lunedì 30 gennaio 2012

Il volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore

icona


Per secoli gli artisti hanno cercato di ricostruire il volto di Gesù di Nazaret. E se invece Cristo stesso avesse lasciato i tratti del proprio viso impressi in un’immagine? Per la tradizione del cristianesimo orientale è molto più di un’ipotesi suggestiva visto il culto e la devozione per le icone Acheropite. Dal greco, letteralmente, immagini di Gesù «non fatte da mano d’uomo», ma rinvenute e tramandatesi prodigiosamente. La teologa Emanuela Fogliadini ne ha fornito un’indagine certosina nel volume Il volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nell’Oriente cristiano (Jaca Book, pp. 248, euro 24) ripercorrendo le origini di un mistero che continua ad affascinare e a far discutere. 


Qual è la genesi di questi volti? 
La prima immagine Acheropita di cui si ha notizia tra il 560 e il 574 è quella passata alla storia come Camuliana, da Camulia, il nome di un villaggio della Cappadocia. L’icona venne fuori qui miracolosamente dal desiderio di conversione al Cristianesimo di una pagana chiamata Ipazia: cercava una prova e la ottenne trovando in una piscina il santo volto di Cristo dipinto su un tessuto di lino. Il prodigio fu duplice perché subito si produsse una copia dell’immagine sulla veste usata dalla donna per avvolgerla. È questa un’altra caratteristica degli acheropiti: nascevano e si moltiplicavano per miracolo, ed erano in grado di produrre guarigioni inspiegabili. Il fatto che le icone acheropite siano state ritrovate nel VI secolo non deve però ingannare: secondo la tradizione ortodossa esse sono contemporanee alla vita di Cristo. Frutto o di un intervento indiretto di Cristo appena risorto, come nel caso della Camuliana, o addirittura donate da Gesù stesso mentre era ancora in vita: è il caso del Mandylion… 

Un altro volto miracoloso?
 
Sì. Il Mandylion o immagine del Cristo di Edessa è la più celebre icona Acheropita che conosciamo, ne parla già Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica (325). Secondo la tradizione Abgar V Ukama (“il Nero”), re di Edessa in Mesopotamia (4.a.C-7, 13-50), era malato e sapendo che Gesù operava guarigioni gli inviò un messaggero per chiedergli di recarsi alla sua corte. Gesù non andò, ma gli mandò la sua immagine asciugandosi il volto su un telo. Quel panno, chiamato sindon o mandylion, fu consegnato al re, che lo venerò e fu guarito dalla sua malattia. 

Ma perché questi volti tornarono alla ribalta solo secoli dopo la morte di Gesù? 

Sono stati occultati in parte per paura delle persecuzioni pagane. E tornarono d'interesse durante il grande dibattito iconoclasta, sulla liceità o meno di raffigurare Dio nelle immagini. Ma non ebbero vita facile. Proprio per le lotte iconoclaste dell’VIII secolo tutti i santi volti furono distrutti. Le icone della Camuliana sparirono, tranne il volto di Edessa la cui presenza è ancora attestata a Costantinopoli durante la Quarta crociata nel 1204. 

Chi garantisce che i volti non siano stati inventati ad hoc dalla Chiesa? 
Gli occidentali accusano la Chiesa orientale di aver inventato i santi volti con poteri miracolosi e di averli fatti risalire a Gesù stesso in modo che nessuno avrebbe potuto controbattere sull’impossibilità di dipingere i volti di Cristo, dei santi e della madre di Dio. Però di questi volti parlano già due testi del III e IV secolo, la Dottrina di Addai e gli Atti di Taddeo

Di fatto però oggi non abbiamo originali, ma solo copie. 

Ma questo è un problema tutto occidentale. A noi solo interessa sapere se un dipinto è di Raffaello o della scuola di Raffaello. Per la tradizione ortodossa non è così significativo che manchi l’archetipo: importante è che le copie siano conformi. Perché in ogni icona conforme all’originale e benedetta della Chiesa c’è il vero volto di Cristo. Attenzione a non liquidare la questione come marginale. Se non abbiamo presente le icone acheropite non capiremmo secoli di iconografia successiva. Il fatto che Gesù venga dipinto sempre nello stesso modo dipende proprio dalla convinzione che Cristo stesso avrebbe lasciato quel volto. Per questo polemizzarono con gli occidentali, che soprattutto durante il Rinascimento ne cambiarono i connotati. 

