salvezza degli uomini, ma l'ha compiuta così, precisamente accettando il suo destino di povertà, di umiltà, il suo destino che è il destino del Cristo, di un Dio che nasce come Uomo, nell'impotenza dell'infanzia, che vive nella povertà e muore abbandonato da tutti, sopra la Croce.
Oggi noi celebriamo il Natale. Che cos'è il Natale? Nel Natale non c'è sofferenza, la sofferenza però già si profila subito dopo, quando il Bambino deve essere difeso e salvato da Giuseppe e da Maria, in questo suo esilio, in questa sua fuga nell'Egitto. Tuttavia il Natale non è sofferenza, la Madre lo genera senza dolere, ma quale umiltà, quale semplicità e quale povertà è il segno di una presenza di Dio! Possiamo noi credere al Natale? Vediamo un poco: credete davvero che Gesù Cristo è Figlio di Dio? Dobbiamo domandarcelo perché tante volte si dice di credere, ma non si riflette su quello che si crede. Crediamo davvero che Gesù Cristo è Figlio di Dio? Quel Bambino che non sa parlare, che non sa camminare, che è bisognoso di tutto, che non ha nemmeno una casa... ci crediamo? Ebbene, se lo crediamo possiamo credere anche alla nostra grandezza, alla nostra dignità, alla fecondità della nostra vita sia pur vissuta nella più squallida povertà, nell'oscurità più fonda. Siamo cristiani! E questo vuol dire che facciamo presente oggi il mistero del Cristo. La nostra umiltà, la nostra povertà non è diversa dalla sua. Lui l'ha accettata volenterosamente, con amore; noi spesso non l'accettiamo col medesimo amore. Ma anche se non l'accettiamo col medesimo amore, Dio non ci libera dal dover vivere tutto questo. Dobbiamo e dobbiamo accettare i condizionamenti propri della nostra natura, accettarli come il prezzo che dobbiamo versare per cooperare alla redenzione e alla salvezza degli uomini.
Dobbiamo saperlo, è Gesù l'unico Salvatore del mondo. E se Gesù è l'unico Salvatore del mondo, rimane vero che siamo noi soli che portiamo agli uomini la salvezza, perché la salvezza che in atto primo Egli ha meritato non raggiunge gli uomini se non attraverso di noi. È in noi che il Cristo oggi si fa visibile e si rende operante; senza di noi non c'è salvezza.
Rendetevi conto che tutta l'attività di un cristiano non è l'esercizio di una professione: è l'esercizio, prima che di una professione, di un sacerdozio, perché il sacerdozio precede la professione. Tu, per esempio, sei un magistrato, ma prima di essere magistrato sei cristiano, non è vero? Lo sei fin da quando sei stato battezzato, e l'essere magistrato non ha cambiato la tua natura, ha soltanto fatto sì che la tua natura potesse realizzarsi nell'esercizio di una certa professione, ma il Battesimo invece ha trasformato la tua natura: ti ha fatto figlio di Dio. È una nuova nascita. E siccome il Battesimo ha trasformato la tua natura mediante il carattere, che cosa ne viene? Che "operari sequitus esse", che cioè tutta l'attività del cristiano, in forza precisamente del carattere, acquista un suo potere particolare. Anche nell'esercizio di un avvocato, di un medico, di un contadino, in tutte le attività umane, prima di tutto un cristiano è cristiano e, prima di tutto, essendo cristiano, la sua attività è attività sacerdotale del Cristo, perché anche i laici sono partecipi di un sacerdozio, e non vi è nessuna attività del laico che non sia una attività sacerdotale.
E l'attività sacerdotale del laico è precisamente le tre note che poi sono proprio le tre funzioni del sacerdozio cristiano; attraverso queste tre funzioni, tutto il mondo cristiano dona al mondo la salvezza. È vero, può essere benissimo che un avvocato ateo sia più bravo di un avvocato cristiano, è vero che vi possono essere politici che non sono cristiani e che sono più bravi dei politici cristiani. Tutto questo è vero sul piano naturale, in quanto l'attività ha la sua radice nel piano della natura; ma altre sono le capacità naturali dell'uomo, altre sono le capacità che derivano dall'uomo in forza precisamente della sua unione col Cristo. È evidente che tutta l'attività delle professioni umane, indipendentemente da questa partecipazione al sacerdozio del Cristo, non salva, perché unico salvatore - e salvatore si intende nel senso più ampio, non salvatore soltanto dell'anima, ma di tutti i valori creati- è Gesù.
Di qui ne deriva una cosa molto semplice e mi sembra che questa cosa dovrebbe essere detta anche dai Vescovi, perché è importantissima. Il cristiano non è cristiano per il fatto che diviene il servitore dei preti, che fa il sagrestano, che fa dell'Azione Cattolica, no affatto: è cristiano in forza del Battesimo, e in ogni sua attività è cristiano indipendentemente dal fatto che è nell'Azione Cattolica, che è servo dei preti e che fa il sagrestano. È cristiano, e in tutta la sua attività egli è cristiano. Allora che cosa ne deriva? Questo, dicevo: un'attività che abbia soltanto il suo fondamento nella natura non redime la natura. Allora che cosa fa? Qui continua il tema della pazienza di Dio che è uno dei temi fondamentali della Bibbia; si ritrova nella Genesi e si ritrova in uno degli ultimi scritti del Nuovo Testamento: la Seconda Lettera di Pietro. La pazienza di Dio: nonostante il peccato, Dio non vuole che il mondo precipiti nel nulla, permette un certo equilibrio in modo che, nonostante tutto, continuano le cose, ma non c'è salvezza; continuano in vista di una salvezza che il Cristo soltanto può operare. La salvezza è opera nostra perché, è opera dell'umiltà del Bambino, è opera dell'impotenza del Bimbo, è opera di questo Bimbo che nasce e ha bisogno di Maria e di Giuseppe. È opera dell'Uomo che vive nell'oscurità di Nazareth, è opera dell'Uomo che muore sopra la Croce. È opera nostra, perché noi facciamo presente il mistero di Gesù.
