sabato 10 dicembre 2011

Le ragioni del silenzio


Inizio questo post con le parole del Mattutino di oggi 10 dicembre di Gianfranco Ravasi; a seguire un articolo del Priore di Bose sul silenzio

* * *

"Un commento al Vangelo non si deve scrivere ma vivere. E ci sono molti più commenti viventi al Vangelo di quanto possa sembrare a prima vista".

Propongo queste parole del filosofo austriaco Ferdinand Ebner (1882-1931), prima ateo e poi ardente credente, con qualche imbarazzo, avendo alle spalle una non piccola valanga di pagine di commenti biblici. Un imbarazzo che dovrebbe colpire anche i predicatori che, a partire da stasera e per tutta la giornata domenicale di domani, intesseranno esposizioni, spiegazioni, applicazioni sui testi biblici della liturgia. Già un ateo rimasto tale come il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche accusava in questi termini i cristiani: «Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, non avreste bisogno di insistere così ostinatamente perché si creda all'autorità di questo libro: le vostre azioni dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia perché voi stessi dovreste essere la stessa Bibbia». Ebner, però, apre uno squarcio a cui affacciarsi: per le strade del mondo non ci sono solo visi pallidi di indifferenza o arrossati dall'egoismo; camminano tanti «commenti viventi al Vangelo», giovani e anziani, fedeli e persone che credono di non credere ma conducono un'esistenza specchiata e generosa. Ogni giorno li incontriamo e sono quelli — come scriveva ancora Ebner — che hanno abbattuto tra loro e gli altri e Dio «la muraglia cinese del proprio io». Mi piace, allora, finire con un augurio: che sia possibile anche per noi incidere sulla nostra tomba l'epigrafe che volle per sé questo filosofo: «Qui giace il resto mortale di una vita umana nella cui grande oscurità ha brillato la luce della vita e in questa luce ha compreso che Dio è amore».

* * *

Riporto da La Repubblica di oggi, sabato 10 dicembre 2011
a firma di ENZO BIANCHI

Ai nostri giorni siamo invasi dalle parole, dal rumore, dalle chiacchiere, al punto che l’inquinamento sonoro può ormai essere annoverato tra i problemi ecologici. Nella società cacofonica in cui viviamo, inoltre, la parola è diventata quasi uno strumento obbligato per l’affermazione e la celebrazione di se stessi, anche a costo di assumere forme quanto mai aggressive e capaci di ferire: «parole come armi», è stato giustamente detto… Si comprende dunque perché molti avvertano il bisogno del silenzio, vorrebbero cioè imparare a tacere per riscoprire la bellezza del silenzio e, insieme, la bellezza di forme di comunicazione non verbali. Tacere equivale a digiunare verbalmente e il silenzio è paragonabile al digiuno fisico, entrambi salutari quando lo esigono il corpo e la psiche, cioè l’intera persona umana.

Occorre però subito precisare che il silenzio non consiste semplicemente nell’assenza di rumore e di parola, ma è una realtà plurale. C’è un silenzio necessario in certi luoghi, e come tale imposto, c’è un silenzio inscritto con segni all’interno della scrittura stessa, c’è silenzio tra le note musicali… Accanto a questi silenzi funzionali, ve ne sono altri negativi o addirittura mortiferi: silenzi che «pesano», che rendono inquieti e spaventano, silenzi opprimenti, silenzi di morte, abissi di silenzio! Di più, esistono silenzi complici e pieni di viltà, silenzi che dovrebbero essere spezzati dalla forza di un profeta, silenzi di ostilità che paralizzano la comunicazione, silenzi amari di solitudine sofferta…
Vi sono però anche silenzi positivi, irrinunciabili. In primo luogo il silenzio rispettoso della parola dell’altro, ma anche il silenzio scelto nella consapevolezza che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare». Un silenzio particolare è quello dell’amicizia e dell’amore: l’amore crea un linguaggio non verbale, molto più eloquente e intenso di qualsiasi parola, linguaggio in cui il silenzio stesso diventa parola. Nasce così quel silenzio di presenza e di pienezza, in cui il semplice stare insieme è fonte di gioia: silenzio che è ascolto amoroso, attento, contemplativo, raccolto; «silenzio sottile» che si fa voce come per Elia sul monte Oreb. Vi è infine il silenzio interiore, nel cuore di ciascuno di noi, per accogliere la presenza degli altri e dell’Altro, Dio: è quella disposizione che scava nel nostro intimo uno spazio per il Signore e consente che la sua Parola prenda dimora in noi.

Ma perché fare silenzio, perché imparare il silenzio in modo progressivo e ragionevole? Innanzitutto perché nel silenzio possono emergere energie che si traducono in un’attività intellettuale più feconda, capace di stimolare la nostra memoria e di aguzzare le nostre facoltà di ragionamento e di immaginazione. Sì, nel silenzio diventiamo più ricettivi alle impressioni trasmesseci dai nostri sensi, sappiamo meglio ascoltare, vedere, odorare, toccare, anche gustare. Si pensi solo a un’esperienza comune: quando si vuole fare o ricevere una carezza non diventa forse naturale restare in silenzio? Lunghe ore di silenzio, ore in cui non si parla e non si ascoltano parole o suoni, ci rendono diversi, ci aiutano a guardare dentro di noi, a dimorare con noi stessi e, soprattutto, ad ascoltare ciò che ci abita in profondità.

E così impariamo poco a poco quali sono le ragioni per cui parliamo, venendo a conoscenza di verità non supposte. Scopriamo cioè che le nostre parole sono sovente strumento di conquista e di seduzione, mezzi per permettere al nostro «io» di acquistare potere, successo, dominio sugli altri: parole aggressive e interessate, piegate a scopi inconfessati e inconfessabili, strumenti di manipolazione… Insomma, grazie al silenzio impariamo a parlare, decidiamo quando e se vale la pena di rompere il silenzio, dominiamo il modo e lo stile con cui ci rivolgiamo agli altri. Attraverso la pratica consapevole del silenzio possiamo vigilare affinché le nostre parole siano sempre fonte di dialogo e di conoscenza, di consolazione e di pace.