mercoledì 14 dicembre 2011

Giovanni della Croce: Salita al Monte Carmelo 2


LIBRO III

Ove si parla della purificazione, attraverso la notte attiva, della memoria e della volontà. S’insegna come deve comportarsi l’anima nei riguardi delle operazioni di queste due potenze, così da giungere, per loro tramite, all’unione con Dio, in perfetta speranza e carità.

CAPITOLO 1

1. Finora ho spiegato come l’intelletto, la prima delle potenze dell’anima, debba comportarsi, alla luce della fede, in tutte le conoscenze che va acquisendo, perché l’anima possa unirsi a Dio nella purezza di tale virtù. Ora non resta che applicare lo stesso procedimento alle altre due potenze dell’anima, cioè la memoria e la volontà, affinché, purificate anch’esse nei confronti delle loro rispettive operazioni, l’anima possa unirsi a Dio attraverso una perfetta speranza e carità. Ciò è quanto intendo esporre brevemente in questo libro III. Avendo appena finito di dire che l’intelletto è, in certo qual modo, la sede di tutti gli oggetti di queste potenze, ho già assolto buona parte del compito prefissomi. Non è necessario, dunque, che mi dilunghi troppo su queste due potenze. Difatti non è possibile che l’uomo spirituale, che ha ben istruito il suo intelletto nella fede secondo la dottrina esposta sopra, non istruisca nello stesso tempo anche le altre due potenze nella pratica delle altre due virtù, perché le operazioni delle une dipendono dalle operazioni delle altre.

2. Ma per ottemperare allo scopo stabilito e per far comprendere meglio questo argomento, è necessario parlarne in modo appropriato e preciso. Tratterò, dunque, delle conoscenze proprie a ciascuna facoltà, anzitutto di quelle relative alla memoria, suddividendole quanto basta per il nostro argomento. Ora, si possono dividere le conoscenze in base agli oggetti della memoria, che sono tre: naturali, immaginari e spirituali; secondo questi tre oggetti, vi sono anche tre forme di conoscenze della memoria: conoscenze naturali, immaginarie soprannaturali, spirituali.

3. Ne parlerò, con l’aiuto di Dio, cominciando dalle conoscenze naturali che si riferiscono a oggetti più esteriori. Subito dopo passerò a trattare delle affezioni della volontà, e così concluderò questo libro III dedicato alla notte attiva dello spirito.

CAPITOLO 2

Ove si parla delle conoscenze naturali della memoria e si dice che l’anima deve distaccarsene perché possa unirsi a Dio per mezzo di questa facoltà.

1. È necessario che il lettore tenga presente in ciascuno di questi libri lo scopo prefisso, altrimenti potrebbero nascergli molti dubbi su quanto sta leggendo, come potrebbe averne su ciò che ho detto dell’intelletto e dirò ora della memoria e poi della volontà. Difatti, osservando come riduco a zero le potenze nelle loro rispettive funzioni, gli potrà forse sembrare che io distrugga l’edificio della vita spirituale, anziché edificarlo. Questo sarebbe vero se qui cercassi di istruire solo i principianti, ai quali è utile servirsi ancora di meditazioni discorsive o di ragionamenti.

2. Qui, invece, intendo insegnare come superare questo grado per giungere attraverso la contemplazione all’unione con Dio. Ciò spiega perché tutti i mezzi e le operazioni sensibili delle potenze debbano essere abbandonati e messi a tacere, affinché il Signore realizzi direttamente nell’anima la divina unione. Occorre, dunque, svuotare le potenze, spogliarle, indurle a rinunciare al loro diritto naturale e alle loro operazioni, per far posto a grazie infuse e a illuminazioni soprannaturali. La loro capacità naturale, infatti, non può adempiere un compito così elevato, anzi può costituire un ostacolo se non viene messa da parte.

3. Se è vero, com’è vero, che l’anima deve arrivare a conoscere Dio attraverso ciò che egli non è, piuttosto che attraverso ciò che egli è, necessariamente per andare a lui essa deve negare, fino all’estremo possibile, tutte le sue conoscenze, non ammettendo né quelle naturali né quelle soprannaturali. Questo è il tema di cui mi occuperò parlando della memoria, tirandola fuori dai suoi limiti e dai suoi sostegni naturali, elevandola al di sopra di sé, cioè al di sopra di ogni conoscenza particolare e di ogni possesso sensibile, per situarla nella somma speranza del Dio incomprensibile.

4. Cominciando, dunque, dalle conoscenze naturali della memoria, dico che appartengono a questo genere tutte quelle che detta facoltà può formare circa gli oggetti relativi ai cinque sensi corporali, cioè l’udito, la vista, il gusto, l’odorato e il tatto, come anche tutte le altre di questo genere che può elaborare e immaginare. Di tutte queste conoscenze e immaginazioni la memoria deve spogliarsi, liberarsi e cercare persino di perdere il ricordo, in modo da non conservarne alcuna impressione o traccia, ma rimanere nuda e libera, come se nulla in essa fosse mai passato, assente e dimentica di tutto. Se la memoria vuole unirsi a Dio, non può fare a meno di annullare tutte queste immagini. Ciò non può avvenire se non si separa completamente da tutte le forme che non sono Dio. Infatti Dio, come ho spiegato nella notte dell’intelletto, non può essere racchiuso in nessuna immagine o conoscenza particolare. Poiché nessuno può servire a due padroni (Mt 6,24), come dice Cristo, la memoria non può essere unita contemporaneamente a Dio e alle immagini o conoscenze particolari: Dio non ha forma né immagine che possa essere compresa dalla memoria; ne segue che, quando l’anima è unita a Dio, come dimostra l’esperienza di ogni giorno, rimane priva di forme e di figure, l’immaginazione resta inattiva e la memoria immersa nel sommo Bene, in totale oblio, senza ricordare nulla. Quest’unione divina, infatti, opera il vuoto nella fantasia e spazza via tutte le forme e conoscenze per elevarla allo stato soprannaturale.

5. È degno di nota quanto, a volte, avviene in questi casi. Talvolta, infatti, quando Dio accorda certi tocchi di unione alla memoria, d’improvviso si produce nel cervello, che è la sede della memoria, un sussulto talmente sensibile che sembra di svenire, di perdere la ragione e l’uso dei sensi. Questo effetto è più o meno intenso, a seconda della potenza del tocco. Allora, ripeto, a motivo di quest’unione, la memoria si libera e si purifica da tutte le sue conoscenze; è come assente e, a volte, talmente dimentica di sé da dover fare un grande sforzo per ricordarsi di qualcosa.

6. Quest’oblio della memoria e questa sospensione dell’immaginazione sono, a volte, in seguito all’unione della memoria con Dio, di tale intensità che passa molto tempo senza che ci si accorga e senza sapere ciò che è accaduto nel frattempo. Inoltre, essendo sospesa l’immaginazione, non si avvertono neanche stimolazioni dolorose, perché senza immaginazione non c’è sentimento né attività di pensiero. Pertanto, perché Dio possa produrre questi tocchi di unione, l’anima deve separare la propria memoria da tutte le conoscenze sensibili. Ma dobbiamo notare che questi fenomeni di sospensione che si avvertono agli inizi dell’unione, non avvengono nei perfetti, perché in essi l’unione è già compiuta.

7. Qualcuno, pur ammettendo che tutto questo è valido, potrebbe obiettare che il corso e l’uso naturale delle potenze sono abolite, per cui la persona resta smemorata come una bestia, anzi peggio, perché non ragiona più né si ricorda delle esigenze e delle operazioni naturali. Ora, Dio non distrugge la natura, ma la perfeziona, mentre da quanto ho detto sembra che derivi necessariamente la distruzione, perché la persona dimentica i principi morali e razionali in vista dell’azione, come anche quelli della sua natura, onde metterli in pratica. Difatti non può ricordare nulla di tutto questo, perché è libera da tutte le conoscenze e immagini indispensabili per la reminiscenza.

8. A questa obiezione rispondo affermativamente. Infatti, quanto più la memoria si unisce a Dio, tanto più si vanno indebolendo in essa le conoscenze particolari fino a perderle del tutto nel momento in cui arriva all’unione perfetta. All’inizio, quando questa si va attuando, l’anima non può non avere un grande oblio di tutte le cose, poiché le loro forme e conoscenze a poco a poco vengono cancellate dalla memoria. Per questo motivo commette molto errori nelle sue abitudini e nel suo comportamento esteriore: non si ricorda di mangiare né di bere, di aver fatto o visto qualcosa, se le sia stato detto o meno una determinata cosa, appunto perché la sua memoria è assorbita in Dio. Ma quando arriva all’unione abituale, che è un bene grandissimo, l’anima non ha più dimenticanze di questo genere circa la sua vita morale e naturale; anzi manifesta una perfezione superiore nelle azioni convenienti e necessarie, sebbene queste non passino più per immagini e conoscenze della memoria. Difatti, quando vi è l’unione abituale, che è già uno stato soprannaturale, la memoria e le altre potenze perdono completamente le loro operazioni naturali; queste vengono elevate dal loro essere naturale a quello di Dio, che è soprannaturale. Essendo, così, la memoria trasformata in Dio, non può più ricevere l’impressione di forme e conoscenze relative alle cose. In questo stato le operazioni della memoria e delle altre potenze sono tutte divine. Dio, infatti, le possiede da assoluto Signore, avendole trasformate in sé; le muove e comanda ad esse divinamente, secondo il suo spirito e la sua volontà. In virtù di tale trasformazione, le operazioni di Dio e quelle dell’anima non sono distinte, quindi le operazioni dell’anima sono compiute da Dio, poiché, come dice san Paolo, chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1Cor 6,17). Ne segue che le operazioni dell’anima unita a Dio sono operazioni dello Spirito di Dio, quindi divine.

9. Da ciò deriva ancora che le azioni di queste anime sono convenienti e conformi alla ragione, senza mai essere imperfette, perché lo Spirito di Dio fa loro conoscere ciò che devono sapere e ignorare ciò che devono ignorare, ricordarsi di ciò che devono ricordare senza o con immagini e dimenticare ciò che devono dimenticare, amare ciò che devono amare e non amare ciò che non è in Dio. In tal modo tutti i moti primi e le operazioni delle potenze di quelle anime sono divini. Questo non deve stupirci, perché le potenze sono trasformate nell’essere divino.

10. Porterò qualche esempio circa queste operazioni. Eccone uno: una persona chiede a un’altra, che si trova in questo stato sublime, di raccomandarla a Dio. Ora questa non conserva nella memoria impressione alcuna o conoscenza di sorta di quanto le è stato chiesto. Se sarà bene raccomandare tale persona a Dio, e se Dio vorrà gradire la preghiera che gli verrà rivolta, egli agirà sulla volontà di questa persona ispirandole il desiderio di pregare. Se Dio non gradisce questa preghiera, sebbene quella persona si sforzi di pregare, non le riuscirà né avrà voglia di farlo. A volte Dio le suggerirà di pregare per altri che non conosce o di cui non ha mai sentito parlare. Ciò accade perché Dio muove le potenze di quelle anime a compiere opere conformi alla sua volontà e ai suoi disegni, non altre. Per questo motivo le opere e le preghiere di queste anime sortiscono sempre l’effetto desiderato. Tali erano le preghiere della gloriosissima Vergine nostra Signora. Fin dal primo istante della sua esistenza terrena fu elevata a questo stato sublime. Non ebbe mai impressa nella sua anima immagine di cosa creata, né da questa fu mossa, ma operò sempre sotto la guida dello Spirito Santo.

11. Ecco un altro esempio: una persona deve occuparsi di una faccenda necessaria in un momento determinato. Ella non se ne ricorderà grazie a qualche immagine, ma unicamente le verrà suggerito, senza sapere perché, quando e come converrà compierla, e lo farà perfettamente.

12. Lo Spirito Santo concede luce a tali anime non solo in queste cose, ma anche in molte altre che succedono o succederanno e, in molti casi, benché si trovino fisicamente lontane. A volte questa luce viene concessa all’anima per mezzo d’immagini intellettuali, ma più spesso senza alcuna forma percepibile, ignorando l’anima stessa come ciò avvenga. Tali conoscenze vengono accordate dalla Sapienza divina alle anime che s’impegnano a non sapere e a non apprendere per mezzo delle loro potenze naturali cosa alcuna che sia di ostacolo all’unione con Dio. Tuttavia, come notavo nell’abbozzo del “Monte”, esse, generalmente, pervengono a una piena conoscenza, secondo quanto dice il Saggio: La sapienza, artefice di tutto, mi ha insegnato ogni cosa (Sap 7,21).

13. Dirai forse che l’anima non può liberare e spogliare la sua memoria da tutte le immagini e rappresentazioni in modo da pervenire a uno stato così elevato. Infatti qui sorgono due difficoltà superiori alle forze e possibilità umane: la prima consiste nel liberarsi dalla propria natura per mezzo delle capacità naturali, il che è impossibile; la seconda, ancora più ardua, sta nel raggiungere e unirsi al soprannaturale. In verità è impossibile conseguire questo risultato con le sole forze naturali. È vero che è Dio a elevare l’anima a questo stato soprannaturale, ma è altrettanto vero che l’anima non deve trascurare nulla per disporvisi, e ciò può fare naturalmente, soprattutto con l’aiuto che Dio le offre progressivamente. Così, nella misura in cui essa avanza in questa rinuncia e in questo distacco da ogni forma sensibile, Dio le accorda un’unione più piena. Ora, tale risultato si verifica nell’anima passivamente, come dirò, Deo dante, nella notte passiva dell’anima. E così, quando a Dio piacerà e secondo la disposizione a cui l’anima sarà pervenuta, le sarà finalmente concessa l’unione perfetta in modo abituale.

14. Quanto agli effetti divini che l’unione perfetta produce nell’anima, da parte sia dell’intelletto sia della memoria sia della volontà, non ne parlerò in questa notte o purificazione attiva, perché questa da sola non basta a produrre l’unione divina. Ne parlerò, invece, nella notte passiva, attraverso cui si realizza l’unione dell’anima con Dio. Pertanto, ora esporrò solo il modo indispensabile perché la memoria si disponga attivamente, per quanto dipende da essa, a entrare in questa notte e purificazione. La persona spirituale tenga abitualmente presente questa cautela: non si attacchi né conservi nella memoria tutto ciò che udrà, vedrà, odorerà, gusterà e toccherà; lasci piuttosto che essa se ne dimentichi subito e, se necessario, cerchi di applicarsi in questa direzione, con la stessa diligenza che altri usano nel ricordarsene, di modo che in questa facoltà non resti alcuna conoscenza o immagine di quelle sensazioni, come se non esistessero al mondo. Così avrà la memoria libera e distaccata, non legata ad alcuna considerazione proveniente dall’alto o dal basso, quasi non possedesse questa potenza, lasciando che si perda liberamente nell’oblio, come cosa che intralcia se non viene rimossa. Difatti tutto ciò che è naturale, più che aiutare, ostacola, se ce ne vogliamo servire in ciò che è soprannaturale.

15. Se affiorano i dubbi e le obiezioni di cui si è parlato a proposito dell’intelletto, cioè che in tale stato non si fa nulla, si perde tempo e l’anima si priva dei beni spirituali che può ricevere attraverso la memoria, ricordo che si è già risposto a tutte queste difficoltà, e lo farò di nuovo, più avanti, parlando della notte passiva. Non è, perciò, il caso di dilungarsi qui. Occorre, invece, ricordare soltanto che, se l’anima non avverte un profitto da questa sospensione di conoscenze e di ricordi, non per questo deve scoraggiarsi. Dio, infatti, non mancherà di sostenerla a tempo debito. Pertanto, trattandosi di ottenere un bene così grande, conviene sopportare con pazienza e fiducia.

16. È vero che a stento si riesce a trovare un’anima che sia mossa da Dio in tutto e sempre e gli sia unita così abitualmente che le sue facoltà siano mosse divinamente senza la mediazione di alcuna immagine. Tuttavia vi sono anime che molte frequentemente sono mosse da Dio; non sono loro a muoversi, come afferma san Paolo: i figli di Dio, cioè coloro che sono trasformati e uniti a Dio, sono guidati dallo Spirito di Dio, che spinge le loro facoltà a compiere opere divine (Rm 8,14). Non stupisce che le loro opere siano divine, dal momento che l’unione dell’anima con Dio è divina.

CAPITOLO 3

Ove si tratta di tre specie di danni causati all’anima se non fa la notte dentro di sé, rifiutando le conoscenze e le considerazioni della memoria. Si parla del primo danno.

1. La persona spirituale è soggetta a tre danni o inconvenienti, nel caso che continui a servirsi delle conoscenze e considerazioni naturali della memoria per andare a Dio o per altri scopi. I primi due inconvenienti sono positivi, il terzo è privativo. Il primo nasce dal contatto con le cose del mondo, il secondo è causato dal demonio; il terzo, quello privativo, è un ostacolo, un turbamento che tali conoscenze producono e causano nell’anima per impedirle l’unione con Dio.

2. Il primo inconveniente, prodotto dal contatto con le cose del mondo, consiste nell’essere soggetti, a causa delle conoscenze e considerazioni della memoria, a ogni genere di danni, come le falsità, le imperfezioni, le cupidigie, i giudizi temerari, le perdite di tempo e tante altre cose che generano nell’anima molte impurità. È chiaro che si cadrà necessariamente in molte falsità se si darà ascolto alle conoscenze e ai ragionamenti, perché molte volte il vero apparirà falso, il certo dubbioso, o viceversa, dato che difficilmente possiamo conoscere a fondo una verità. Ora, l’anima può preservarsi da tutti questi pericoli chiudendo gli occhi della memoria a ogni sorta di ragionamenti e di conoscenze.

3. Si cade in imperfezioni a ogni passo se la memoria si applica a ciò che ha udito, visto, toccato, odorato, gustato, ecc.; ogni oggetto imprime in questa facoltà qualche inclinazione al dolore, al timore, all’odio, alla vana speranza, alla falsa gioia, alla vanagloria… Tutte queste impressioni sono quanto meno delle imperfezioni e, a volte, veri e propri peccati veniali, ecc.; generano nell’anima molte impurità, anche se le considerazioni e conoscenze hanno per oggetto Dio. È evidente, inoltre, che di lì provengano desideri smodati, perché nascono naturalmente da tali conoscenze e considerazioni della memoria; d’altronde il solo desiderio di voler avere queste conoscenze e considerazioni è una cupidigia. È, poi, ben chiaro che i giudizi temerari saranno numerosi, perché la memoria non può fare a meno di occuparsi del bene e del male altrui; ora, molto spesso ciò che è male le appare bene e ciò che è bene le appare male. Credo che nessuno potrà mai liberarsi da tutti questi inconvenienti, se non tenendo nella notte più profonda la memoria nei confronti di tutte le cose.

4. Se mi obietterai che l’uomo potrà benissimo superare tutte queste difficoltà quando gli si presenteranno, ti rispondo che è impossibile che le superi del tutto se dà retta a tali conoscenze. Difatti in queste si insinuano mille imperfezioni e inconvenienti, alcuni dei quali sono così sottili e nascosti da attaccarsi naturalmente all’anima, senza che essa se ne accorga, come la pece si attacca a chi la tocca. Ripeto, dunque, che il miglior modo per vincere tutto in una volta è negare alla memoria ogni conoscenza. Replicherai ancora che l’anima si priva di molti buoni pensieri e considerazioni che le attirerebbero i favori di Dio. A ciò rispondo che la migliore preparazione a tali grazie è la purezza dell’anima, che consiste nel distacco da ogni affetto per le creature, le cose temporali e il ricordo volontario che se ne conserva. Credo che tale affezione non può non attaccarsi fortemente all’anima a causa dell’imperfezione che le sue potenze apportano da sé nelle loro operazioni. Per questo motivo è meglio cercare di ridurre al silenzio tali potenze e metterle a tacere, per consentire a Dio di parlare. Difatti, come ho detto, se l’anima vuole raggiungere questo stato di unione, deve lasciar perdere le sue operazioni naturali; e vi perviene quando, come dice il profeta, entra con tutte le sue potenze nel deserto ove Dio parla al suo cuore (Os 2,14).

5. Mi replicherai che l’anima non conseguirà alcun bene e sarà esposta a molte distrazioni e debolezze, se la memoria non medita sulle cose di Dio e non vi ragiona sopra. Rispondo che se la memoria si ritrae contemporaneamente da tutti i ricordi, è impossibile che sia soggetta ai mali, alle distrazioni, ad altre divagazioni o difetti; infatti queste miserie arrivano sempre in seguito alle stravaganze della memoria, non trovando altro luogo donde poter entrare. Proprio questo accade quando chiudiamo la porta alle considerazioni e ai discorsi sulle cose di lassù e la apriamo a quelle di quaggiù. Ora, invece, noi chiudiamo la porta a tutte le cose che possono essere un ostacolo all’unione, facendo sì che la memoria resti silenziosa e muta e che soltanto l’udito interiore presti in silenzio attenzione a Dio, dicendo con il profeta: Parla, Signore, ché il tuo servo ti ascolta (1Sam 3,10). Allo stesso modo lo sposo del Cantico voleva che fosse la sua sposa, quando diceva: Sorella mia sposa, giardino chiuso, fontana sigillata tu sei (Ct 4,12), chiusa cioè a tutte le cose che vi potrebbero entrare.

6. L’anima, dunque, resti chiusa, senza preoccupazioni e pene! Colui che entrò a porte chiuse con il suo corpo nel cenacolo dov’erano i suoi discepoli, dando loro la pace (Gv 20,19-20), senza che essi sapessero o pensassero se e come ciò potesse accadere, entrerà spiritualmente anche nell’anima senza che questa se ne renda conto o vi cooperi, limitandosi solo a tenere le porte delle sue potenze – memoria, intelletto e volontà – chiuse a tutte le conoscenze. Egli allora gliele riempirà di pace, e farà scorrere nell’anima, come dice il profeta, un fiume di pace (Is 48,18), per dissipare tutti i timori e i sospetti, i turbamenti e le tenebre che prima le facevano temere di essere o di andare perduta. L’anima non trascuri, dunque, la preghiera e attenda nello spogliamento e nel distacco da ogni cosa, perché il suo bene non tarderà.

CAPITOLO 4

Ove si parla del secondo danno che può venire all’anima da parte del demonio attraverso le conoscenze naturali della memoria.

1. Il secondo danno positivo in cui può incorrere l’anima attraverso le conoscenze della memoria ha per autore il demonio, il quale per la via appunto della memoria s’insinua facilmente in essa. Egli può, infatti, suscitare immagini, conoscenze o ragionamenti e per loro mezzo indurre l’anima alla superbia, all’avarizia, all’ira, all’invidia, ecc.; le può insinuare un odio ingiusto, un amore vano e ingannarla in molti altri modi. Oltre a questo, è solito imprimere e fissare nell’immaginazione le sue suggestioni in maniera tale che il falso sembra vero e il vero falso. Insomma, la maggior parte degli inganni o dei mali che il demonio procura all’anima passa attraverso le conoscenze e considerazioni della memoria. Ma se questa facoltà se ne distacca e le annulla nell’oblio, chiude completamente la porta a tutti i danni del demonio e si libera da tutte le tentazioni. Ciò è un gran bene. Il demonio, infatti, non può nulla nell’anima se non mediante le operazioni delle sue potenze, soprattutto per mezzo delle conoscenze, perché da queste dipendono quasi tutte le operazioni delle altre potenze. Di conseguenza, se la memoria si distacca da tali conoscenze, il demonio non può far nulla, perché non trova niente a cui appigliarsi e, mancandogli ogni mediazione, non può nulla.

2. Vorrei che le persone spirituali comprendessero bene quanti danni provocano i demoni nelle anime attraverso la memoria, quando si affidano molto ad essa. Quante tristezze, afflizioni e gioie vane ispira loro riguardo ai pensieri su Dio e sulle cose del mondo! Quante impurità egli fa radicare nel loro spirito, distraendole con forza dal vero raccoglimento, che consiste nell’applicare interamente l’anima, con le sue potenze, al solo bene incomprensibile e allontanarla da tutte le cose sensibili, perché non sono questo bene! Anche se da un tale distacco non seguisse un bene così grande com’è quello di porre l’anima in Dio, sarebbe sempre un gran bene tenerla lontana da molte pene, afflizioni e tristezze, oltre che dalle imperfezioni e dai peccati.

CAPITOLO 5

Ove si parla del terzo danno causato all’anima dalle conoscenze naturali particolari delle memoria.

1. Il terzo danno causato all’anima dalle conoscenze naturali della memoria è privativo, perché le può impedire il bene morale e privarla di quello spirituale. Anzitutto, per mostrare come queste conoscenze impediscano nell’anima il bene morale, occorre sapere che esso consiste nel reprimere le passioni e nel frenare gli appetiti disordinati; allora l’anima ne ottiene tranquillità, pace, serenità e virtù morali, tutte cose che costituiscono il bene morale. L’anima non può padroneggiare queste briglie e questo freno se non dimenticando e allontanando da sé tutto ciò che genera le sue affezioni. Tutti i turbamenti le vengono dalle conoscenze suggerite dalla memoria. Difatti, se tutte le cose di questo mondo vengono dimenticate, non c’è nulla che possa turbare la sua pace o eccitare i suoi appetiti, perché, come si dice, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

2. Di tale verità facciamo esperienza ogni giorno. Difatti vediamo che tutte le volte che l’anima si mette a pensare a qualcosa, rimane più o meno impressionata e agitata secondo la conoscenza che ha di quella cosa: se è dolorosa o spiacevole, ne ricava tristezza oppure odio, ecc.; se gradevole, se ne rallegra e desidera quella cosa, ecc. Da ciò si deduce che il mutamento delle impressioni genera necessariamente turbamento nell’anima. Questa passa dalla gioia alla tristezza, dall’odio all’amore; essa non può mai perseverare nello stesso stato, che è un effetto della tranquillità morale, a meno che non cerchi di dimenticare tutte le cose create. Da ciò risulta chiaramente che tutte le conoscenze sono di grande ostacolo all’anima per il conseguimento del bene delle virtù morali.

3. Che poi la memoria non completamente distaccata sia un ostacolo per il conseguimento del bene spirituale è chiaramente confermato da quanto detto sopra. Difatti l’anima turbata, che non possiede il fondamento del bene morale, non è capace, come tale, di beni spirituali, i quali s’imprimono solo nell’anima dove regnano l’equilibrio interiore e la pace. Oltre a ciò, se l’anima si attacca e dà importanza alle conoscenze della memoria, poiché può applicarsi a una sola cosa alla volta, nella fattispecie alle conoscenze sensibili di tale facoltà, non potrà occuparsi delle cose incomprensibili, cioè di Dio. Per andare a Dio, come ho sempre detto, l’anima deve procedere piuttosto non comprendendo che comprendendo, deve cambiare ciò che è mutevole e comprensibile con ciò che è immutabile e incomprensibile.

CAPITOLO 6

Ove si parla dei vantaggi che l’anima trova nell’oblio e nel rifiuto di tutti i pensieri e le conoscenze, che le possono venire naturalmente dalla memoria.

1. Da quanto ho detto circa i danni causati all’anima dalle conoscenze della memoria, si possono anche dedurre i vantaggi che, al contrario, le derivano grazie all’oblio e al rifiuto di tali conoscenze, perché, come dicono i filosofi, la conoscenza di un contrario serve a conoscere l’altro contrario. Quanto al primo vantaggio, l’anima gode la tranquillità e la pace dello spirito; non si è più esposti ai turbamenti e alle agitazioni che nascono dai pensieri e dalle conoscenze della memoria; di conseguenza, si possiede la purezza della coscienza e dell’anima, che è un bene superiore. L’anima, inoltre, è profondamente disposta ad acquisire la sapienza umana e quella divina, come pure a praticare le virtù.