Perciò, miei cari fratelli, non è Cernenko, non è Reagan che guida il mondo. Anche qui c'è tutta una visione da trasformare. Noi leggiamo i giornali e ci fidiamo dei giornali: è stupido, perché se abbiamo una visione teologica, questa visione deve ispirare ogni nostra considerazione, ogni nostro pensiero: chi guida il mondo sono i santi. Misteriosamente, certo, ma sono loro. Noi non sappiamo come; non possiamo saperlo. Qualche volta si può dire, sì, che probabilmente è stata la santità di quell'uomo, è stata la santità di questi che hanno operato qualche cosa, che hanno salvato, hanno impedito che il male si propagasse, che il male veramente potesse dilagare nel mondo; può darsi, ma non sappiamo nulla di certo. La salvezza è certa, ma come avviene? Dobbiamo crederlo soltanto nella fede, dobbiamo essere sicuri della fecondità della vita cristiana, come soltanto per la fede io debbo credere che sono il cuore dell'universo, che Dio chiede a me, oggi di collaborare con Lui a una salvezza che deve raggiungere gli uomini di questo mondo. Ma questa salvezza rimane segreta, rimane nascosta, com'è rimasta nascosta la redenzione compiuta da Cristo. E, dobbiamo saperlo, noi soltanto operiamo con Lui questa salvezza. Cioè veramente siamo il cuore delle cose, veramente siamo noi che guidiamo, dirigiamo le cose secondo il piano di Dio. Non che ai santi e alla Chiesa non sia dato di operare sul piano sociale, sul piano cosmico, quella redenzione che è riservata agli ultimi tempi, ma sta a noi operare quella salvezza che precisamente il Cristianesimo opera oggi, dona oggi, ed è la salvezza nel mistero.
Noi dobbiamo credere che anche quegli uomini che sono i colpevoli della strage di stanotte possano forse attraverso la nostra sofferenza, attraverso la nostra adesione a Dio, ottenere il pentimento e col pentimento la grazia del perdono. Possiamo credere questo; questa è la salvezza che noi operiamo, una salvezza che rimane nascosta, segreta, ma non per questo meno reale. Perché Dio avrebbe fallito se gli uomini non si salvassero. Ci saranno certamente degli uomini che saranno condannati, ma dobbiamo anche pensare che la massima parte dell'umanità sarà salva; e non può essere salva senza di noi, come non è salva senza di Lui. Ma la salvezza, dicevo, è nel mistero; la viviamo nell'umiltà, la conserviamo nell'impotenza e la otteniamo nella morte.
Accettiamo con riconoscenza da Dio la nostra vita di umiltà e di povertà, accettiamo umilmente da Dio la nostra vita di oscurità come nostra partecipazione al suo mistero, e viviamo il Natale non più come ricordo di un avvenimento passato che riguardò il Figlio di Dio, ma come la nascita in noi del Figlio di Dio, come la Presenza in noi del Figlio di Dio, perché oggi è nato, è nato in noi, se noi nella fede ci apriamo ad accogliere il Cristo e crediamo che il Cristo vive nei nostri cuori. Non è quel bambino di gesso o di cartapesta che può essere messo sopra gli altari, che noi dobbiamo venerare, ma dobbiamo adorare e riconoscere in noi stessi la presenza di Lui in noi, che Egli ha voluto partecipi del suo mistero, facendoci vivere più o meno la stessa sua condizione passibile, proprio in ordine alla salvezza del mondo. Perché è per la salvezza del mondo che Egli ha voluto accettare di nascere, di vivere e di morire nella condizione della nostra passibilità, di una passibilità, notatelo bene, per la quale Egli è Colui sul quale si è rovesciato tutto il male degli uomini.
In che misura noi vivremo una nostra partecipazione al suo mistero? Tutti noi viviamo una vita di umiliazione, di povertà e di silenzio. In che misura noi potremo conoscere l'ingiustizia degli uomini, l'emarginazione da parte degli uomini? In che misura noi conosceremo la mortificazione di non poter fare tutto quello che vorremmo, di non arrivare a tutto quello che anche nella nostra ambizione segreta, potremmo sperare di raggiungere? In che modo noi vivremo quello che ha vissuto Gesù? Lui solo lo sa. Ma notate bene che umiltà e mitezza, umiltà e povertà sono, sì, il distintivo del Cristianesimo, ma possono anche non esserlo. Lo sono nella misura che noi accettiamo di vivere questa nostra condizione con lo stesso spirito di amore, di abbandono in Dio con cui l'ha vissuta Gesù; di amore per gli uomini, di abbandono alla volontà del Padre.
Si, Gesù nasce ancora. Mentre sul piano esteriore imperversano la violenza e l'odio, quante anime, anche oggi, anche domani, vivranno la certezza della loro unione con Dio, vivranno la fede che Dio vive in loro, e vivranno questa fede nel silenzio dei chiostri, nell'umiltà di una vita segreta, nascosta, nella povertà di una vita comune! Quante anime saranno! Ecco il Natale vero. Allora fu la grotta di Betlemme, oggi è una povera casa, il chiostro, il silenzio della notte e la preghiera notturna di tante anime che Dio associa a Sé sempre per la salvezza degli uomini. Il Natale continua, il Natale è presente. Ricordiamoci che se il Natale del Cristo dal Padre è l'Atto eterno della sua generazione, "Ego hodie genui te", se la natività di Gesù da Maria è un atto compiuto soltanto in un certo momento del tempo, vi è un'altra nascita, e questa nascita continua lungo tutto il tempo sino alla fine, ed è la nascita del Cristo nei nostri cuori. Il Natale è presente per tutti noi che viviamo le stesse sue condizioni, la sua consapevolezza di essere Figlio di Dio, la sua volontà di vivere la missione che aveva ricevuto dal Padre. Avete presente quello che dice la Lettera agli Ebrei? La Lettera riprende il Salmo 44, il quale dice: "Non hai voluto né sacrifici né olocausti, mi hai dato un corpo: ecco, Padre, io vengo a compiere la tua volonta". "Ecco - dice san Paolo - nell'entrare nel mondo Cristo dice proprio queste parole: Ecco, Padre, io vengo a compiere la tua volontà". La natività del Signore è precisamente l'accettazione della volontà del Padre che vuole che il Figlio di Dio entri nel mondo per la salvezza degli uomini, offrendo a Dio, fin dalla sua nascita, il suo corpo: il suo corpo prima di tutto per vivere il sacrificio di questa umiltà, di questa povertà di una vita nascosta, poi il suo corpo che doveva essere immolare sopra la Croce.
È quello che dobbiamo vivere, miei cari fratelli, se vogliamo che il nostro Natale sia il nostro Natale, altrimenti non è il nostro Natale; può essere una celebrazione festiva, di famiglia, in cui si riuniscono tutti perché è bello stare insieme; una festa di dolcezza, ma non è il Natale, non è il Natale! Il Natale vissuto così lo vivono anche in Giappone, dove sono pochissimi che credono in Cristo, il Natale così lo vive tutta la civiltà occidentale.
