martedì 6 dicembre 2011

Orgoglio Bauscia!

"Quanti padroni finiscono per avere coloro che non vogliono riconoscere Gesù Cristo come solo Padrone!"

Sant’Ambrogio
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Oggi 7 dicembre celebriamo la festa liturgica di sant'Ambrogio, vescovo e dottore della Chiesa.



Il Sabato santo del 397 muore nella sua residenza episcopale di Milano Ambrogio, padre della chiesa e pastore tra i più amati dell'antichità. Di famiglia nobile, Ambrogio era stato avviato in giovane età alla carriera politica, sino a diventare governatore delle province romane di Liguria ed Emilia. Fu in questa veste che, alla morte del vescovo ariano Aussenzio, egli fu eletto pastore della città di Milano a furor di popolo, per la sua condotta di vita irreprensibile e sebbene fosse ancora catecumeno. Consapevole della propria impreparazione, soprattutto in campo teologico, Ambrogio si fece povero e si mise in cerca dell'unica cosa necessaria: la presenza di Cristo nell'anima del credente, attingendo con intelligenza alle Scritture e alla tradizione dei padri d'oriente. Egli maturò così in pochi anni uno straordinario sensus fidei. Percorsa questa via di essenzialità, Ambrogio seppe proporla al gregge affidatogli dal Signore, mostrando una forte volontà di ricompattare una società in via di disgregazione. Egli si adoperò per rigenerare la spiritualità del clero, e per proporre valori testimoniali forti al popolo cristiano. Promosse e sostenne la vita religiosa, soprattutto femminile, contrastando così la perdita di tensione escatologica che il regime di cristianità appena sorto cominciava a favorire. Difensore dei poveri e dei deboli, Ambrogio pronunciò parole veementi contro l'usura e l'uso privatistico dei beni della terra, e in nome della parresia evangelica si oppose apertamente a vescovi e imperatori caduti in errori morali o dottrinali, senza mai offuscare, in ogni sua invettiva, l'annuncio dell'inesauribile misericordia di Dio verso gli erranti. Il suo esempio colpì profondamente Agostino, che volle farsi battezzare da lui la notte di Pasqua del 387.

TRACCE DI LETTURA

Signore, possa tu degnarti di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe! Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno delle tue lacrime, tutti i miei peccati saranno cancellati. Chiama dunque a uscire da se stesso il tuo servo. Quantunque, stretto nei vincoli dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi, legate le mani e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle opere morte, alla tua chiamata uscirò libero e diventerò uno dei commensali nel tuo convito. E la tua casa si riempirà di prezioso profumo, se custodirai colui che ti sei degnato di redimere. Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quand'era perduto, hai chiamato all'episcopato, e concedimi anzitutto di essere capace di condividere con intima partecipazione il dolore dei peccatori. Anzi, ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimbrottarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che, mentre piango su un altro, io pianga su me stesso ripetendo assieme a Giuda: «Tamar è più giusta di me». Chi gode della caduta altrui, gode della vittoria del diavolo. Perciò rattristiamoci piuttosto quando sentiamo che si è perduto un uomo, uno per cui è morto il Cristo stesso.

Ambrogio, Sulla penitenza 2,71-73.78

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Di seguito la seconda lettura dell'Ufficio di oggi.

Dalle «Lettere» di sant'Ambrogio, vescovo.
Hai ricevuto il sacerdozio e, stando a poppa della Chiesa, tu guidi la nave sui flutti. Tieni saldo il timone della fede in modo che le violente tempeste di questo mondo non possano turbare il suo corso. Il mare è davvero grande, sconfinato; ma non aver paura, perché
«Ã¨ lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita»(Sal 23, 2).
Perciò non senza motivo, fra le tante correnti del mondo, la Chiesa resta immobile, costruita sulla pietra apostolica, e rimane sul suo fondamento incrollabile contro l’infuriare del mare in tempesta.
È battuta dalle onde ma non è scossa e, sebbene di frequente gli elementi di questo mondo infrangendosi echeggino con grande fragore, essa ha tuttavia un porto sicurissimo di salvezza dove accogliere chi è affaticato. Se tuttavia essa è sbattuta dai flutti sul mare, pure sui fiumi corre, su quei fiumi soprattutto di cui è detto: «Alzano i fiumi la loro voce»(Sal 92,3). Vi sono infatti fiumi che sgorgano dal cuore di colui che è stato dissetato da Cristo e ha ricevuto lo Spirito di Dio. Questi fiumi, quando ridondano di grazia spirituale, alzano la loro voce.
Vi è poi un fiume che si riversa sui suoi santi come un torrente. Chiunque abbia ricevuto dalla pienezza di questo fiume, come l’evangelista Giovanni, come Pietro e Paolo, alza la sua voce; e come gli apostoli hanno diffuso la voce della predicazione evangelica con festoso annunzio sino ai confini della terra, così anche questo fiume incomincia ad annunziare il Signore. Ricevilo dunque da Cristo, perché anche la tua voce si faccia sentire.
Raccogli l’acqua di Cristo, quell’acqua che loda il Signore. Raccogli da più luoghi l’acqua che lasciano cadere le nubi dei profeti. Chi raccoglie acqua dalle montagne e la convoglia verso di sé, o attinge alle sorgenti, lui pure come le nubi la riversa su altri. Riempine dunque il fondo della tua anima, perché il tuo terreno sia innaffiato e irrigato da proprie sorgenti. Si riempie chi legge molto e penetra il senso di ciò che legge; e chi si è riempito può irrigare altri. La Scrittura dice:
«Se le nubi sono piene di acqua, la rovesciano sopra la terra» (Qo 11,3).
I tuoi sermoni siano fluenti, puri, cristallini, si che il tuo insegnamento morale suoni dolce alle orecchie della gente e la grazia delle tue parole conquisti gli ascoltatori, perché ti seguano docilmente dove tu li conduci. Il tuo dire sia pieno di sapienza. Anche Salomone afferma: Le labbra del sapiente sono le armi della Sapienza (cfr. Prv 15, 7), e altrove: Le tue labbra siano ben aderenti all’idea: vale a dire, l’esposizione dei tuoi discorsi sia lucida, splenda chiaro il senso senza bisogno di spiegazioni aggiunte; il tuo discorso si sappia sostenere e difendere da se stesso e non esca da te parola vana o priva di senso.