2. Quanto al secondo, ci si libera da molte suggestioni, tentazioni e impulsi che il demonio insinua nell’anima per mezzo di pensieri e conoscenze, per farla cadere in molte impurità e peccati, come dice Davide: Pensano e parlano con malizia (Sal 72,8). Per questo, messi da parte i pensieri, il demonio non ha più il mezzo naturale per combattere lo spirito.

3. Quanto al terzo, grazie all’oblio e alla rinuncia di tutte le conoscenze, l’anima possiede la disposizione necessaria per essere guidata e istruita dallo Spirito Santo, che, come dice il Saggio, se ne sta lontano dai discorsi insensati (Sap 1,5). Tuttavia, anche se l’anima per mezzo di tale oblio e rinuncia non si liberasse che dalle pene e dai turbamenti della memoria, ciò costituirebbe già un grande vantaggio e un bene immenso. Difatti le pene e i turbamenti, che si verificano nell’anima in seguito ad avvenimenti spiacevoli o casi avversi, non giovano a nulla né valgono a cambiarli in meglio; anzi di solito li aggravano, e danneggiano persino l’anima. Per questo Davide afferma: L’uomo è solo un soffio che si agita (Sal 38,7). È chiaro, dunque, che è sempre inutile agitarsi, perché l’agitazione non reca alcun profitto. E allora, anche se tutto finisse o crollasse, se tutti gli avvenimenti andassero male e fossero sfavorevoli, è inutile agitarsi perché, lungi dal trovare un rimedio a tali mali, non si farebbe altro che aumentarli. Occorre sopportare tutto con uguale e pacifica tranquillità; tale disposizione non solo procura all’anima molti beni, ma le consente anche di meglio comprendere le avversità, valutarle più serenamente e prendere gli opportuni rimedi.

4. Salomone, che conosceva molto bene questi danni e questi vantaggi, ha detto: Ho conosciuto che non c’è nulla di meglio per l’uomo che godere e agire bene nella sua vita (Qo 3,12). Con ciò intendeva dire che in tutti gli avvenimenti, per quanto avversi, dobbiamo piuttosto rallegrarci che turbarci, per non perdere un bene superiore a ogni prosperità, cioè la tranquillità dello spirito e la pace dell’anima in tutte le circostanze, sia avverse che favorevoli, affrontandole tutte alla stessa maniera. L’uomo non perderebbe mai questa pace se non solo ponesse in oblio tutte le conoscenze e tenesse lontani i suoi pensieri, ma per quanto possibile evitasse anche di udire, vedere e conversare. La nostra natura, infatti, è talmente labile e fragile che, malgrado le sue buone abitudini, a stento eviterà d’incorrere nei turbamenti e nelle agitazioni dello spirito provenienti dalle conoscenze della memoria. Quando questa facoltà teneva da parte tali conoscenze, godeva di pace e tranquillità. Per questo Geremia ha detto: Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima (Lam 3,20).

CAPITOLO 7

Ove si parla del secondo genere di conoscenze della memoria, cioè di quelle immaginarie soprannaturali.

1. Parlando del primo genere di conoscenze, cioè quelle naturali, ho proposto una dottrina che si applica alle conoscenze immaginarie naturali. Ora è opportuno continuare la trattazione anche a proposito di altre rappresentazioni e conoscenze che la memoria conserva in sé e che sono soprannaturali, come le visioni, le rivelazioni, le locuzioni e i sentimenti che ci vengono per via soprannaturale. Quando tali fenomeni si verificano nell’anima, abitualmente lasciano impressa nella memoria o nella fantasia un’immagine, una forma, una figura, una conoscenza, che talvolta è molto viva ed efficace. A tale riguardo occorre evitare che tali fenomeni ingombrino la memoria e le siano di ostacolo per l’unione con Dio nella purezza e nella perfezione della speranza.

2. Voglio dire che, per raggiungere questo bene, l’anima non deve mai concentrarsi in queste conoscenze chiare e distinte, pervenutele per via soprannaturale, al fine di conservarne la forma, la figura o l’immagine. Dobbiamo, del resto, lasciarci sempre guidare dal seguente principio: quanto più l’anima si attacca a qualche conoscenza naturale o soprannaturale chiara e distinta, tanto minore sarà la sua capacità e disposizione a entrare nell’abisso della fede, dove tutto il resto viene assorbito. Infatti, come ho detto, nessuna forma o conoscenza soprannaturale che possa presentarsi alla memoria è Dio; di conseguenza l’anima, per andare a Dio, deve disfarsi di tutte le conoscenze o immagini per unirsi a Dio nella speranza. Ogni possesso, infatti, è contro la speranza, perché, come dice san Paolo, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? (Rm 8,24). Pertanto, quanto più la memoria si spoglia, tanto più cresce nella speranza; di conseguenza, quanto più ha speranza, tanto più si unisce a Dio. Relativamente a Dio, infatti, più l’anima spera in lui, più ottiene; quindi la sua speranza cresce in proporzione della sua rinuncia alle cose. Quando si sarà completamente spogliata, allora potrà godere del possesso di Dio ed essere unita a lui. Ci sono, però, molti che non vogliono privarsi della dolcezza e del piacere che la memoria procura loro attraverso le conoscenze. Per questo motivo non arrivano al sommo possesso e alla piena dolcezza di Dio, perché colui che non rinuncia a tutto ciò che possiede, non può essere discepolo di Cristo (Lc 14,33).

CAPITOLO 8

Ove si enumerano i danni che le conoscenze di cose soprannaturali possono causare all’anima se si ferma a considerarle. Si tratta qui del primo.

1. La persona spirituale, che si ferma a riflettere sulle conoscenze e le immagini impresse nella sua anima per via soprannaturale si espone a cinque danni.

2. Il primo sta nel fatto che spesso essa s’inganna scambiando una cosa per un’altra. Il secondo si verifica quando si trova nell’occasione prossima di cadere in qualche presunzione o forma di vanità. Il terzo proviene dal demonio, al quale la persona spirituale offre molte possibilità d’ingannarla per mezzo delle suddette conoscenze. Il quarto le impedisce l’unione con Dio nella speranza. Il quinto si avvera, il più delle volte, quando concepisce Dio in maniera grossolana.

3. Quanto al primo danno è chiaro che, se la persona spirituale si ferma a riflettere su dette conoscenze e immagini, molto spesso può ingannarsi nei suoi giudizi. Difatti, come nessuno può conoscere perfettamente le cose che passano naturalmente nella sua immaginazione né darne un giudizio completo e sicuro, tanto meno potrà farlo a riguardo delle manifestazioni soprannaturali che superano le capacità umane e che accadono raramente. Così, molto spesso, penserà che queste cose vengano da Dio, mentre invece sono frutto solo della sua fantasia. Altre volte penserà che tali cose vengano da Dio, mentre al contrario vengono dal demonio, o le attribuirà al maligno mentre invece provengono da Dio. Inoltre, molte volte s’imprimerà assai vivamente nella persona spirituale il ricordo del bene e del male altrui o proprio, e di altre conoscenze, che riterrà certe e vere, e invece sono profondamente false; altre, che sono vere, le giudicherà false, anche se questo giudizio mi sembra più sicuro, perché solitamente nasce dall’umiltà.

4. Se poi non s’inganna sulla cosa in sé, può sbagliarsi sulla sua quantità o qualità, pensando che ciò che è poco sia molto e ciò che è molto sia poco. Circa la qualità, considerando ciò che è nella sua immaginazione, penserà a un oggetto determinato, mentre è un altro del tutto diverso, confondendo, come dice Isaia, le tenebre con la luce e la luce con le tenebre, l’amaro col dolce e il dolce con l’amaro (Is 5,20). Se poi indovinasse qualche aspetto, sarebbe strano che non si sbagliasse in un altro; e non c’è bisogno che dia volutamente un giudizio, ma basta che voglia accettare dette manifestazioni per subire, almeno passivamente, qualche danno: se non il presente di cui sto parlando, certamente qualcun altro di cui parlerò tra poco.

5. La persona spirituale, quindi, se non vuole cadere nel pericolo d’ingannarsi, eviti d’applicare il suo giudizio per sapere cosa possa essere ciò che prova o sente, quale sia la natura di tale o tal altra visione, conoscenza o sensazione; non desideri saperlo, non vi faccia caso, se non per parlarne al suo padre spirituale, che le insegnerà a liberare la memoria da tutte queste conoscenze. Queste, infatti, in quanto tali, non potranno aiutarla ad amare Dio quanto il più piccolo atto di fede viva e di speranza, emesso nello spogliamento e nella rinuncia a tutte queste forme di conoscenza.

CAPITOLO 9

Ove si parla del secondo danno, cioè del pericolo di cadere nella stima di sé e nella presunzione.

1. Le conoscenze soprannaturali della memoria, di cui sto parlando, costituiscono anche per le persone spirituali una facile occasione di cadere in qualche forma di presunzione o di vanità, se vi fissano l’attenzione e le tengono in considerazione. Perciò chi non ha alcuno di tali favori, non corre il rischio di cadere in questo vizio, perché non c’è in lui cosa che lo porti alla presunzione; al contrario, chi riceve simili favori è indotto a credersi qualcuno, dal momento che gli vengono accordate comunicazioni soprannaturali. Senza dubbio può attribuirli a Dio, ringraziarlo e ritenersene indegno; tuttavia, ordinariamente, tali favori suscitano nello spirito una qualche segreta soddisfazione e stima di sé, oltre a un apprezzamento a loro riguardo. Senza accorgersi, si cadrà allora nella superbia spirituale.

2. Tali persone possono avere una prova evidente di tutto ciò nella ripugnanza e antipatia che avvertono per coloro che non lodano il loro spirito né stimano i favori che esse ricevono, o ancora, nella pena che provano quando pensano e sentono parlare di altri che hanno le stesse manifestazioni e di più grandi ancora. Tutti questi sentimenti derivano da una segreta stima di sé e dall’orgoglio, in cui forse giacciono sprofondate tali persone, senza saperlo. Pensano che una certa conoscenza della propria miseria basti, pur essendo insieme piene di segreta stima e di presunzione, compiacendosi più dei loro talenti e dei loro beni spirituali che di quelli del prossimo. Assomigliano al fariseo che ringraziava Dio di non essere come gli altri, di avere tale o tal altra virtù, e pieno di presunzione si compiaceva di se stesso (cfr. Lc 18,11-12). Simili persone non si esprimono manifestamente come il fariseo, tuttavia di solito nutrono i suoi stessi sentimenti. Alcune, addirittura, diventano orgogliose al punto di essere peggiori del demonio. Scorgendo in sé alcune conoscenze o sentimenti di devozione o di dolcezza che a loro sembrano venire da Dio, si sentono pienamente soddisfatte. Pensano di essere molto vicine a Dio e ritengono quelli che non hanno tali favori inferiori a loro, perciò li disprezzano come il fariseo disprezzava il pubblicano.

3. Per evitare questo danno deleterio, spregevole agli occhi di Dio, occorre considerare due cose. La prima è che la virtù non consiste nelle conoscenze che vengono da Dio o nei sentimenti che si avvertono nei suoi confronti, per quanto siano elevati, né in cose simili che si possano sperimentare; essa consiste, invece, in ciò che non si sente in sé, cioè in una profonda umiltà, nel disprezzo di sé e di tutte le cose – un disprezzo molto sincero e radicato nell’anima – che permette di essere felici quando gli altri nutrono gli stessi sentimenti nei nostri confronti, poiché non vogliamo contare nulla per loro.

4. La seconda cosa da ricordare è la seguente: tutte le visioni, rivelazioni, sentimenti celestiali e tutto ciò che si vorrà immaginare di più sublime non valgono quanto il più piccolo atto d’umiltà, che produce gli stessi effetti della carità. Questa non è attaccata ai propri interessi e non li ricerca; pensa male solo di se stessa; si preoccupa non del proprio bene ma di quello altrui (cfr. 1Cor 13,4-7). Per tutti questi motivi è opportuno che le persone spirituali non annettano importanza a queste conoscenze soprannaturali, ma cerchino di dimenticarle per conservare la libertà di spirito.

CAPITOLO 10

Ove si parla del terzo danno causato all’anima dal demonio per mezzo delle conoscenze immaginarie della memoria.

1. Da ciò che ho detto sopra, è facile capire quanto danno può recare all’anima il demonio per mezzo di queste conoscenze soprannaturali. Egli, infatti, non solo può presentare alla memoria e alla fantasia molte conoscenze e immagini ingannevoli che sembrano vere e buone, imprimendole attraverso le sue suggestioni nello spirito e nei sensi con molta efficacia e sicurezza. In tal modo l’anima si persuade che non può essere diversamente da come le viene rappresentato. Poiché il maligno si trasforma in angelo di luce (cfr. 2Cor 11,14), l’anima crede che sia luce. Ma, ancora, il demonio può tentarla in molti altri modi nelle conoscenze che davvero vengono da Dio, portando verso queste, in modo disordinato, gli appetiti e gli affetti sia dello spirito che dei sensi. Se, infatti, l’anima si compiace di queste conoscenze, è molto facile al demonio aumentare in essa questi appetiti e affetti, farla cadere nel vizio della gola spirituale e causarle altri danni.

2. Per riuscirci meglio è solito suggerire e insinuare dei gusti, sapori e piaceri sensibili nelle cose stesse che riguardano Dio. In questo modo l’anima, attratta e abbagliata da questi gusti sensibili, a poco a poco ne resta accecata, vi si attacca molto più che all’amore, o almeno non si dedica ad amare Dio; fa più caso a queste conoscenze che all’abnegazione e allo spogliamento che vi è nella fede, nella speranza e nell’amore di Dio. Il demonio, così, a poco a poco, la inganna e la induce a credere alle sue menzogne con molta facilità. Una volta accecata, l’anima non si accorge più della falsità, e il male non le sembra più male, ecc.; le tenebre le sembrano luce e la luce tenebre. Cade così in mille sciocchezze riguardo a ciò che è naturale, morale, spirituale. Si avvera quanto dice l’adagio: il vino si trasforma in aceto. Tutto questo perché l’anima non ha respinto fin dall’inizio il piacere che provava nelle cose soprannaturali. Tale piacere, agli inizi, era poca cosa e non si rivelava come un male tanto grave; così l’anima non vi faceva molto caso, ma lo lasciava stare, e quello cresceva, come il granello di senapa che divenne un grande albero (Mt 13,31-32). Proprio come si usa dire, un piccolo errore iniziale alla fine diventa grande.

3. Per evitare questo grave danno che causa il demonio, l’anima deve respingere queste conoscenze, perché altrimenti è sicuro che essa se ne lascerà accecare e cadrà nell’inganno. Infatti, indipendentemente dal demonio, i gusti, i diletti e le soavità per loro natura accecano l’anima. Ciò è quanto vuol farci comprendere Davide quando afferma: Forse nei miei piaceri mi accecheranno le tenebre e avrò la notte come mia luce (Sal 138,11 Volg.).

CAPITOLO 11

Ove si parla del quarto danno che le conoscenze soprannaturali particolari della memoria possono causare all’anima. Esso consiste nell’impedire l’unione divina.

1. Non c’è molto da dire su questo quarto danno, perché se ne parla continuamente in questo libro III. Abbiamo infatti provato come l’anima, per potersi unire a Dio nella speranza, deve rinunciare a ogni possesso da parte della memoria. Perché la speranza in Dio sia piena, non dev’esserci nulla nella memoria che non sia Dio. Inoltre, ripeto, nessuna forma, figura, immagine o conoscenza, celeste o terrena, naturale o soprannaturale, che possa entrare nella memoria, nessuna è Dio né può essere simile a lui. Ciò è quanto insegna Davide nei seguenti termini: Fra gli dèi nessuno è come te, Signore (Sal 85,8). Perciò, se la memoria vuole ritenere qualcuna di tali conoscenze, frappone ostacoli alla sua unione con Dio, prima di tutto perché si crea un impedimento, poi perché più possiede dette conoscenze, minore è la sua speranza.

2. È, dunque, necessario che l’anima rifiuti e dimentichi le immagini e le conoscenze particolari riguardanti le cose soprannaturali per non ostacolare l’unione con Dio, nella perfetta speranza, secondo la memoria.

CAPITOLO 12

Ove si parla del quinto danno causato all’anima dalle forme e conoscenze immaginarie soprannaturali. Esso consiste nell’avere un concetto meschino e improprio di Dio.

1. Il quinto danno che l’anima subisce non è meno grave dei precedenti. Consiste nel voler trattenere nella parte immaginativa della memoria le suddette forme e immagini di cose che le vengono comunicate soprannaturalmente, specialmente se intende assumerle come mezzo per l’unione divina. È molto facile, infatti, concepire la natura e la sublimità di Dio in maniera meno degna e profonda di quanto convenga alla sua inconoscibilità. Sebbene la ragione e il giudizio non dicano espressamente che Dio è simile a qualcuna di quelle immagini, tuttavia la stima che l’anima nutre per esse, se di fatto le stima, fa sì che essa non apprezzi né senta Dio in modo così sublime come insegna la fede, la quale ci rivela un Dio incomparabile e incomprensibile, ecc. Ora, non solo l’anima sottrae a Dio tutta la stima che ripone in ciò che è creato, ma istituisce naturalmente, nel suo intimo, per l’apprezzamento che accorda a tali conoscenze, un certo confronto fra esse e Dio. Simile confronto non le consente di concepire e di stimare Dio in modo così sublime come si dovrebbe. Difatti le creature, sia terrene che celesti, come anche tutte le conoscenze e immagini distinte, naturali e soprannaturali, che possono essere comunicate all’anima, per quanto elevate siano in questa vita, non possono essere messe a confronto con la natura di Dio, perché, come dicono i teologi, Dio non cade sotto alcun genere o specie come le creature. L’anima, in questa vita, non è in grado di ricevere chiaramente e distintamente se non ciò che cade sotto il genere e la specie. Per questo san Giovanni dice che Dio nessuno l’ha mai visto (Gv 1,18). E Isaia afferma che cuore umano non ha mai saputo come sia Dio (Is 64,4). Inoltre Dio disse a Mosè che non poteva vedere il suo volto e rimanere vivo (Es 33,20). Pertanto colui che ingombra la memoria e le altre potenze dell’anima con ciò che esse possono comprendere, non può stimare né considerare Dio come si deve.

2. Facciamo un paragone molto semplice. È chiaro che quanto più uno tiene gli occhi fissi sui servi del re e bada a loro, tanto meno presta attenzione e attribuisce stima al re. Difatti, anche se non c’è questa intenzione formale ed esplicita nello spirito, la si mostra nei fatti, poiché più attenzione si riserva ai servi, più se ne sottrae al loro signore. Non si ha, dunque un alto concetto del re, perché i servi sembrano essere qualcosa di più del loro signore. Lo stesso accade all’anima nei confronti di Dio quando apprezza le conoscenze suddette. Indubbiamente il paragone è molto imperfetto, perché, ripeto, Dio è un essere completamente diverso dalle sue creature e in confronto a loro è infinitamente superiore. Per questo motivo l’anima deve dimenticarle tutte e non considerarle affatto, onde fissare gli occhi su Dio con una fede e una speranza perfette.

3. Perciò coloro che non solo badano a queste conoscenze immaginarie, ma anche pensano che Dio sia simile a qualcuna di queste, e che per loro tramite essi possono arrivare all’unione divina, si sbagliano di grosso. A poco a poco perderanno la luce della fede, mediante la quale l’intelletto si unisce a Dio, e non raggiungeranno le altezze della speranza, per mezzo della quale la memoria si unisce a Dio, a condizione di essere distaccati da tutte le conoscenze immaginarie.

CAPITOLO 13

Ove si parla dei benefici che l’anima ottiene nell’allontanare da sé le conoscenze immaginarie. Si risponde a un’obiezione e si spiega la differenza che intercorre fra le conoscenze immaginarie naturali e quelle soprannaturali.

1. L’anima trova dei vantaggi nel liberare la memoria dalle conoscenze immaginarie. Ciò è mostrato chiaramente da quanto ho detto a proposito dei cinque danni nei quali incorre l’anima quando pone l’attenzione in tali rappresentazioni, come pure quando vuole conservare in sé l’impressione delle conoscenze naturali. A parte questi, vi sono altri vantaggi, che procurano grande riposo e serenità dello spirito. Senza parlare della pace che l’anima gode naturalmente quando è libera da immagini e rappresentazioni, è libera altresì dalla preoccupazione di sapere se esse siano buone o cattive e come debba comportarsi con le une e con le altre. Inoltre è libera anche dalla fatica e dal dover spendere tempo con i maestri di vita spirituale per discernere se siano buone o cattive, se appartengano a questo o a quel genere; infatti non ha più bisogno di sapere tutto ciò, perché non ha da badarci. Così tutto il tempo e la diligenza che l’anima avrebbe dovuto spendere per rendersi conto di ciò, può impiegarlo in qualche esercizio migliore e più utile, come, ad esempio, indirizzare la volontà verso Dio e perseguire con cura la spoliazione e la povertà sul piano sia dello spirito che dei sensi. Ora, tale spoliazione consiste nel volersi privare concretamente di ogni consolazione o conoscenza che funga da appoggio interiore o esteriore. Questo si ottiene facilmente quando l’anima vuole e cerca di staccarsi da tutte queste immagini; ne ricaverà un grande vantaggio, come quello di avvicinarsi a Dio, che non ha né immagine né forma né figura; ciò avverrà nella misura in cui si distaccherà da tutte le forme, figure o rappresentazioni immaginarie.

2. Ma forse potrai obiettare: perché molti autori spirituali consigliano alle anime di trarre profitto dalle comunicazioni e dai sentimenti che Dio accorda loro e di desiderare, anzi, di ricevere tali favori per avere qualcosa da offrirgli? Infatti, se lui non ci dà qualcosa, non abbiamo nulla da offrirgli. Invero, san Paolo dice: Non spegnete lo Spirito (1Ts 5,19). E lo Sposo dice alla sposa: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (Ct 8,6). Ora qui vi è già una conoscenza. Secondo l’insegnamento offerto in precedenza, non bisognerebbe ricercare tali conoscenze; al contrario, occorrerebbe respingerle e liberarsene ogni volta che Dio le manda. Ma è chiaro che se Dio le concede, lo fa in vista di un bene, ed esse avranno un buon effetto. Non è giusto gettar via le pietre preziose (cfr. Mt 7,6). Rifiutare i favori di Dio è una sorta di orgoglio, quasi che senza di essi, da noi soli, potessimo fare qualcosa.

3. Per rispondere a questa obiezione occorre ricordare quanto ho detto nei capitoli 16 e 17 del libro II, dove si può trovare una soluzione a questo dubbio. Difatti in quei capitoli ho detto che il bene procurato all’anima dalle conoscenze soprannaturali, quando vengono da Dio, si produce in essa, passivamente, nell’istante stesso in cui tali conoscenze si presentano ai sensi, senza che le potenze facciano qualcosa da parte loro. Non è quindi necessario che la volontà faccia alcunché per accoglierle, perché, come dicevo, se l’anima vuole intervenire con le sue potenze, con la sua cooperazione limitata e naturale, ostacolerà l’azione soprannaturale che Dio in quel momento compie in lei per mezzo di quelle conoscenze, anziché trarre profitto da tale situazione. Poiché quelle conoscenze immaginarie si comunicano passivamente nell’anima, essa deve comportarsi passivamente nei loro confronti, evitando di emettere qualsiasi atto interno o esterno. Ciò significa custodire i sentimenti graditi a Dio, dal momento che in questo modo l’anima non li compromette a causa del suo modo umano di agire. Ciò significa anche non soffocare lo Spirito, perché si segue una linea di condotta voluta da Dio. Lo soffocherebbe se, concedendole Dio passivamente lo Spirito, come accade in queste manifestazioni, l’anima volesse comportarsi attivamente, agendo con l’intelletto o intromettendosi in qualche modo in tali favori. Questo è chiaro. Se l’anima, infatti, vuole agire a forza, la sua azione sarà solo naturale, perché da sé non può fare di più; essa non può elevarsi alle opere soprannaturali, né saprebbe farlo, se Dio stesso non la muove né la eleva. Di conseguenza, se l’anima vuole agire da sé, ostacolerà necessariamente, per quanto dipende da lei, con i suoi atti, l’azione passiva che Dio le va comunicando, cioè il suo Spirito; essa resterà nell’ambito della sua attività, che è limitata e di genere diverso rispetto a quella comunicatale da Dio, visto che quella di Dio è passiva e soprannaturale, mentre quella dell’anima è attiva e naturale. Ecco ciò che vuol dire spegnere lo Spirito.

4. È chiaro, inoltre, che tale modo di agire è di livello minore. Infatti le facoltà dell’anima possono da sole riflettere e agire unicamente su forme, figure e immagini. Ora, queste sono la scorza e l’accidente che celano la sostanza e lo spirito. Tale sostanza o spirito si unisce alle potenze dell’anima, in questa vera intelligenza e in quest’amore, solo quando cessa l’attività delle potenze, perché lo scopo ultimo di tale operazione per l’anima è quello di arrivare a possedere la sostanza conosciuta e amata di quelle forme. Da ciò deriva che la differenza e il vantaggio esistenti fra lo stato attivo e passivo equivale alla differenza e al vantaggio intercorrente fra ciò che si sta facendo e ciò che è già fatto, oppure fra quanto si vuole conseguire e ciò che abbiamo già raggiunto e ottenuto. Da ciò si può dedurre, inoltre, che se l’anima vuole impiegare attivamente le sue potenze in queste conoscenze soprannaturali, nelle quali, come ho detto, Dio gliene comunica passivamente lo spirito, non farebbe altro che lasciare il già fatto per rifarlo daccapo, non godrebbe del lavoro compiuto e con la sua attività non farebbe che ostacolare il già fatto. Come ho detto, le sue potenze non possono da sole arrivare al bene spirituale che Dio concede all’anima senza il loro concorso. Se l’anima, perciò, facesse affidamento su queste conoscenze immaginarie, soffocherebbe direttamente lo spirito che Dio le infonde per loro tramite; di conseguenza deve evitarle e assumere verso di esse un atteggiamento passivo e negativo. Dio stesso, allora, eleverà l’anima a uno stato che essa non saprebbe né potrebbe raggiungere con le sole sue forze. Per questo motivo il profeta afferma: Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà (Ab 2,1). È come se dicesse: in piedi veglierò a guardia delle mie potenze e non permetterò loro di fare un passo avanti e di agire; così potrò essere attento a ciò che mi si dirà, cioè ascolterò e gusterò ciò che mi verrà comunicato soprannaturalmente.

5. Quanto alle parole dello Sposo citate sopra, vanno riferite all’amore che egli porta alla sposa. La peculiarità di tale amore è quella di rendere simili i due nella parte migliore d’entrambi. Per questo motivo egli le dice di metterlo come sigillo sul suo cuore (Ct 8,6), dove vengono a cadere tutte le frecce d’amore della faretra, cioè le opere e i motivi d’amore. Occorre che tutte le azioni raggiungano questo scopo che è ad esse stabilito e che tutte siano indirizzate allo Sposo. Così l’anima somiglierà allo Sposo per mezzo delle opere e i movimenti d’amore, sino a trasformarsi in lui. Lo Sposo dice, inoltre, allo sposa di metterlo come sigillo sul suo braccio (Ct 8,6), che simboleggia l’esercizio dell’amore, ove l’amato si nutre e trova le sue delizie.

6. Pertanto l’anima deve procurare in ogni conoscenza che le viene dall’alto (immaginaria o di altro genere, come visioni, locuzioni, sentimenti o rivelazioni), di non badare alla lettera o alla corteccia, cioè quanto significano, rappresentano o danno a intendere, ma di preoccuparsi soltanto di conservare l’amore divino che tali favori infondono nell’intimo. In altre parole: interessarsi ai sentimenti che producono amore di Dio, non già al gusto, alla soavità o alle immagini. Solo per raggiungere tale scopo l’anima potrà a volte ricordare la tale immagine o conoscenza che le causò amore, così da fornire allo spirito motivi d’amore. Sebbene l’effetto del ricordo non sia così efficace come quando le fu accordato il favore stesso la prima volta, tuttavia il suo ricordo ravviva l’amore ed eleva l’anima a Dio, particolarmente quando si ricordano alcune figure, immagini o sentimenti soprannaturali che di solito s’imprimono profondamente nell’anima, in modo da durare a lungo e a volte da non cancellarsi più. Queste conoscenze che s’imprimono così nell’anima producono, ogni volta che le si richiama, divini effetti d’amore, di soavità, di luce, ecc., ora più intensi ora meno; del resto, proprio a tale scopo sono stati impressi nell’anima. È un’immensa grazia che Dio concede a colui che beneficia di tali favori, perché ha in sé una fonte di beni.