Guardate, la stessa Adele mi scriveva: "Rimango ferma nel dare le decime, quantunque oggi io che sono andata in pensione tanti anni fa rimango con quella pensione, mentre chi va oggi prende quasi il doppio di quello che prendo io. Per me è veramente un grave sacrificio il dare le decime proprio complete, pur tuttavia le voglio dare fino in fondo perché mi preme di più il sentirmi veramente nella Comunità, sentire veramente che vivo la mia consacrazione al Signore". Ma è così, i veri cristiani vivono più o meno questa emarginazione, anche qui in Italia, ed è questa la nascita di Gesù, è questo il nostro Natale. Noi dobbiamo vivere questo Natale, questa presenza del Cristo in noi, che non è soltanto un farsi belli dei nostri buoni sentimenti; si tratta di vivere la stessa condizione del Cristo in ordine a quello che il Cristo ha vissuto, vivere la missione di questa salvezza. Si tratta di vivere la stessa presenza del Cristo precisamente per vivere questa fecondità di una vita tanto più grande quanto più grande è l'umiltà che si accetta, la povertà che si abbraccia e anche l'emarginazione nella quale il Signore ci vuole.
È questa la nascita di Gesù, questa! O questo è il Natale, oppure veramente ha ragione il mondo nel celebrarlo come una bella favola, un bel mito; e la maggior parte dei cristiani ormai lo vivono così, perché hanno perso la fede nel Cristo. C'è, sì, un certo senso di tenerezza, di dolcezza, ma la realtà è ben altro! È un Dio che si fa Uomo e accetta, facendosi Uomo, la condizione umana, tanto che non sembra nemmeno capace di operare una salvezza, perché Egli stesso appena nato, deve essere salvato, deve essere difeso da Giuseppe e da Maria nei confronti dell'odio. Appena Egli entra nel mondo, l'odio sembra scatenarsi contro di Lui.
Miei cari fratelli, noi dobbiamo vivere questo e sentire che proprio anche la strage avvenuta stanotte è un avvenimento natalizio: sì, perché evidentemente le vittime erano le persone più innocenti nei confronti della strage, persone che andavano a ricercare le famiglie, persone che non avevano nulla a che vedere col governo che i terroristi vogliono rovesciare. È una cosa terribile, ma è questo il Natale. Ai tempi di Gesù si uccisero tutti i bambini di Betlemme da due anni in giù, ora abbiamo presente quest'altra strage: sempre la medesima cosa! Quelli che non hanno nessuna responsabilità delle cose, questi sono i colpiti.
E forse proprio questa strage ha un peso davanti a Dio, come ebbe un peso davanti a Dio, sì, la morte di Croce. È la morte di Croce che si fa presente, è il mistero del Cristo che si fa ancora presente. Questo mi ha detto la strage, di cui ho avuto notizia soltanto stasera. Siamo consapevoli che il Cristo continua, il Cristo ancora è presente, sempre sotto il medesimo segno. Come sotto il segno delle specie del pane è presente il Cristo (presenza escatologica), così sotto il peso della nostra povertà umana, dell'emarginazione, della nostra impotenza, si fa presente Gesù, Gesù che salva, Gesù che e venuto a salvarci. La salvezza rimane mistero, ma è reale, è pienamente reale. E nemmeno il paradiso ci può dare di più. È Dio che vive nel cuore dell'uomo. È il fatto che l'uomo, pur nella sua povertà, è figlio di Dio, come Lui che era un Bambino che non sapeva né parlare né camminare, è il Figlio di Dio! Anche per noi è così. La nostra povertà e la nostra impotenza non escludono, ma esigono che noi accettiamo, che noi riconosciamo che siamo figli di Dio. Non è apparso ancora quello che noi saremo, dice San Giovanni, ma siamo già figli di Dio. "Considerate con quale amore il Padre ci ha amato, così da essere chiamati figli di Dio: e lo siamo in realtà".
Ecco il Natale. Tu non sei né il Presidente della Repubblica, né Papa, né Agnelli; chi sei? Nulla, ma sei figlio di Dio! Gli altri possono avere i soldi quanto vogliono, possono essere grandi come vogliono, ma nessuna grandezza è uguale alla tua, come nessuna grandezza poteva essere uguale alla grandezza del Bimbo che nasceva nella notte ed era solo. Ecco, miei cari fratelli, quello che ci dice il Natale stasera. Seconda meditazione 24-12-1984 ore 18,45
Si è detto dunque che il mistero del Natale si fa presente nella Chiesa, si fa presente per ogni anima. Allora noi dobbiamo capire che l'avvenimento che noi celebriamo non è passato; si impone per noi di vivere quello che ha vissuto la Vergine quando è nato Gesù. Nel Natale gli unici a vivere questo mistero sono stati Maria e Giuseppe; dopo sono venuti i pastori, sono venuti i Magi, ma dopo i pastori e i Magi, di nuovo, tutto si è richiuso nel silenzio e Maria e Giuseppe soltanto, senza forse nemmeno sapere tutto, ma pur divinando il mistero che si compiva sotto il loro tetto, hanno vissuto col Cristo. Ecco, vivere per noi la festa del Natale vuol dire vivere l'esperienza di Maria e di Giuseppe, vuol dire vivere nella nostra povera vita questa comunione ineffabile col Figlio di Dio, che non soltanto si è fatto Uomo per noi, ma che continua a vivere in questo silenzio mirabile che è la nostra vita, povera, che continua a farsi presente per noi sotto il segno di una vita modesta, povera di avvenimenti, semplice, come tutte le vite.
È anche qui il rovesciamento che opera la grazia: proprio il segno di questa semplicità nascente; ma deve anche rivelare, per chi ha la fede, l'ineffabile grandezza di una nostra comunione col Cristo. Quanto a me, era tutto il giorno che la mia psicologia si rifiutava a vivere questo mistero. Vivevo con la fede il fatto che per questo omiciattolo che io sono, Egli era nato, era presente e mi amava; Egli era tutto per me. Credevo che quello che vivevo era più grande di tutta la storia del mondo, più grande della creazione intera; lo credevo, ma la mia psicologia si rifiutava di realizzarlo. Mi sentivo inetto, come una pietra arida, come un legno secco. Ma che la nostra psicologia risponda o non risponda, il mistero rimane: Egli è con noi,qui. Dobbiamo sapere che non viviamo nulla di meno di quello che ha vissuto la Vergine, di quello che ha vissuto Giuseppe. Noi dobbiamo essere coscienti che Egli è nato per noi. Domani lo si dirà nella Messa di mezzogiorno: "Un Fanciullo ci è nato", un Dio che è per noi, per me! Si può certo realizzare sul piano della fede che questo mistero è più grande del mistero della Chiesa, del mistero della Creazione, di tutti i misteri. Non c'è proporzione fra tutte le realtà visibili e il mistero di questo amore di un Dio che si dona a me, di un Dio che vive per me. Certo che lo credevo, ma la mia fede era nuda. Ma, ecco, noi dobbiamo chiedere a Dio che quello che viviamo nella fede, nello spirito di fede, in qualche modo si travasi anche nella nostra esperienza psicologica, in modo da percepire, da vivere anche la dolcezza che provò la Vergine quando ebbe nelle sue braccia il Bambino, ed era il suo Figlio, ed era il suo Dio, in modo da essere partecipi anche noi di quello che hanno vissuto tanti santi e che è la vita di ogni cristiano, perché non c'è nulla di straordinario nel sentire che tutta la vita è questo rapporto che Egli stabilisce con te e che tu puoi stabilire con Lui.