PREGHIERA

Dio nostro,
tu ci hai dato in Ambrogio
un esempio di forza apostolica
e un pastore fedele al suo gregge:
suscita ancora nella tua chiesa
guide sante che con coraggio e sapienza
ci conducano fino a te.
Per Cristo nostro Signore.

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Approfondimenti


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 ottobre 2007

Sant’Ambrogio

Cari fratelli e sorelle,

il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce». A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.

Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.

Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.

E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano in ricerca e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo: una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino –«il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).

Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, “affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro”». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo «ascoltare di dentro», questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.

Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica» che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confessioni 6,3). Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando –, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.

Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis! Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se temi la morte, Egli è la vita; se desideri il cielo, Egli è la via; se sei nelle tenebre, Egli è la luce ... Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in Lui!» (La verginità 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.

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Introduzione al Salmo 118 di sant'Ambrogio


Origene, Eusebio di Cesarea, Didimo di Alessandria, Ilario di Poitiers avevano spiegato il salmo 118. Tuttavia, nessuno prima di Ambrogio l'aveva fatto oggetto di un commento isolato. Per quali ragioni Ambrogio vi si dedicò? Sappiamo che nella liturgia ambrosiana delle festività solen­ni, quando l'eucaristia concludeva il rito vigilare, il salmo 118 era letto subito prima della messa. A quel momento Ambrogio commentò questo sacro testo, tramite una lectio continua, che tenne impegnata la Chiesa milanese per pa­recchi mesi.

L'opera ha quindi una indubitabile origine orale e fu diretta a un pubblico misto tra una élite colta e ascoltatori più semplici. Più tardi il salmo fu destinato alla liturgia dei monasteri, ma Ambrogio, che dedicò cure particolari alla spiritualità monastica, già inserisce qui applicazioni proprie alla vita del chiostro. Ci sono spunti del "quaerere Deum", del "soli Deo ", per non parlare dell'insi­stenza del "redire ad cor".

L'opera raccoglie 22 omelie a commento delle 22 strofe con cui il salmo 118 tesse l'elogio della legge. L'autore presenta i mezzi utili per raggiungere la perfezione. L'esegesi di tipo morale si occupa della conversione dell'anima, attraverso l'esortazione alla sequela Christi. Poco predispo­sto alla speculazione, Ambrogio eccelle per la cura pastora­le, che lo fa un maestro di vita più che un teorico.

La sua esegesi della Scrittura si rifà a Origene. Di lui Ambrogio condivide l'amore instancabile per la Parola di Dio. Nella lettura si dà uno scambio tra Parola di Dio e anima. Da un lato la Parola costituisce il cibo dell’anima e quindi la vita dell'anima, purché questa l'accolga e la faccia diventare sangue del proprio sangue. Dall'altro, l'anima, assimilando la Parola, la fa crescere in sé, la dilata, la moltiplica. Soprattutto in due modi: con la comprensione sempre più piena della Parola e con la rispondenza del comportamento.

Qui Ambrogio lega potentemente, come appunto forse solo Origene aveva saputo fare, l'attività esegetica alla vita spirituale, sottraendo la prima ad un tecnicismo intellettuale che da solo non ha le forze per far sprigionare dalla Parola tutta la potenza in essa contenuta. Non si dà comprensione senza risposta.

Più di Origene, Ambrogio spicca per l'attenzione cristo­logica, che ci vale pagini ammirabili su Cristo. La salvezza è affidata all'inabitazione del Verbo nell'ani, pero la redenzione dell'uomo in Cristo avviene ad opera proprio dell'umanità di Cristo: "Il Signore Gesù è disceso fino a noi per dischiudere le porte sbarrate". Ambrogio canta la comunione con il Figlio di Dio con accenti appassio­nati e inesauribili: "Cristo è per te ogni possesso: il suo nome è la tua ricchezza, il suo nome è il tuo profitto".

Con il tono ardente che gli è abituale, con gli accenti delicati e toccanti che preannunciano san Bernardo, ci coinvolge nella sequela del Signore. "Cristo beve le mie amarezze per donarmi la dolcezza della sua grazia ".

Gesù è pane vivificante, perché in lui la vita divina penetra la terra e l'umanità. L'eucaristia è dunque potenza "oggettiva" che chiede di essere ricevuta nella fede per trasfondere l'energia divina all'interno di un incontro che pero non dipende dall'uomo. Questi potrà solo favorire (o limitare) il diffondersi del fuoco eucaristico nella sua anima e nel suo corpo.

Il commento a questo salmo è portatore di una morale già finalizzata all'incontro mistico. È interessante rilevare però come l'interpretazione mistica non sia accostata e successiva all'interpretazione morale, perché l'autore presenta invece un'interpretazione morale‑mistica congiunta. Così Ambrogio può affermare che scorgere nella legge il mistero di Cristo è come trasformare la legge da vincolo obbligante in scelta d'amore, dove non si sa più quando finisca la morale e quando cominci la mistica. Parlare perciò di "moralismo" in Ambrogio è un po' riduttivo, dato che in questo commento agevolmente riconosciamo la sua costante preoccupazione di fondere la morale in una visione globale dell'economia della salvezza.

L'esegeta propone dunque un discorso che muove dalle più vicine articolazioni morali per approdare al più elevato incontro dell'anima con il divino, al quale la morale deve servire.


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Dal "Commento al Salmo 118" di sant'Ambrogio


In Psalmum CXVIII Expositio, sermo VI 1,6‑7. PL 15,1282‑1283.

Questo mi consola nella miseria: la tua parola mi fa vivere. Nel tempo della nostra umiliazione, nostra consola­trice è la speranza che non ci permette di smarrirci.