Quali sono le caratteristiche fisiche dei volti che riproducono gli acheropiti? 
Innanzitutto sono tutte immagini del volto di Cristo senza collo, come prevede l’iconografia ortodossa. Raffigurano una persona di trent’anni circa, ancora in vita e in pieno possesso delle sue facoltà. Gli occhi sono neri e sempre identici, grandi e aperti; i capelli perfettamente divisi prima lisci e poi ricci; la barba biforcuta; il naso lungo e stretto che forma con le sopracciglia una figura che fa pensare a una palma; i lobi esterni delle orecchie. Ciascuno di questi particolari ha suggerito delle riflessioni: gli occhi aperti che fissano lo spettatore, tipico delle icone. I lobi delle orecchie per sottolineare l’attenzione di Cristo stesso verso chi lo contempla. I capelli terminano spesso alle estremità in due ciuffi da una parte e tre dell’altra, a simboleggiare la doppia natura di Cristo e della Trinità delle persone. 

E’ ragionevole pensare che il volto di Gesù fosse così? 

Sì. Anche le testimonianze arrivate in Occidente riportano queste caratteristiche. Come un testo apocrifo, attribuito a Lentulo, funzionario romano contemporaneo di Gesù, che parla di Cristo come un uomo i cui capelli hanno i colori delle noci di Sorrento. Al di là di questa testimonianza, sono verosimili i tratti di una persona mediorientale: capelli lunghi scuri come gli occhi e la carnagione. Certo siamo lontani dal ritratto “modello” che la filmografia ci ha tramandato. Ma se vogliamo anche la patristica all’inizio ha inteso un Cristo non certo bello come intendiamo noi, facendo riferimento al testo di Isaia di uomo rigettato e reietto, l’uomo dei dolori. E le icone non si preoccupano di esprimere canoni di bellezza troppo carnali. Non sei tu che guardi l’icona. Ma è Lui che guarda te, secondo i dettami dell’ortodossia. Non siamo dinanzi alla bellezza del Cristo di Michelangelo, con gli addominali scolpiti. Piuttosto le icone testimoniano sempre un Cristo vivo. Anche nel pieno della sofferenza umana devono comunque dar conto della divinità. Ti puoi anche chiamare Rublëv ed essere un bravissimo pittore, l’iconografo deve esprimere non solo l’umanità del Cristo, ma la sua divinità. 

Nel suo studio manca la Sindone.
 
La Sindone ha molte somiglianze somatiche con i volti acheropiti. Anzi alcuni studiosi ritengono che il telo con l’immagine del Cristo di Edessa sia proprio quello della Sindone di Torino. Ma la Sindone è comunque il telo di Cristo morto. Mentre le immagini acheropite rappresentano un Cristo ancora in vita con gli occhi aperti. Un uomo vivo e sereno, non sofferente come l’uomo della Sindone. 

Alla fine però anche l’Occidente è stato contagiato dalla passione per i santi volti.
 
L’attenzione con cui la Chiesa d’Oriente ha circondato gli Acheropiti ha finito per coinvolgere anche l’Occidente che dal XIII secolo in poi ha importato alcune presunte immagini di Cristo non prodotte da mano d’uomo di chiaro stampo bizantino. Come il Volto Santo «della Veronica», di cui parlano anche Dante e Petrarca, l’immagine che secondo la tradizione apocrifa si stampò sul panno di Veronica da Gerusalemme quando asciugò il volto di Cristo sul Calvario: il panno traslato a Roma fu poi distrutto dai protestanti nel XVI secolo. E poi i Volti Santi di Laon, di Genova e di Manoppello che rivendica di essere l’originale Acheropita perduto di Camuliana. E tuttavia in Occidente nessuno ha mai pensato che Cristo stesso avesse lasciato il suo volto su quelle immagini. Sono state trattate non come attestazione dell’incarnazione del Figlio di Dio ma come reliquie, generando una devozione del tutto priva di implicazioni autenticamente teologiche. 