Si tratta di tenerlo sulle braccia, di stringerlo al cuore; più ancora di sentire che Egli vive in noi, come un bambino prima di nascere e la madre lo sente lo sente vivo dentro di sé. Così noi dobbiamo sentire Gesù, perché Egli vive in noi, perché Egli veramente ci possiede e attraverso di noi Lui solo vive. Sentire che siamo posseduti da Lui, sentire che tutta la. nostra vita è un donarci a Lui perché Egli ci prenda e di noi viva. È questa l'esperienza che noi dobbiamo avere se vogliamo vivere il Natale anche su un piano di esperienza psicologica. È come l'esperienza di una madre che ha concepito il figlio in sé e lo sente vivere in sé, perché più ancora di un bambino che vive nel seno della madre Egli ci è intimo. Infatti, notatelo bene, il bambino ha già una sua vita propria nel seno della madre, ma Gesù non ha una sua vita propria, o piuttosto, tu non hai una vita propria, ma è Lui che vive in te, Egli vuole vivere in te e non ti lascia più nulla, né un pensiero, né un affetto. Ed è dolce, ed è immensamente dolce sentire che Lui vuole tutto da noi, che Egli tutto pretende da noi per vivere in noi. È il trionfo di un amore vero, di un amore puro, di un amore immenso, di un amore che solo realizza quello che l'amore vuole, perché l'amore vuole unità e l'unità si realizza soltanto in questo rapporto col Cristo. Sì, l'unità in due persone, ma la distinzione delle persone è in ordine soltanto a questa esperienza che è solo un acconsentire ad essere posseduti, un consentire che Egli ci prenda, ci possegga, che siamo suoi.
Io capisco la gioia, la bellezza della verginità, proprio in questo, perché proprio nella verginità, se l'anima la vive fino in fondo, l'anima sente di potersi donare totalmente, senza esclusione, senza togliere nulla, senza riservarsi nulla per sé; sente che non si appartiene più, non solo nel corpo, ma in tutta la sua vita intima, in tutto il più profondo essere suo; non si appartiene più, Lui solo vive in lei e per lei. Non è dunque soltanto tenerlo nelle braccia, stringerlo al cuore, è troppo poco; la nostra vita implica qualche cosa di più. Vedete, mentre nella vita umana, il figlio quanto più è perfetto tanto più diviene autonomo e vive una sua vita nei confronti della madre, e quanto più diviene perfetto tanto più dalla madre si separa, al contrario invece avviene in questa vita divina: quanto più noi cresciamo, tanto più Egli diviene intimo a noi. Non possiamo più vederlo come altro da noi, da noi separato. E tu senti non di essere in paradiso, ma di essere tu il paradiso, perché non c'è più differenza fra te e Lui, perché Egli vive di te, vive in te e tu vivi di Lui, e una sola è la vita perché uno solo è l'amore.
Questa grandezza dobbiamo viverla così come l'ha vissuta la Vergine: nell'umiltà, nella semplicità di una vita comune; ma nulla è più grande. Oh poterci donare sino in fondo a Lui che tutto pretende e tutto vuole da noi? poter non riservare nulla per noi! Certo, è una vita di fede, ma soltanto la vita di fede è reale, "praeterit figura huius mundi", ci dice San Paolo, "passa la figura di questo mondo". Tutto quello che è visibile è soltanto segno di una realtà che rimane invisibile, ma è la sola realtà, la realtà definitiva, la realtà di un Dio comunicato al mondo, perché reale pienamente è Dio solo, Dio che vive in te.
Cosa sarà, miei cari fratelli, il nostro risveglio dopo la morte? Quante volte si desidera morire, quante volte sentiamo che questa vita è un ostacolo a vivere pienamente! E desideriamo di forare la parete, di passare aldilà. Ci sentiamo davvero in esilio anche se Egli vive in noi, perché proprio la nostra psicologia non ci aiuta, si rifiuta di vivere fino in fondo il mistero. L'esperienza anche più alta dei santi è sempre ben povera cosa nei confronti della realtà che la fede ci insegna; tanto più poi è misera la nostra esperienza sensibile, è alienante la nostra esperienza nel mondo. E allora per questo l'anima nostra si ritrae. La fuga del mondo non è un disprezzo del mondo, ma è una esigenza di vivere la realtà ultima, di vivere, anche nel rapporto con gli altri, al di là dei rapporti sensibili, oppure anche l'esperienza psicologica che nasce da una comunione con loro. Ci si ritrae non perché ci vogliamo negare, ma perché rifiutiamo di vivere una vita dimezzata, una vita che non è la vera vita, anche nel nostro amore per i nostri fratelli.
Come desideriamo la vita del cielo anche per la nostra comunione fra noi! Come tutto qui è davvero soltanto un accenno! Viviamo nell'ombra "Ex umbris et imaginibus ad veritatem", "dalle ombre e dalle immagini alla verità"; e l'ombra è così spessa a volte che ci nasconde totalmente la realtà, la realtà vera; ma è questo che è proprio della vita cristiana: si vive soltanto la realtà di questo mondo, e questo mondo ci fa prigionieri di sé, e Dio rimane estraneo a noi e possiamo anche negarlo. Ma via via che invece Dio entra nel tuo cuore, via via che diviene reale per te, le cose si allontanano e cadono, non hanno più presa sul tuo spirito, non legano più la tua volontà e la tua anima aspira, aspira in quella preghiera che Dio ci ha messo sulle labbra: "Venga il tuo regno".
Certo che Egli è apparso; si canta continuamente nel tempo natalizio: "Apparuit benignitas et humanitas salvatoris nostri Dei"; ma che cos'è questa apparizione di Dio? È una apparizione nella benignità e nell'umanità, e la povertà e la semplicità, è il segno che garantisce. Ebbene, miei cari fratelli, finché il Signore non ci farà la grazia di morire per passare nel mondo divino, facciamo sì che quello che viviamo quaggiù sia solo, per noi, segno di questa realtà invisibile ma presente. Finché non potremo vivere la visione pura della realtà immensa di questo amore, facciamo sì che allora le cose che viviamo giorno per giorno, i nostri avvenimenti giornalieri, le persone con le quali viviamo, la povertà dei nostri sentimenti siano per noi soltanto segno di quest'altra realtà. Non fermiamoci mai in noi stessi, non fermiamoci mai nelle cose. Che valore possono avere le cose, indipendentemente da quello di essere segno della presenza di questo Dio che si è donato a noi, di questo Dio che vive in noi?