Io credo che il tempo della prova sia quello dell'umilia­zione della nostra anima. Infatti essa viene umiliata quando è lasciata in balia del tentatore, per essere messa alla prova con dure fatiche e sperimentare così nella lotta e nello scontro l'attacco della potenza avversaria. Ma in queste prove le viene infusa vita da Dio, che le rivolge la sua parola.

Questa parola è la sostanza vitale dell'anima nostra; la nutre, la fa crescere, la dirige. Non c'è null'altro che possa far vivere l'anima ragionevole come la parola di Dio.

Come infatti cresce il dialogo con Dio nell'anima no­stra, quando la sua parola viene accolta, capita, trattenuta, così cresce anche la vita dell'anima. Viceversa, quando viene a mancare la parola di Dio nell'anima, succede che anche la vita dell'anima venga meno. Pertanto, come l'unio­ne dell'anima e del corpo è animata, nutrita e sostenuta dal soffio vitale, così l'anima nostra è vivificata dalla parola di Dio e dalla grazia spirituale.

Perciò dobbiamo cercare in ogni modo ‑ come cosa primaria rispetto a tutto il resto - di raccogliere in noi le parole di Dio e di trasfonderle nel nostro intimo, nei sentimenti, nelle sollecitudini, nei pensieri e nelle azioni. Solo così i nostri atti corrisponderanno alle parole delle Scritture e il nostro agire non sembrerà discordare dai precetti celesti. Allora potremo dire anche noi: La tua parola mi fa vivere.


Op. cit., sermo VIII,7. PL 15,1296‑1297.

Pietro, spiegaci cosa sia questo possesso che affermi di avere, tu che hai detto di aver lasciato tutto. Così infatti hai parlato al Signore: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. In altri termini: noi non abbiamo cercato i beni di questo mondo, non abbiamo desiderato di aver la nostra parte di proprietà, ma abbiamo scelto te come nostra sorte.

Dunque, tu, Pietro, hai già lasciato quello che avevi. Da dove allora ti è venuto quello che dici di avere? Lo storpio si alza e si regge in piedi al suono della tua voce: doni la sanità agli altri, proprio tu che avevi bisogno di cure per la tua salute.

Dunque hai lasciato quello che avevi e hai ricevuto quello che non avevi. La tua parte è Cristo, Cristo è per te ogni possesso, il suo nome è la tua ricchezza, il suo nome è il tuo profitto, il suo nome paga per te i tributi e tributi di valore, perché non sono in denaro ma in grazia. Conserva­ti la parte che hai scelta: è una sorte che le ricchezze terrene non possono uguagliare!

Che cosa potrebbe esser dato ancora a coloro ai quali Dio dice: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò?

Che cosa mai c'è di più splendido che ospitare il Cielo? Quale felicità più grande che possedere Dio? Gli altri si lamentano dell'esiguità dei loro campi; in te Dio trova un podere vastissimo, dove egli dice di passeggiare, cioè di trovare largo spazio per abitarvi, lui che contiene nella mano tutta la terra. Sta scritto infatti: Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare e ha calcolato l'estensione dei cieli con il Palmo? Tu sei un’ampia dimora per colui davanti al quale tutto il mondo è come un nulla. Mia parte è il Signore lo dice il martire. E noi per lui viviamo, se è una gloria morire per lui.


Sermo 12,4‑6. PL 15,1361‑1362.

Solleviamo e innalziamo i nostri pensieri, e non giudi­chiamo impossibile che questa debolezza del nostro corpo d'uomini si spinga fino alla conoscenza delle mistiche realtà del Cielo. Tanto più che ormai il Signore Gesù, nel quale erano nascosti i tesori della conoscenza e della sapienza, è disceso fino a noi nella sua divina misericordia, per di­schiuderci le porte sbarrate, per aprirci gli enigmi, per rivelarci i segreti. Vieni, dunque, Signore Gesù, apri anche a noi la porta di questo profetico discorso. Molti lo trovano oscuro, anche se a prima vista sembra chiaro.

La tua parola, Signore, è stabile come il cielo. Tu puoi vedere come anche in te debba durare ciò che in cielo dura e persiste. Mantieni dunque fede alla parola di Dio e mantienila nel tuo cuore; conservala in modo da non scor­dartene. Mantieni fede alla legge del Signore e meditala, perché le opere con cui il Signore giustifica non scivolino fuori dal tuo cuore. Il senso letterale ti insegna a mantenere fede ad essa con scrupolosità. Te lo insegna, il profeta dicen­do: Se la tua legge non fosse la mia gioia, sarei perito nella mia miseria. Mai dimenticherò i tuoi precetti.

Dunque, la meditazione della legge ci mette in condi­zione di sostenere con pazienza i momenti di tribolazione, i momenti in cui qualche fatto ostile ci umilia; e questa riflessione ci impedisce di abbatterci in uno stato d'animo di eccessiva prostrazione e di scoraggiamento. Tant'è vero che il Signore non vuole che l'umiliazione ci abbatta fino alla disperazione, ma fino ad un cocente rimprovero.

Così anche il profeta Geremia esclama: Dalla bocca dell'Altissimo non procedono le sventure. Dunque, l'umilia­zione che viene dal Signore è piena di giustizia, è piena di rettitudine, perché il male non viene da Dio. Tant'è vero che chi veniva umiliato dal Signore diceva: Ero misero ed egli mi ha salvato.


Sermo 18,26.28‑29. PL 15,1461‑1463.

Io sono piccolo e disprezzato, ma non trascuro i tuoi precetti. Ho l'angusta partecipazione ai beni del cielo.

Già sono accolto all'onore della mensa celeste. Per procu­rarmi il cibo non ci vogliono piogge abbondanti né la laboriosa produzione della terra né i frutti degli alberi. Per togliermi la sete non devo cercare fiumi o sorgenti: Cristo è il mio cibo, Cristo è la mia bevanda; la carne di un Dio mi sostiene, il sangue di un Dio mi disseta.