7. Le rappresentazioni che producono tali effetti sono profondamente impresse nell’anima. Differiscono dalle altre immagini e forme che si conservano nella fantasia, e perciò l’anima non deve ricorrere a questa facoltà per ricordarsi di esse, perché vede che le ha in se stessa, come si scorge l’immagine in uno specchio. Quando un’anima possiede in sé, in maniera formale, tali rappresentazioni, può benissimo ricordarsene per l’effetto d’amore di cui parlavo: il ricordo no le sarà d’ostacolo per l’unione d’amore nella fede, purché non si lasci sedurre da tali rappresentazioni, ma se ne serva e se ne liberi immediatamente per crescere nell’amore. In questo modo le saranno certamente d’aiuto.

8. È difficile distinguere quando queste immagini siano impresse nell’anima e quando nell’immaginazione. Queste ultime, infatti, ordinariamente sono molto frequenti, perché alcune persone hanno abitualmente nell’immaginazione o fantasia visioni immaginarie e sovente se le rappresentano alla stessa maniera. Questo perché hanno un’immaginazione molto viva e, per poco che ci pensino, essa si mette in moto e disegna nella loro fantasia quella visione per via ordinaria; oppure tali visioni possono dipendere dal demonio; oppure ancora vengono da Dio, pur non imprimendosi nell’anima in maniera formale. Tuttavia queste visioni possono essere riconosciute dai loro effetti. Quelle naturali e quelle provenienti dal demonio, anche se ricordate, non producono alcun effetto positivo né un rinnovamento spirituale nell’anima, che si limita a guardarle con freddezza. Quelle buone, invece, quando vengono ricordate, producono un effetto buono simile a quello prodotto nell’anima la prima volta. Quanto alle rappresentazioni formali che s’imprimono nell’anima, producono quasi sempre qualche buon effetto quando vi si pensa.

9. Chi ha fatto esperienza di queste ultime, può facilmente discernere le une dalle altre, perché la netta differenza che intercorre fra loro è molto chiara ai suoi occhi. Dico solo che quelle che s’imprimono formalmente e in maniera durevole nell’anima sono molto rare. Ma, che si tratti di queste o di quelle altre, è bene che l’anima non voglia conoscere nulla se non Dio, oggetto della fede e della speranza. A chi dicesse che potrebbe sembrare superbia rifiutare queste rappresentazioni quando sono buone, rispondo che invece è un atto di umiltà. Difatti è prudente servirsene nel miglior modo possibile, come ho detto, e seguire la via più sicura.

CAPITOLO 14

Ove si parla delle conoscenze spirituali in quanto possono risiedere nella memoria.

1. Le conoscenze spirituali, come ho detto, fanno parte del terzo genere di conoscenze della memoria. Esse, non avendo immagine né forma sensibile, non appartengono al senso corporale della fantasia, come le altre, ma costituiscono l’oggetto del ricordo e della memoria spirituale. Infatti, dopo che qualcuna di esse si è prodotta, l’anima può ricordarla quando vuole. E questo non perché tale conoscenza abbia lasciato qualche figura o immagine nel senso corporale – il quale, proprio perché corporale, è incapace di ricevere forme spirituali – ma perché l’anima se ne ricorda intellettualmente e spiritualmente attraverso la forma che questa conoscenza le ha lasciato impressa. Anche detta forma è conoscenza o immagine spirituale o formale, che aiuta la memoria a ricordarsene di per sé o per l’effetto da essa prodotto. Per questo motivo classifico tali conoscenze tra quelle della memoria, benché non appartengano a quelle della fantasia.

2. Quali siano queste conoscenze e come l’anima debba comportarsi nei loro riguardi per arrivare all’unione con Dio, è già stato detto sufficientemente nel capitolo 26 del libro II. Ivi le ho considerate come conoscenze dell’intelletto. Rimando a quelle pagine, ove dicevo che queste conoscenze sono di due categorie: alcune increate e altre create. Per quanto riguarda il modo con cui deve comportarsi la memoria nei loro confronti per arrivare all’unione, affermo solo che – come ho appena detto delle conoscenze formali, nel capitolo precedente, di cui fanno parte quelle che riguardano le cose create – l’anima può richiamarle alla memoria quando producono effetti buoni; non si cercherà di ritenerle in sé, a meno che non si tratti di ravvivare l’amore e la conoscenza di Dio. Ma se il loro ricordo non genera un effetto positivo, l’anima non le richiami mai alla memoria. Quanto alle conoscenze che riguardano le cose increate, dico che l’anima deve cercare di ricordarsene tutte le volte che può, perché le faranno un gran bene. Queste, infatti, come dicevo prima, sono tocchi e sentimenti di unione con Dio, meta verso cui incamminiamo l’anima. Ora, la memoria non le ricorda con l’aiuto di forme, immagini o figure impresse nell’anima, perché quei tocchi e sentimenti d’unione con il Signore ne sono privi, ma con l’aiuto degli effetti di luce, di delizie, di rinnovamento spirituale che si verificano nell’anima e che si rinnovano, in parte, ogni volta che essa se ne ricorda.

CAPITOLO 15

Ove si espone in modo generale come la persona spirituale deve comportarsi nei confronti della memoria.

1. Per concludere ora questa trattazione della memoria, sarà bene esporre in sintesi al devoto lettore il modo che generalmente deve seguire per unirsi a Dio secondo questa potenza. Sebbene esso risulti già chiaro da quanto ho detto finora, tuttavia potrà essere più facilmente compreso se lo riassumo qui. Anzitutto bisogna ricordare che lo scopo prefisso è sempre quello di mostrare che la memoria deve unirsi a Dio per mezzo della speranza; ma non speriamo se non ciò che non possediamo ancora. Ora, quante meno cose l’anima possiede, tanta maggiore attitudine e capacità ha di sperare ciò che desidera, quindi ha più speranza. Al contrario, quante più cose possiede, tanta minore attitudine e capacità ha di sperare, quindi ha meno speranza. Perciò, quanto più l’anima spoglierà la memoria di tutte le immagini o cose create che si possano ricordare e che non sono Dio, tanto più fisserà la memoria in Dio e, di conseguenza, sarà più libera per poterla riempire dei beni divini. Ciò che l’anima deve fare per vivere in assoluta e pura speranza in Dio, è che ogni volta che le si presentano delle conoscenze, forme e immagini particolari, non deve fermarsi ad esse, ma volgersi immediatamente a Dio con uno slancio pieno d’amore. Completamente distaccata da tutte queste conoscenze, non vi penserà più e neppure se ne occuperà, se non nella misura necessaria per comprendere i suoi doveri e, se sono tali, per adempierli; ma, anche in questo caso, senza porvi attaccamento né compiacenza, perché non lascino impresso nell’anima qualche effetto. L’uomo, quindi, non deve cessare di pensare e ricordare ciò che deve fare e sapere; e se non vi sarà attaccamento alcuno, non subirà danni. Per conseguire questo spogliamento potranno essere utili i versi del “Monte” che si leggono nel capitolo 13 del libro I.

2. Ad ogni modo tengo a sottolineare che qui non ho nessuna voglia o intenzione di confondere la nostra dottrina con quella di uomini perversi che, accecati dalla superbia e dall’invidia satanica, hanno cercato di togliere dagli sguardi dei fedeli il santo e necessario uso e l’augusta venerazione delle immagini di Dio e dei santi. La nostra dottrina è molto diversa dalla loro. Noi non diciamo che non ci debbano essere immagini e che non siano venerate, come dicono quelli, ma spieghiamo la differenza che c’è tra queste immagini e Dio e come servirsi delle immagini senza farsi impedire dall’accedere alla realtà viva da esse rappresentata, così da non attaccarsi ad esse più di quanto basti per passare al piano spirituale. Infatti, se è vero che il mezzo è buono e necessario per arrivare al fine, come lo sono le immagini che ci ricordano Dio e i santi, è altrettanto vero che, quando ci fermiamo al mezzo più del necessario, esso diventa un ostacolo, come lo sarebbe qualsiasi altra cosa. Per questo mi occupo qui delle immagini e delle visioni soprannaturali, circa le quali si verificano numerosi errori e pericoli. Ma nel ricordo, nel culto e nella venerazione delle immagini, che conformemente alla nostra natura ci propone la Chiesa cattolica, non si nasconde alcun inganno o pericolo, perché in esse si ricerca solo ciò che rappresentano. E il loro ricordo non mancherà di giovare all’anima, perché le ricerca solo per amore a ciò che rappresentano: essa se ne serve a questo scopo. Per tale motivo esse l’aiuteranno certamente nell’unione con Dio, a condizione che si consenta all’anima di elevarsi, quando Dio le concede la grazia, dall’immagine al Dio vivo, dimenticando ogni cosa creata e tutto ciò che ne deriva.

CAPITOLO 16

Ove si comincia a parlare della notte oscura della volontà. Si dà la divisione degli affetti della volontà.

1. Non basta purificare l’intelletto perché si fondi nella virtù della fede, né la memoria perché si stabilisca nella speranza, ma occorre purificare anche la volontà in rapporto alla terza virtù teologale, cioè la carità. Grazie a questa virtù le opere della fede sono vive e hanno grande valore, mentre, se essa manca, non valgono nulla, proprio come dice san Giacomo: La fede senza le opere è morta (Gc 2,20). Ora, dovendo parlare della notte o purificazione attiva della volontà, per investirla e informarla della virtù della carità di Dio, non trovo testo migliore di Deuteronomio 6,5, dove Mosè afferma: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Qui è contenuto tutto ciò che la persona spirituale deve compiere e che io desidero insegnarle perché arrivi veramente a unire la sua volontà a Dio per mezzo della carità. Difatti qui si comanda all’uomo di dirigere verso Dio tutte le potenze, gli appetiti, le opere e gli affetti della sua anima, in modo che tutte le attitudini e le forze della persona servano unicamente a questo scopo, come dice Davide: Fortitudinem meam ad te custodiam: Riporrò in te la mia forza (Sal 58,10 Volg.).

2. La forza dell’anima sta nelle sue potenze, passioni e appetiti, cose tutte governate dalla volontà. Ora, quando la volontà indirizza queste potenze, passioni e appetiti verso Dio, e li distoglie da tutto ciò che non è lui, allora conserva la forza dell’anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze. Perché l’anima possa fare questo, parlerò adesso della purificazione della volontà da tutte le sue affezioni disordinate, da cui nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni sregolate, da cui deriva altresì che essa non conservi tutte le sue forze per il Signore. Queste affezioni o passioni sono quattro: gioia, speranza, dolore, timore. Quando tali passioni sono rivolte a Dio attraverso un esercizio assennato, in modo che l’anima non gioisca se non di ciò che è onore e gloria di Dio, non speri in altro che in Dio, non si dolga se non di ciò che lo ferisce, né tema se non Dio solo, è chiaro che dispone e conserva tutte le sue forze e le sue capacità per Dio. Al contrario, quanto più l’anima gode di cose diverse da Dio, tanto meno fortemente riporrà la sua gioia in Dio; quanto più porrà fiducia in qualche cosa creata, tanto meno confiderà in Dio. E così per le altre passioni.

3. Per spiegare meglio questa dottrina, come al solito tratterò in modo particolareggiato di ciascuna di queste quattro passioni e degli appetiti della volontà. Difatti tutto il lavoro necessario per giungere all’unione con Dio consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio.

4. Quanto più queste quattro passioni dominano nell’anima e le fanno guerra, tanto meno la volontà si radica in Dio e tanto più dipende dalle creature. Allora essa con estrema facilità gioisce di cose che non dovrebbero suscitare gioia, spera in ciò che non le procura alcun vantaggio, soffre per cose di cui dovrebbe forse gioire e teme quando non c’è nulla da temere.

5. Quando queste passioni non sono tenute a freno, generano nell’anima tutti i vizi e le imperfezioni, mentre quando sono ben dirette e governate generano in essa tutte le virtù. Occorre sapere che quando una di esse è ben diretta e regolata dalla ragione, anche le altre seguono la stessa sorte, perché queste quattro passioni sono talmente unite e accordate fra loro che, dove attualmente va una, vanno virtualmente anche le altre; se una si concentra in un’attività, anche le altre fanno altrettanto. Se, infatti, la volontà gioisce per qualcosa, nella stessa misura la spera e virtualmente sperimenta per essa dolore e timore; ma a mano a mano che perde il gusto per una cosa, si attenua anche il timore e il dolore nei suoi riguardi e diminuisce la speranza. La volontà, insieme a queste quattro passioni, è simbolizzata dai quattro animali che Ezechiele (1,8-9) vide congiunti in un solo corpo. Avevano quattro facce e le ali dell’uno erano unite a quelle dell’altro, ciascuno andava nella direzione della propria faccia e quando andavano avanti non si volgevano indietro. Allo stesso modo le ali di ciascuna di queste passioni sono unite a quelle delle altre, così che, laddove una di esse di fatto volge la faccia, cioè la sua attività, in pratica anche le alte necessariamente la seguono; quando una di esse si spegne, si spengono anche le altre, e se si accende una, si accendono tutte. Dove tende la tua speranza, là tendono anche la tua gioia, il tuo timore e il tuo dolore; se essa si distoglie da un oggetto, anche le altre si distolgono. La stessa cosa si può dire delle altre passioni.

6. Voglio ricordarti, persona devota, che laddove si dirigerà una di queste passioni, ivi sarà coinvolta tutta l’anima, la volontà e le altre potenze, e diverranno sue schiave. Le rimanenti tre passioni si accenderanno in essa per tormentare l’anima con i loro vincoli, non lasciandola volare verso la libertà e il riposo della dolce contemplazione e dell’unione. Per questo motivo Boezio ti ricorda che, se vuoi conoscere la verità in tutta la sua chiarezza, devi allontanare da te la gioia, la speranza, il dolore e il timore. Finché regnano queste passioni nel tuo cuore, non gli consentiranno tranquillità né pace, indispensabili per accogliere, sia naturalmente che soprannaturalmente, la sapienza.

CAPITOLO 17

Ove si comincia a parlare della prima affezione della volontà. Si dice che cosa sia la gioia e si fa una distinzione degli oggetti di cui la volontà può compiacersi.

1. La prima delle passioni dell’anima e delle affezioni della volontà è la gioia. Per quanto mi sono proposto di dire, essa non è altro che una contentezza della volontà accompagnata dalla stima per un oggetto che si ritiene conveniente, perché la volontà prova gioia solo quanto stima una cosa e ne trae soddisfazione. Mi riferisco qui alla gioia attiva, che si verifica quando l’anima avverte distintamente e chiaramente l’oggetto di cui gode ed è libera di accettarlo o rifiutarlo. C’è, infatti, un’altra gioia passiva, che la volontà può provare godendo senza comprenderne in modo chiaro e distinto la causa, talvolta la comprende, ma non dipende da essa il provarla o meno. Di questa parlerò più avanti. Ora tratterò della gioia in quanto attiva e volontaria, che ha per oggetto cose distinte e chiare.

2. La gioia può nascere da sei generi di oggetti o beni: possono essere temporali, naturali, sensibili, morali, soprannaturali, spirituali. Ne parlerò in ordine, indirizzando la volontà secondo la ragione, affinché non trovi in tali oggetti un ostacolo che le impedisca di concentrare la forza della sua gioia in Dio. A tale scopo è opportuno ricordare un principio che sarà come un punto fisso al quale ci si dovrà sempre riferire. È necessario tener presente questo principio, perché è la luce che ci deve guidare a comprendere questa dottrina e orientare in mezzo a tutti questi beni, onde riporre la gioia in Dio solo. Tale principio è il seguente: la volontà deve godere solo di ciò che riguarda la gloria e l’onore di Dio; ora, il più grande onore che possiamo rendere a Dio è quello di servirlo secondo la perfezione evangelica. Tutto ciò che esula da questo principio non ha alcun valore né utilità per l’uomo.

CAPITOLO 18

Ove si tratta della gioia derivante dai beni temporali. Si dice come indirizzarla a Dio.

1. Il primo genere di beni che ho elencato è quello dei beni temporali. Con questo termine intendo ricchezze, condizioni sociali, cariche e altri titoli, figli, parenti, matrimoni, ecc., cose tutte di cui la volontà può rallegrarsi. Ma è evidente quanto sia vana la gioia degli uomini per le ricchezze, i titoli, la condizione sociale e altre cose del genere! Se, infatti, bastasse essere più ricchi per servire meglio Dio, ci sarebbe motivo di godere delle ricchezze. Queste, al contrario, sono motivo per offenderlo, come ci ricorda il Saggio quando dice: Se hai troppo, non sarai esente da colpa (Sir 11,10). Indubbiamente i beni temporali, in quanto tali, non portano al peccato; tuttavia il cuore umano, per la sua debolezza, si attacca ad essi e manca ai suoi doveri verso Dio, il che è peccato, perché è peccato venir meno nei riguardi di Dio. Per questo motivo il Saggio dice: Non sarai esente da colpa. Questo è anche il motivo per cui il Signore nel vangelo chiama spine le ricchezze (cfr. Mt 13,22; Lc 8,14), onde far capire che colui che vi è attaccato con la volontà rimarrà ferito da qualche peccato. Quell’esclamazione evangelica, poi, riportata da san Luca, ci mette paura, poiché afferma: Quanto è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio! (Lc 18,24), cioè per coloro che godono di esse. Questo testo ci fa capire chiaramente che l’uomo non deve riporre la sua gioia nelle ricchezze, perché si espone a un grave pericolo. Per allontanarci da tale rischio Davide esorta: Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore (Sal 61,11).

2. Non voglio addurre altre testimonianze per una questione così chiara, perché non finirei mai di citare la Scrittura e di elencare tutti i mali che Salomone nell’Ecclesiaste attribuisce alle ricchezze. Questo re, che aveva posseduto molte ricchezze e ne conosceva bene la natura, diceva che tutte le cose che esistono sotto il sole (Qo 1,14) sono vanità immensa (1,2); afflizione dello spirito (1,14; 2,17), vanità e occupazione senza senso (2,26); chi ama il denaro non si sazia mai (5,9); le ricchezze custodite dal padrone sono a suo danno (5,12). Anche nel vangelo si legge di colui che si rallegrava per avere accumulato beni che gli sarebbero bastati per molti anni; ma gli fu detto dal cielo: Stolto, questa notte stessa sarà richiesto alla tua anima il rendiconto. E quello che hai preparato, di chi sarà? (Lc 12,20). Infine anche Davide c’insegna la stessa cosa quando afferma: Se vedi un uomo arricchirsi, non temere: quando muore, con sé non porta nulla (Sal 48,17-18). Da tutto ciò si deduce che dovremmo piuttosto rammaricarci di avere ricchezze!

3. Ne segue che l’uomo non deve gioire delle ricchezze che possiede, né di quelle che possiede suo fratello, a meno che non le usino per servire Dio. Ci si può rallegrare delle ricchezze quando vengono spese e usate per il servizio di Dio; altrimenti non se ne trarrà alcun vantaggio. Lo stesso si deve dire degli altri beni e titoli, condizioni sociali, cariche, ecc. È una vanità gioirne, se per mezzo di essi non si serve meglio Dio e se non offrono una strada più sicura per la vita eterna. Poiché è impossibile sapere chiaramente se è così e se con essi si serve meglio il Signore, ecc., sarebbe stolto rallegrarsi decisamente di questi beni, perché una tale gioia non può essere ragionevole, come dice il Signore: Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima? (Mt 16,26). Non c’è, dunque, motivo di rallegrarsi se con tale gioia non si serve meglio il Signore.

4. Non c’è motivo di rallegrarsi neanche per avere dei figli, perché sono molti o ricchi o dotati di doni e di grazie naturali o di beni di fortuna; è concesso rallegrarsene soltanto se servono Dio. Ad Assalonne, figlio di Davide, non giovarono a nulla la bellezza, le ricchezze, la sua illustre origine, perché egli non servì Dio (2Sam 14,25); vano fu, dunque, per lui rallegrarsi di questi beni. Da quanto detto deriva che è inutile desiderare avere figli, come fanno alcuni che muovono e sconvolgono il mondo per averne. Non sanno, infatti, se questi figli saranno buoni e serviranno Dio, se la gioia che si aspettano da loro non si cambierà invece in dolore, se il riposo e la consolazione in travagli e preoccupazioni, se l’onore in disonore e se tali figli non saranno occasione di maggiore offesa a Dio, come accade spesso. Di costoro Cristo dice che percorrono mari e monti per arricchirli e farne figli di perdizione, due volte più cattivi di quanto siano stati loro (cfr. Mt 23,15).

5. Allora, quando tutto arride all’uomo e tutto gli va bene, deve temere anziché rallegrarsi, perché in questa situazione si moltiplicano le occasioni e i pericoli di dimenticare Dio e dunque di offenderlo. Per questo Salomone, che era molto guardingo, scrive nell’Ecclesiaste: Del riso ho detto: “Follia!”, e della gioia: “A che serve?” (Qo 2,2). È come se dicesse: quanto più le cose andavano bene, tanto più ritenni inganno ed errore rallegrarmene. Difatti è certamente un errore e una stoltezza grande da parte dell’uomo rallegrarsi di ciò che gli si presenta come favorevole e piacevole, senza sapere se di lì ricaverà qualche bene eterno. Dice il Saggio: Il cuore degli stolti è rivolto alla casa in festa e il cuore dei saggi alla casa in lutto (Qo 7,4). La gioia, infatti, acceca il cuore e non gli permette di riflettere e ponderare le cose, mentre la tristezza fa aprire gli occhi e discernere se le cose procureranno una perdita o un guadagno. Ne consegue, dice ancora il Saggio, che è preferibile la mestizia al riso (Qo 7,3); pertanto è meglio andare in una casa in pianto che andare in una casa in festa, perché quella è la fine di ogni uomo (Qo 7,2).

6. Sarà quindi anche vanità per gli sposi rallegrarsi, se non sanno chiaramente di servire meglio Dio nel matrimonio. Essi, al contrario, dovrebbero provare confusione, perché il matrimonio, come dice san Paolo, fa sì che il cuore, diviso dall’amore che i coniugi nutrono l’uno per l’altro, non sia unicamente per Dio. Per questo dice: Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla. Nel caso che l’abbia già, conviene comportarsi come se non l’avessi (1Cor 7,27). Questo, insieme a quanto abbiamo detto dei beni temporali, ce lo insegna con le seguenti parole: Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno (1Cor 7,29-31). Non dobbiamo, quindi, riporre la gioia se non in ciò che riguarda la gloria di Dio, perché il resto è vanità e non giova a nulla, perché la gioia che non è secondo Dio non può essere utile all’anima.

CAPITOLO 19

Ove si parla dei danno che può subire l’anima quando ripone la sua gioia nei beni temporali.

1. Se dovessimo parlare di tutti i danni che insidiano l’anima che ripone l’affetto della volontà nei beni temporali, non ci basterebbero l’inchiostro né la carta né il tempo. Da un male di poco conto, infatti, possono derivare danni gravi e distruzione di beni più grandi, allo stesso modo che da una scintilla di fuoco, se non viene spenta, possono scoppiare grandi incendi, capaci d’incenerire il mondo. Tutti questi danni hanno la loro radice e origine in un danno privativo principale che proviene da questo attaccamento ai beni temporali, ed è quello di allontanarci da Dio. Tutti i beni ci arrivano quando l’anima si avvicina a Dio attraverso l’affetto della volontà; al contrario, quando si allontana da lui per l’attaccamento alle creature, si manifestano tutti i danni e i mali in proporzione alla gioia e all’affetto con cui si attacca alle creature: questo è allontanarsi da Dio. Di conseguenza si può comprendere che, a seconda che ci si allontani più o meno da Dio, i danni saranno più o meno considerevoli in estensione o intensità e, spesso, sotto entrambi gli aspetti.

2. Questo danno privativo, da cui – dicevo – nascono tutti gli altri danni privativi e positivi, racchiude quattro gradi, uno peggiore dell’altro. Quando l’anima è arrivata al quarto grado, ha raggiunto tutti i mali e i danni che si possano enumerare nel presente caso. Questi quattro gradi vengono elencati molto bene da Mosè nel Deuteronomio, con le parole: Si è ingrassato l’amato e ha fatto lunghi passi indietro – sì, ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato –, ha respinto il Dio che lo aveva fatto e si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15 Volg.).

3. L’ingrassamento dell’anima, che in precedenza era amata da Dio, significa che si è immersa nel piacere delle creature. Da ciò deriva il primo grado di questo danno, che consiste nel tornare indietro; è un appesantimento dello spirito nei confronti di Dio, per cui non riesce a vedere i beni spirituali, come la nebbia che oscura l’aria impedendole di essere illuminata per bene dalla luce del sole. Quando la persona spirituale ripone la sua gioia in qualche creatura e lascia spazio ai suoi appetiti verso cose futili, perde luminosità nei confronti di Dio e offusca la semplicità della sua intelligenza e del suo giudizio. È precisamente quanto insegna lo Spirito di Dio nel libro della Sapienza, laddove afferma: Il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice (Sap 4,12). Con queste parole lo Spirito Santo ci fa capire che, anche se non vi fosse alcuna cattiva intenzione nell’intelletto, basterebbero la concupiscenza e la soddisfazione per queste cose a provocare nell’anima il primo danno. Esso consiste nell’annebbiamento dello spirito e in una sorta di oscurità che impedisce il giudizio dal ben comprendere la verità e dal valutare le cose così come sono.

4. Non bastano la santità e il buon giudizio dell’uomo per non cadere in questo danno, se si dà via libera alla concupiscenza e al piacere nei beni temporali. Per questo motivo, Dio ci mette in guardia per mezzo di Mosè, dicendo: Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti (Es 23,8). Tale raccomandazione era diretta soprattutto a coloro che dovevano fungere da giudici, perché dovevano avere lo spirito retto e vigile; ma essi non l’avrebbero avuto se fossero stati avidi di doni. Per lo stesso motivo Dio ordinò a Mosè di nominare giudici coloro che aborrivano l’avarizia, perché il loro giudizio non fosse deviato dall’attrazione delle ricchezze (Es 18,21-22). Pertanto è detto che non solo non devono desiderare le ricchezze, ma anche devono aborrirle. Difatti, per potersi difendere perfettamente dall’amore per un oggetto, bisogna nutrirne avversione, perché un contrario si combatte con il suo contrario. Questo è il motivo per cui il profeta Samuele fu sempre un giudice retto e illuminato, perché, come afferma egli stesso, non accettò mai alcun regalo (1Sam 12,3).

5. Il secondo grado di questo danno privativo deriva dal primo: viene espresso nel seguito del testo già citato: Ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato (Dt 32,15). Questo secondo grado consiste nella dilatazione della volontà che si concede ormai più libertà nei confronti dei beni temporali. Si verifica quando l’anima non si preoccupa più tanto della pena e della ripugnanza che le davano la gioia e la compiacenza per i beni creati. Le capita questo perché ha dato via libera alla gioia; tale brama ha ingrassato l’anima, come dice il testo citato, e la pinguedine della gioia e dell’appetito l’ha portata a dilatare sempre più la volontà verso le creature. Ciò comporta gravi danni, perché questo secondo grado allontana l’anima dalle cose di Dio e dalle pratiche di pietà. Essa non vi prova più gusto; nutre affetto per altre cose; si lascia andare a molte imperfezioni, inezie, gioie frivole e vane soddisfazioni.