Io credo che convenga tacere, credo che convenga davvero in uno spirito vivo di fede, realizzare la presenza di questo Dio che è in noi, che ci prende totalmente, che ci possiede, che ci penetra sino in fondo, fino all'intimo più intimo del nostro spirito, così da non vedere più in noi che Lui solo, così da non lasciar vivere in noi che Lui solo. Questo mi sembra che sia quello che dobbiamo fare ora che avendolo noi ricevuto nel suo Corpo e nel suo Sangue, Egli ancora di più ha preso possesso di noi per vivere in noi. Lasciate dunque che io taccia: non saprei nemmeno parlare e ve ne siete accorti; lasciate dunque che io faccia silenzio e cerchiamo di vivere davvero, in questa fede l'umiltà di Dio e la grandezza immensa del suo amore!
Messa di mezzanotte 24-12-1984
Letture: Is 9,1-3.5-6; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Omelia
L'attesa del Natale è finita. All'attesa, ecco, è subentrata ora, nel modo più pieno, la celebrazione del mistero della nascita del Figlio di Dio. Quello che mi sembra di dover sottolineare è precisamente la condizione nella quale questo avvenimento si compie. È nella notte che Egli nasce, ed è nella notte che Egli risorge. Tutti i misteri del Cristianesimo si compiono dunque nella notte. La notte è l'ambiente in cui si compie il mistero di Dio: apparve, sì, una moltitudine di Angeli osannanti al Signore, ma apparve soltanto ai pastori. Nulla cambiò apparentemente, la notte rimane notte; solo per loro la notte divenne giorno. Alla risurrezione poi neppure ci furono queste manifestazioni di luce e nessuno fu presente quando Egli risorse. È la notte dunque il tempo di questa economia che noi viviamo: la notte del mondo, l'estraneità di un mondo al mistero di Dio.
Questo mi sembra il primo contenuto del testo evangelico che abbiamo or ora proclamato: il mistero di una grandezza infinita, Dio si fa Uomo, l'uomo risorge da morte e nella sua natura umana viene invaso dalla potenza di Dio, partecipa della gloria stessa della Divinità. Questo è il mistero che noi celebriamo, ma lo celebriamo di notte, ma lo viviamo nella notte del mondo. Chi si accorse della risurrezione del Cristo? Chi vide il Primogenito che nacque da Maria? In quale profondità si compiono i divini misteri! E come davvero solo la fede li scopre! E come noi dunque abbiamo bisogno di questa luce nuova che la fede soltanto può darci, per contemplare il mistero! Possiamo vivere come vissero gli abitanti di Betlemme, senza minimamente avere una percezione di quello che avveniva, possiamo vivere accanto al mistero di Dio e non accorgerci di nulla.
Questa è la condizione propria dell'uomo che vive quaggiù: Dio, ed è l'Infinito, l'amore di Dio, ed è davvero un amore immenso che tutto sommerge nella sua grandezza, questo Dio rimane nascosto, questo Dio è presente ed è come non fosse. Non solo la nascita avviene di notte e nessuno lo sa, ma anche se lo avessero visto, che avrebbero visto? e chi poi videro realmente i pastori? Un Bambino avvolto in fasce giacente in una mangiatoia. Il segno è il segno della povertà, dell'umiltà; anche quando lo si vede, il segno non può essere altro che questo. Gli angeli non danno il segno del loro canto, non danno nemmeno il segno dell'apparizione e della luce; il segno invece che lo manifesterà sarà la povertà del presepio, sarà l'umiltà di un Bimbo che giace in una mangiatoia. Non un letto lo accoglie, non una casa si apre al Figlio di Dio. È questa anche la condizione del Cristianesimo per noi? Si, Dio non cambia. Dice San Paolo nella seconda Lettura: "Apparuit benignitas et humanitas Salvatoris nostri", e poi parla della manifestazione futura della gloria, ma allora apparve soltanto la benignità, l'umiltà: apparve soltanto l'umanità del Figlio di Dio; ed è questa la condizione precisamente del Cristianesimo. Sta a noi riconoscere sotto il segno dell'umiltà la divina Presenza, sotto il segno della povertà la presenza di un amore ineffabile; immenso, sta a noi accogliere sotto il segno del nascondimento più puro l'immensa bontà del Signore.
A questo ci chiama il Natale, perché anche noi potremmo vivere come vissero un giorno gli abitanti di Betlemme , che dormivano tranquilli la notte e non seppero nulla nemmeno al mattino, nemmeno il giorno dopo, mai, perché nulla apparve. Giunsero i Magi e seppero soltanto dalla profezia di Michea che il Messia sarebbe nato a Betlemme, ma nulla era trapelato né per Erode né per i saggi di Israele, per nessuno. Tutto si compie e tutto rimane nel silenzio, tutto si compie e tutto rimane nascosto.
Miei cari fratelli, è difficile esser cristiani, perché vuol dire vivere, nella nostra umiltà, una grandezza incomparabile. Anche noi siamo tentati di vivere una grandezza sul piano esteriore e non la grandezza vera di questo rapporto con Dio, che si può vivere anche nella povertà, nel nascondimento più puro, si può e si deve vivere anche proprio nell'umiltà più profonda. E non soltanto si può, ma si deve vivere. Ed è questo allora a cui il Natale ci chiama: a saper vivere la grandezza del mistero di Dio nella nostra umile vita. Non ci inganni la povertà del segno che è la nostra vita che si svolge giorno per giorno, monotona e oscura, sempre la stessa, senza nessun cambiamento. Non ci inganni la povertà e semplicità del nostro vivere; non abbiamo nulla da chiedere al mondo, non abbiamo nulla da invidiare ai potenti, ai ricchi, a coloro che nel mondo vivono l'efficacia di una vita che sembra rinnovare le cose. Egli ha lasciato tutto com'era. La notte non si è accorta di quello che avveniva nel suo seno, nessuno si è accorto di nulla. La nostra umile vita può sembrare nulla agli occhi degli uomini, ma è grande nella misura della nostra fede, perché la vera grandezza è la grandezza di Dio, e Dio si fa presente nella vita di un uomo secondo la sua fede. La misura del dono di Dio - si è detto tante volte - è la fede dell'uomo. Dio si è donato, si è donato senza fine, senza misura, senza riserva, ma l'uomo lo riceve soltanto nella misura che si apre nella fede ad accogliere questo Amore infinito. E noi siamo chiamati davvero a vivere questa fede, cosa che non è facile perché la fede sembra andare contro la nostra esperienza sensibile, contro ogni opinione umana. Ma a questo ci richiamava anche una delle figure che oggi è fra le più venerate: Charles de Foucauld. Quando parla nel Ritiro di Nazareth, della virtù della fede, egli dice precisamente questo: la fede dice sempre il contrario di quello che la nostra esperienza, sia sensibile sia psicologica, sembra insegnarci.