Per saziarmi ormai non aspetto i raccolti annuali, poiché Cristo mi viene offerto ogni giorno. Non avrò paura che qualche intemperie meteorologica o qualche improdutti­vità agricola mi pregiudichi il cibo, purché la devozione me lo preservi con cura assidua. Non bramo più che piovano quaglie, le quali prima mi parevano un miracolo, né la man­na, che prima preferivo a tutti gli altri cibi; i padri ne mangiarono, ma ebbero ancora fame.

Il mio è un cibo tale che, se lo si mangia, non si ha più fame; è un cibo che non ingrassa il corpo, ma irrobusti­sce il cuore dell'uomo.

Avevo avuto anche prima,un miracoloso pane dal cielo (infatti sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cie­lo) ma quello non era il vero pane, bensì solo figura di quello futuro. Il pane del cielo, quello vero, mi è stato tenuto in serbo dal Padre.

Ascoltate quello che dice il Signore stesso: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. Voi l'avete udito, l'avete visto, e non gli avete creduto: perciò siete morti. Credete almeno a­desso, se volete vivere.

Dal corpo di Dio è scaturita per me una sorgente eter­na. Cristo beve le mie amarezze per donarmi la dolcezza della sua grazia.


Sermo 18,41‑43. ft 15,1467.

Per mostrare come si fa a trovare Cristo, Filippo e­sclama:Vieni e vedi. Chi cerca Cristo venga, non con i passi delle gambe, ma con l'incedere dello spirito. Cerchi di vederlo non con gli occhi dell'uomo esteriore, ma con lo sguardo interiore. L'eterno non si scorge in parvenze corporee, giacché le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne.

Ora, Cristo non è nel tempo, ma è generato dal Padre, prima del tempo; in quanto Dio, vero Figlio di Dio, e in quanto perfezione eterna, è fuori del tempo, e nessun limite di tempo lo circoscrive; in quanto è vita al di là del tempo, come tale non sarà mai raggiunto dal giorno della morte.

Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Comprendi ciò che ha detto l'Apostolo? Egli morì al peccato una volta per tutte. Una volta per sempre Cristo è morto per te che sei peccatore. Non perdere, o uomo, questo grande vantaggio! Per te Cristo si è assogget­tato al potere della morte, per liberarti dal giogo di quel potere. Egli ha preso su di sé la schiavitù della morte per renderti la libertà della vita eterna.

Perciò chi cerca Cristo cerca anche i suoi patimenti e non ne evita la passione. Nell'angoscia ho gridato al Signo­re, mi ha risposto e mi ha tratto in salvo. Com'è buona quella sofferenza che ci rende degni di essere ampiamente esauditi dal Signore! Essere esauditi dal Signore Dio nostro è pero una grazia.

Allora, chi cerca l'affanno, non lo evita. Chi non lo evita ne viene trovato. Non lo evita l'uomo che riflette sui comandamenti di Dio con il pensiero e con l'azione.



Sermo 19, 30-32


"Una così grande grazia ecclesiale e i grandi premi promessi alla devozione ci invitano: preveniamo lo spuntar del sole, andiamogli incontro prima che sorga; prima che dica: "Eccomi!" (Is.58,9). Il Sole di giustizia vuol essere prevenuto e aspetta chi lo prevenga. Ascolta in che modo aspetti e desideri di essere prevenuto: dice all'Angelo di Laodicea: "Mostrati zelante e ravvediti. Ecco io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui" (Ap.2,16; 3,20).
Ha il potere di entrare; nessun chiavistello potè trattenerlo dopo la risurrezione, e improvvisamente, inaspettato, appare agli apostoli nel cenacolo. Ma Gli piace mettere alla prova i desideri della devozione tua; gli apostoli li aveva già provati. O forse, in tempo di persecuzione, è Lui a prevenire, mentre in tempo di pace desidera di essere prevenuto.
Tu precedi certamente la levata del sole visibile; "Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà" (Ef. 5,14). Se previeni il sorgere di questo sole, accoglierai il Cristo-Luce. Egli stesso ti preverrà illuminando l'intimo del tuo cuore; Lui, a te che Gli dici: "Di notte anela a Te l'anima mia" (Is.26,9), farà risplendere nelle ore notturne la luce del mattino, mentre mediti le Parole di Dio. Il tuo meditare sarà un luce che vede la Luce, non del tempo ma della grazia; e tu gli dirai: "I comandi del Signore danno luce agli occhi" (Sal. 18,9). Quando la prima alba del giorno ti troverà intento a meditare le Parole divine, e l'atto così grande del pregare e salmeggiare sarà gioia per la tua anima, dirai ancora al Signore Gesù: "Di gioia fai gridare le soglie dell'oriente e dell'occidente!" (Sal 64,9).
Secondo gli insegnamenti di Mosè, il popolo dei giudei, per mezzo dei suoi anziani eletti a questo ufficio, ripete le Scritture divine notte e giorno ininterrottamente; e se in quel tempo tu interroghi un anziano su altri argomenti, non sa se non ripeterti di rimbalzo qualche tratto della Scrittura. Tra loro non v'è tempo per discorsi di questo mondo, e solo proseguono a leggere senza interruzione il Libro sacro; uno si succede all'altro nella recitazione perchè il santo risuonare dei precetti celesti non cessi mai. E tu, cristiano, che hai per maestro il Cristo, dormi, e non paventi che si dica di te: Questo popolo non mi onora neppure con le labbra; il giudeo almeno con le labbra, ma tu neppure con esse? (Cf. Mt.15,8). Se è lontano da Dio il cuore di chi L'onora solo con le labbra, come può esserGli vicino il tuo cuore che neppure con le labbra Gli rende onore? Quanto tempo ti rapisce il sonno, quanto gli interessi secolari e le preoccupazioni di questa vita, quanto le cose della terra! Almeno dividi il tuo tempo tra Dio e le cose di quaggiù; oppure, quando non puoi occuparti fra la gente degli affari di questo mondo perchè te lo impediscono le tenebre della notte, tieniti libero per Dio, dedicati alla preghiera e, per non dormire, salmeggia a voce alta, ingannando il sonno con una saggia frode! Al mattino affrettati ad andare in Chiesa per portarvi le primizie di santi desideri; e poi, se le necessità di questa vita ti chiamano, non ti mancherà un motivo per dire: "I miei occhi prevengono le veglie della notte per meditare sulle Tue promesse" (Sal 118, 148), e ai tranquillo ai tuoi affari.
Quale gioia cominciare la giornata con inni e cantici, con le beatitudini che leggi nel Vangelo! E quale pegno di prosperità che la parola di Cristo ti benedica e, mentre vai ricantando nell'anima le benedizioni del Signore, ti ispiri il proposito di qualche virtù, coì che tu possa riconoscere in te stesso l'efficacia della benedizione divina!"