6. Questo secondo grado distoglie completamente l’anima dai suoi abituali esercizi di pietà, perché tutta la sua attenzione e la sua brama si rivolgono ai beni di questo mondo. Coloro che sono giunti a questo secondo grado, hanno il giudizio e l’intelletto ottenebrati di fronte alla conoscenza della verità e della giustizia, parimenti a quelli che si trovano nel primo grado; ma in più presentano molta rilassatezza, tiepidezza e indifferenza nel conoscere e compiere i loro doveri. Di costoro dice Isaia: Tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro (Is 1,23). Questo non avviene senza loro colpa, soprattutto quando sono obbligati a farlo in forza del loro ufficio. Difatti quelli che si trovano in questo secondo grado non sono privi di malizia, come invece quelli del primo grado. Così si allontanano sempre più dalla giustizia e dalle virtù, perché investono la loro volontà soprattutto nell’attaccamento alle creature. Pertanto la caratteristica di coloro che si trovano in questo secondo grado consiste in una grande tiepidezza per gli esercizi spirituali, che adempiono male: li compiono solo per formalità, per forza o per abitudine, non per amore.

7. Il terzo grado di questo danno privativo consiste nel respingere completamente Dio: l’anima non si preoccupa di osservare la sua legge, pur di non perdere i beni di questo mondo. Così, trascinata dalla cupidigia, essa si lascia cadere in peccati mortali. Questo terzo grado è evidenziato dal seguito della citazione riportata sopra: Ha respinto Dio che lo aveva fatto (Dt 32,15). In questo terzo grado si trovano tutti coloro che hanno impegnato le potenze dell’anima nelle cose del mondo, nelle ricchezze e negli onori, tanto da non preoccuparsi minimamente di praticare la legge di Dio. Vivono in totale oblio e noncuranza per ciò che riguarda la loro salvezza, mentre sono attivi e abili al massimo nelle cose del mondo. Per questo Cristo nel vangelo li chiama figli di questo secolo e dice che costoro, nei loro interessi, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (Lc 16,8). Così, dunque, essi non sono nulla per quanto riguarda Dio, mentre sono tutto per le cose del mondo. In senso stretto, questi sono gli avari, la cui cupidigia e soddisfazione per le cose create hanno assunto un’estensione e un attaccamento tali da non sentirsi mai sazi. Anzi la loro fame e sete crescono tanto più intensamente quanto più essi sono lontani dalla sorgente che potrebbe soddisfarli, cioè Dio. Di loro il Signore dice per bocca di Geremia: Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono acqua (Ger 2,13). L’avaro, infatti, non trova di che saziare la sua sete nelle creature, ma, al contrario, di che accrescerla. Questi sono quanti cadono in mille forme di peccati per amore dei beni temporali e innumerevoli sono i danni che subiscono. Davide così si è espresso a loro riguardo: Transierunt in affectum cordis: Si sono abbandonati alle passioni del cuore (Sal 72,7).

8. Il quarto grado di questo danno privativo è evidenziato nell’ultima parte della nostra citazione, ove si dice: Si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15). È una conseguenza del terzo grado appena illustrato. Quando, infatti, l’avaro, a causa dei beni temporali, non prende a cuore la legge di Dio, si allontana decisamente dal Signore, con la memoria, l’intelligenza e la volontà; lo dimentica come se non fosse il suo Dio, perché ha scelto come dio il denaro e i beni temporali, proprio come afferma san Paolo: L’avarizia è idolatria (Col 3,5). In questo quarto grado, infatti, si arriva fino a dimenticare Dio; l’uomo, che dovrebbe fissare il proprio cuore in Dio, lo mette nel denaro, come se non avesse altro dio.

9. Nel quarto grado si trovano coloro che non esitano a ordinare le cose divine e soprannaturali in funzione di quelle temporali come a loro dio, mentre invece dovrebbero ordinare le cose temporali a Dio, se, come esige la ragione, lo riconoscessero come tale. A questo novero appartiene l’iniqui Balaam che vendette la grazia di profeta concessagli da Dio (Nm 22,7). In questo modo agì anche Simon Mago, che riteneva stimabile in denaro la grazia di Dio: voleva, infatti, comprarla (At 8,18-19). Con tale azione mostrava che ai suoi occhi il denaro valeva di più, poiché pensava di trovare qualcuno che avrebbe stimato maggiormente i suoi quattrini, in cambio dei quali gli avrebbe dato la grazia. Anche ai nostri giorni vi sono numerose persone che appartengono a questo quarto grado. La loro ragione viene, dalla cupidigia, ottenebrata nei riguardi dei beni spirituali. Servono al denaro e non al Signore; antepongono il valore dei soldi a quello del premio divino; in molti modi fanno del denaro il loro dio e fine primario, anteponendolo al fine ultimo che è Dio.

10. A quest’ultimo grado appartengono, altresì, tutti quegli sventurati che sono dominati dai beni temporali e li considerano come loro dio al punto di non esitare a sacrificare la vita per essi. Quando, infatti, vedono che la loro divinità temporale viene a mancare, si disperano e si danno la morte per motivi miserabili. In tal maniera mostrano la triste ricompensa che si riceve da una simile divinità: poiché da questa non c’è nulla da sperare, ne ricavano solo disperazione e morte. Quanto, poi, a coloro che tale divinità non spinge fino al danno estremo della morte, essa li fa tuttavia vivere nelle sofferenze della preoccupazione e in mille altre miserie; non lascia entrare la gioia nel loro cuore e non permette che qualche bene risplenda ai loro occhi sulla terra. Li costringe a pagare continuamente il tributo del loro cuore al denaro, ragion per cui soffrono per esso, e con esso si avvicinano all’ultima disgrazia, che sarà la loro giusta perdizione, secondo quanto avverte il Saggio: Le ricchezze sono custodite dal padrone a proprio danno (Qo 5,12).

11. A questo quarto grado appartengono, inoltre, coloro di cui san Paolo dice che Dio tradidit illos in reprobum sensum: li abbandonò in balia di una mente insipiente (Rm 1,28). Ecco fino a quali danni può giungere l’uomo che ripone la sua gioia nei beni temporali come se fossero il fine ultimo. Anche quelli meno danneggiati da tale gioia sono da compiangere molto perché, come ho detto, essa costringe l’anima a tornare molto indietro nelle vie di Dio. Pertanto, come dice Davide: Se vedi un uomo arricchirsi, non temere, cioè non provare invidia pensando che ne tragga profitto, perché quando muore con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria (Sal 48,17-18).

CAPITOLO 20

Ove si parla dei vantaggi che si procura l’anima rinunciando alla gioia dei beni temporali.

1. La persona spirituale deve fare molta attenzione per non cominciare ad attaccare il cuore o a cercare la gioia nelle cose di questo mondo. Deve temere che simile attaccamento, tenue all’inizio, diventi rilevante e assuma a poco a poco grandi proporzioni, finendo per causare danni notevoli, allo stesso modo che una scintilla è capace di bruciare una montagna e anche il mondo intero. Non si deve fidare mai di un sia pur tenue attaccamento, se non lo tronca subito, pensando di poter fare ciò in seguito. Se, infatti, non ha il coraggio di troncarlo all’inizio quando è ancora tenue, come pensa di poterlo estirpare quando avrà radici molto più profonde? Tanto più che il Signore nel vangelo afferma che chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto (Lc 16,10). Difatti colui che evita le piccole mancanze non cadrà nelle più gravi; del resto, già l’attaccamento alle piccole cose reca un grave danno, perché la cinta, la fortezza del cuore è già forzata, proprio come dice il proverbio: “Chi ben comincia è a metà dell’opera”. Anche Davide ci ammonisce in questo modo: Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore (Sal 61,11).

2. L’uomo dovrebbe liberare completamente il cuore da tutti i piaceri che danno questi beni, se non per il suo Dio e in vista della perfezione cristiana, almeno per i vantaggi temporali che ne derivano, senza parlare di quelli spirituali. Infatti non solo si libera dai terribili danni che abbiamo descritto nel capitolo precedente, ma, rinunciando al piacere dei beni temporali, acquista anche la virtù della liberalità, che è un attributo molto evidente di Dio, niente affatto compatibile con la cupidigia. Oltre a ciò, acquista libertà di spirito, chiarezza di mente, calma, tranquillità e fiducia che si rimette subitamente a Dio, al quale rende con la sua volontà un vero culto e ossequio. Del resto, più si distacca dalle creature, più ne gioisce e trova diletto, gioia e diletto impossibili se le guarda con spirito di possesso: questa è già una preoccupazione che, come un laccio, lega lo spirito alla terra e non lascia spazio al cuore. Solo distaccandosi dai beni temporali ne acquista una conoscenza più chiara e ne comprende bene le verità che li riguardano, dal punto di vista sia naturale che soprannaturale. Così gode di tali beni in un modo del tutto diverso da colui che vi è attaccato, traendone grandi vantaggi e utilità: l’uno li gusta secondo la loro vera natura, l’altro invece secondo le false apparenze; quegli nel loro lato migliore, questi nel lato peggiore; quegli secondo la sostanza, l’altro secondo i loro accidenti, perché si attacca ad essi in modo sensibile secondo gli aspetti meno validi. Il senso, infatti, può raggiungere e penetrare solo gli accidenti, mentre lo spirito, purificato dalle ombre e dalle forme accidentali, penetra la verità e il valore delle cose, perché questo è il suo oggetto. La gioia, quindi, oscura il giudizio come una nebbia, perché non può esserci piacere volontario, come non può esserci gioia in quanto passione senza che nel cuore ci sia anche un abituale spirito di possesso. Al contrario, la negazione e la purificazione di tale gioia lascia al giudizio la sua chiarezza, come accade all’aria pura quando si sono dissolti i vapori che l’inquinavano.

3. Chi, dunque, non mette la sua gioia nel possesso delle creature, ne gode come se le avesse tutte; chi, invece, le guarda con particolare spirito di possesso, perde ogni gusto delle cose in generale. Il primo, che non ha nulla in cuore, possiede tutto, come dice san Paolo, in grande libertà (2Cor 6,10). Il secondo, che si attacca ad esse con volontà di possesso, non ha e non possiede nulla; anzi sono le cose a possedere il suo cuore e a fargli sentire il peso della schiavitù. Di qui, più gioie un’anima cerca di avere dalle creature, più sentirà il suo cuore attaccato e posseduto dalla sofferenza e dalla pena. Chi è distaccato, non è molestato da preoccupazioni, né durante né fuori l’orazione, e così, senza indugi, con facilità acquista un grande tesoro spirituale. L’altro, invece, non fa che agitarsi nel laccio in cui è imprigionato il suo cuore e, pur dimostrando diligenza, difficilmente può liberarsi anche per poco tempo dai vincoli del pensiero e del piacere a cui è legato il suo cuore. La persona spirituale deve, quindi, reprimere il primo moto che la porta verso la gioia delle creature. Si ricorderà di questo principio or ora enunciato, che cioè l’uomo non deve gioire di nulla se non di servire Dio, di procurare il suo onore e la sua gloria in ogni cosa, finalizzando tutto a questo scopo ed evitando ogni vanità che potrebbe incontrare nelle creature, senza mai cercare in esse il proprio piacere o la propria consolazione.

4. C’è un altro vantaggio molto grande e importante per chi rinuncia alla gioia che proviene dai beni temporali. Consiste nel lasciare il cuore libero per Dio. Questo è un modo per disporre l’anima ad accogliere tutte le grazie che Dio vorrà accordarle e che altrimenti non riceverebbe. Questi favori sono tali che, anche dal punto di vista temporale, sua Maestà, come promette nel vangelo (Mt 19,29), per una gioia lasciata per amor suo o allo scopo di conformarsi alla perfezione del vangelo, darà il cento per uno in questa vita. Ma anche se non vi fosse questo interesse, la persona spirituale dovrebbe soffocare nella sua anima le gioie che prova per le creature, per il dispiacere che dà a Dio. Difatti nel vangelo leggiamo che il Signore s’irritò talmente con quel ricco che si rallegrava solo del fatto di aver accumulato beni per molti anni, da dire che quella stessa notte la sua anima avrebbe dovuto rendere conto (Lc 12,20). Questo c’insegna che tutte le volte che ci rallegriamo vanamente, Dio guarda e ci prepara qualche punizione o amarezza commisurata alla colpa, per cui molto spesso la pena che proviene da tale gioia è cento volte superiore alla gioia stessa. Indubbiamente è vero quanto san Giovanni afferma di Babilonia nell’Apocalisse: Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in altrettanto tormento e afflizione (Ap 18,7). Questo non vuol dire che la pena non sarà più grande di quanto sia stata la gioia, perché, ahimè!, per piaceri di breve durata, vi saranno tormenti eterni. In questo testo si vuole solo far capire che ogni colpa avrà il suo castigo particolare, perché colui che punirà ogni parola inutile (Mt 12,36), non lascerà impunita la gioia vana.

CAPITOLO 21

Ove si mostra quanto sia vano riporre la gioia della volontà nei beni naturali e come bisogna servirsene per andare a Dio.

1. Qui per beni naturali intendiamo la bellezza, la grazia, il portamento distinto, l’aspetto fisico e tutte le altre doti corporali; intendiamo, altresì, le qualità dell’anima, come l’intelligenza, la discrezione, e gli altri doni della mente. Se l’uomo pone in tutte queste cose la sua gioia, pensando che lui o i suoi posseggono queste doti, solo per rallegrarsene e non per rendere grazie a Dio, che le concede per essere più conosciuto e amato, tutto ciò è vanità e menzogna, come dice Salomone: Fallace è la grazia e vana la bellezza, ma chi teme Dio è da lodare (Pro 31,30). Questo testo c’insegna che l’uomo, anziché vantarsi di questi doni naturali, deve piuttosto tenersi nel timore perché, attratto e ingannato da essi, può facilmente allontanarsi dall’amore di Dio e cadere nella vanità. Per questo motivo il Saggio dice che la grazia corporale è fallace. Difatti essa inganna l’uomo nel suo cammino e lo attrae verso ciò che non gli conviene, per una gioia vana e per la compiacenza di sé o di colui che è dotato di tali qualità. Il Saggio aggiunge ancora che la bellezza è vana perché fa cadere in molti modi l’uomo che la stima e ne gode: egli deve rallegrarsene solo se aiuta lui e il prossimo a servire Dio. Deve anzi temere e stare attento che questi doni e grazie della natura non siano, per caso, motivo di offesa a Dio, per la vana presunzione o l’affetto disordinato con cui li guarda. Colui che possiede tali doni dev’essere prudente e stare all’erta per non offrire a nessuno, con una vana ostentazione, motivo per allontanare un solo istante Dio dal suo cuore. Questi doni e favori della natura, infatti, sono talmente provocanti e attraenti sia per chi li possiede sia per chi li guarda, che pochi riescono a tenere il cuore completamente libero da qualsiasi legame con essi. Per questo motivo, so per esperienza che molte persone spirituali, dotate di alcuni di questi doni, con le loro preghiere ottennero da Dio di non esserne più favoriti, onde non essere causa e occasione a sé o ad altri di attaccamenti vani o frivole soddisfazioni.

2. È necessario, dunque, che la persona spirituale purifichi la sua volontà da questa gioia vana e ne distolga lo sguardo, ricordando che la bellezza e tutte le altre doti naturali sono polvere, vengono dalla polvere e in polvere ritorneranno; che la grazia e il portamento distinto sono fumo e aria di questo mondo; che, per non cadere nella vanità, deve considerarle e stimarle per quello che sono, per esse indirizzare il cuore a Dio nella gioia e nell’allegria perché Dio ha in sé tutte queste bellezze e grazie in grado eminente, infinito e superiore a quello di tutte le creature, proprio come dice Davide: Tutti invecchiano e si logorano come veste…ma tu rimani lo stesso (Sal 101,27). Colui, dunque, che in ogni cosa non riversa la sua gioia su Dio, sarà nella falsità e nell’errore, e gli si possono applicare le parole di Salomone a proposito della gioia riposta nelle creature: Della gioia ho detto: a che serve? (Qo 2,2). Questo può dirsi di chi consente al suo cuore di essere sedotto dalle creature.

CAPITOLO 22

Ove si parla dei danni causati all’anima che ripone la gioia della volontà nei beni naturali.

1. Molti dei danni e vantaggi che sto per elencare sono comuni a tutti i diversi generi di gioie. Perciò, siccome essi derivano direttamente dall’adesione o dalla rinuncia alla gioia, e sebbene questa appartenga a qualcuno dei sei generi di cui ora tratterò, ciò che dirò dei danni e dei vantaggi di uno si applica anche agli altri, perché si riferisce alla gioia comune a tutti. Mio scopo principale, tuttavia, è di esporre i danni e i vantaggi particolari che vengono all’anima quando prova o non prova gioia nei beni naturali. Li chiamo particolari perché sono prodotti in modo primario e immediato da un tal genere di gioia, ma in modo secondario e mediato da un tal altro genere. Per esempio, la tiepidezza di spirito è un danno causato direttamente da tutti i sei generi di gioie, quindi questo danno è comune a tutti i generi; ma la sensualità è un danno particolare, che deriva direttamente solo dai beni naturali di cui sto parlando.

2. I danni spirituali e corporali, causati direttamente ed effettivamente all’anima quando ripone la sua gioia nei beni naturali, si riducono principalmente a sei. Il primo è la vanagloria, la presunzione, la superbia e il disprezzo del prossimo. Difatti non si può concedere la stima a una cosa senza sottrarla a un’altra. Da ciò segue quanto meno una disistima concreta per le altre cose, perché è naturale che quando il cuore ripone il suo apprezzamento in una cosa, lo ritiri dalle altre per aderire a quella che preferisce; da questo disprezzo reale è facile passare a un disprezzo intenzionale e volontario verso qualche altra cosa in particolare o in generale, non solo interiormente, ma anche a parole, e si dice: la tal persona o la tal cosa non è come quell’altra. Il secondo danno consiste nello spingere i sensi al compiacimento, al piacere sensuale e alla lussuria. Il terzo danno consiste nel far cadere nell’adulazione e nelle lodi vane, in cui c’è inganno e vanità, come dice Isaia: Popolo mio, chi ti loda, t’inganna (Is 3,12 Volg.). Infatti, sebbene a volte si dica la verità elogiando i doni e la bellezza di una persona, sarebbe strano che non ne risultasse qualche inconveniente, o inducendola al compiacimento vano e alla gioia frivola, o annettendo a quest’elogio attaccamenti e intenzioni imperfette. Il quarto danno è generale; consiste nell’annebbiamento della ragione e del senso dello spirito, come quando si pone la gioia nei beni temporali e, sotto un certo aspetto, molto di più. Poiché i beni naturali sono più intimi all’uomo di quelli temporali, la gioia da essi prodotta s’imprime con maggior efficacia e rapidità, lasciando nei sensi una traccia e uno smarrimento molto maggiore. La ragione e il giudizio perdono la loro libertà; sono come ottenebrati in seguito all’affezione di quella gioia a loro molto intima. Da ciò deriva il quinto danno, che è la distrazione della mente verso le creature. Da questa poi nascono la tiepidezza e la fiacchezza spirituali, che costituiscono il sesto danno. Anch’esso è generale e arriva fino a far provare grande noia e tristezza nelle cose di Dio, e addirittura a odiarle. In questo piacere, almeno agli inizi, si perde inevitabilmente la purezza di spirito; se poi si avverte del fervore, sarà un fervore molto sensibile e grossolano, poco spirituale, scarsamente interiore e raccolto: consisterà più nella gioia dei sensi che nel vigore dell’anima. Questa, poi, è tanto debole e poco elevata da non avere la possibilità di vincere in sé l’abitudine a tale gioia (infatti basta, per non avere la purezza di spirito, che l’anima abbia quest’abitudine imperfetta, anche se in alcune occasioni non consentirà ad atti di compiacenza). E così il fervore della persona verrà a risiedere, in certo qual modo, più nella debolezza dei sensi che nella forza dello spirito; comunque, le occasioni ne manifesteranno la consistenza e la perfezione. Non nego, tuttavia, che ci possano essere molte virtù insieme a tante imperfezioni; ma se queste gioie per i beni naturali non vengono soffocate, non può esserci spirito interiore puro e gustoso, perché regna la carne, che milita contro lo spirito (Gal 5,17); e sebbene lo spirito non si renda conto del danno, quanto meno sarà soggetto a una segreta dissipazione.

3. Ma torniamo ora al secondo danno, che ne racchiude in sé di innumerevoli. Non credo sia possibile descrivere né spiegare a parole una realtà che non è oscura né occulta, cioè il termine a cui portano questi danni e quanta infelicità provenga dalla compiacenza che si ripone nelle doti e nella bellezza naturale. Ogni giorno, infatti, per questi motivi, vediamo omicidi, perdite di onori, ingiurie, dissoluzioni di patrimoni, gelosie, contese, adultèri, stupri, fornicazioni e tanti santi caduti nel fango, i quali possono essere paragonati a un terzo delle stelle del cielo che la coda del serpente precipitava sulla terra (Ap 12,4). Si è annerito l’oro, si è alterato l’oro migliore; i preziosi e nobili figli di Sion, già vestiti di oro fino, sono stimati quali vasi di creta, rotti, diventati coccio (Lam 4,1-2).

4. Dove non arriva il veleno di questo danno? E chi non beve, poco o molto, da questo calice dorato che porge la babilonia donna dell’Apocalisse (17,4), seduta sulla grande bestia dalle sette teste e dieci corna? Queste parole ci fanno capire che non c’è nobile o plebeo, santo o peccatore a cui ella non faccia bere il suo vino, assoggettando in qualcosa il suo cuore. Difatti nello stesso libro si racconta che si sono inebriati tutti i re della terra con il vino della sua prostituzione (Ap 17,2). Ella esercita la sua tirannia sugli uomini di tutte le condizioni; non rispetta neanche la condizione suprema ed eccelsa del santuario e del sacerdozio divino. Come dice Daniele (9,27), posa la coppa della sua abominazione nel luogo santo; a stento rimane qualcuno, forte o debole che sia, a cui non faccia bere vino di quel calice che è la gioia vana. Per questo dice che tutti i re della terra si sono inebriati di quel vino; difatti se ne troveranno pochi, anche fra i più santi, che non siano stati rapiti e sedotti da questa bevanda della gioia e del piacere della bellezza e delle grazie naturali.

5. È da notare l’espressione si sono inebriati. Infatti, per quanto poco sia il vino di quella gioia, subito affascina e adesca il cuore, producendo il danno di annebbiare la ragione, come accade a coloro che sono in preda al vino. Se non si prende subito qualche antidoto contro questo veleno per buttarlo fuori, la vita dell’anima è in pericolo. Quando, infatti, aumenta la debolezza spirituale, l’anima cade in una situazione riprovevole come quella di Sansone, allorché gli furono strappati gli occhi e tagliati i capelli in cui risiedeva la sua originaria forza. Anche l’anima, allora, sarà costretta a girare le macine del mulino, prigioniera tra i suoi avversari; e poi, forse, morirà della seconda morte, quella spirituale, come Sansone morì di morte fisica insieme ai suoi nemici. Tutti questi danni provengono dal fatto che l’anima ha voluto assaporare quella gioia. Tale ubriacatura causa all’anima, e ancora oggi a molte persone, sul piano spirituale, ciò che ha procurato a Sansone su quello temporale. I nemici dell’anima verranno a dirle, schernendola: “Non eri tu che strappavi i legami doppi, spezzavi le mascelle dei leoni, uccidevi mille filistei, scardinavi le porte della città e ti liberavi da tutti i tuoi nemici?” (cfr. Gdc 16,24).

6. Per concludere, indico infine il rimedio necessario contro questo veleno: appena il cuore si sente mosso dalla gioia vana dei beni materiali, deve ricordarsi quanto sia inutile, pericoloso e dannoso godere di qualcosa che non sia servire Dio. Egli deve riflettere sulla catastrofe causata dagli angeli che vollero gioire e compiacersi della loro bellezza e delle loro doti naturali, poiché per questo motivo furono precipitati negli abissi orrendi. Rifletta, inoltre, sui mali innumerevoli che tale vanità causa ogni giorno agli uomini. Si faccia, perciò, coraggio e prenda il rimedio che il poeta suggerisce a coloro che cominciano ad affezionarsi ai beni naturali: “Affrettatevi a porvi rimedio subito, agli inizi, quando i mali hanno avuto poco tempo per crescere nel cuore, altrimenti il rimedio e la medicina arriveranno tardi”. Dice il Saggio: Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa. Scende giù piano piano e finirà con il morderti come un serpente e pungerti come un basilisco (Pro 23,31-32).

CAPITOLO 23

Ove si parla dei vantaggi che l’anima ricava dal non riporre la gioia nei beni naturali.

1. Molti sono i vantaggi che l’anima ricava quando allontana il cuore da questa gioia, perché, oltre a trovarsi disposta all’amore di Dio e alle altre virtù, viene chiaramente spinta a praticare l’umiltà riguardo a se stessa e la carità nei confronti del prossimo, in modo universale. Infatti, quando l’anima non si affeziona a nessuno in modo particolare a motivo dei beni naturali apparenti, che sono menzogneri, è libera e indipendente, in grado di amare tutti in modo razionale e spirituale, come Dio vuole che siano amati. Da ciò risulta che nessuno merita di essere amato se non per la virtù che ha in sé. Quando amiamo così, amiamo secondo il volere di Dio e in piena libertà; e se questo amore si rivolge alla creatura, si dirige, però, soprattutto a Dio, perché quanto più cresce questo amore, tanto più cresce l’amore di Dio, e quanto più cresce l’amore di Dio, tanto più cresce anche quello del prossimo; infatti unica è la ragione e identica la causa dell’amore verso Dio e il prossimo.

2. Un altro grande beneficio si ricava dalla negazione di questa gioia: quello di adempire e osservare fedelmente il consiglio offerto dal Signore nel vangelo di Matteo: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso (Mt 16,24). L’anima non potrebbe assolutamente metter in pratica questo consiglio se cercasse la propria gioia nei beni materiali; chi pensa a se stesso, infatti, non si rinnega né segue Cristo.

3. Vi è un altro grande vantaggio per chi rifiuta questo genere di gioia: una grande tranquillità nell’anima, l’eliminazione delle distrazioni e il raccoglimento dei sensi, soprattutto degli occhi. Difatti, dal momento in cui l’anima rinuncia alla soddisfazione dei beni naturali, non applica i suoi sguardi né occupa gli altri sensi in queste cose, per non lasciarsi attrarre né avviluppare da esse, come anche per non perdere tempo pensandovi; si fa simile al serpente prudente che si tura le orecchie per non udire la voce dell’incantatore (Sal 57,5-6). Quando, infatti, si vigila sui sensi, che sono le porte dell’anima, la si custodisce bene e si accresce molto la sua tranquillità e purezza.

4. C’è un altro vantaggio, non minore, per coloro che hanno fatto dei progressi nella mortificazione di questo genere di gioia: gli oggetti e i cattivi pensieri non provocano in loro quelle impressioni impure che suscitano invece in quelli che ancora trovano un po’ di godimento in questi beni naturali. Per tale motivo, la negazione e la mortificazione di questa gioia è seguita dalla purezza dell’anima e del corpo, cioè dello spirito e dei sensi. La persona spirituale acquista, così, un comportamento tutto angelico nei confronti di Dio; la sua anima e il suo corpo divengono degno tempio dello Spirito Santo. Ora, tale purezza non può avverarsi se il cuore si compiace dei beni e delle doti naturali. Non è neanche necessario che ci sia consenso a una cosa impura o che la si ricordi, perché la sola compiacenza provocata dalla conoscenza di tale cosa basta a causare l’impurità nell’anima e nel corpo. Difatti il Saggio dice che il santo spirito se ne sta lontano dai discorsi insensati, che cioè non sono ordinati a Dio per una ragione superiore (Sap 1,5).