Ed è questo davvero che ci insegna stasera il Natale: la notte, il silenzio e nel silenzio e nella notte la presenza di un Dio che diviene il Figlio dell'uomo, che nascendo diviene veramente nostra proprietà, perché veramente Egli è il Figlio e non vi è una proprietà più grande per una madre che quella del figlio suo. E la Madre, la Vergine Maria, in tanto è Madre del Cristo in quanto, dice San Tommaso d'Aquino,è rappresentante di tutto il genere umano. È in lui dunque che gli uomini posseggono la loro ricchezza, il loro vero tesoro che è Dio. Ma tutto questo avviene, dicevo, in questa umiltà. Quale fede ci vuole, miei cari, per sentirci i più ricchi del mondo! per sentirci quelli che hanno in mano la stessa potenza di Dio! Perché Dio si è fatto nostro e se Dio si è fatto nostro, nostra è la sua onnipotenza: è al nostro servizio; nostro è il suo amore, è tutto dono per noi; nostra è la sua santità: Egli tutta ce la dona. L'unica cosa che si impone è che noi riconosciamo quello che siamo e doniamo a Lui i nostri peccati perché ci dia in cambio la sua santità. Questo vuole il nostro Natale.
Dirà un'Antifona che dovrà essere proclamata il primo dell'anno, il giorno della Trinità: "O admirabile commercium! Creator generis humani animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est et procedens homo sine semine, largitus est nobie suam deitatem". Quale scambio avviene! Egli ci dona la sua divinità. La nascita del Cristo implica precisamente il dono di Dio all'uomo.
Vedete, nella morte di Croce Egli veramente muore per noi, ci dà il suo Corpo e il suo Sangue, tuttavia il sentimento più vivo di proprietà lo ha la Madre quando genera il Figlio. E noi stasera dobbiamo avere questa percezione che Dio è tutto nostro, e se Dio è nostro è per noi la sua onnipotenza. Non possiamo dividere gli attributi divini: Egli è uno, e nella sua infinita semplicità tutto quello che gli appartiene è Lui stesso, e Lui stesso è Uno. Nostra è la sua onnipotenza, nostra la sua santità, nostra è la sua ricchezza infinita, nostra la sua gloria. Ma la dobbiamo vivere precisamente nel sentimento vivo del nostro nulla, ma la dobbiamo ricevere ed accogliere in una fede profonda, che ci lascia apparentemente quelli che siamo, poveri e anche, sì, peccatori, perché veramente la grazia e la santità che Egli ci dona rimangono un dono della sua misericordia infinita. Non è mai un premio alla nostra virtù, è sempre un dono di misericordia che dobbiamo implorare. Ma una misericordia veramente infinita. Il perdono di Dio non è soltanto il perdono del peccato: Egli ci rimette il peccato nella misura che si dona a noi. Dice il Bonsirven [Joseph Bonsirven (1880 Lavaur (Tarn) -1958) gesuita e biblista], commentando San Paolo, che non vi è un processo di santificazione che non nasca prima dal perdono per giungere poi alla divinizzazione dell'uomo. È divinizzandoci, è facendoci simili a Sé e donandoci Se stesso, che Egli ci perdona. È Dio stesso nella sua infinità, è Dio stesso nella sua Santità infinita; questo è il dono che Egli ci fa. Per questo Egli tutto si spoglia per rivestire noi della sua ricchezza.
Quale fede ci impone il Natale! Noi possiamo parlare, possiamo meditare; contemplare il mistero, ma appena abbiamo finito di parlarne e di contemplarlo, si ritorna quasi fatalmente a ripensare al modo umano, a giudicare le cose secondo il metro di una ragione umana, e così ci sottraiamo alla luce della fede. Com'è povera la nostra vita, non solo nel suo segno, ma proprio anche nella sua realtà! Potremmo mantenerci sempre in una fede viva, in una fede continua, perché noi non possiamo mai decadere da questa luce, non possiamo chiuderci a questa luce, a questo amore che si effonde in noi. Crediamolo anche in questo momento: Egli è nato ed è per noi. Abbiamo cantato all'inizio dell'Ufficio delle Letture: "Christus natus est nobis": Cristo è nato per noi. Per noi! Per essere nostro! Non dubitiamo del dono di Dio! Certo, noi dobbiamo accogliere questo dono in un sentimento di profonda umiltà, nel sentimento cioè di una gratuità assoluta del dono divino, perché il dono di Dio non suppone in noi nessun merito, suppone soltanto il peccato; Egli è disceso precisamente per donarsi a noi peccatori. Quello che dice San Paolo a proposito dall'amore di Dio, che si manifesta nella morte di Cristo, è vero già nella nascita di Gesù: "In questo si prova l'amore di Dio per noi, che essendo noi peccatori, Egli è nato per noi". Non solo "è morto", dice San Paolo, anche "è nato". Tutto il prodigio, tutta l'immensa bontà di Dio che si manifesta nei misteri del Cristo, suppone in noi non virtù, non bontà, ma solo la miseria e il peccato.
Possiamo noi crederlo? Siamo così capaci di credere da superare la vergogna di sentirci ancora tutti contaminati dal male? Dobbiamo superare questa vergogna in una fede viva. Dobbiamo cercare, non di riconoscere il nostro peccato, ma di riconoscere che immensamente più grande è la misericordia di Dio e, peccatori quali siamo, aprirci ad accogliere questo dono infinito di misericordia che Egli ci fa. Si, Lui stesso ce l'ha insegnato. Perché non credere alla sua parola? Non ha detto forse che dobbiamo saper perdonare, a imitazione di Dio, settanta volte sette, cioè che ogni qualvolta l'anima a Dio si apre, Egli la colma di bene? Che la nostra anima si apra in un sentimento vivo della propria povertà spirituale, della propria miseria, del proprio peccato, per accogliere questa misericordia infinita! Una misericordia che a noi viene offerta non come il dono di un ricco che getta una elemosina nel cappello del povero, ma si manifesta in noi nel fatto che non ci getta del denaro, ma vuole essere portato Egli stesso sulle nostre braccia; Egli stesso si dona a noi perché noi lo portiamo e lo stringiamo al cuore. Sì, anche ora è qui. È questo che vuole stanotte, la fede in un Dio che nasce per noi. Nasce: non è soltanto un Bambino che gioca con noi, è un Bimbo che nasce per noi, la sua nascita è il dono che Dio ci fa perché Egli sia nostro. Sia nostro! Come può essere dolce, ma anche come può essere, sì, anche in parte doloroso ricevere tanto amore sentendoci noi così indegni di riceverlo, così indegni di poterlo accogliere in noi! Oh davvero un abisso immenso di amore è Dio verso l'uomo; veramente noi non potremo mai giudicare quanto grande sia la bontà che Egli ci porta, la misericordia che Egli ha verso di noi! Sembra così inconcepibile riuscire a crederla, che cerchiamo sempre di proporzionare la misericordia di Dio ai nostri pensieri. Sì, possiamo pensare che Dio sia buono, ma non riusciremo mai a pensare quanto Egli sia buono. La nostra intelligenza si rifiuta e, d'altra parte non potrebbe la nostra intelligenza stendersi quanto si stende l'immensità di questa misericordia infinita.