Sermo 19,36.38‑39. PL 15,1480.1481.

Tu, signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri .

Il Signore è vicino a tutti, perché è in ogni luogo. Non pos­siamo sfuggirgli se lo offendiamo, né farla franca se sba­gliamo, né perderlo se ci nascondiamo. Dio osserva ogni cosa, vede tutto, sta al fianco di ognuno, dicendo: Io sono un Dio vicino.

Dove mai non potrebbe penetrare il Verbo di Dio, lo splendore eterno che illumina anche le riposte profondità del cuore, là dove nemmeno il sole fisico può penetrare? Il Verbo di Dio è una spada spirituale che penetra fino a dividere l'anima, le membra e le midolla. Di esso il giusto Simeone dice a Maria: Perché siano svelati i pensieri di molti cuori, anche a te una spada trafiggerà l'anima.

Il Verbo di Dio trapassa dunque l'anima e la rischiara tutta come un chiarore di luce eterna. E sebbene egli abbia una potenza che si estende attraverso tutti, che tutti rag­giunge e che sta sopra tutti ‑ perché per tutti egli è nato da una vergine, per i buoni e per i malvagi, come sopra buoni e malvagi fa nascere anche il suo sole ‑, tuttavia egli riscalda unicamente chi gli si avvicina.

E come tiene lontano da sé lo splendore del sole chi chiude le finestre della sua casa e sceglie di vivere in un luogo tutto buio, così chi volge le spalle al Sole di giustizia non può contemplarne lo splendore e cammina nelle tenebre; e mentre tutti godono della luce, lui stesso diventa causa della propria cecità.

Spalanca allora le tue finestre al Verbo di Dio, affinché tutta la tua casa sia illuminata dallo splendore del vero Sole! Apri bene gli occhi, per mirare il Sole di giustizia che sorge per te.


Sermo 20,54 ‑55. PL 15,1501.

Vedi che io amo i tuoi precetti, Signore, secondo la tua grazia dammi vita.

Rivolgendosi a Dio il salmista lo invita a posare lo sguardo sul suo sentimento pieno di amore.

Nessuno chiede di esser guardato se non chi pensa di poter piacere.

Il salmo dice bene vedi anche in ossequio alla legge, la quale comandava che ciascuno si presentasse tre volte all'anno davanti al Signore. Il santo ogni giorno offre se stesso, ogni giorno si presenta davanti a lui, e non a vuoto. Non può essere vuoto colui che ha ricevuto parte della pienezza dell'Altissimo.

Ascolta in che modo anche tu devi offrirti a Cristo.

Non con doni materiali, visibili, ma sotto un aspetto celato, nel nascondimento, affinché il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompensi e ripaghi il tuo atteggiamento di fede.

Amo ‑ dice il salmo ‑ i tuoi precetti. Non dice “li ho osservati” e nemmeno “li ho custoditi", poiché gl'imprudenti non hanno custodito le prescrizioni del Signore. Chi però ha una perfetta comprensione, una perfetta conoscenza, questi ama, che è ben più di osservare: l'osservanza per lo più dipende da costrizione e da paura, l'amore invece è segno di carità. L'osservanza è messa in pratica da chi annuncia il vangelo, ma riceve la ricompensa colui che lo annuncia liberamente. Quanto più allora riceve la ricom­pensa colui che lo ama! Possiamo anche non amare quel che vogliamo, ma non possiamo non volere quello che amia­mo.

Ma per quanto grande possa essere la ricompensa dell'amore perfetto, chi ama chiede anche il conforto della divina misericordia, perché in essa il Signore gli infonde vita. Non è dunque un arrogante esattore di una ricompensa dovuta, ma un timido supplicante della misericordia divina.

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Dal «Commento sui salmi» di sant'Ambrogio, vescovo

Cristo ha riconciliato il mondo a Dio per mezzo del suo sangue


Avendo Cristo riconciliato il mondo a Dio, non ebbe certo lui stesso bisogno di riconciliazione. Infatti quale peccato suo proprio avrebbe espiato lui che non conobbe nessun peccato? Perciò quando i Giudei gli domandarono la tassa, destinata al tempio, e che la legge prescriveva per il peccato egli disse a Pietro: «Simone, i re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli altri? Rispose: Dagli estranei. E Gesù: Quindi i figli sono esenti. Ma perché non si scandalizzano, va' al mare, getta l'amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d'argento. Prendila e consegnala a loro per me e per te» (Mt 17, 25-27).
Il Figlio di Dio dimostra che non deve offrire riparazione per i propri peccati, perché non era schiavo del peccato, ma libero da ogni colpa. Infatti il Figlio libera, mentre il servo è nella colpa. Perciò è esente da tutti i peccati e non paga il prezzo del riscatto per la propria anima colui che nel suo sangue dà un prezzo sufficiente a riscattare i peccati di tutto il mondo. Giustamente dunque libera gli altri chi non deve nulla per sé.
Dirò di più. Non solo Cristo non deve alcun prezzo di redenzione per sé o di propiziazione per il peccato proprio, ma neanche i singoli uomini come tali. Vale a dire il singolo non ha da presentare una propiziazione sua propria, perché propiziazione per tutti è Cristo ed egli è la redenzione di ognuno.
Infatti, il sangue di quale uomo può avere ancora un valore determinante per la sua redenzione, dopo che Cristo ha sparso il suo per la redenzione di tutti? C'è forse il sangue di qualcuno che possa paragonarsi al sangue di Cristo? Oppure qual è quell'uomo tanto potente da offrire per se stesso la propria propiziazione, più efficace di quella che Cristo ha offerto nel suo corpo, lui che solo ha riconciliato il mondo a Dio con il proprio sangue? Quale vittima più grande, quale sacrificio più valido, quale avvocato migliore di colui che si è fatto intercessione per i peccati di tutti e ha dato la sua vita in redenzione per noi?
Ciò che ha il valore determinante non è la riparazione o la redenzione propria dei singoli. Il prezzo pagato per tutti è il sangue di Cristo con il quale il Signore Gesù ci ha redenti. Egli solo ci ha riconciliati al Padre e ha sofferto fino all'estremo, addossandosi la nostra sofferenza. Per questo dice: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11, 28).