5. Ne deriva un altro vantaggio, che è generale. L’anima non solo si libera dai mali e danni suddetti, ma si preserva altresì da innumerevoli vanità e numerosi altri danni, sia spirituali che temporali. Soprattutto evita di cadere nella disistima che avvolge coloro che si rallegrano e si vantano delle suddette doti naturali, proprie e altrui. Vengono quindi ritenuti prudenti e saggi, come di fatto lo sono, tutti coloro che non danno importanza a questi beni naturali, ma solo a ciò che piace a Dio.

6. Dai vantaggi suddetti segue l’ultimo. Consiste in un bene straordinario per l’anima, estremamente necessario per servire Dio, cioè la liberta di spirito, con cui vince facilmente le tentazioni, sopporta bene le prove e progredisce felicemente nelle virtù.

CAPITOLO 24

Ove si parla del terzo genere di beni dei quali la volontà può compiacersi, cioè i beni sensibili. Si dice quali siano e di quante specie, e come la volontà debba purificarsi da ogni godimento di tali beni per elevarsi a Dio.

1. Continuo a parlare della gioia riguardante i beni sensibili, che formano il terzo genere di beni dei quali – dicevo – può godere la volontà. È da notare che per beni sensibili intendo tutto ciò che in questa vita può cadere sotto i sensi della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto, o ancora tutto quello che forma interiormente il ragionamento immaginario, cioè tutto ciò che forma l’esperienza dei sensi corporali, interni ed esterni.

2. Ora, per oscurare e purificare la volontà dalla gioia riguardo a questi oggetti sensibili e attraverso questi indirizzarla a Dio, è necessario ricordare, come ho detto ripetutamente, che i sensi della parte inferiore dell’uomo, di cui sto trattando, non sono né possono essere capaci di conoscere e neppure di comprendere Dio com’egli è. Così, l’occhio non può vedere né lui né qualcosa che gli assomigli; l’orecchio non può udire la sua voce o suono che le assomigli; l’olfatto non può respirare profumo tanto soave, né il gusto assaporare una dolcezza così elevata e piacevole, né il tatto può provare sensazioni così delicate e gradevoli o qualcosa di simile; d’altra parte, nemmeno può essere oggetto del pensiero o dell’immaginazione la forma di Dio o qualche figura che lo rappresenti. Ha detto Isaia: Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto, né è entrato in cuore d’uomo… (Is 64,4; cfr. 1Cor 2,9).

3. A questo punto occorre osservare che i sensi possono percepire gusti e delizie o da parte dello spirito, mediante qualche comunicazione proveniente interiormente da Dio, o da cose esteriori che impressionano gli stessi sensi. Come ho detto, la parte sensitiva non può conoscere Dio né per la via dello spirito né per quella dei sensi; non essendo in grado di farlo, riceve in maniera sensibile e non altrimenti ciò che è spirituale e intelligibile. Di conseguenza, fissare la volontà nella gioia del piacere prodotto da alcune di queste percezioni sensibili sarebbe perlomeno una vanità; in questo modo s’impedisce alla volontà di esprimere tutta la sua forza per Dio e di riporre la gioia in lui solo. Non potrà farlo completamente se non purificandosi e negandosi anche a questo genere di gioia, come a tutti gli altri.

4. Volutamente ho detto che se la volontà fissa la gioia in qualcuno dei suddetti beni sensibili, pecca di vanità. Ma se essa, appena avverte il gusto di ciò che ode, vede e tocca, si eleva a Dio offrendogli questa gioia, che le serve da motivo e stimolo per tale scopo, fa molto bene. Non solo, dunque, si devono accogliere tali mozioni quando producono devozione e orazione, ma anzi possiamo e dobbiamo servircene, dal momento che favoriscono un così santo esercizio. Vi sono delle anime, infatti, che si avvicinano molto a Dio attraverso gli oggetti sensibili. Tuttavia occorre essere molto prudenti su questo punto ed esaminare bene gli effetti che se ne ricavano. Assai spesso, infatti, molte persone spirituali ricorrono a questi diversivi offerti dai sensi sotto pretesto della preghiera e dell’offerta di sé a Dio, ma in verità si comportano così per cercare la distrazione più che l’orazione, la propria soddisfazione più che il servizio di Dio. È loro intenzione servire Dio, ma l’effetto non è che uno svago sensibile; ne segue che, anziché spronare la volontà e portarla a Dio, ne traggono una più grande debolezza e imperfezione.

5. Per tutti questi motivi voglio offrire un criterio per valutare quando i suddetti piaceri dei sensi giovano e quando no. Tutte le volte che si ascolta musica o altre cose gradevoli, si respirano profumi soavi, si gustano sapori prelibati o si provano tocchi delicati, se immediatamente, al primo stimolo, si dirigono il pensiero e l’affetto a Dio, traendone piacere maggiore che dalla sensazione di cui si gioisce solo perché ne è stata la causa, allora è segno che quei godimenti sensitivi giovano allo spirito e lo elevano. In tal caso ci si può servire degli oggetti sensibili, perché ci aiutano a conseguire il fine per il quale Dio li ha creati e ce li ha dati, cioè perché sia meglio amato e conosciuto per mezzo loro. Ma occorre ricordare che colui al quale queste impressioni sensibili procurano il puro effetto spirituale sopra descritto, non per questo deve desiderarle né prestarvi molta attenzione, anche se suscitano un grande piacere quando sono offerte, a causa della gioia di amare Dio che esse producono, come ho detto. Egli non si affanna per procurarsele, e quando gli vengono offerte – lo ripeto – immediatamente le abbandona per fissare la sua volontà in Dio.

6. Il motivo per cui queste persone non danno molta importanza a tali impressioni, anche se le aiutano ad elevarsi a Dio, è il seguente: lo spirito che ha la prontezza di andare con tutto e per mezzo di tutto a Dio è talmente sazio, provvisto e soddisfatto dello spirito di Dio, da non sentire bisogno di nient’altro; e se lo sentisse, per questo motivo vi passerebbe subito sopra e lo dimenticherebbe senza farci caso. Chi, al contrario, non sente questa libertà di spirito nelle suddette impressioni e gusti sensibili, e la sua volontà si fissa su questi piaceri e se ne pasce, allora ne ricava danno, e perciò deve evitare di servirsene. È vero che la ragione gli suggerisce di cercare in essi un aiuto per andare a Dio, ma dal momento che l’appetito gode d’una gioia sensibile e l’effetto è sempre conforme a questa gioia, certamente gli saranno più di danno che di aiuto. L’anima, appena si accorge che dentro di sé regna il desiderio smodato per questi piacer, deve mortificarlo, perché quanto più è forte, tanto più gravi saranno l’imperfezione e la debolezza.

7. La persona spirituale, dunque, deve servirsi di qualunque gusto provato casualmente o volutamente solo per Dio, ed elevare a lui la gioia dell’anima, perché sia utile, vantaggiosa e perfetta. È opportuno ricordare che ogni gioia che non è negazione e annientamento di qualsiasi altra gioia inferiore, anche se provenisse da cosa apparentemente molto elevata, è vana, inutile e ostacola l’unione della volontà con Dio.

CAPITOLO 25

Ove si tratta dei danni che l’anima riceve quando vuole riporre la gioia della sua volontà nei beni sensibili.

1. Prima d’ogni cosa va detto che, se l’anima non spegne o calma la gioia che le può venire dalle cose sensibili, orientandola verso Dio, andrà incontro a tutti i danni che abbiamo visto derivare complessivamente dagli altri generi di gioia, come l’annebbiamento della ragione, la tiepidezza, la noia spirituale, ecc. In particolare, però, sono molti i danni, sia spirituali sia corporali o sensibili, che derivano da questa gioia.

2. Anzitutto, la gioia proveniente dalla vista degli oggetti, non rinnegata per andare invece a Dio, può generare direttamente la vanità dello spirito e la dissipazione del cuore, cupidigia disordinata, disonestà, disordine interiore ed esteriore, pensieri impuri e invidia.

3. Dalla gioia derivante dall’ascolto di cose inutili, nascono direttamente la distrazione dell’immaginazione, il pettegolezzo, l’invidia, i giudizi temerari, la volubilità di pensiero e un gran numero di danni di questo genere, molto pericolosi.

4. La gioia che si prova respirando soavi profumi genera la ripugnanza per i poveri, cosa contraria alla dottrina di Cristo, avversione per la servitù, poca sottomissione del cuore per le cose umilianti e insensibilità spirituale, che è quanto meno proporzionata alla passione disordinata di questa gioia.

5. Dalla gioia per i cibi gustosi nascono direttamente la golosità e l’ubriachezza, l’ira, la discordia e la mancanza di carità verso il prossimo e i poveri, come testimonia quel ricco epulone che mangiava lautamente ogni giorno, a differenza di Lazzaro (Lc 16,19). Nascono anche l’indisposizione fisica e le malattie; nascono i moti sregolati, perché aumentano i focolai della lussuria. Per di più, tale gioia genera direttamente un grande torpore spirituale e una noia per le cose spirituali, tanto da non poterle più gustare né prendervi parte o parlarne. Infine da questa gioia deriva la dissipazione di tutti gli altri sensi e del cuore, nonché insoddisfazione per molte cose.

6. Quanto alla gioia che il tatto prova nelle cose delicate, produce danni molto più numerosi e gravi, che stravolgono rapidamente lo spirito, soffocandone la forza e il vigore. Di qui nasce l’abominevole vizio della mollezza e degli stimoli che l’eccitano, tanto più intensi quanto più forte è quella gioia. La mollezza alimenta la lussuria, rende l’animo effeminato e pusillanime, inclina i sensi all’allettamento e alla concupiscenza, disposti a peccare e a far del male; infonde nel cuore una frivola allegria e una vana soddisfazione; crea libertà di linguaggio e impudenza degli occhi; seduce e indebolisce gli altri sensi a seconda del grado raggiunto da tale cattiva inclinazione; intralcia la rettitudine del giudizio, mantenendolo nell’insipienza e nell’ignoranza spirituale; e, dal punto di vista morale, crea vigliaccheria e incostanza; diffonde le tenebre nello spirito e la debolezza nel cuore; ispira paura anche laddove non c’è da temere. Questo genere di gioia genera talvolta spirito di confusione e insensibilità nella coscienza e nella mente, in quanto debilita profondamente la ragione, fino a ridurla in condizioni di non saper dare o ricevere un buon consiglio, incapace di accogliere beni spirituali e morali, in una parola, inutile come un vaso rotto.

7. Tutti questi danni derivano da questo genere di gioia, più o meno profondi in alcuni a differenza che in altri, a seconda dell’intensità di tale gioia, come anche delle disposizioni, della debolezza o dell’incostanza del soggetto in cui si annida. Vi sono, infatti, alcune nature che subirono più danni da una insignificante occasione che altre da occasioni più pericolose.

8. Infine, da questo genere di gioia proveniente dal tatto si può cadere in molti mali e danni che, come ho detto, derivano dalla gioia riposta nei beni naturali, che non sto a ripetere, perché ne ho già parlato. Non mi soffermo nemmeno su molti altri danni quali la negligenza nelle pratiche di devozione e nelle penitenze corporali, la tiepidezza e la mancanza di fervore nel ricevere i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia.

CAPITOLO 26

Ove si parla dei vantaggi spirituali e temporali che l’anima ottiene quando rinuncia alla gioia derivante dalle cose sensibili.

1. Straordinari sono i vantaggi che l’anima ricava dalla rinuncia a questa gioia: alcuni sono spirituali, altri temporali.

2. Il primo vantaggio che l’anima trae dalla rinuncia alla gioia proveniente dalle cose sensibili, è quello di rafforzarsi nei riguardi delle distrazioni in cui era caduta per via dell’esercizio esagerato dei sensi. Ora si raccoglie in Dio e non solo conserva lo spirito e le virtù che ha acquisito, ma le aumenta di continuo e i suoi profitti vanno sempre più crescendo.

3. Il secondo vantaggio spirituale che deriva dalla rinuncia al godimento delle cose sensibili è eccellente. Possiamo dire in tutta verità che l’uomo da sensuale diventa spirituale, da animale diviene ragionevole e perciò la sua vita umana si avvicina a quella degli angeli, da temporale e umano diventa divino e celeste. Infatti, se l’uomo che cerca la gioia nelle cose sensibili e se ne compiace non merita altri nomi se non quelli che ho espresso, cioè sensuale, animale, temporale, ecc., colui, invece, che rinuncia alla gioia proveniente da queste cose sensibili merita tutt’altri titoli, cioè quello di spirituale, celeste, ecc.

4. È chiaro che qui si nasconde una verità. Se, infatti, l’esercizio dei sensi e la forza della sensibilità contrastano, come dice l’Apostolo, con la forza e l’esercizio dello spirito (Gal 5,17), ne risulta che, diminuendo e venendo a mancare una di queste due forze, quella opposta aumenta e si sviluppa perché non trova impedimenti. Così, quando lo spirito dell’uomo, che è la parte superiore dell’anima la quale ha relazione e comunica con Dio, si purifica, merita tutti i titoli suddetti, perché si perfeziona nei beni e nei doni spirituali e celesti che gli vengono da Dio. Entrambe queste verità vengono spiegate da san Paolo. Egli chiama il sensuale, cioè colui che esercita la sua volontà soltanto sotto il dominio dei sensi, animale, che non percepisce le cose di Dio; mentre quello che eleva a Dio la volontà lo chiama spirituale: questi scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2,14). L’anima, dunque, trova qui un grande profitto che la dispone largamente ad accogliere da Dio i beni e i doni spirituali.

5. Il terzo vantaggio consiste in un considerevole aumento dei diletti e della gioia, che la volontà riceve ora, nel tempo presente, proprio come dice il Signore, moltiplicati per cento (Mc 10,30; Mt 19,29). Se si rinuncia a una gioia, il Signore ne darà cento altre di più in questa vita, sia spiritualmente che materialmente; al contrario, se si accetta una gioia proveniente da queste cose sensibili, se ne trarrà cento volte di più in pene e dispiaceri. Ad esempio, quando l’anima è purificata dal piacere procuratole dalla vista degli oggetti, essa prova gioia spirituale elevando a Dio tutte le cose che vede, sia divine che profane; se l’anima è purificata dal piacere procuratole dall’udito, essa sperimenta una gioia spirituale centuplicata, indirizzando a Dio tutto ciò che sente, sia divino che profano. Lo stesso accade per gli altri sensi, quando sono purificati. Nello stato d’innocenza dei nostri progenitori, tutto quanto essi vedevano, dicevano e mangiavano nel paradiso serviva loro a gustare di più la contemplazione, perché la loro parte sensitiva era perfettamente assoggettata e sottomessa alla ragione. Allo stesso modo colui che ha i sensi purificati da tutte le cose sensibili e sottomessi allo spirito, fin dal loro primo moto, attinge delizie nella gustosa conoscenza e contemplazione di Dio.

6. Così dunque, per colui che è puro, tutto nelle cose elevate o umili torna a suo bene maggiore e gli offre una purezza più grande. Al contrario, l’impuro, con la sua impurità, da tutto ricava il male. Ma colui che non vince la gioia dei sensi non può godere la serenità di una gioia ordinaria in Dio per mezzo delle sue creature. Colui che non vive più secondo i sensi, finalizza alla contemplazione divina tutte le operazioni dei suoi sensi e delle sue potenze. Difatti è risaputo nella sana filosofia che ogni cosa agisce secondo il suo essere e il suo esistere. Ora, se l’anima vive una vita spirituale, dopo aver mortificato quella animale, è chiaro che, essendo tutte le sue azioni e tutti i suoi movimenti ormai spirituali, essa si dirigerà a Dio in ogni cosa e senza alcuna contraddizione. Ne segue che questa persona, ormai purificata nel cuore, in tutte le cose scopre una conoscenza di Dio piacevole, dolce, casta, pura, spirituale, piena di gioia e d’amore.

7. Da quanto detto deriva la seguente dottrina: finché l’uomo non si sarà abituato a privare i sensi della gioia sensibile, così da poterne ricavare fin dal primo moto il vantaggio che ho detto, e a indirizzarsi immediatamente in tutte le cose a Dio, dovrà necessariamente mortificare la gioia e il piacere derivanti da esse per distogliere la sua anima dalla vita sensitiva. Non essendo spirituale, temo che attingerà forse dall’uso delle creature più linfa e forza per i sensi che per lo spirito, specialmente se la forza sensibile, del resto già predominante, cresce di più per mezzo dell’esercizio della sensibilità, la sostiene o la nutre. Difatti il Signore ha detto: Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito (Gv 3,6). Si badi bene a questo, perché è la verità: colui che non ha ancora mortificato il gusto per le cose sensibili non pretenda di trarre molto profitto dalla forza e dall’esercizio dei sensi, pensando di trovare in essi un aiuto per lo spirito. Al contrario, le forze dell’anima cresceranno di più se essa saprà mortificare i piaceri sensibili, cioè soffocherà la gioia e il desiderio smodato di essi, piuttosto che farne uso.

8. Non è necessario parlare di quei beni di gloria riservati nell’altra vita a coloro che rinunciano a tale gioia. Mi limito a considerare solo le qualità dei corpi gloriosi, quali l’agilità e lo splendore, che saranno molto superiori a quelle di coloro che non si seppero mortificare. Anche la gloria essenziale sarà più grande per l’anima. Essa corrisponderà all’amore di Dio per il quale essi hanno rinunciato alla gioia di suddetti beni sensibili. Ogni atto di abnegazione di tale gioia passeggera e caduca, come dice san Paolo, procura una quantità eterna e smisurata di gloria (2Cor 4,17). Non voglio parlare ora degli altri vantaggi, morali, temporali e spirituali, che derivano da questa notte, cioè rinuncia, della gioia. Sono gli stessi di cui abbiamo parlato a proposito degli altri generi di gioia. Si manifestano in un grado molto superiore, perché le gioie che si respingono sono più intime alla natura umana. Per questo motivo, rinunciando ad esse, si acquista una purezza più intima.

CAPITOLO 27

Ove s’inizia a trattare del quarto genere di beni, che sono i beni morali. Si spiega quali siano e in che modo la volontà può farne lecitamente oggetto della sua gioia.

1. Il quarto genere di beni dei quali la volontà può gioire è costituito da quelli morali. Per beni morali intendo le virtù, le conseguenti abitudini in quanto etiche, la pratica di tutte le virtù e delle opere di misericordia, l’osservanza della legge di Dio, l’arte di governarsi, o politica, e tutte le opere che provengono da una naturale e buona inclinazione.

2. Questi beni morali, se posseduti ed esercitati, meritano forse la gioia della volontà più di qualunque altro genere di beni di cui ho finora parlato. Difatti vi sono due motivi che possono, singolarmente o insieme, procurare questa gioia: vale a dire la considerazione di ciò che essi sono in se stessi e il vantaggio che comportano e producono come mezzi e strumenti. Scopriremo così che il possesso dei tre generi di beni ricordati in precedenza non merita alcuna gioia della volontà. Come si è detto, essi, per loro natura, non recano all’uomo alcun bene né possiedono alcun valore in sé, essendo affatto caduchi ed effimeri; al contrario, generano e procurano pena, dolore e afflizione d’animo. Anche se meritano qualche gioia in base al secondo motivo, cioè quando l’uomo se ne serva per andare a Dio, quest’esito è talmente incerto che, come vediamo comunemente, procura all’uomo più danni che vantaggi. I beni morali, invece, in forza del primo motivo, in quanto cioè valgono per loro natura, meritano qualche stima da parte di chi li possiede. Poiché fruttano pace e tranquillità, rettitudine e ordine nell’uso della ragione, come anche prudenza nel comportamento, dal punto di vista umano una persona non può possedere cosa migliore in questa vita.

3. Poiché le virtù in se stesse meritano di essere amate e stimate, parlando umanamente, l’uomo può benissimo rallegrarsi di averle e di esercitarle sia per il loro intrinseco valore sia per i vantaggi umani e temporali che procurano all’uomo. In questo senso e per questo motivo i filosofi, i saggi e i principi dell’antichità le apprezzarono, le esaltarono e cercarono di acquistarle e farne uso. Benché fossero pagani e le guardassero dal punto di vista materiale e dei beni temporali e corporali che naturalmente ne vedevano derivare, non solo per loro mezzo acquistarono i beni e la fama passeggera alla quale aspiravano, ma qualcosa di più: Dio, che ama tutto ciò che è buono anche nel barbaro e nel pagano e non impedisce che si faccia alcuna cosa buona (Sap 7,22 Volg.), prolungò loro la vita, concesse onori, potere e pace, come appunto fece con i romani che seguivano leggi giuste: assoggettò a loro quasi tutto il mondo, ricompensando così su questa terra, per i loro buoni costumi, quelli che erano incapaci, mancando loro la fede, di premio eterno. Il Signore ama molto questi beni morali. Difatti Salomone, che aveva chiesto solo la sapienza per istruire il suo popolo, governarlo nella giustizia e istruirlo nei buoni costumi, risultò molto gradito a Dio. Dal momento che aveva chiesto la sapienza per lo scopo di cui sopra, il Signore l’assicurò che gli concedeva anche quanto non aveva domandato, cioè ricchezza e gloria come nessun re ebbe mai (1Re 3,11-13).

4. Senza dubbio, il cristiano deve rallegrarsi di questa prima utilità dei beni morali e delle buone opere che compie in questa vita, in quanto causa dei beni temporali di cui ho parlato sopra. Ma non deve limitare la sua gioia a questo primo livello, come facevano i pagani, il cui sguardo non andava al di là della presente vita mortale. Poiché egli possiede il lume della fede, per mezzo del quale spera la vita eterna e senza il quale nulla di ciò che è quaggiù o lassù gli sarà di giovamento, deve godere esclusivamente e soprattutto del possesso e dell’esercizio dei beni morali secondo un’altra visuale, in quanto cioè, agendo per amore di Dio, gli fanno acquisire la vita eterna. Così, comportandosi rettamente e praticando le virtù, terrà gli occhi fissi su Dio e porrà la sua gioia solo nel servirlo e onorarlo. Senza questa intenzione, tutte le virtù non valgono nulla dinanzi a Dio, come dimostra la parabola evangelica delle dieci vergini. Tutte avevano conservato la verginità e compiuto opere buone, ma poiché cinque di esse non avevano saputo cercare la gioia derivante dalle loro virtù conformemente alla seconda visuale – indirizzandole cioè a Dio – ma l’avevano riposta nel possesso di esse, secondo il primo livello, vennero respinte dal cielo senza alcun ringraziamento o riconoscimento da parte dello Sposo (Mt 25,1-12). Diversi personaggi dell’antichità possedettero molte virtù e fecero buone opere, e anche ai nostri giorni molti cristiani sono nella stessa situazione di quelli, ma tutto ciò non gioverà loro affatto per la vita eterna, perché non mirano alla gloria e all’onore che spetta solo a Dio. Il cristiano deve rallegrarsi non delle sue buone opere o dei suoi costumi retti, ma soltanto di far tutto per amore di Dio, senza altre intenzioni. Infatti, solo le opere compiute unicamente per amore di Dio meritano una ricompensa di gloria maggiore, mentre, se fatte per altri motivi, generano una confusione più grande dinanzi al Signore.

5. Per elevare a Dio la gioia che trova nei beni morali, il cristiano deve ricordare che il valore delle sue opere buone, dei digiuni, delle elemosine, penitenze, orazioni, ecc., non si fonda tanto sulla loro quantità e qualità, ma sull’amore di Dio che pone in esse. Le sue opere sono tanto più preziose quanto più puro e intatto è l’amore di Dio contenuto in esse e quanto minore è l’interesse per la gioia, il piacere, la consolazione e la lode. Non deve, quindi, attaccare il cuore al gusto, alla consolazione, al sapore o alle altre soddisfazioni che ordinariamente l’esercizio delle virtù e le buone opere comportano. Al contrario, deve orientare la gioia verso Dio, desiderando servirlo tramite queste cose, purificarsi e liberarsi del tutto da questa gioia, desiderando che sia Dio solo a godere e rallegrarsi di esse in segreto. In breve, non avrà altra intenzione e interesse che l’onore e la gloria di Dio. In questo modo concentrerà su Dio tutta la forza della sua volontà relativa a questi beni morali.

CAPITOLO 28

Ove si parla dei sette danni in cui può cadere la volontà quando ripone la gioia nei beni morali.

1. I danni principali che l’uomo può subire per la vana compiacenza nelle sue opere buone o nel suo comportamento sono sette e molto perniciosi, proprio perché spirituali. Di essi parlerò ora brevemente.

2. Il primo danno è la vanità, la superbia, la vanagloria e la presunzione. Difatti non ci si rallegra delle proprie azioni senza stimarle. Da qui nascono la millanteria e gli altri difetti di cui parla il vangelo a proposito del fariseo che pregava e ringraziava Dio, vantandosi di digiunare e di fare altre opere buone (Lc 18,12).

3. Il secondo danno normalmente è unito al precedente. Consiste nel giudicare gli altri cattivi e imperfetti in confronto a se stessi. Sembra che gli altri non agiscano e non si comportino così bene come noi; si ha poca stima di loro nel nostro cuore e talora la si esprime anche con le parole. Il fariseo della parabola aveva questo difetto, perché nelle sue preghiere diceva: O Dio, ti ringrazio che sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri (Lc 18,11). Con un sol gesto cadeva nei due difetti: sopravvalutava se stesso e disprezzava gli altri. È esattamente quanto al giorno d’oggi molta gente dice: “Non sono come Tizio, né agisco come Caio o Sempronio”. Molte di queste persone sono peggiori del fariseo. Costui non solo disprezzava gli altri, ma in modo particolare ne disprezzava uno quando diceva: Non sono come questo pubblicano (ibid.). Le persone di cui stiamo parlando, invece, non si contentano di recitare l’una o l’altra parte. Addirittura si irritano e si lasciano prendere dall’invidia quando vedono che altri sono lodati, agiscono meglio o valgono più di loro.

4. Il terzo danno consiste in questo: poiché tali persone nelle opere cercano solo la loro soddisfazione, solitamente le compiono quando vedono che da esse può derivare piacere o lode, proprio come dice il Signore: fanno tutto ut videantur ab hominibus, per essere visti dagli uomini (Mt 23,5), non per il solo amore di Dio.

5. Il quarto danno deriva dal precedente. Consiste nella mancata ricompensa da parte di Dio, perché l’hanno voluta ricevere sin da questa vita: nella gioia, nelle consolazioni, negli onori o altri interessi che hanno cercato nelle loro opere. Per questo motivo il Salvatore dice che hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2). Così costoro rimangono soltanto con la fatica delle loro opere e confusi, senza ricompensa alcuna. Grande è la miseria che da questo danno si riversa sui figli degli uomini! Sono convinto che la maggior parte delle opere che fanno in pubblico sono viziate, inutili o imperfette agli occhi di Dio, perché non sono immuni da interessi e calcoli umani. Che giudizio si può emettere su coloro che compiono certe opere e innalzano monumenti commemorativi con il preciso intento di esternare in essi l’onore e la riconoscenza umana, frutto di una vita condotta nella vanità? Agiscono così per perpetuare in tali cose il loro nome, lignaggio o potere. Arrivano persino a lasciare i segni di questo potere, i loro nomi e blasoni nelle chiese, come se volessero mettersi a posto delle immagini in quei luoghi dove tutti piegano le ginocchia. In tutto questo non possiamo forse dire che alcune persone adorano più se stesse che Dio? Ed è proprio così, se compiono quelle opere unicamente per certi motivi, come ho detto. Ma lasciamo da parte questi casi, che sono i peggiori. Quante persone nei più svariati modi si attirano questo danno derivante dalle loro opere! Alcune, per esse, vogliono essere lodate, altre preferiscono la riconoscenza; altre, ancora, vogliono che si raccontino le loro opere e hanno piacere che le sappia Tizio e Caio e tutto il mondo; a volte fanno sì che le elemosine o altre opere buone passino attraverso terze persone, perché vengano conosciute; altri infine voglio tutte queste cose insieme. Ciò equivale a suonare la tromba, come dice il Signore nel vangelo; i vanitosi si comportano così, e per questo non riceveranno da Dio la ricompensa per le loro opere (Mt 6,2).