Dobbiamo aprirci umilmente ad accogliere Dio che viene, dobbiamo veramente credere a questo amore. E nonostante l'esperienza delle nostre cadute, credere che Egli è tutto nostro, tutto per noi; che Egli non ci rifiuta nulla, che tutto quello che Egli è, è il suo dono di amore. Non le sue cose Egli ci dà, ci dona Se stesso. In nessun altro modo Egli avrebbe manifestato più chiaramente di voler essere Lui stesso la nostra ricchezza se non nascendo da noi, nascendo per noi.
Ecco il Natale, miei cari fratelli. Cerchiamo davvero di vivere questo mistero in una fede profonda, che ci doni di vivere la gioia del Natale pur vivendo sempre una vita di povertà, pur vivendo sempre una vita di umiltà e forse anche una vita di tante imperfezioni. Chiediamogli almeno che queste imperfezioni non siano pienamente volontarie e che la nostra miseria faccia sì che veramente a Lui solo risalga la lode, il riconoscimento della sua bontà infinita che si dona senza misura. E si dona anche a coloro che non meritano nulla, anche a coloro che a noi sembrerebbero divenire di giorno in giorno sempre più meritevoli di essere rifiutati da un amore che calcolasse, ma invece non sono rifiutati da un amore che non condanna alcuno, perché non conosce riserva. Ecco, miei cari fratelli, quello che a noi stanotte dice il mistero di questo Natale.
Omelia 25-12-1984 ore 11
Letture: Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Nel Cristo tutta la creazione trova la sua risposta, il suo valore, il suo senso: ecco quello che dice il Vangelo di Giovanni. Ma questo è ben povera cosa; molto spesso anche nei nostri licei si studia questo proemio, quando si fa filosofia, per dimostrare come anche il Cristianesimo sia più o meno legato a un certo platonismo, ecc., ecc.; ma ci vuole ben altro! Non si tratta di un certo platonismo che in fondo è un mondo ideale che è separato dalla nostra condizione umana Qui no, qui colui che scrive è un Apostolo, è uno che ha veduto, parla di un Uomo che ha conosciuto, col quale ha mangiato insieme e insieme ha camminato per le strade del mondo; e dice che quest'Uomo è Colui nel quale tutta la creazione trova la sua ragione ultima, il suo compimento supremo.
Quale compimento? Un compimento per il quale la creazione si solleva fino alle vette della divinità. Questo è l'insegnamento: altro che Platone! Qui si arriva a qualche cosa che toglie veramente il fiato, perché Platone non avrebbe mai detto che Dioniso fosse quello che dava un senso e un valore a tutta la storia, a tutta la creazione. Ma Giovanni dice che quell'Uomo, che non era un principe come Dioniso, ma era un povero Uomo da tutti rigettato, che aveva fame, che aveva sete, che si stancava, che è morto sulla croce in un grido: "Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato", questo Uomo è Colui che tutto ha compiuto. Ecco che cos'è il Cristianesimo.
Ci rendiamo conto che cos'è il Cristianesimo? No, ed è giusto: non ce ne possiamo render conto perché sopravanza la nostra immaginazione, perché veramente sconvolge ogni nostro pensiero. E se è veramente difficile per noi credere senza un dono di Dio (la fede sarebbe impossibile anche per noi perché è un dono), se il miracolo della fede è grande in noi, più grande ancora è il miracolo in chi l'ha conosciuto. Pensate: era morto, e sono scappati tutti e la fede era venuta meno. Fede in che cosa poi? Credevano che Lui fosse uno che avrebbe ristabilito il regno di Israele, ricordate? Lo dicono i due discepoli di Emmaus, mentre camminano insieme a Gesù, ma il re di Israele che cosa sarebbe stato? Un qualunque reuccio come Ioakim o Giosia. Ma anche questa speranza, anche questa fede era crollata. E ora, ecco, invece, dopo la morte, proprio in forza della morte, essi vedono non un qualunque regno di Israele, ma tutta la creazione assurgere a questo valore immenso, acquistare questo senso, innalzarsi fino a Dio.
E la cosa più grande di tutte non è soltanto che in Cristo si compiva tutto il mistero della creazione, è che essi l'hanno visto, cioè che in Lui hanno veduto Dio. Nessuno ha mai veduto Dio, ma loro lo hanno visto in Lui, perché "l'Unigenito Figlio, Egli ce l'ha rivelato". Gli uomini hanno visto Dio l'Infinito, hanno visto Dio l'Immenso, hanno viso Dio il Santo, hanno visto Dio l'Eterno, hanno visto Dio, Dio l'hanno visto in un Uomo, in questo Uomo. Ecco il miracolo; non vi sembra che sia un grande miracolo? Ma pensate un pochino: la Madonna, quando lo teneva sulle braccia, quando lo allattava, quando lo vedeva per la casa che aiutava il suo padre putativo, lei doveva credere che era il Figlio di Dio! Quale luce, quale miracolo era questa fede di Maria, nella grandezza del Figlio, che era il suo Figlio! E quale grandezza di fede per i discepoli vedere Dio in questo Uomo! Sì, era un rabbi, sì, un brav'uomo, faceva anche dei miracoli, ma se si sta al Talmud, al tempo di Gesù molti facevano miracoli, o almeno davano questa impressione. Sì, Lui insegnava, ma era un povero operaio venuto fuori dal nulla. Ebbene questi uomini credono che in Lui si continua e si manifesta il mistero di Dio. Di un Dio che non vive più separato dal mondo, che non vive più nella sua trascendenza infinita e nella sua solitudine, ma è qui; è questo Uomo che io vedo, è questo Uomo col quale io cammino. Ecco la grandezza.
Ora, tutto questo non era vero soltanto per i discepoli. È certo che per noi il miracolo è meno grande, però anche noi viviamo la stessa esperienza. Non viviamo forse come i discepoli di Emmaus, sempre con Lui? E non è vero anche per noi che qualche volta soltanto intravediamo la grandezza del mistero nella frazione del pane? Quando lavoriamo, quando studiamo, quando facciamo le nostre cose di ogni giorno, qualche volta avvertiamo che Egli è con noi. È così grigia e povera la nostra vita! Sembra così vuota e Dio è presente come lo era per Maria, nella casa di Nazareth, come lo era per i discepoli che camminavano insieme a Lui per le strade del mondo: ecco il mistero cristiano! Perché questo Dio immenso, che è infinitamente trascendente la creazione, questo Dio che non solo ha creato ("per mezzo di Lui tutte le cose sono state create"), ma è venuto nel mondo ("era la luce vera che viene nel mondo; ed il Verbo si è fatto carne"), questo Dio, ecco, è qui. Si tratta di vivere questo mistero che è il mistero del Cristianesimo, mistero di una grandezza incomparabile. Incomparabile perché non si può comparare con nessuna cosa, ha infatti le proporzioni stesse di Dio; è incomparabile in senso proprio, il mistero che noi celebriamo.