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La creazione dell'uomo

"Dal canto suo Mosè mi ha insegnato che nessuno, all’infuori di Dio, ha fatto il mondo; infatti in principio Dio fece il cielo e la terra (Gen 1,1). Egli mi ha del pari insegnato che Dio ha fatto l’uomo con la sua opera, e non senza motivo lasciò scritto: Dio fece l’uomo con il fango della terra e alitò sul suo viso un soffio di vita (Gen 2,7), perché fosse palese una certa attività di Dio per formare l’uomo, attraverso una specie di lavoro fisico. Egli mi ha pure insegnato che Dio fece anche la donna: infatti Dio inviò il sonno ad Adamo che si addormentò; prese una costola dal suo fianco e riempì il vuoto con la carne di lui. E il Signore Iddio plasmò in donna la costola che aveva tolta da Adamo (Gen 2,21-22).

Non invano, come ho detto, Mosè rappresenta Dio che lavora intorno ad Adamo ed Eva, come se avesse mani di carne. Dio ordinò che fosse fatto il mondo e fu fatto: con una sola parola la Scrittura dice che fu compiuta la creazione del mondo. Ma quando si arriva alla creazione dell’uomo, lo scrittore sacro ha cura di mostrarti, per così dire, le mani stesse di Dio al lavoro."

Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 2,85

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La predica del sole

"Con grande splendore il sole procede nel giorno, inonda la terra di luce e la riscalda. Guardati, uomo, dal fissare lo sguardo nella sua grandezza, perché l’immenso splendore della sua luce non abbacini l’occhio del tuo spirito, come a colui che ha il sole allo zenit e vi fissa lo sguardo: offeso dalla sua luce, subito perde la vista. Se non rivolge altrove il viso e l’occhio, crede di non poter più affatto vedere e di essersi giocato la vista; ma se, invece, distoglie lo sguardo, può ancora godere della sua potenza visiva. Guardati dunque che il suo raggio sorgente non confonda anche il tuo sguardo! ...Non fidarti ciecamente del suo magnifico splendore!

Il sole è l’occhio del mondo, la gioia del giorno, la bellezza del cielo, la leggiadria della natura, il gioiello della creazione. Pensa sempre, quando lo guardi, al suo Fattore! Loda sempre, quando lo ammiri, il suo autore. Se già questo sole che ha essere e sorte comune con tutte le creature, splende tanto benefico, come deve essere buono il «sole della giustizia»! Se questo sole è così veloce, che nel suo impetuoso corso tra giorno e notte, tutto illumina, come deve essere grande quello che è sempre ovunque, e tutto riempie con la sua maestà! Se è meraviglioso questo che sorse al suo comando, come è meraviglioso al di fuori di ogni misura colui che comanda al sole di arrestarsi, ed esso non avanza più (Gb 9,7), come si legge. Se è grande questo che, ogni giorno nel corso delle ore, se ne viene e se ne va su ogni regione, come deve essere quello che anche quando si umiliò, perché noi potessimo vederlo visibilmente, era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv 1,9). Se è incomparabilmente eccellente questo, che pur spesso impallidisce quando la terra si interpone, come deve essere grande la maestà di colui che dice: Ancora una volta farò scuotere la terra! (Ag 2,6). La terra nasconde questo sole, mentre non potrebbe reggere quando l’altro sole la scuote, se non fosse sostenuta dalla sua volontà. E se è un danno per il cieco non vedere la dolce luce di questo sole, quale danno sarà per il peccatore, privato delle opere della «luce vera», patire le tenebre di una notte eterna!...

Con la voce dei suoi doni, così sembra che gridi la natura: buono è il sole, ma è solo mio servo, non mio padrone. È buono, perché è il promotore, ma non il creatore della mia fecondità. È buono perché nutre, ma non causa i miei frutti. A volte addirittura esso brucia i miei prodotti; spesso addirittura mi è dannoso, e mi lascia a mani vuote. Non per ciò io sono ingrata a questo mio collaboratore: mi è stato dato a vantaggio e utilità, con me è sottoposto alla fatica, con me è soggetto alla caducità, con me è sottomesso alla schiavitù della corruzione; con me sospira, con me si duole aspettando che venga l’adozione in figli e la redenzione del genere umano, che renda possibile anche a noi la liberazione dalla schiavitù. Al mio fianco esso loda il Creatore, al mio fianco inneggia al Signore Dio nostro. E quando più ricchi sono i suoi benefici, io ne partecipo insieme con lui. Se il sole è benedizione, è benedizione pure la terra, sono benedizione anche i miei alberi da frutto, benedizione le bestie, benedizione gli uccelli. Il navigante sul mare si lagna del sole, e aspira a me. Il pastore sul monte si protegge da lui sotto le mie fronde, si affretta ai miei alberi, le cui ombre lo proteggono nella calura; alle mie sorgenti accorre assetato e stanco."