6. Per evitare un danno simile, essi devono nascondere le loro opere, affinché le veda solo Dio, non altri. Non soltanto devono nasconderle agli altri, ma anche a se stessi, cioè non devono compiacersene, né stimarle come se valessero qualcosa, né ricavarne la più piccola gioia. È in questo senso spirituale che va inteso quanto dice il Signore a tale proposito: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt 6,3), il che equivale a dire: non valutare con l’occhio terreno e carnale l’opera spirituale che fai. In questo modo la forza della volontà si concentra in Dio e l’opera che compie ha valore ai suoi occhi. Se non si agisce in questo modo, oltre a perdere il frutto delle buone opere, non se ne ricava alcun merito. In questo senso va interpretata quell’affermazione di Giobbe che dice: Se ho baciato la mia mano con la bocca, il che è iniquità e peccato grande, e il mio cuore si rallegrò segretamente (Gb 31,27-28 Volg.). Per “mano” Giobbe intende l’opera che si compie e per “bocca” la volontà che se ne compiace. Per esprimere la compiacenza in se stesso, Giobbe dice: Se si rallegrò in segreto il mio cuore, il che è iniquità grande e negazione di Dio (ibid.). È come se dicesse che non si compiacque né si rallegrò in segreto nel suo cuore.

7. Il quinto danno di queste persone consiste nel non fare progressi nel cammino della perfezione. Difatti si attaccano al gusto e alla consolazione derivanti dalle opere buone. Poiché nelle loro azioni e negli esercizi di pietà non trovano gusto e consolazione, come ordinariamente avviene quando Dio le vuol far progredire, ma dà loro il pane duro destinato ai perfetti e strappa loro il latte dei bambini, mette con ciò a prova le loro forze e purifica i loro desideri smodati ancora deboli. In breve, le vuole rendere capaci di gustare il cibo dei grandi. Ma esse il più delle volte si scoraggiano e non perseverano, poiché non trovano la suddetta dolcezza nelle loro buone opere. Al riguardo dobbiamo intendere spiritualmente quanto dice il Saggio: Le mosche morenti perdono la soavità dell’unguento (Qo 10,1 Volg.). Quando, infatti, si presenta a queste anime qualche mortificazione, non compiono più le loro buone opere, si scoraggiano e non gustano più la soavità e la consolazione interiore, racchiuse in queste opere.

8. Il sesto danno consiste nel fatto che tali anime generalmente s’ingannano quando giudicano le cose e le opere che piacciono a loro come migliori di quelle che non amano; lodano e stimano le une mentre disprezzano le altre. Al contrario, possiamo dire che in generale quelle opere nelle quali l’uomo si mortifica maggiormente, soprattutto quando non è avanzato nella perfezione, sono più accette e preziose agli occhi di Dio, a motivo dell’abnegazione di sé che l’uomo deve praticare in esse, che quelle in cui trova la sua consolazione, ove può più facilmente cercare se stesso. A questo proposito Michea dice: Malum manuum suarum dicunt bonum: Il male delle loro mani lo chiamano bene (Mic 7,3 Volg.). Questo deriva dal fatto che nelle loro azioni cercano la propria soddisfazione, non di piacere unicamente a Dio. Sarebbe lungo riferire in che misura questo danno è presente sia nelle persone spirituali che nella gente comune. A stento si può trovare qualcuno che si decide ad agire solo per Dio, senza mai attaccarsi a una consolazione, a una gioia o ad altri interessi del genere.

9. Il settimo danno consiste in questo: fin quando l’uomo non ha soffocato in sé la vana compiacenza proveniente dai beni d’ordine morale, si rifiuta sempre di ricevere buoni consigli e saggi suggerimenti sulle opere che dovrà compiere. Difatti questa fiacchezza che si riscontra nelle sue azioni, unita alla ricerca della vana compiacenza come suo bene proprio, l’incatena al punto di non ritenere migliore il consiglio degli altri o, anche se lo ritiene tale, di non volerlo seguire, non avendo in sé il coraggio di metterlo in pratica. Queste persone diventano molto deboli nell’amore per Dio e per il prossimo, perché l’amor proprio che nutrono per le loro opere li raffredda nella carità.

CAPITOLO 29

Ove si parla dei vantaggi che l’anima ottiene quando rifiuta di godere dei beni morali.

1. Grandissimi sono i vantaggi che l’anima ricava dal non applicare inutilmente la gioia della volontà a questa categoria di beni. Anzitutto evita di cadere in molte tentazioni e inganni del demonio, che si celano nel piacere derivante dalle buone opere, come si può dedurre da queste parole di Giobbe: Dorme all’ombra nel folto dei canneti per le paludi (Gb 40,16 Volg.). Tale espressione si riferisce al demonio che inganna l’anima per mezzo della gioia e della vanità delle opere, simbolizzate dall’umidità delle piante e dalla fragilità del canneto. Essere ingannati dal demonio segretamente in questa gioia non deve stupirci, perché, prima ancora delle sue suggestioni, la gioia vana è per se stessa un inganno, soprattutto quando vi è compiacenza nel cuore, come dice esplicitamente Geremia: Arrogantia tua decepit te: La tua superbia ti ha ingannato (Ger 49,16). Quale inganno maggiore della superbia? Ora l’anima se ne può liberare solo rinunciando a questa gioia.

2. Il secondo vantaggio sta nel compiere le opere in modo più deliberato e preciso, il che non si verifica quando subentra la passione della gioia e del piacere per questi beni. Difatti la passione della gioia eccita la parte irascibile e concupiscibile della persona tanto da non lasciare posto alla ragione. Quest’ultima viene indotta a cambiare frequentemente nei propositi e nelle opere, a lasciarne alcune per compierne altre, a cominciarle e poi abbandonarle senza portare a termine nulla. Poiché la persona agisce in base al gusto – in generale molto variabile, per la verità, particolarmente in alcune nature –, quando esso viene a mancare, vengono meno anche le opere e i propositi, malgrado la loro importanza. Per tale persona la gioia che prova nelle sue opere ne è come l’anima e la forza. Spenta la gioia, muore anche l’opera ed essa non persevera. Di questo genere di persone il Signore ha detto che accolgono la parola con gioia, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, affinché non perseverino (Lc 8,12). Ciò accade quando la parola divina non ha forza e radici più profonde della suddetta gioia. Togliere e allontanare la volontà da questa gioia equivale, quindi, a perseverare e ad avere successo. Grande è questo vantaggio, come grande è il danno contrario. Il saggio getta il suo sguardo sulla sostanza dell’opera e sui suoi vantaggi, non sul sapore e sul piacere che ne ricaverebbe. In tal modo non prende a pugni l’aria e dalle sue opere trae una gioia duratura, senza cercare gusti effimeri e vani.

3. Il terzo vantaggio è divino. Si verifica quando si soffoca la gioia vana derivante da queste opere e si diventa poveri di spirito, che è una delle beatitudini proclamate dal Figlio di Dio: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).

4. Il quarto vantaggio si ha quando colui che ricusa questa gioia, acquista la mansuetudine, l’umiltà e la prudenza. Difatti non agirà con impeto e precipitazione, anche se spinto al piacere dalla concupiscenza e dall’irascibilità; né sarà presuntuoso o affettato per la stima che nutre per le sue opere e per il piacere che trova in esse; né sarà imprudente al punto di lasciarsi accecare dalla gioia.

5. Il quinto vantaggio consiste nell’essere graditi a Dio e agli uomini. A questo punto ci si libera dall’avarizia, dalla gola, dall’accidia e dall’invidia spirituale e da molti altri vizi.

CAPITOLO 30

Ove si comincia a trattare del quinto genere di beni, cioè quelli soprannaturali, nei quali la volontà può trovare gioia. Si spiega quali siano e come si distinguano da quelli spirituali e come si debba indirizzare a Dio la gioia che ne proviene.

1. È opportuno ora parlare del quinto genere di beni nei quali l’anima può trovare gioia, cioè dei beni soprannaturali. Per beni soprannaturali intendo tutti i doni e le grazie da Dio concessi, che superano la facoltà e le forze della natura. Si chiamano grazie gratis datae, cioè date gratuitamente, come ad esempio i doni della sapienza e della scienza, accordati a Salomone, e le grazie di cui parla san Paolo (1Cor 12,9-10): la fede, il dono della guarigioni, quello di operare miracoli, lo spirito di profezia, la conoscenza e il discernimento degli spiriti, l’interpretazione e anche il dono delle lingue.

2. Anche se questi beni sono indubbiamente spirituali, come quelli dello stesso genere di cui tratterò dopo, tuttavia, essendovi molta differenza fra di loro, ho voluto parlarne a parte. L’esercizio di questi beni, infatti, concerne immediatamente l’utilità del prossimo e per questo motivo vengono concessi da Dio, come dice san Paolo: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune (1Cor 12,7), espressione da riferire alle grazie suddette. Quanto alle grazie spirituali, invece, il loro esercizio riguarda solo i rapporti tra l’anima e Dio, e viceversa, in una comunicazione d’intelletto, di volontà, ecc., come dirò più avanti. C’è quindi una differenza quanto all’oggetto: oggetto dei beni spirituali è unicamente il rapporto fra il Creatore e l’anima, mentre oggetto dei beni soprannaturali è la creatura. Essi differiscono, inoltre, nella sostanza, nelle operazioni, quindi necessariamente anche nella dottrina.

3. Trattandosi, però, di doni e di grazie soprannaturali come le intendo qui, affermo che bisogna purificare la volontà dalla gioia vana che se ne prova, tenendo presenti due vantaggi che si ottengono in questo genere di beni, l’uno temporale e l’altro spirituale. Il vantaggio temporale riguarda la guarigione dalle malattie, l’acquisto della vista per i ciechi, la risurrezione dei morti, l’espulsione dei demoni, la predizione del futuro per salvaguardarsi, e altre cose di questo genere. Il vantaggio spirituale ed eterno sta nel fatto che Dio viene conosciuto e glorificato per queste opere da chi le compie e da coloro nei quali e di fronte ai quali vengono compiute.

4. Quanto al primo vantaggio, che è temporale, le opere e i miracoli soprannaturali meritano poca o nessuna gioia da parte dell’anima, perché, se viene escluso il secondo vantaggio, poco o niente interessano all’anima. Di per sé non giovano ai fini dell’unione dell’anima con Dio, se non c’è la carità. Queste opere e questi doni soprannaturali possono essere compiuti anche senza essere in stato di grazia o possedere la carità: Dio può realmente concedere tali doni e grazie, come avvenne con l’empio profeta Balaam (Nm 22,20) e con Salomone, oppure il demonio può falsificarli, come avvenne con Simon Mago, o, infine, possono provenire da una virtù segreta della natura. Solo le opere e le meraviglie autentiche, cioè quelle che vengono da Dio, possono recare qualche vantaggio a colui che le compie. San Paolo c’insegna quanto tali opere valgano senza il secondo vantaggio, allorché dice: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che suona o un cembalo che squilla. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede, così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla, ecc. (1Cor 13,1-2). Per questo motivo, quando coloro che avranno stimato le loro opere in questo modo e per ricompensa chiederanno al Signore la gloria, dicendo: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?, Cristo risponderà: Allontanatevi da me, voi operatori di iniquità (Mt 7,22-23).

5. L’uomo, quindi, deve gioire non perché possiede tali grazie o per l’uso che ne fa, ma solo per il vantaggio spirituale che ne ottiene, servendo Dio in perfetta carità: in questo sta il nocciolo della vita eterna. Per questo il Signore rimproverò i suoi discepoli che si rallegravano per aver cacciato i demoni: Non rallegratevi perché i demoni si sottomettevano a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 10,20). Tradotto in termini teologici significa: Gioite perché i vostri nomi sono scritti nel libro della vita. Di conseguenza, l’uomo deve rallegrarsi solo se procede sul cammino della vita, che consiste nel compiere le opere nella carità. A che giova o che vale di fronte a Dio ciò che non è amore di Dio? Ora questo amore non è perfetto se non è assai forte e accorto da purificare l’anima da tutte le gioie che derivano dalle cose, e compiacersi solo nel fare la volontà di Dio. A questa condizione la volontà si unisce a Dio mediante questi beni soprannaturali.

CAPITOLO 31

Ove si parla dei danni che riceve l’anima quando ripone la gioia della volontà in questo genere di beni.

1. Tre danni principali può, a mio avviso, subire l’anima che ripone la gioia nei beni soprannaturali: s’inganna o è ingannata, subisce una perdita di fede e si espone alla vanagloria o a qualche altra vanità.

2. Per quanto riguarda il primo, è molto facile ingannare gli altri e ingannare se stessi, quando si ripone la propria gioia in questo genere di opere. La ragione è che, per discernere quali di queste opere siano vere e quali false, e come e quando debbano essere compiute, occorre una grande prudenza e molta luce di Dio, qualità entrambi fortemente ostacolate dalla gioia e dalla stima concepite per tali cose. E questo per due motivi: primo, perché la gioia appanna e oscura il giudizio; secondo, perché tale gioia non solo spinge l’uomo a compiere le opere più prontamente, ma lo sprona anche a realizzarle a tempo indebito. Supponiamo pure che le virtù e le opere che si mettono in pratica vengano da Dio, ma bastano questi due difetti per ingannarsi spesso, o perché non vengono comprese come dovrebbero esserlo o perché non ci si giova né ci si serve di esse come e quando è più conveniente. È vero che quando Dio concede questi doni e queste grazie comunica anche la luce e la spinta per usarne in modo e a tempo debito. È altrettanto vero, però, che a causa dello spirito di possesso e dell’imperfezione che si può avere nei confronti di tali favori, ci si può sbagliare in modo grossolano, non usandoli con la perfezione voluta da Dio, né come e quando vuole lui. È così che si comportò, secondo quanto si legge nella Scrittura, Balaam. Contro la volontà di Dio decise di andare a maledire il popolo di Israele, e Dio, adirato, lo minacciò di morte (Nm 22,22-23). Allo stesso modo si comportarono san Giacomo e san Giovanni: volevano far scendere il fuoco dal cielo sui samaritani che non avevano voluto accogliere il Signore, ma furono da lui rimproverati proprio per questo motivo (Lc 9,54-55).

3. Questi esempi mostrano chiaramente come quei personaggi si decisero a compiere queste opere in un momento sbagliato, spinti da qualche passione imperfetta, contenuta nella gioia e nella stima che essi nutrivano per tali favori. Quando invece non vi è un’imperfezione simile, gli uomini si muovono e si decidono a usare questi doni quando e come piace a Dio; fino a quel momento non è opportuno che lo facciano. Per questo motivo Dio si lamenta di certi profeti, per bocca di Geremia, in questi termini: Io non ho inviato questi profeti, ma essi corrono; non ho parlato a loro, ma essi profetizzano (Ger 23,21). E più avanti aggiunge: Fanno deviare il mio popolo con le loro menzogne e i loro miracoli, mentre io non li ho inviati né ho dato loro ordini (Ger 23,32 Volg.). Nello stesso capitolo dice: Predicono la menzogna e profetizzano le imposture del loro cuore (Ger 23,26 Volg.), cosa che non sarebbe accaduta se non avessero avuto questo deprecabile spirito di possesso per simili cose.

4. Questi testi fanno capire che il danno prodotto da tale gioia non solo spinge a usare illecitamente e con malizia i doni di Dio, come Balaam e gli altri che facevano miracoli con i quali ingannavano il popolo, ma altresì nel simularli, anche se Dio non li ha concessi. Si comportavano così quelli che profetizzavano le loro invenzioni e proclamavano visioni da loro stessi concepite oppure suggerite dal demonio. Difatti, appena il demonio li vede affezionati a questi favori, apre loro un vasto campo e offre abbondante materiale, esercitando in molti modi la sua influenza. A lungo andare queste persone finiscono per sciogliere le loro vele mostrando una spudorata audacia e si mettono a praticare questi fatti prodigiosi.

5. Non si fermano qui. La loro gioia per simili opere, la loro brama di praticarle arriva a tanto che, se già avevano stipulato un patto occulto con il demonio – difatti molte di questo persone compiono tali opere in forza di questo patto –, in seguito hanno addirittura il coraggio di stringere con lui un patto formale ed esplicito, facendosi volontariamente suoi seguaci e adepti. È così che nascono gli stregoni, i fattucchieri, i maghi, gli indovini e gli incantatori. La gioia, in simili individui, di poter praticare questi poteri arriva a tanto da spingerli non solo a comprare i doni e i favori con il denaro, come voleva fare Simon Mago (At 8,18), per servire il demonio, ma a cercare anche di procurarsi le cose sacre e, non posso dirlo senza tremare, addirittura quelle divine. Con le loro pratiche empie e perverse costoro si sono appropriati, mediante l’inganno, del Corpo del Signore Gesù Cristo. Voglia Dio mostrare e far risplendere la sua infinita misericordia!

6. Tutti possono facilmente capire quanto costoro siano nocivi a se stessi e alla cristianità. Occorre ricordare a tale proposito che tutti quei maghi e indovini tra i figli di Israele, che Saul fece mettere a morte (1Sam 28,3) perché avevano voluto imitare i veri profeti di Dio, erano stati vittime di fatti esecrandi e di inganni.

7. Pertanto, chi ha ricevuto dall’alto un carisma o un dono soprannaturale, eviti la cupidigia e il piacere di servirsene, e non si preoccupi di praticarli. Dio, infatti, che li concede soprannaturalmente per l’utilità della sua Chiesa e dei suoi membri, gli ispirerà anche in modo soprannaturale di utilizzarli come e quando sarà conveniente. Per questo il Signore raccomandava ai suoi discepoli di non preoccuparsi di ciò che avrebbero dovuto dire né di come dovevano dirlo (Mt 10,19), perché le loro risposte dovevano essere un’espressione soprannaturale della loro fede. Dal momento che l’uso di questi favori non è meno soprannaturale, il Signore vuole che l’uomo si affidi a Dio perché spinga il suo cuore ad agire: ogni virtù deve essere praticata in forza di lui (Sal 59,14). Per questo motivo, come si legge negli Atti degli Apostoli (4,29-30), benché i discepoli avessero già ricevuto queste grazie e questi doni, pregavano Dio perché si degnasse di stendere la sua mano e di compiere segni, opere e guarigioni tramite loro, per diffondere nei cuori la fede del Signore Gesù Cristo.

8. Il secondo danno, che può derivare dal primo, è a detrimento della fede; può assumere due forme. La prima riguarda gli altri. Se una persona si mette a compiere miracoli o prodigi fuori luogo e senza necessità, oltre a tentare Dio, grave peccato in sé, può non riuscirvi, provocando nei cuori discredito e disprezzo per la fede. Se a volte, poi, ci riesce, perché Dio vuole così per altri fini e motivi, come accadde alla negromante di Saul (1Sam 28,12), se è vero che fu il fantasma di Samuele ad apparire in quella circostanza, non sempre sarà così. Quand’anche vi riuscisse, sarà nell’errore e colpevole di voler usare quei doni quando non è opportuno. In secondo luogo, chi si compiace di questi doni può ricevere danno per quanto riguarda la fede. Quando si attacca troppo a questi miracoli, si discosta molto dall’abitudine sostanziale della fede, che è abitudine oscura; quanto più numerosi sono i segni e le testimonianze, tanto minore è il merito della fede. Per questo san Gregorio dice che la fede non ha merito quando la ragione umana la sperimenta. Dio opera queste meraviglie solo quando sono strettamente necessarie alla fede. Proprio per questo e anche perché i suoi discepoli non fossero privati del merito se avessero constatato di persona la sua risurrezione prima di mostrarsi loro, fece molte cose perché credessero senza vederlo. Per questo motivo a Maria Maddalena prima fece vedere il sepolcro vuoto, poi fece dare l’annuncio della sua risurrezione dagli angeli – la fede, infatti, viene dall’ascolto, come dice san Paolo (Rm 10,17) – perché credesse in lui prima di vederlo. E anche quando le apparve, si fece vedere sotto le sembianze di un uomo qualsiasi per perfezionarla, con il calore della sua presenza, nella fede che le mancava (Gv 20,11-18). Quanto ai discepoli, prima furono informati dalle donne, poi andarono a controllare al sepolcro (Gv 20,1-10). Inoltre ai discepoli di Emmaus infiammò il cuore nella fede prima di farsi riconoscere apertamente da loro (Lc 24,15); e infine rimproverò tutti i suoi discepoli perché non avevano creduto a coloro che avevano parlato della sua risurrezione. A san Tommaso, che voleva toccare personalmente le sue piaghe, disse che beati sono coloro che credono in lui senza averlo visto (Gv 20,29).

9. Da ciò si può dedurre che Dio non ama far miracoli e, come si dice, quando li fa, è perché non può fare altrimenti. Per questo rimproverò i farisei, che credevano solo ai segni, in questi termini: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete (Gv 4,48). Coloro, dunque, che amano compiacersi in questi fatti soprannaturali, perdono molto del merito della fede.

10. Il terzo danno deriva abitualmente dal piacere per questi fatti. Consiste nel cadere nella vanagloria o in qualche altra vanità, perché lo stesso gioire di tali fatti, non essendo esclusivamente in Dio e per Dio, è vanità. La prova è data dal Signore quando rimproverò i discepoli per essersi rallegrati di aver assoggettato i demoni (Lc 10,20); se questa gioia non fosse stata vana, il Signore non li avrebbe mai rimproverati.

CAPITOLO 32

Ove si parla dei due vantaggi che ci si procura rinunciando alla gioia circa le grazie soprannaturali.

1. Oltre ai vantaggi che l’anima ottiene nel liberarsi dai tre danni suddetti, quando si priva di questa gioia derivante dai beni soprannaturali, ne acquista altri due eccellenti. Il primo è quello di esaltare e glorificare Dio. Il secondo è quello di elevare se stessa. In due modi Dio viene esaltato nell’anima. Il primo si realizza quando il cuore e la gioia della volontà si distaccano da tutto ciò che non è Dio, per fissarsi unicamente in lui. Questo voleva dire Davide nel versetto che ho riportato all’inizio della notte di questa potenza, e cioè: L’uomo eleverà il suo cuore a Dio e Dio sarà esaltato (Sal 63,7-8 Volg.). Difatti, quando il cuore si eleva al di sopra di tutte le cose, anche l’anima si eleva sopra di esse.

2. Poiché in questo modo l’anima pone il suo cuore solo in Dio, Dio viene esaltato e glorificato e manifesta all’anima la propria eccellenza e grandezza. Poiché l’anima si eleva al di sopra di ogni gioia creata, il Signore le dà una testimonianza di quello che egli è. Questo non avviene se non si distacca la volontà da ogni gioia e consolazione relativamente alle cose create, come afferma ancora Davide con queste parole: Fermatevi e sappiate che io sono Dio (Sal 45,11). E altrove aggiunge: Come terra deserta, arida, senz’acqua, così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria (Sal 62,2-3). Se è vero che si glorifica Dio riponendo la gioia in lui, distaccandola da tutte le cose, molto più lo si esalta quando viene distaccata da cose ancor più meravigliose per riporla solo in lui; perché soprannaturali, infatti, esse sono più elevate rispetto agli altri beni. Così, quando si rinuncia ad esse, per riporre la gioia solo in Dio, si attribuisce maggior gloria ed eccellenza a Dio piuttosto che ad esse; e difatti, quanto più elevate e superiori sono le cose che uno disprezza per un altro, tanto maggiore è la stima che ha per lui e la gloria che gli rende.

3. Oltre a questo, Dio è glorificato nel secondo modo quando si distoglie la volontà da questo genere di fatti straordinari: quanto più Dio è creduto e servito senza testimonianze e fatti straordinari, tanto più è glorificato dall’anima, che crede in Dio più di quanto segni e miracoli possano farci capire di lui.

4. Il secondo vantaggio permette all’anima di elevarsi. Quando essa allontana la sua volontà da ogni attaccamento alle testimonianze e ai segni apparenti, si eleva a una fede più pura, che Dio le infonde e le accresce molto più intensamente. Nello stesso tempo le aumenta anche le altre due virtù teologali, la carità e la speranza. Essa gode allora di conoscenze divine, molto elevate, attraverso l’oscura e nuda abitudine della fede. Essa gode, altresì, di soavi delizie d’amore per mezzo della carità, nella quale la volontà si compiace solo del Dio vivente. Infine gode grande soddisfazione nella memoria per mezzo della speranza. Tali favori costituiscono un meraviglioso profitto che gioca un’importanza essenziale e diretta nell’unione perfetta tra l’anima e Dio.

CAPITOLO 33

Ove si comincia a trattare del sesto genere di beni, cioè quelli spirituali, di cui la volontà può gioire. Si dice quali siano e se ne presenta una prima divisione.

1. Lo scopo di quest’opera è quello di condurre lo spirito attraverso i beni spirituali fino all’unione perfetta dell’anima con Dio. Ora che in questo sesto genere dobbiamo trattare dei beni spirituali, i quali meglio contribuiscono alla realizzazione del nostro scopo, sia io sia il lettore dobbiamo riflettere con particolare attenzione su questo argomento. Difatti è cosa certa e frequente che alcuni, per la loro scarsa scienza, si servono delle cose spirituali solo per soddisfare i sensi, lasciando il loro spirito a digiuno. A stento si riuscirà, allora, a trovare qualcuno al quale la soddisfazione dei sensi non abbia causato qualche danno allo spirito, perché l’acqua della grazia è trattenuta nei sensi prima di arrivare allo spirito, lasciato nell’aridità e nel vuoto.

2. Venendo ora al mio argomento, dico che per beni spirituali intendo tutti quelli che ci muovono e ci servono d’aiuto per le cose divine, per i rapporti dell’anima con Dio e per le comunicazioni di Dio con l’anima.

3. Cominciando, quindi, a dividerli nel modo più generale, dico che i beni spirituali sono di due specie: alcuni sono gradevoli, altri sono dolorosi. Ciascuna di queste specie si divide, a sua volta, in due categorie. Difatti, tra i beni gradevoli all’anima ve ne sono alcuni che hanno per oggetto cose chiare che si comprendono distintamente, altri cose che non si capiscono chiaramente e distintamente. Anche quelli dolorosi possono avere per oggetto cose chiare e distinte oppure cose confuse e oscure.

4. Inoltre li possiamo ancora suddividere tutti in base alla distinzione delle potenze dell’anima. Così alcuni sono conoscenze intellettuali e appartengono all’intelletto; altri sono affetti e appartengono alla volontà; altri, infine, sono immaginari e appartengono alla memoria.

5. Lascio da parte, per ora, i beni dolorosi, perché appartengono alla notte passiva, dove ne parlerò, e anche quelli gradevoli relativi a cose confuse e non distinte, per trattarne alla fine, in quanto appartengono alla conoscenza generale, confusa, amorosa, attraverso cui si realizza l’unione dell’anima con Dio; questa è stata riservata all’ultima parte del libro II nella divisione delle diverse concezioni dell’intelletto. Qui, dunque, parlerò dei beni gradevoli che hanno per oggetto cose chiare e distinte.

CAPITOLO 34

Ove si parla dei beni spirituali che possono essere percepiti distintamente dall’intelletto e dalla memoria. Si spiega come deve comportarsi la volontà circa la gioia che ne deriva.