Vivere questo e viverlo proprio quando tutto sembra negarlo. Perché quando Gesù era vivente che cosa succedeva? C'erano anche allora gli omicidi, le brutalità, c'erano gli zeloti che avevano un coltellaccio e quando nessuno li vedeva ammazzavano i romani. Anche allora la violenza, anche allora l'immoralità, gli adulteri, ecc. E Dio era presente e tutto rimaneva uguale, cose come oggi. Noi celebriamo il mistero di una presenza di Dio e dobbiamo constatare che ci sono le stragi. Ma allora questo Dio non fa nulla? (Notate bene tutto questo, perché questo è il Cristianesimo). Questo Dio allora è inutile? Si può credere a questo Dio? È certo che ci vuole un dono di grazia perché Dio trasforma tutto lasciando tutto immutato; trasforma tutto perché deve trasformare certamente anche coloro che hanno compiuto questa violenza, che hanno scatenato quest'odio. Infatti il loro atto acquista, nella luce divina, una dimensione di grandezza, di tragicità, di orrore infinitamente maggiore di quello che potrebbe avere in sé. Ma noi dobbiamo pensare che l'immensità della misericordia divina può raggiungere anche questi uomini. E nonostante le apparenze che sembrano la vittoria del male; noi dobbiamo credere invece che la sua presenza assicura e garantisce la salvezza. Dobbiamo crederlo. È per questo che ieri c'è stata la strage e oggi abbiamo cantato il "Gloria in excelsis". Vuol dire che tutti i mali del mondo, tutto il precipitare degli orrore del mondo, non valgono a spegnere, a sommergere questa Luce, questo oceano di grazia che si riversa nel mondo, nella presenza di un Bimbo.
Vi sembra che sia una cosa sconveniente, anche scandalosa il cantare il Gloria, mentre vi sono famiglie e famiglie che sono nel lutto? mentre viviamo l'orrore di questa violenza? Non è scandaloso, perché io credo che l'Incarnazione del Verbo sia un avvenimento più grandioso di tutti i mali. Il male, sia pure che faccia impressione, non ha mai la grandezza dell'amore di un Dio che si fa Uomo per me, non ha mai la grandezza di un Dio che non soltanto si fa Uomo per me, ma facendosi Uomo, porta la mia natura, porta me stesso negli abissi di Dio.
Ecco, per questo, vedete, il Cristianesimo è ottimismo. Ottimismo tragico, ma è un ottimismo. Tragico perché sembra che l'orrore vinca, perché l'orrore, l'odio, la violenza, la turpitudine del peccato, tutto sembra veramente dilagare nel mondo. Ma ottimismo, nonostante questa tragedia, perché Dio è più grande di tutto. E noi dobbiamo vivere questo e viverlo proprio stamani durante la Messa. Quando io eleverò il Calice del Sangue che è "versato per voi e per tutti", quando eleverò l'Ostia Santa che è il Corpo dato per voi, miei cari fratelli, dobbiamo crederlo: quell'atto vince tutto e tutto solleva, tranne la volontà libera di chi fa il male e nel male rimane, perché Dio rispetta la libertà.
Ma il male che essi fanno non lo fanno che a se stessi, rendiamocene conto. Il peccatore crede di fare male agli altri, ma fa del male soltanto a se stesso. Il male è soltanto la volontà dell'uomo che si sottrae a Dio; per il resto nessun male, nemmeno la strage, è un male; è un male quello di chi ha messo la bomba. Speriamo che il Signore doni loro il pentimento per ritrarsi da quella volontà di peccato che li ha portati a uccidere. Loro sì, si sottraggono a Dio, ma nient'altro si sottrae. E sulla morte, anche di tanti; si stende la pace di Dio, si stende l'amore infinito di un Dio che e venuto quaggiu per salvare; dobbiamo capire tutto questo; ma è difficile. Non è vero che è difficile? Noi non pensiamo al male di quelli che hanno messo la bomba, pensiamo più invece a quelli che sono uccisi. E non è giusto, se veramente siamo cristiani perché là dove non vi è colpa, certamente vi è la redenzione, perciò, se vi è la redenzione, vi e il trionfo. Il trionfo anche perché in qualche misura sono dei martiri, come intende la Liturgia e come intende, per esempio il pensiero russo: Boris e Gleb, i primi canonizzati della Chiesa russa, sono canonizzati come martiri, ma non sono stati uccisi in odio alla fede, hanno soltanto accettato di morire di una morte ingiusta da parte del fratello, che voleva usurpare il loro regno! "Fratello mio che fai?", ha detto Boris, e ha incominciato a piangere, perché era un ragazzo e non voleva morire. Non è che ci fosse una accettazione eroica della morte, no, è proprio un bambino che ha paura di morire e chiede al fratello: "non lo fare". E sono santi. Chi vieta di dire che anche coloro che sono morti ieri notte non siano già in paradiso? Sono il prezzo versato da una umanità per sé innocente. Certamente questa gente non sapeva affatto di andare incontro alla morte. Chi ci vieta di pensare che non siano già vittoriosi, proprio perché il loro sangue ha il prezzo stesso del sangue di Cristo, quello di una redenzione? Quello che è grave è veramente la volontà perversa di chi si sottrae a Dio; solo li è il male; il resto tutto Egli ha preso, tutto Egli ha trasformato in trionfo di grazia, in vittoria dell'amore. Ecco, miei cari fratelli, quello che a me stamani diceva il Vangelo di Giovanni.
Queste ultime considerazioni naturalmente le ho fatte in ordine a quello che è avvenuto in questi giorni, ma il Vangelo per sé trascende ogni situazione concreta, abbraccia veramente tutta la storia, l'Incarnazione del Figlio di Dio veramente abbraccia e solleva tutta la creazione! Rendiamoci conto che la creazione è in vista dell'Incarnazione, noi non possiamo mai separare la creazione dall'Incarnazione senza togliere alla creazione il suo senso, la sua ragione; tutto diviene allora cieco, tutto diviene assurdo. Ed è proprio quello che vive oggi il mondo, non credendo più nel Cristo l'uomo perde il senso della vita, la ragione del vivere, non sa più perché questo caso della vita; perché la creazione; che senso ha? Il senso è Gesù.