Ambrogio, Esamerone, 4,1.2.4

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R. Johanny, L'Eucharistie centre de l'histoire de salut, pp. 14-20.
Sant'Ambrogio e la Parola di Dio
Tutta l'opera di Ambrogio appare come un vasto commento della Scrittura. Questo è vero non solo per le opere propriamente esegetiche, ma anche per quelle morali e dogmatiche, i discorsi e le lettere. Tut­to è ricolmo di Parola di Dio, tutto riposa su di essa. Questa centralità della Scrittura nell'insegnamento di Ambrogio non ci deve stupire; la Scrittura è il libro per eccellenza che trasmettela Parola capace di far vi­vere e di guidare lungo le vie infallibili dello Spirito. La Parola deve regnare sulla vita dell'uomo. Il discepolo del Signore deve meditarla, ruminarla, assimilarla, far­la propria e vivere di essa.
Ambrogio insiste con forza sulla necessità di dimo­rare nella Parola. Occorre perseverare in essa; a imitazione di Davide, dobbiamo provare desiderio di saziar­ci di essa. La Parola ci guida ad aderire a Cristo, ci sta­bilisce in lui strappandoci all'instabilità dell'esistenza. «La Parola di Dio respinge ogni noia, non offre varchi al sonno dell'anima, all'assopimento dello spirito. Il sonno infatti si insinua laddove c'è tristezza e preoccu­pazione per le cose di questo mondo, ma l'uomo che aderisce a Dio fuggendo le preoccupazioni ottiene il godimento della conoscenza eterna, dove svanisce il ti­more legato alla mutevolezza delle cose di questo mon­do» (Exp. ps., 118,7,7).
Così ogni nostra parola deve rinviare alla Parola di Dio, dalla quale trae la propria forza e alla quale ci fa comunicare. La Parola deve entrare in noi, o piutto­sto dobbiamo entrare in essa per divenire, in certo sen­so, noi stessi Parola. Ambrogio ricorre a esempi in gra­do di far comprendere al suo uditorio la forza, la ten­sione, il tormento della Parola. Come il profeta Davide ci sentiamo consumare da un vivo desiderio e da una veemente passione per la Parola che ci attira con più forza quanto più le siamo vicini. Consumarsi per la Pa­rola significa consacrarsi interamente ad essa senza la­sciarci distrarre dalla vanità delle cose passeggere e in­gannevoli.
«Quali sono gli occhi che si consumano nella Parola del Signore se non gli occhi dell'uomo interiore e lo sguardo dell'anima teso alla Parola di Dio, e nell'esa­sperata tensione dell'attesa si consumano aspettando la salvezza di Dio, disposti a consumare se stessi per assimilare la Parola» (Exp. ps.,118,16,17). Dalla «Parola» Ambrogio passa alla «salvezza». La Parola è salvezza, la Parola che noi meditiamo ci fa cogliere le ricchezze della Parola che da salvezza e fa vivere. (...).
Ignorare la Parola significa condannarsi al mutismo, alla lebbra dell'anima che divora e annienta. «Se dun­que rimedio per la lebbra è la Parola, il disprezzo della Parola è certamente la lebbra dell'anima»(Exp.ev.sec. Luc., 5,5). Ignorare la Parola è fare dei nostri corpi dei sepolcri, condannarci a morire di fame. A questa condanna sfuggiremo soltanto se prenderemo risoluta­mente su di noi il giogo della Parola. Allora l'anima, fecondata dal seme della Parola, porterà frutti abbon­danti e cammineremo sulla via del Signore.

* * *

Nell'orazione sant'Ambrogio sintetizza
diversi aspetti di una personalità particolarmente ricca
C.M. MARTINI

Ambrogio fu maestro di dogmatica e di morale, oratore di grande eloquenza e umile catechista, esegeta, uomo pubblico e tenerissirno fratello, pastore forte e amabile, difensore strenuo della chiesa e costruttore di chiese, cultore dei martiri, geniale innovatore dei riti e della liturgia. Egli esercitò sui suoi fedeli la più benefica e straordinaria influenza per mezzo della predica­zione che si distingueva per lo stile più catechistico che specu­lativo.
Dai suoi scritti si ricava l'impressione di trovarci davanti ad un uomo innamorato di Cristo e della Sacra Scrittura, che contem­plando la chiesa la vede immensa come il mondo e come il cielo, con Gesù per sole. Ambrogio ha la profonda coscienza che tutti, qualunque sia la loro origine, razza e condizione, sono chiamati a diventare 'uno' nel Figlio di Dio da cui deriva ogni be­ne e ogni dono di pace e di giustizia [...].
[Nelle sue opere] possiamo scoprire l'atteggiamento mistico-contemplativo del nostro Padre e Pastore, ed intuire almeno qualche cosa di quanto attesta il biografo Paolino nella Vita Ambrosii:"Grande era la sua assiduita alla preghiera, di giorno e di notte» (38,1). E ancora, là dove descrive gli ultimi momenti della vita del vescovo: «Dalle ore cinque del pomeriggio fino all'ora in cui rese l'anima, pregò con le braccia aperte in forma di croce: noi vedevamo le sue labbra muoversi ma non udivamo nessun suono di voce» (47,1 ) [...].
[Conoscere meglio Ambrogio attraverso i suoi scritti aiuti tutti noi] a ritrovare il Cristo con amore appassionato, nelle lacrime e nella compunzione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fra­telli; a vivere la trepida certezza della misericordia perdonante di Dio, fonte di ogni riconciliazione, ad avere una ferma speranza nella potenza della Parola e nella grazia della chiesa (C.M. MARTINI,Prefazione, in ambrogio di milano, Preghiere, a cura di I. Biffi, Casale Monf. 1996').