1. Avrei molto da dire a motivo delle tantissime conoscenze che si formano nella memoria e nell’intelletto, se volessi indicare alla volontà come deve comportarsi riguardo alla gioia che questi beni suscitano. Ma ne ho già parlato ampiamente nei libri II e III. Poiché lì ho indicato come debbano comportarsi quelle due potenze rispetto a queste conoscenze onde tendere all’unione divina e, altresì, come la volontà debba comportarsi nei riguardi della gioia che deriva da tali beni, qui non è necessario riparlarne. Basta ricordare che ovunque si affermi che queste potenze devono liberarsi da queste o quelle conoscenze, occorre ugualmente dire che la volontà deve rinunciare alla gioia che da esse deriva. Se è vero che la memoria e l’intelletto devono rimanere distaccate nei confronti di tutte queste conoscenze, così deve fare anche la volontà. Poiché l’intelletto e le altre potenze non possono accettare o negare nulla senza il concorso della volontà, è chiaro che la dottrina riguardante le prime due facoltà riguarda anche la volontà.

2. Si veda lì ciò che è necessario fare ora, perché l’anima cadrà in quegli stessi danni, se in tutte queste conoscenze non saprà elevarsi a Dio.

CAPITOLO 35

Ove si parla dei beni spirituali gradevoli che possono essere l’oggetto distinto della volontà. Si dice di quanti generi siano.

1. Possiamo ridurre a quattro i generi di beni che separatamente possono recare gioia alla volontà, cioè motivi o moventi, provocativi, direttivi e perfettivi. Ne parlerò nell’ordine enunciato, cominciando dai beni che motivano o accendono la devozione, e cioè le immagini e le raffigurazioni dei santi, gli oratori e le cerimonie.

2. Per quanto riguarda le immagini e le raffigurazioni dei santi, può esserci molta vanità e inutile compiacenza. Ciò nonostante, essi sono molto importanti per il culto divino e utili per muovere la volontà a devozione. Prova ne è il fatto che la santa madre Chiesa li approva e ne fa uso. Per questo è sempre utile per noi avvalercene per scuotere la nostra tiepidezza. Purtroppo, però, vi sono molte persone che si compiacciono più dell’espressione pittorica e degli ornamenti di queste immagini che dei soggetti ivi rappresentati.

3. La Chiesa ha prescritto il culto delle immagini principalmente in vista di due scopi, cioè di venerare per mezzo di esse i santi, e muovere la volontà e risvegliare la devozione verso di loro. Ora, in quanto servono a tutto questo, le immagini sono utili e il loro uso necessario. Si devono quindi scegliere quelle più vicine al soggetto rappresentato e che meglio muovono la volontà alla devozione. È qui che dobbiamo fermare la nostra attenzione, più che sul valore delle immagini o sul pregio della loro esecuzione e dei loro ornamenti. Ci sono, ripeto, alcune persone che guardano più alla bellezza delle immagini e al loro valore che a ciò che rappresentano. Riversano sulla bellezza e sugli ornamenti esteriori la devozione interiore, che dovrebbero rivolgere spiritualmente al santo che non vedono, dimenticando subito l’immagine, che è solo un mezzo. In questo modo vengono appagati e solleticati i sensi e là si concentrano l’amore e la gioia della volontà. Tutto questo ostacola completamente la vera devozione, che esige invece la rinuncia alle affezioni verso tutti gli oggetti particolari.

4. Una dimostrazione dell’uso detestabile di tali immagini ce l’offrono oggi alcune persone, le quali, non avendo in orrore le mode profane del mondo, adornano le immagini con i costumi che i mondani periodicamente inventano per i loro svaghi e la soddisfazione delle loro frivolezze. Con i costumi, per i quali quelli stessi vengono biasimati, coprono le immagini, detestate dai santi che esse rappresentano, e a giusto titolo. Così facendo, il demonio e suddette persone cercano di canonizzare le proprie vanità, imponendole ai santi, non senza arrecare loro una grave ingiuria. In questo modo la vera e solida devozione dell’anima, che respinge e rigetta da sé ogni vanità e ogni sua apparenza, si riduce a poco più che un abbellimento di bambole, perché alcuni si servono delle immagini come di idoli in cui ripongono la loro compiacenza. Vedrete, così, persone che non si stancano di aggiungere immagine a immagine; vogliono che queste siano di un determinato tipo e modello e che siano collocate in tale o tal altra maniera, al fine di compiacere i sensi, mentre la devozione del loro cuore è assai scarsa. Sono molto attaccati a queste immagini come lo erano Mica e Labano ai loro idoli. Il primo uscì di casa imprecando contro coloro che glieli avevano portati via; il secondo, dopo aver corso per molto tempo ed essersi adirato a causa degli idoli, mise a soqquadro la tenda di Giacobbe per ritrovarli (Gdc 18,24; Gn 31,34).

5. La persona veramente pia ripone la propria devozione soprattutto nelle cose invisibili, non ha bisogno di molte immagini e ne usa poche. Si serve solo di quelle che le ricordano più il divino che l’umano, e che meglio la orientano alla condizione dell’altra vita che non di quella presente. Si comporta così non soltanto per guardarsi dalle vanità di questo mondo, ma anche per non ricordarsi di esso, quando sotto gli occhi le cade qualcosa che gli assomiglia o gli appartiene. Non attacca il cuore neanche alle immagini che usa, né si addolora molto se le vengono tolte. Cerca dentro di sé, invece, l’immagine viva di Cristo crocifisso, nel quale è contenta che le tolgano tutto e che tutto le manchi. Anche se le tolgono i motivi e i mezzi che più l’avvicinano a Dio, rimane tranquilla. Del resto, l’anima è più progredita se riesce a conservare la pace e la gioia quando è privata di questi mezzi rispetto a quando li possiede con attaccamento e passione. È senz’altro giusto desiderare di avere quelle immagini e quei mezzi che meglio favoriscono la devozione della persona, ragion per cui si devono scegliere sempre quelle che la stimolano di più. Tuttavia non è indice di perfezione esservi troppo attaccati, tanto da tenerle con spirito di possesso e da soffrire se ci vengono tolte.

6. L’anima stia certa che quanto più è forte il suo spirito di possesso nei riguardi dell’immagine o dell’aiuto sensibile, tanto meno la sua devozione e la sua preghiera si eleveranno a Dio. Anche se, in verità, è opportuno affezionarsi alle immagini più adatte a eccitare la devozione, ciò non deve comportare attaccamento e spirito di possesso, come ho detto sopra. In questo caso, infatti, il senso, assorbito interamente nella gioia dei mezzi e dimentico del loro valore soltanto relativo, divora tutto ciò che dovrebbe portare l’anima a prendere il volo verso Dio. Così i mezzi, che dovrebbero essere soltanto un aiuto per l’anima, le divengono motivo d’imperfezione e ostacolo, al pari dell’attaccamento e dello spirito di possesso per qualsiasi altra cosa.

7. Se la questione delle immagini ti suggerisce qualche obiezione, ciò dipende dal fatto che non hai ben compreso lo spogliamento e lo spirito di povertà richiesti dalla perfezione. Riconosci almeno, però, l’imperfezione in cui comunemente si cade riguardo alle corone del rosario; difficilmente troverai qualcuno che non dimostri in esse qualche debolezza: le vogliono così e non cosà; di questo colore e metallo piuttosto che quello; con questo ornamento o con quell’altro. Nulla di tutto questo giova perché Dio ascolti meglio la preghiera fatta con una corona piuttosto che con un’altra: egli ascolta l’anima che prega con cuore sincero e semplice, preoccupata solo di piacergli e non di avere un rosario piuttosto che un altro, a meno che non vi siano legate delle indulgenze.

8. La nostra vana avidità è tale che vuole attaccarsi a tutte le cose. È come il tarlo che rode ciò che è sano e porta a termine il suo lavoro nelle cose buone e cattive. Da che cosa deriva, infatti, che tu voglia avere una corona del rosario con certe caratteristiche, che sia fatta così e non diversamente, se non dal fatto che hai riposto la tua gioia in uno strumento? E perché vuoi scegliere questa immagine piuttosto che un’altra, non tenendo conto se ti risveglia maggiormente l’amore, ma solo se è più preziosa e più bella? Se tu non nutrissi altro desiderio e altra gioia che amare Dio, non ti importerebbe nulla di queste cose. È una pena grande osservare alcune persone spirituali così attaccate alla forma e alla figura di questi oggetti, ai motivi, alla curiosità e alla gioia frivola che ripongono in essi. Non le vedrete mai soddisfatte, passano irrequiete dagli uni agli altri, dimenticando la devozione spirituale a causa di questi oggetti sensibili; vi si attaccano con spirito di possesso, che a volte è simile a quello che nutrono per i beni temporali, da cui ricavano non poco danno.

CAPITOLO 36

Ove si parla delle immagini e dell’ignoranza di certe persone su questo punto.

1. Ci sarebbe molto da dire sull’ignoranza di un gran numero di persone a riguardo delle immagini. L’insensatezza di alcuni arriva a tanto da confidare più in un’immagine che in un’altra, convinte che Dio le ascolterà di più attraverso questa che quella, anche se entrambe rappresentano il medesimo soggetto, come ad esempio due immagini di Cristo o della Madonna. Questo perché sono più affezionati a una figura piuttosto che a un’altra. Tutto ciò rivela una profonda ignoranza nei rapporti con Dio e circa il culto e l’onore dovutogli; in realtà, egli guarda solo alla fede e alla purezza del cuore di colui che prega. Se Dio talvolta accorda più grazie attraverso un’immagine che non un’altra, non è perché la prima abbia maggior potenza della seconda, anche se la loro forma è molto diversa, ma perché la devozione delle persone è maggiormente risvegliata dall’una che dall’altra. Se avessero la medesima devozione per entrambe, o anche senza nessuna delle due, riceverebbero le stesse grazie da Dio.

2. Il motivo, quindi, per cui Dio compie miracoli e accorda grazie tramite alcune immagini piuttosto che altre, non è perché valgano di più, ma per il solo fatto che risvegliano maggiormente nei fedeli la devozione assopita e l’amore alla preghiera. Perciò, come nel tal caso e per mezzo della tale immagine si risveglia la devozione e si intensifica la preghiera, unici motivi per cui Dio ascolta e concede ciò che gli chiediamo, così, per l’orazione e l’amore risvegliati da quell’immagine, Dio continua a effondere grazie e a operare miracoli attraverso di essa. Questa di per sé non è altro che una semplice pittura, ragion per cui Dio agisce in virtù della devozione e della fede che si ha per il santo rappresentato nell’immagine. Pertanto, se tu avessi la stessa devozione e la stessa fede per la Madonna di fronte a una sua immagine piuttosto che a un’altra, o anche senza immagini, riceveresti la stesse grazie. L’esperienza stessa dimostra che se Dio concede grazie e opera miracoli, di solito li fa attraverso immagini non molto ben scolpite o stupendamente dipinte e raffigurate, perché i fedeli non attribuiscano tali grazie alla forma o alla pittura.

3. Molte volte il Signore concede grazie tramite immagini che si trovano in luoghi molto appartati e solitari. Anzitutto perché lo stesso fatto di doversi muovere per andare a vederle accresce la devozione e rende più intenso l’atto. In secondo luogo perché, per pregare, la gente si allontana dal rumore, come faceva il Signore (Mt 14,23; Lc 6,12). Per questo, chi fa un pellegrinaggio, è bene che lo faccia quando non c’è altra gente, anche in tempi straordinari. Quando c’è molta folla non glielo consiglierei mai perché, di solito, si torna più distratti di quando si è partiti. Molti poi lo fanno più per ricreazione che per devozione. Così, dunque, quando c’è devozione e fede, qualsiasi immagine è sufficiente, ma se vengono a mancare l’una e l’altra non sarà sufficiente alcuna immagine. Il Signore era certamente un’immagine viva quando era in questo mondo; tuttavia coloro che non avevano fede, pur andando con lui e vedendo le sue opere meravigliose, non ne traevano alcun profitto. Proprio per questo, come dice l’evangelista (Mt 13,58), non operò molti prodigi nel suo paese.

4. In questa sede voglio parlare anche di alcuni effetti soprannaturali che a volte determinate immagini provocano in certe persone. Ad alcune immagini Dio concede una virtù particolare, per cui rimane fissata nella mente l’immagine e la devozione che ha suscitato nello spirito, come fossero presenti. Ogni volta che uno improvvisamente se ne ricorda, prova lo stesso effetto, più o meno intenso, di quando le vide la prima volta; un’altra immagine, invece, anche se fatta meglio, non produrrà lo stesso effetto.

5. Molte persone, poi, hanno devozione più per le immagini fatte in un modo che in un altro, e in alcuni ciò è solo questione di affetto o gusto naturale. Per esempio, a qualcuno il volto di una persona piace più di un altro, si affeziona naturalmente più ad essa e l’avrà sempre presente nella sua immaginazione, anche se non è bella come le altre, perché ha un’attrazione naturale per quella sorta di forma e di figura. Così alcuni penseranno che l’affetto che nutrono per una determinata immagine sia devozione, mentre forse è solo affetto e gusto naturale. Altre volte accade che, fissando un’immagine, la vedono muoversi, cambiare fisionomia o fare gesti quasi volesse far capire qualcosa e parlare. Questi fatti soprannaturali delle immagini, di cui parliamo, molto spesso sono realmente veri e buoni, perché provocati da Dio o per aumentare la devozione o perché l’anima abbia un sostegno a cui aggrapparsi nella sua debolezza e non perdersi nelle distrazioni. Tuttavia molte volte sono prodotti anche dal demonio per ingannare e nuocere all’anima. Per tutti questi motivi nel capitolo seguente indicherò la linea di condotta da tenere in casi del genere.

CAPITOLO 37

Ove si parla della necessità di indirizzare a Dio la gioia che la volontà ricava dalle immagini, in modo che non cada in errore e non venga ostacolata da esse.

1. Le immagini sono di grande utilità per ricordarsi di Dio e dei santi e muovere la volontà alla devozione, se usate per via ordinaria e correttamente. Al contrario, possono far cadere in gravi errori se, quando accade qualcosa di soprannaturale legato ad esse, l’anima non sapesse comportarsi come deve nel suo itinerario verso Dio. Difatti uno dei mezzi di cui si serve il demonio per ingannare facilmente le anime imprudenti e impedire loro di seguire il cammino della vera vita spirituale, è costituito proprio dai fenomeni soprannaturali e straordinari. Egli li produce sia nelle immagini materiali e corporali in uso nella Chiesa, sia in quelle di un santo o di una sua effigie che egli stesso imprime nella fantasia, mascherandosi da angelo di luce proprio per ingannare (2Cor 11,14). L’astuto demonio adopera gli stessi mezzi che abbiamo come rimedio e sostegno; cerca di occultarsi per sorprenderci quando siamo più incauti. Per questo motivo, l’anima virtuosa deve sempre sospettare di più nel bene che nel male, perché il male reca con sé la testimonianza di quello che è.

2. Pertanto occorre evitare tutti i danni ai quali l’anima è esposta in questi casi. Tali inconvenienti consistono nell’essere impedita di volare verso Dio, nel servirsi in maniera grossolana e con ignoranza delle immagini, nell’essere ingannata naturalmente o soprannaturalmente tramite esse, tutte cose di cui ho parlato prima. Occorre, inoltre, purificare la gioia che la volontà pone in tali immagini, e attraverso di esse elevare l’anima a Dio, perché questo è lo scopo della Chiesa nel raccomandare l’uso delle immagini. Per conseguire questi risultati, intendo dare solo un avvertimento, che sarà sufficiente per tutto, ed è questo: poiché le immagini fungono da mezzi perché ci ricordiamo delle cose invisibili, cercheremo in esse solo il motivo che spinge la volontà ad affezionarsi alla realtà vivente che esse rappresentano e a riporre lì la nostra gioia. Il fedele, quindi, abbia cura di non ricercare la soddisfazione dei sensi quando vede un’immagine, sia corporale che immaginaria, di bella fattura o riccamente adornata, capace di suscitargli una devozione sensitiva o spirituale, anche quando gli lancia dei segni soprannaturali. Non dia la minima importanza a queste cose secondarie. Non si rifugi in tale immagine, ma elevi subito la mente a ciò che essa rappresenta, riponendo in Dio, o nel santo che invoca, la gioia e il compiacimento della sua volontà attraverso la preghiera e la vera devozione. Difatti ciò che vi è di vivente e di spirituale non dev’essere vanificato dalla pittura dell’immagine o dall’impressione sensibile. In questo modo il devoto non sarà ingannato, perché non terrà conto di ciò che l’immagine gli dirà, né impedirà ai sensi o allo spirito di dirigersi liberamente verso Dio, né avrà più fiducia in un’immagine piuttosto che in un’altra. L’immagine che gli susciterà devozione soprannaturalmente, lo farà in modo più abbondante, perché egli si porterà immediatamente a Dio con amore. Del resto, ogni volta che Dio concede queste e altre grazie, le accorda inclinando l’amore e la gioia della volontà verso ciò che è invisibile. Così vuole che facciamo anche noi, annientando la forza e il giogo delle nostre potenze che ci inclinano alle cose visibili e sensibili.

CAPITOLO 38

Ove si continua a parlare dei beni spirituali che accendono la devozione. Si parla degli oratori e dei luoghi consacrati alla preghiera.

1. Credo di aver fatto capire come la persona spirituale che ripone la gioia e il compiacimento nelle cose accessorie delle immagini possa cadere in molte imperfezioni, forse anche più pericolose che se essa si attaccasse agli altri beni corporali e temporali. Dico: forse di più, perché, sostenendo che sono cose sante, si sente più sicura e non ha paura dello spirito di possesso e di attaccamento naturale. Così facendo, si sbaglia profondamente, pensando di essere già colma di devozione, perché prova gusto per queste cose sante, mentre forse è solo una disposizione e una tendenza naturale che inclina verso questi oggetti come verso altri.

2. Parlerò adesso dei luoghi di preghiera, in cui alcune persone non si stancano di appendere sempre nuove immagini. Si compiacciono di disporle con ordine e gusto, perché l’oratorio sia ben decorato e faccia bella figura. Non amano di più Dio a motivo di queste cose, anzi meno, perché, come ho detto, sottraggono alla realtà vivente l’amore che portano ai dipinti e agli ornamenti. Senza dubbio ogni ornamento, ogni addobbo e tutta la venerazione che si può avere per le immagini è poca cosa rispetto a quello che esse meritano. È anche vero che coloro che le trattano con poco decoro e rispetto sono da biasimare, e ugualmente quelli che le fanno così male che, anziché favorire la devozione, la fanno passare; per questo si dovrebbe proibire a certi artigiani l’esercizio di quest’arte, perché, incapaci, lavorano rozzamente. Ma tutto questo cos’ha a che fare con lo spirito di possesso, l’attaccamento e l’affezione che tu hai per questi ornamenti e decorazioni esteriori, se ti assorbono i sensi fino a impedire al tuo cuore di andare a Dio e di amarlo dimenticando tutte le cose per amor suo? Se a causa di quelle cose manchi al tuo dovere, non solo non sarai gradito a Dio, ma egli ti punirà, perché hai cercato in tutte le cose il tuo piacere e non il suo. Tutto questo lo puoi comprendere molto bene se pensi alla festa che fecero al Re divino quando entrò in Gerusalemme. Lo accolsero con canti e rami d’olivo (Mt 21,8-9; Mc 11,8-10; Lc 19,37-38; Gv 12,13), mentre il Signore piangeva (Lc 19,41). Essi, infatti, avendo il cuore lontano da lui, credevano di ripagarlo dei suoi benefici con quelle manifestazioni esteriori. In realtà facevano festa più a se stessi che a Dio. Anche oggi non mancano persone che, quando vi è una festa solenne da qualche parte, si rallegrano, più che per l’onore che ne viene a Dio, per i divertimenti che vi trovano, per la possibilità di ammirare ed essere ammirati, per il mangiare bene e per altre cose di questo genere. Simili inclinazioni o intenzioni non sono affatto gradite a Dio, soprattutto quando gli organizzatori delle feste vi introducono cose ridicole e profane, solo per far ridere la gente, contribuendo così a farla distrarre maggiormente; altri poi organizzano cose che, invece, di suscitare devozione, solleticano il piacere della gente.

3. Cosa dire poi di altri interessi che alcuni hanno nelle feste che celebrano? Essi sanno, e Dio vede, che badano più al guadagno che alla gloria di Dio. In ogni caso, quando accade così, siano pur certi che fanno festa a se stessi, non a Dio. Tutto ciò che fanno per procurare piacere a se stessi o agli altri, Dio non lo considera. Anzi vi sono molti che si rallegreranno con coloro che partecipano alle feste del Signore, mentre Dio si adira con loro, come fece con i figli d’Israele allorché, pensando di festeggiare Dio, ballavano e cantavano davanti al loro idolo: Dio ne fece morire molte migliaia (Es 32,7-28). Anche i sacerdoti Nadab e Abiu, figli di Aronne, furono stroncati da Dio con gli incensieri in mano perché offrivano un fuoco illegittimo (Lv 10,1-2). Allo stesso modo il Signore s’indignò con quel tale che era entrato nella sala del banchetto vestito male, senz’abito nuziale: Il re comandò che fosse gettato nelle tenebre esteriori con le mani e i piedi legati (Mt 22,12-13). Da ciò si vede che Dio non sopporta quelle irriverenze che si commettono nelle feste fatte in suo onore. Quante feste, mio Dio, fanno i figli degli uomini, nelle quali viene onorato il demonio più di te! Al demonio piacciono, perché in esse, come il mercante, trova la sua piazza di mercato. Quante volte, Signore, dirai di esse: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, perché mi serve senza motivo! (Mt 15,8-9). Dio, infatti, dev’essere servito solo per quello che è, non frapponendo altri fini; se non lo serviamo solo per quello che è, lo serviamo senza considerarlo come causa ultima.

4. Tornando agli oratori, dico che alcuni li adornano più per la loro personale soddisfazione che per piacere a Dio. Altri, al contrario, si preoccupano talmente poco del rispetto che ad essi è dovuto da non stimarli più dei loro salottini privati, anzi meno, poiché hanno più gusto per le cose profane che per quelle divine.

5. Ma per il momento lascio da parte queste persone e parlo di quelli che si comportano in maniera più sottile, cioè di coloro che si considerano persone devote. Vi sono molti fra costoro che provano una tale attrazione per il loro oratorio e un tale piacere nell’addobbarlo da impiegarvi tutto il tempo che dovrebbero dedicare a pregare Dio e a raccogliersi interiormente. Non si accorgono che se tutto questo non è finalizzato al raccoglimento interiore e alla pace dell’anima, sarà motivo solo di distrazione, come tutto il resto; il loro attaccamento e il loro gusto saranno fonte di continua inquietudine, soprattutto se qualcuno provasse a impedirglielo.

CAPITOLO 39

Ove si parla di come ci si deve servire degli oratori e dei templi, considerandoli mezzi per elevare lo spirito a Dio.

1. Per elevare lo spirito a Dio attraverso gli oggetti di culto è opportuno ricordare che ai principianti è permesso, come del resto è anche utile, provare qualche gusto o piacere sensibile per le immagini, gli oratori e altri oggetti materiali di devozione. Essi, infatti, non hanno ancora perduto il gusto e non sono ancora distaccati dalle cose di questo mondo, così da poterlo sostituire con il gusto dell’altro. Si fa così anche con il bambino, per non farlo piangere: gli si toglie una cosa dalla mano dandogliene subito un’altra. La persona spirituale che vuole progredire deve ugualmente spogliarsi di tutti questi gusti e desideri smodati nei quali la volontà può trovare piacere. L’uomo veramente spirituale si attacca molto poco a tutti questi oggetti, perché è intento solo al raccoglimento interiore e alla conversazione intima con Dio. Se utilizza le immagini e gli oratori, lo fa solo di passaggio e subito fissa il suo spirito in Dio, dimenticando tutto ciò che è sensibile.

2. Pertanto, sebbene sia meglio pregare dove c’è maggior decoro, tuttavia, e malgrado ciò, va scelto il luogo dove i sensi siano meno attratti e lo spirito possa andare meglio a Dio. A questo proposito occorre qui ricordare quanto il Signore rispose alla samaritana, quando gli chiese quale fosse il posto migliore per pregare, se il tempio o il monte. Il Maestro le rispose che la vera preghiera non è legata né al monte né al tempio, ma che i veri adoratori graditi a Dio sono quelli che lo adorano in spirito e verità (Gv 4,23-24). Di conseguenza, se i templi e i luoghi appartati sono dedicati e adatti alla preghiera, perché il tempio non dev’essere usato per altri scopi, tuttavia, quando si tratta di una faccenda tanto intima come quella riguardante il rapporto con Dio, occorre scegliere il luogo che attira e cattura meno i sensi. Non dev’essere un luogo ameno e attraente per i sensi, come vogliono alcuni, perché, invece di raccogliersi in Dio, lo spirito si ferma nel diversivo piacevole e gustoso dei sensi. A tale scopo va bene un luogo solitario e impervio, dove lo spirito possa elevarsi sicuramente e direttamente a Dio, non impedito o trattenuto dalle cose visibili. Alcune volte queste aiutano lo spirito a elevarsi, ma solo quando vengono subito dimenticate per fissarsi in Dio. Per questo motivo il Signore di solito sceglieva luoghi appartati per pregare (Mt 14,23), e luoghi che non attraessero molto i sensi, per darci l’esempio. Preferiva luoghi che elevano l’anima a Dio, come i monti che si elevano da terra, generalmente brulli, senza possibilità di distrazione per i sensi (Lc 6,12).

3. La persona veramente spirituale, dunque, non si preoccupa se il luogo per pregare abbia un aspetto piuttosto che un altro, perché questo vorrebbe dire essere ancora legati ai sensi. Va in cerca solo del raccoglimento interiore, dimentica di tutte le altre cose, scegliendo quindi il luogo più spoglio di oggetti e di attrattive sensibili. Inoltre non presta attenzione alle cose esteriori, onde gustare meglio il suo Dio, lontana da tutte le creature. Desta meraviglia vedere persone spirituali che occupano tutto il loro tempo nell’adornare oratore e preparare angolini adatti al loro temperamento e alla loro inclinazione. Quanto, invece, al raccoglimento interiore, che è la cosa più importante, ne hanno molto poco e ne tengono poco conto; se l’avessero, non proverebbero soddisfazione, anzi si stancherebbero di tutti quegli ornamenti e decorazioni.

CAPITOLO 40

Ove si continua a indirizzare lo spirito verso il raccoglimento interiore attraverso l’uso dei beni di cui si parla.

1. Il motivo per cui alcune persone spirituali non riescono mai ad entrare nella vera gioia dello spirito è perché non si decidono a staccarsi dal godimento che procurano le cose esteriori e visibili. Si ricordino che, se il luogo migliore e più adatto alla preghiera è il tempio o l’oratorio visibile, se l’immagine serve a questo scopo, non necessariamente si deve riservare il piacere e il godimento spirituale al tempio visibile o all’immagine, dimenticando di pregare nel tempio vivo, che è la parte più intima dell’anima. Questo è appunto quanto ci ricorda l’Apostolo quando dice: Non sapete che siete tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in voi? (1Cor 3,16). Questa riflessione ci riporta all’affermazione di Cristo, già citata: I veri adoratori devono adorare in spirito e verità (Gv 4,24). A Dio, infatti, interessano poco le tue preghiere e i tuoi luoghi ben adornati se, riponendo in queste cose il tuo piacere e la tua soddisfazione, non sei distaccato interiormente e non hai la povertà spirituale, la quale consiste nella rinuncia a tutte le cose che puoi possedere.

2. Per purificare la volontà dalla gioia e dalla vana soddisfazione che provi in queste cose e indirizzarla a Dio nella tua preghiera, devi fare in modo che la tua coscienza sia pura, la tua volontà sia rivolta interamente a Dio e la tua mente unicamente fissa in lui. Poi, come ho già detto, devi scegliere il luogo più appartato e solitario possibile per mettere tutta la gioia della volontà nel pregare e glorificare Dio. Quanto ai piccoli sentimenti di devozione, non farci caso, anzi cerca di respingerli. Se l’anima, infatti, si abitua al sapore della devozione sensibile, non riuscirà mai a possedere, attraverso il raccoglimento interiore, le forti dolcezze spirituali, che si trovano nella nudità dello spirito.

CAPITOLO 41

Ove si parla di alcuni danni ai quali si espongono coloro che si lasciano andare al gusto delle cose sensibili e dei luoghi di devozione di cui ho parlato.

1. Va incontro a molti inconvenienti, sia interiori che esteriori, la persona spirituale che corre dietro ai gusti sensibili per le cose suddette. Per quanto riguarda lo spazio interiore, l’anima non arriverà mai al raccoglimento dello spirito, che consiste nel fare a meno di tutti questi oggetti, dimenticare tutti i gusti sensibili, rifugiarsi nel suo intimo e acquisire virtù solide. Circa gli inconvenienti esteriori, risulta che non riesce a pregare in tutti i luoghi, ma solo in quelli di suo gusto, e così, molte volte, mancherà alla preghiera, perché, come si dice, sa leggere solo nel suo libro.

2. Oltre a ciò, tale attrazione per i gusti sensibili provoca nelle persone spirituali continui cambiamenti; appartengono a questa categoria di persone coloro che non sanno stare a lungo nello stesso posto e a volte non perseverano nella loro vocazione. Li vedrete oggi qua, domani là; ora scelgono un eremo, ora un altro; ora addobbano un oratorio, ora un altro. Vi sono anche di quelli che passano la vita a cambiare stato e modo di vivere. Conoscono solo quel fervore e quei gusti sensibili per le cose spirituali. Non si sono mai sforzati di arrivare al raccoglimento spirituale attraverso la rinuncia alla loro volontà e l’adattamento ai disagi. Ogni volta che vedono un luogo devoto di loro gradimento, o qualche forma di vita o stato che si addica al loro temperamento o inclinazione, vi corrono subito, abbandonando quello che prima avevano abbracciato. Ma poiché si lasciano muovere dall’attrazione sensibile, ben presto cercano qualcos’altro, perché l’attrazione sensibile non è costante, ma viene meno molto presto.

CAPITOLO 42

Ove si parla di tre diversi luoghi di devozione e come deve comportarsi la volontà nei loro riguardi.

1. Credo che ci siano tre diversi tipi di luoghi per mezzo dei quali Dio è solito indurre la volontà alla devozione. Il primo tipo è caratterizzato dalla conformazione del suolo e della località. Il loro aspetto gradevole, la varietà del terreno e della vegetazione, la tranquilla solitudine risvegliano facilmente la devozione. È bene approfittare di questi luoghi, ma a condizione di dimenticarli subito per elevare la volontà verso Dio, perché chi vuole raggiungere il fine non deve fermarsi ai mezzi e alle cause. Se si cerca in essi un piacere e un profitto per i sensi, si troverà invece solo aridità e distrazione per lo spirito: la soddisfazione e la gioia dello spirito si trovano solo nel raccoglimento interiore.

2. Per questi motivi, quando si è in luogo di tal genere occorre, dimentichi di esso, cercare di stare intimamente con Dio, come se non si fosse in quel luogo. Se ci si ferma alla gioia e al piacere derivante dal luogo, si ricerca una ricreazione per i sensi e uno spazio all’instabilità dello spirito piuttosto che la pace interiore. Così facevano gli anacoreti e i santi eremiti, che nei vastissimi e affascinanti deserti occupavano meno terra possibile per costruirvi celle anguste e grotte dove isolarsi. San Benedetto rimase tre anni in una grotta; un altro, di nome san Simone, si legò con una corda per non andare oltre il limite fissato da questo legame. Così pure fecero molti altri che non finirei di ricordare. Quei santi avevano capito benissimo che se non avessero mortificato le loro tendenze sregolate e la bramosia di gioie e soddisfazioni spirituali, non avrebbero potuto raggiungere le gioie dello spirito né diventare spirituali.

3. Il secondo tipo di luogo che agevola la devozione è molto particolare, perché riguarda alcuni posti, non importa se deserti o meno, nei quali Dio è solito accordare ad alcune persone grazie spirituali assai piacevoli. Così, ordinariamente, accade che il cuore della persona favorita da Dio rimanga legato al luogo dove ha ricevuto la tal grazia e prova spesso il desiderio fortissimo di ritornarvi. Ma quando vi ritorna, non avverte più le stesse sensazioni di prima, perché non dipende da lei ricevere simili favori. È Dio, infatti, che concede queste grazie quando e come vuole, senza essere legato a un determinato luogo o momento e neppure alla volontà di colui al quale le accorda. Tuttavia è bene che la persona ritorni talvolta in quel luogo per pregare, a patto che sia distaccata da ogni cosa, per tre motivi: primo, perché se, come dicevo, Dio non è legato ad alcun luogo, sembra però che abbia voluto legarsi a quello lì per esservi lodato dall’anima alla quale ha concesso quella determinata grazia. Secondo, perché l’anima si dispone meglio a ringraziare Dio per il beneficio che ha ricevuto in quel luogo. Terzo, perché lì la devozione si risveglia di più, grazie al ricordo.

4. Questi sono i motivi per cui è bene che la persona ritorni in quel luogo, non ritenendo, però, che Dio sia obbligato a concederle favori proprio lì e non altrove. L’anima, infatti, è il posto più adatto a Dio di qualsiasi altro luogo terreno. Leggiamo nella sacra Scrittura che Abramo innalzò un altare dove Dio gli era apparso e lì invocò il suo nome; in seguito, di ritorno dall’Egitto, ripercorse la stessa strada, ritornò dove gli era apparso Dio e lo invocò di nuovo sullo stesso altare che aveva edificato (Gn 12,8; 13,4). Anche Giacobbe contrassegnò il luogo dove gli era apparso Dio in cima alla scala, elevandovi un pietra cosparsa di olio (Gn 28,13-18). E Agar, apprezzando molto il luogo dove le era apparso l’angelo, gli diede un nome dicendo: Qui dunque sono riuscita ancora a vedere, dopo la mia visione? (Gn 16,13).

5. Il terzo tipo di luogo che stimola la devozione è quello che Dio sceglie in particolar modo per esservi invocato, come il monte Sinai, dove diede la legge a Mosè (Es 24,12), o il luogo che indicò ad Abramo per sacrificarvi suo figlio (Gn 22,2). È altresì il monte Oreb, dove apparve al nostro padre Elia (1Re 19,8), e il monte Gargano – scelto da Dio per il suo servizio – dedicato a san Michele, che apparve al vescovo di Siponto, al quale rivelò di essere lui il custode di quel luogo e comandò di erigervi un oratorio in memoria degli angeli. Anche la gloriosa Vergine scelse a Roma, per mezzo del prodigio della neve, il luogo dove chiese a Patrizio di erigerle un tempio.

6. Solo Dio conosce il motivo per cui sceglie questi luoghi, invece di altri, per esservi lodato. A noi basti sapere che servono al nostro profitto spirituale e che Dio ascolta le nostre preghiere lì e ovunque lo preghiamo con fede viva. Tuttavia i luoghi consacrati al suo servizio sono un’occasione più propizia per essere esauditi, perché la Chiesa li ha segnalati e riservati a questo scopo.

CAPITOLO 43

Ove si parla dei mezzi, costituiti da una grande varietà di cerimonie, a cui molte persone ricorrono per pregare.

1. Le gioie inutili e lo spirito imperfetto di attaccamento che molti nutrono per le cose di cui ho parlato, forse sono in parte tollerabili perché coltivati con una certa ingenuità. Quanto, invece, al forte attaccamento che alcuni mostrano per molte cerimonie introdotte da gente poco illuminata e priva della semplicità della fede, bisogna dire che esso è insopportabile. Lascio da parte, per ora, le pratiche di pietà ridondanti di paroloni o termini che non significano nulla e altre cose non sacre che persone ignoranti, grossolane e sospette sono solite mescolare alle loro preghiere. Qui non ne parlo perché sono chiaramente cattive ed è peccato servirsene; addirittura, in molti casi nascondono un patto occulto con il demonio. Così, anziché attirare la misericordia di Dio, suscitano la sua ira.

2. Qui voglio parlare solo di quelle pratiche che, pur essendo prive di ogni superstizione, vengono oggi usate da molte persone dalla devozione indiscreta. Esse credono ciecamente all’efficacia delle loro particolari devozioni e preghiere, sino a pensare che, se in esse manca qualcosa o non sono eseguite alla perfezione, non valgono nulla e Dio non le gradisce. In realtà ripongono più fiducia nelle loro pratiche e cerimonie che nella sostanza della preghiera, e ciò non senza irriverenza e offesa per il Signore. Così, per esempio, pretendono che la messa venga celebrata con un certo numero di candele, non di più né di meno; che il sacerdote la celebri in un modo ben preciso, a una determinata ora, né prima né dopo, in quel dato giorno e non prima; che le preghiere e le stazioni siano tante e tali e in giorni ben precisi e condotte con quelle specifiche cerimonie e non in altro modo; che la persona che le compie abbia determinate doti e caratteristiche. E sono convinti che, se manca qualcosa di quello che hanno deciso, non si fa nulla, e mille altre cose che si usano e si vedono fare.

3. Ma ciò che è peggio e intollerabile, è che alcuni vogliono provare in sé qualche effetto di quelle pratiche, veder realizzato ciò che chiedono, o sapere che lo scopo di quelle loro preghiere piene di cerimonie venga raggiunto. Tutto ciò equivale a tentare Dio e a dispiacergli profondamente. Così, spesso, Dio permette al demonio di trarre in inganno queste persone, di far loro sentire e conoscere cose molto opposte al profitto della loro anima. Meritano questo trattamento per lo spirito di attaccamento che mostrano nei riguardi delle loro pratiche di pietà: desiderano che si realizzi più quello che pretendono loro che quello che vuole Dio. Poiché non ripongono tutta la loro fiducia in Dio, non traggono mai alcun vantaggio da queste loro pratiche.

CAPITOLO 44

Ove si dice quanto sia necessario attraverso queste devozioni indirizzare a Dio la gioia e la forza della volontà.

1. Le persone di cui sto parlando devono sapere che quanto più importanza annettono a queste cose e cerimonie, tanta minor fiducia hanno in Dio; così non otterranno mai da lui quanto desiderano. Alcune pregano più per conseguire quanto vogliono loro che per onorare Dio. Senza dubbio sanno che, se Dio vorrà, sicuramente concederà quella grazia che chiedono, altrimenti non la concederà; tuttavia per l’attaccamento alla loro volontà e la gioia vana che mostrano in tutto questo, moltiplicano troppo le preghiere per raggiungere il loro scopo. Forse sarebbe meglio se indirizzassero tali preghiere a cose più importanti, come ad esempio una vera purezza della loro coscienza, un impegno concreto per quanto riguarda la loro salvezza e la relativizzazione di tutto ciò che non tende a questo scopo primario. In questo modo otterranno non solo quanto è più importante per loro, ma sarà accordato anche tutto ciò che è utile. Pur senza chiederlo, otterranno quanto domandano molto meglio e di più che se avessero impiegato tutta la loro devozione.

2. Ciò è quanto il Signore promette allorché afferma nel vangelo: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,33). Questo è il desiderio, questa è la domanda che gli piace di più. Per ottenere le richieste che abbiamo nel nostro cuore non c’è mezzo migliore che riporre la forza della nostra preghiera in quelle cose che piacciono di più a Dio; in tal caso, infatti, ci concederà non solo ciò che chiediamo, cioè la salvezza, ma anche ciò che secondo lui è utile e buono per noi, anche se non glielo chiediamo. Ciò è quanto fa chiaramente capire Davide in un salmo, quando dice: Il Signore è vicino a quanto lo invocano con sincerità, che chiedono cose elevatissime, come quelle della salvezza eterna; di essi dice subito dopo: Appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva. Il Signore protegge quanti lo amano (Sal 144,18-20). Quando Davide dice che Dio è vicino, vuol significare che egli tiene ad esaudire i loro desideri e concedere anche ciò che essi non pensano di chiedere. Leggiamo nella Scrittura che, avendo Salomone chiesto a Dio una cosa che gli era gradita, cioè la sapienza per governare il suo popolo nella giustizia, Dio gli rispose: Poiché ti sta a cuore una cosa simile e poiché non hai domandato né ricchezze né beni né gloria né la vita dei tuoi nemici e neppure una lunga vita, ma hai domandato piuttosto saggezza e scienza per governare il mio popolo, su cui ti ho costituito re, saggezza e scienza ti saranno concesse. Inoltre io ti darò ricchezze, beni e gloria, quali non ebbero mai i re tuoi predecessori e non avranno mai i tuoi successori (2Cr 1,11-12). Dio mantenne la promessa. Difatti stabilì la pace tra lui e i suoi nemici, obbligandoli a pagargli il tributo e a non infastidirlo più. Un altro episodio simile lo troviamo nel libro della Genesi. Avendo Dio promesso ad Abramo di moltiplicare la discendenza del figlio legittimo come le stelle del cielo, come gli aveva chiesto, aggiunse: Moltiplicherò anche quella del figlio della schiava, perché è tuo figlio (Gn 21,13).

3. Tutto questo spiega perché, quando preghiamo, dobbiamo indirizzare a Dio tutta l’energia e la gioia della nostra volontà, senza andare in cerca di cerimonie nuove, non approvate né usate dalla Chiesa cattolica. Si lasci al sacerdote celebrare la messa secondo il rito proprio della Chiesa del luogo, perché da essa egli prende gli ordini e riceve i riti che deve seguire. Non si cerchi d’introdurre nuovi riti, quasi che si sappia più dello Spirito Santo e della sua Chiesa. Se Dio non esaudisce quando lo si prega in tutta semplicità, non si pensi che lo faccia davanti a tutte le nostre invenzioni! Dio, infatti, è tale che chi lo prende con le buone e alla sua maniera, ottiene da lui tutto ciò che vuole, ma se uno va a lui per interesse, allora è meglio che non gli parli nemmeno.

4. Quanto alle altre cerimonie riguardanti la preghiera o certe devozioni, non ci si attacchi a riti o modi di pregare diversi da quelli che ci ha insegnato Cristo (cfr. Lc 11,1-2). È fuori dubbio che, quando i discepoli chiesero al Signore che insegnasse loro a pregare, egli rivelò loro tutto quanto occorreva perché fossero ascoltati dal Padre eterno, di cui conosceva molto bene la volontà. In quell’occasione insegnò loro solo le sette domande del Padre nostro, che comprendono tutte le nostre necessità spirituali e temporali, e non già tantissime altre preghiere e cerimonie. Anzi, in un’altra circostanza, disse loro che, quando pregavano, non dovevano parlare molto, perché il Padre celeste sa molto bene ciò di cui hanno bisogno (Mt 6,7-8); soltanto raccomandò loro, insistentemente, di perseverare nella preghiera, cioè nel Padre nostro, dicendo che è necessario pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1). Non insegnò molte formule di domanda, ma raccomandò di ripetere spesso quelle sette, con fervore e attenzione; in esse, infatti, è racchiusa tutta la volontà di Dio e ciò che conviene a noi. Per questo, quando nostro Signore si rivolse tre volte al Padre eterno, sempre pregò con le stesse parole del Padre nostro, come osservano gli evangelisti: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Mt 26,39). Quanto alle condizioni da seguire nella preghiera, si possono ridurre all’una o all’altra di queste due seguenti: o isolarsi nel nascondimento della propria stanza, ove, lontani da ogni rumore e senza render conto a nessuno, possiamo pregare con tutta la purezza del cuore, come il Signore stesso ci raccomandò dicendo: Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto (Mt 6,7); oppure rifugiarsi in luoghi solitari, come faceva lui, per pregare nel tempo migliore e più silenzioso della notte (Lc 6,12). Non è quindi il caso di fissare tempi precisi in giorni precisi, né stabilire alcuni giorni più che altri per le nostre devozioni. Non dobbiamo neppure andare in cerca di formule, giochi di parole od orazioni diverse da quelle usati dalla Chiesa e secondo il rito di cui essa si serve, perché tutte le preghiere si riducono a quelle contenute nel Padre nostro.

5. Con questo non intendo condannare – anzi approvo – quei giorni che alcune persone stabiliscono per fare le loro devozioni, come novene, digiuni o cose del genere. Ciò che condanno, invece, è l’attaccamento a tale o tal altro esercizio di pietà o cerimonia determinata. A questo proposito si noti ciò che fece Giuditta. Rimproverò gli abitanti di Betulia perché avevano stabilito a Dio un tempo limitato entro cui si attendevano la sua misericordia, dicendo loro: Non pretendete di impegnare i piani del Signore. No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio (Gdt 8,11-12).

CAPITOLO 45

Ove si tratta del secondo genere di beni distinti, cioè quelli provocativi, di cui la volontà può compiacersi inutilmente.

1. Il secondo genere di beni particolari e piacevoli, dei quali la volontà può vanamente godere, sono quelli che invitano o spingono a servire Dio: li chiamo provocativi. Tali sono le predicazioni, che possiamo considerare sotto due aspetti, cioè quello che riguarda gli stessi predicatori e quello che riguarda gli ascoltatori. Non è superfluo, infatti, dare dei consiglio agli uni e agli altri sul modo di elevare a Dio la gioia della loro volontà nel compimento di questa pratica.

2. Per quanto riguarda il primo, cioè il predicatore, per essere di giovamento ai fedeli e non lasciarsi andare a una vana compiacenza o alla presunzione, deve ricordare che la predicazione è un esercizio più spirituale che vocale. La forza e l’efficacia di persuasione dipendono unicamente dallo spirito interiore, anche se vanno espresse con le parole. Quindi, per quanto alta sia la dottrina predicata, brillante l’esposizione e sublime lo stile con cui la si porge, di solito produce un risultato proporzionato allo spirito interiore del predicatore. Sebbene, infatti, sia vero che la parola di Dio è di per se stessa efficace – come dice Davide: Egli tuona con voce potente (Sal 67,34) – tuttavia occorre anche ricordare che il fuoco ha la proprietà di bruciare, ma brucia solo quando il soggetto è in condizioni di ardere.

3. Ora, perché la predicazione produca il suo effetto, si devono realizzare due condizioni: una da parte di chi predica, e l’altra da parte di chi ascolta; ma abitualmente l’effetto desiderato dipende dalla disposizione di colui che predica. Per questo si dice: quale il maestro, tale il discepolo. Negli Atti degli Apostoli leggiamo che quando i sette figli di un sommo sacerdote giudeo presero a scongiurare i demoni con la stessa formula di san Paolo, il demonio s’infuriò contro di loro, esclamando: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete? (At 19,15). E scagliatosi contro di loro, li denudò e li coprì di botte. Questo accadde non perché Cristo non volesse che cacciassero i demoni in nome suo, ma perché essi non avevano le qualità richieste. Difatti nella Scrittura leggiamo che una volta gli apostoli trovarono un tale che, pur non essendo discepolo di Cristo, cacciava un demonio in suo nome. Intervennero per impedirglielo, ma il Signore li rimproverò dicendo: Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me (Mc 9,38). Il Signore si adira piuttosto con coloro che insegnano la legge di Dio e non la praticano, predicano la virtù ma non la posseggono. Per questo san Paolo dice: Come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? (Rm 2,21). E lo Spirito Santo dice per bocca di Davide: All’empio dice Dio: Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza, tu che detesti la disciplina e le mie parole te le getti alle spalle? (Sal 49,16-17). Questo c’insegna che il Signore non darà a tali persone i doni necessari per fare del bene.

4. Ordinariamente vediamo che, per quanto se ne può giudicare quaggiù, quanto più è santa la vita del predicatore, tanto più abbondante è il frutto che produce, anche se il suo stile è umile, la sua oratoria scarsa e la sua dottrina comune. Lo spirito di vita da cui è animato comunica fervore. Un altro, invece, darà poco frutto, nonostante che il suo stile e la sua dottrina siano elevati. È proprio vero che un buono stile, dei bei gesti, una dottrina solida e una perfetta esposizione toccano e fanno più effetto se accompagnati da una vita virtuosa. Senza questa, invece, anche se il sermone solletica i sensi e l’intelligenza, poco o niente giova alla volontà, che ordinariamente rimane molto fiacca e debole nella pratica della virtù, com’era prima. Sebbene il predicatore abbia detto cose meravigliose, meravigliosamente esposte, essere servono solo all’udito, come una musica armoniosa o il suono di campane. Ma l’anima non esce dal suo solco, si ritrova al punto di prima, poiché la voce non ha la virtù di risuscitare i morti e farli uscire dal loro sepolcro.

5. Poco importa udire una parola più bella di un’altra se non mi spinge alla pratica della virtù. Sebbene siano stato dette cose meravigliose, vengono subito dimenticate, perché non hanno acceso la volontà. Infatti, oltre a non produrre di per sé grande frutto, quell’impressione gradevole lasciata nei sensi da tali parole impedisce all’insegnamento di arrivare allo spirito. Ci si limita, così, solo all’apprezzamento della forma e delle cose secondarie di cui è rivestita la predicazione. Si loda tale o tal altra qualità del predicatore, seguendolo più per questi motivi che per la correzione che si ricava dalle sue prediche. Tale è la dottrina che san Paolo spiega con chiarezza ai corinzi, quando scrive: Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza… e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (1Cor 2,1-4).

6. Tuttavia non è intenzione dell’Apostolo e mia di condannre qui il bello stile, la retorica e il linguaggio scelto, i quali invece sono molto utili alla predicazione come a ogni affare, poiché il linguaggio scelto e lo stile elevano e raddrizzano anche le cose cadute e corrotte, come il linguaggio volgare corrompe e rovina anche le buone…


APPENDICE

CAPITOLO 46

Ove si tratta della prima affezione della volontà e si dice che nulla di quello che tocca l’appetito può essere mezzo proporzionato perché l’anima si unisca a Dio secondo la volontà.

1. La prima delle passioni dell’anima e degli affetti della volontà è la gioia. La volontà la provoca sempre nell’anima quando gli oggetti le si presentano come buoni, convenienti, amabili e gradevoli oppure perché sembrano belli, piacevoli e preziosi, ecc. Per questo motivo la volontà si porta verso di essi, li desidera, vi ripone la sua compiacenza quando li possiede, ha paura di perderli e soffre quando li perde, ecc. Così, dunque, l’anima si agita e s’inquieta secondo la passione della gioia.

2. Per frenare questa passione e liberarla da tutto ciò che non è Dio, occorre sapere che tutto quello di cui la volontà può godere in modo particolare, come ho detto, è per essa soave e piacevole, ma nessuna cosa soave e piacevole che essa possa gustare è Dio. Infatti, ripeto, Dio non può essere percepito da nessuna delle altre potenze, né tanto meno dalle tendenze e dai gusti della volontà. In questa vita, dunque, l’anima non può gustare Dio essenzialmente, e tutta la soavità e le delizie che eventualmente prova, per quanto elevate siano, non possono mai essere Dio. Anche tutto ciò che la volontà può gustare e desiderare in modo particolare è quello che l’intelletto conosce come suo oggetto specifico. Ora, non avendo la volontà assaporato mai Dio com’egli è né avendolo conosciuto attraverso qualche percezione delle sue potenze, non può sapere come sia né come gustarlo. Le sue potenze non possono gustare e desiderare Dio, che è al di sopra di ogni sua capacità.

3. È quindi chiaro che nessuna cosa particolare, fra tutte quelle di cui può godere la volontà, è Dio. Per giungere all’unione con Dio deve, quindi, fare il vuoto nelle sue potenze e distaccarsi da tutte le gioie particolari, per quanto soavi e piacevoli appaiano, indipendentemente dal fatto che siano terrene o celesti. Se in qualche modo la volontà può comprendere Dio e unirsi a lui, ciò avviene non attraverso qualche mezzo percepibile delle sue potenze, ma tramite l’amore. Se un diletto o una soavità o qualsiasi altra gioia provata dalla volontà non è amore, ne risulta chiaramente che nessuno di questi sentimenti piacevoli può essere mezzo adeguato per l’unione dell’anima con Dio. Occorre a tale scopo l’operazione della volontà, operazione molto diversa dal suo sentimento. Tramite l’operazione essa si unisce a Dio e si realizza in lui che è amore, non attraverso il sentimento o la percezione dei suoi appetiti, che si conclude nell’anima come fine e termine ultimo.

4. I sentimenti possono fungere solo da motivo o movente per amare – se la volontà vuole passare oltre – e niente più. Così, i sentimenti piacevoli, per loro natura, non indirizzano l’anima a Dio, ma piuttosto la fanno ripiegare su se stessa. Solo l’operazione della volontà, che è amore per Dio, colloca l’anima in Dio, lasciando dietro di sé tutte le cose create, così che essa ama Dio al di sopra di tutto. Di conseguenza, quando una persona si decide ad amare Dio non a motivo del piacere che prova, subito lascia dietro di sé la soavità che sente e ripone il suo amore in Dio che non sente. Se invece riponesse il suo amore nella soavità e nel gusto che prova, limitandosi ad essi, ciò significherebbe fermarsi alle creature o a ciò che le riguarda, facendo del mezzo un fine e un termine ultimo, e così l’opera della volontà sarebbe viziata. Poiché Dio è incomprensibile e inaccessibile, la volontà, onde mettere la sua operazione di amore in Dio, non deve fissarla su ciò che può toccare e percepire, ma in ciò che non può comprendere né raggiungere con l’appetito. In questo modo l’anima amerà sul serio proprio come vuole la fede, anche nel vuoto e nel buio dei suoi sentimenti, soprattutto quelli che essa può percepire attraverso le capacità della sua mente, credendo al di sopra di ciò che può comprendere.

CAPITOLO 47

Ove si prosegue dicendo che per giungere all’unione con Dio è necessario che la volontà si spogli dei suoi appetiti naturali.

1. Avendo dimostrato che né la soavità né il piacere, ecc., che la volontà può provare in questa vita è Dio, sarebbe sciocco colui che, non provando soavità e delizie spirituali, pensasse per questo di non possedere Dio, oppure provandole si rallegrasse pensando per questo di possedere Dio. Costui sarebbe ancora più sciocco se cercasse queste soavità in Dio e si compiacesse in esse, perché non andrebbe in cerca del Dio inaccessibile con una volontà fondata nel vuoto della fede, ma sul gusto spirituale, cioè su qualcosa di creato, assecondando così i suoi appetiti. In questo modo egli non amerebbe in purezza di fede e sopra ogni cosa Dio, cioè riponendo in lui tutta la forza della volontà. Difatti, quando con i suoi desideri sregolati si attacca alle cose create, non si eleva al di sopra di esse per arrivare a Dio, che è inaccessibile. È impossibile che la volontà possa arrivare alle soavità e alle delizie della sublime unione con Dio, senza liberarsi da tutti gli appetiti per i piaceri particolari.

2. Ciò è quanto Dio voleva dire per bocca di Davide: Apri la tua bocca, la voglio riempire (Sal 80,11). L’appetito è come la bocca della volontà, che si apre quando non è ingombra di altri bocconi che le danno soddisfazione; quando invece l’appetito si ferma su qualcosa, allora si chiude, perché fuori di Dio tutto è angusto.

3. La volontà, dunque, deve tenere la sua bocca sempre aperta a Dio, libera da ogni boccone appetitoso, perché Dio possa riempirla con il suo amore e le sue dolcezze. Abbia sempre fame e sete di Dio solo, senza cercare altre soddisfazioni, perché quaggiù non possiamo gustare Dio com’è. Ciò che essa può gustare, se desidera qualcosa, sarebbe un ulteriore ostacolo all’amore divino. Ciò è quanto insegna Isaia con queste parole: O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente (Is 55,1). Ivi il profeta invita all’abbondanza delle acque divine dell’unione a tu per tu con Dio soltanto coloro che hanno sete di Dio solo e sono distaccati dai loro appetiti. Ora, poiché la gioia si sostiene attraverso la bocca della volontà che, come dicevo, è l’appetito, parlerò delle differenti specie di alimenti che essa può gustare e di come dobbiamo distaccarci da tutti. Occorre liberare la bocca della volontà da ogni nutrimento apprensibile, perché abbia fame solo della volontà di Dio, che è incomprensibile.