In Cristo abbiamo tutto.
Siamo tutti del Signore e Cristo è tutto per noi:
se desideri risanare le tue ferite, egli è medico;
se sei angustiato dall'arsura della febbre, egli è fonte;
se ti trovi oppresso dalla colpa, egli è giustizia;
se hai bisogno di aiuto, egli è potenza;
se hai paura della morte, egli è vita;
se desideri il paradiso, egli è via;
se rifuggi le tenebre, egli è luce;
se sei in cerca di cibo, egli è nutrimento. (ambrogio di milano, Sulla verginità 99)

Bevi per prima cosa l'Antico Testamento, per bere poi anche il Nuovo Testamento [...]. Bevi tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. Bevi Cristo che è la vite; bevi Cristo che è la pietra che ha sprizzato l'acqua. Bevi Cristo che è la fon­tana di vita; bevi Cristo che è il fiume la cui corrente fe­conda la città di Dio; bevi Cristo che è la pace; bevi Cri­sto che è il ventre da cui sgorgano vene d'acqua viva; bevi Cristo per bere il suo discorso. Il suo discorso è l'Antico Testamento, il suo discorso è il Nuovo Testa­mento. La Scrittura divina si beve, la Scritturadivina si divora, quando il succo della parola eterna discende nel­le vene della mente e nelle energie dell'anima (S. AMBROGIO, Commento ai salmi I, 33).

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Quando la riflessione
diventa preghiera


di Inos Biffi

Chi legga le opere di sant'Ambrogio incontra il biblista sottile e fantasioso, il teologo occupato a illustrare i misteri della fede, il mistagogo paziente che spiega ai suoi fedeli i riti sacri, il maestro persuasivo ed esperto di vita evangelica, il dottore ardente della mistica cristiana; e, ancora, il polemista lucido e stringente, il retore dal discorso curato e persino artificioso, il poeta dal gusto raffinato, e dalla lirica con momenti felicissimi. Tutto questo incontra.
Ma, oltre a ciò, e forse soprattutto, il lettore di sant'Ambrogio si imbatte nell'uomo di preghiera: di una preghiera che sgorga spontanea, con un trapasso senza preavviso. Vuol dire che allora la riflessione è diventata orazione; che il pensiero si è acceso in invocazione e al concatenarsi del ragionamento è succeduto il colloquio, effuso talora lungamente, come a lasciare espandere i sentimenti che irresistibilmente urgono nel cuore.
Senza dubbio, il dettato di sant'Ambrogio appare spesso laborioso e complicato, di comprensione non immediata; le sue esegesi, talora macchinose e stravaganti, non mancano di lasciare perplessi e un po' divertiti, e non tutta la materia dei suoi libri si rivela compiutamente risolta in unità letteraria e redazionale.
Ma, quando al predicatore o allo scrittore tracima inattesa la preghiera - che non raramente si sublima negli accenti della poesia - ecco che lo sforzo per seguirlo viene a cessare, e ci si sente trasferiti con lui nella contemplazione distesa e ammirata o nell'implorazione intensa che sale dal cuore. Forse, più dell'operosità della pastorale, più della dignità e fermezza del governo, e più della nobiltà del comportamento - energico e paziente, tenace e misericordioso, abile e lungimirante - sono la poesia e la preghiera del vescovo di Milano a introdurre alla conoscenza più profonda del suo animo, alla sorgente della sua azione efficace e incisiva.
Nessun altro Padre della Chiesa erompe con frequenza, come Ambrogio, nelle invocazioni a Cristo.
Un fatto di stile o di costume letterario, a giudizio di Michele Pellegrino, non basterebbe spiegare questi testi oranti. Lo spiegano, invece, "un atteggiamento mistico nel senso che questa parola assume nella spiritualità cristiana", ossia l'"esperienza vitale di un rapporto personale con Cristo", che d'altronde affiora anche là dove espressamente non ricorre la forma della preghiera. "La fede in Cristo e la contemplazione del suo mistero": ecco dove si unificano e trovano soluzione la figura e l'opera di sant'Ambrogio.
Il "Signore Gesù" - come si compiace di chiamarlo - ha, infatti, rappresentato la grande attrattiva del vescovo di Milano. Egli ne ha vissuto con un'intimità unica l'amicizia, illuminandone il mistero col più ardente attaccamento: non, quindi, come l'argomento solo della massima importanza, ma ancora astratto; e non con la semplice preoccupazione dell'ortodossia oggettiva.
Gesù è il termine di un amore acceso, confidente, aperto, capace di dare senso e serenità alla vita; un amore specialmente sentito come il gesto della pietà divina. La povertà di Cristo, la sua umiltà, la sua passione, il suo essere prossimo: questo di Gesù Cristo sant'Ambrogio ha sentito con una intensità e un'affezione tutta propria.
"Il mio Gesù" - come scriverà un giorno in una lettera (Epistolae, 40) - è la ragione per la quale l'antico consolare, eletto vescovo, si era convertito e l'infaticabile pastore avrebbe lavorato e patito fino all'ultimo, fino a quando, pochi giorni prima di morire, vide - lo attesta Paolino nella Vita (47, 1) - "il Signore Gesù venire a lui e sorridergli".
"Grande era la sua assiduità alla preghiera di giorno e di notte" (38, 1), scrive lo stesso biografo, che, rievocando gli ultimi momenti della vita di Ambrogio, annota: "Dalle ore cinque del pomeriggio fino all'ora in cui rese l'anima, pregò con le braccia aperte in forma di croce: noi vedevamo le sue labbra muoversi, ma non udivamo nessun suono di voce" (47, 1).
Ambrogio stesso dirà come mai la preghiera a Gesù gli salisse spontanea dal cuore: "Mentre parlo, Gesù è con me, in questo punto, in questo momento preciso" (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 13). "Dai suoi scritti - scrive il cardinale Carlo Maria Martini - si ricava l'impressione di trovarci di fronte a un uomo innamorato di Cristo e della Sacra Scrittura, che contemplando la Chiesa la vede immensa come il mondo e come il cielo, con Gesù per sole".
Pregare con sant'Ambrogio - dice lo stesso cardinale - significa "ritrovare Cristo con amore appassionato, nelle lacrime e nella compunzione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fratelli"; significa "vivere la trepida certezza nella misericordia perdonante di Dio, fonte di ogni riconciliazione"; significa "avere una ferma speranza nella potenza della Parola" vivente nella Chiesa. Ed è come dire mettersi sulla strada della "santità popolare", per intercessione di colui che, secondo l'espressione di Giovanni Battista Montini, fu propriamente un "Santo popolare".

(L'Osservatore Romano 7-8 dicembre 2009)