Perché invece è importante considerare la teologia sottesa ai volti tramandati dalla Chiesa orientale? 

Se spetta alla fede credere che Gesù stesso sia l’artefice di quei volti, non è irrilevante la differenza di atteggiamento. Nel momento in cui guardo e prego l’icona, guardo e prego la Persona viva che vi è rappresentata. Per noi invece è solo un ricordo. Pensiamo solo alle nostre liturgie, facciamo tranquillamente a meno delle immagini. Tutt’al più sono elemento marginale, a corredo della Parola, così come un tempo si affrescavano le chiese con scene della vita di Gesù per spiegare le Scritture. Mentre nel Cristianesimo orientale non si celebra nulla senza Vangelo e icona, per loro l’immagine è complementare. Per questo durante le lotte iconoclaste i monaci erano pronti a farsi massacrare: distruggere l’icona significava distruggere anche la fede in Cristo vivo e vero. (A. Giuliano)
Di seguito riporto l'introduzione del libro.
 



* * *

 

INTRODUZIONE
La moda delle icone ha travolto l'Occidente a 
partire dal secolo scorso, inondandolo di 
immagini bizantine e di veri e propri tesori d'arte. 
Questa «passione» per le  icone si è trasformata 
con il passare degli anni in una diffusione di 
riproduzioni - che ben poco hanno a che fare con 
l'«aura» unica degli originali - e in un loro 
frequente utilizzo anche all'interno di chiese e 
celebrazioni cattoliche. Come spesso capita, la 
novità si è trasformata in consuetudine, tanto che 
attualmente l'Occidente annovera queste 
immagini orientali tra i propri abituali simboli 
religiosi. Nel riferirsi alle icone però il mondo 
latino si è raramente interrogato sul fatto che si 
trattasse di un patrimonio diverso dal proprio: 
ha valutato queste immagini dal punto di vista 
artistico, si è lasciato suggestionare dal mistero 
che emanano, si è accostato ad esse con un vago 
sentimento religioso ma, fondamentalmente, non 
ne ha colto il senso.
Le icone sono immagini che nascono nel contesto 
ecclesiale, sono destinate alla vita della comunità 
cristiana e specialmente hanno una natura 
squisitamente teologica. Non sono 
semplicemente opere d'arte: la loro dimensione 
estetica è irriducibile, ma la fondazione è 
teologica. Le icone sfuggono al meccanismo della 
moda, sono oltre i canoni mutevoli dell'arte: esse 
veicolano la rivelazione e attestano il dogma 
dell'incarnazione di Cristo. E eloquente che, per 
spiegare che cosa sono le icone, si sia costretti 
prima di tutto a chiarire cosa non sono. Le icone 
non sono solo reliquie, non sono solo dipinti a 
soggetto religioso, né solo opere d'arte. Queste 
precisazioni non risultano per nulla marginali: 
l'Occidente infatti, pur avendo contribuito a 
riscoprire la ricchezza di queste immagini, ne ha 
radicalmente frainteso il significato.
L'essenza dell'icona è dunque stata misconosciuta 
nel contesto dell'Occidente cristiano, dando vita a 
utilizzi assolutamente impropri delle icone 
conseguenti al fraintendimento del senso 
profondo che l'Ortodossia assegna loro 
nell'orizzonte della sua teologia e della sua 
liturgia. Questo equivoco non è però frutto solo di 
disattenzione o superficialità, ma affonda le sue 
radici nella storia, ben prima che si consumasse 
ufficialmente lo scisma del 1054. Fin dai primi 
secoli della storia del cristianesimo, infatti, 
l'Occidente ha attribuito alle immagini un ruolo 
di primo piano, connotandole tuttavia in senso 
illustrativo e didascalico: la celebre espressione 
delle immagini come  Biblia pauperum  ben 
sintetizza il compito che la rappresentazione sacra 
riveste in ambito latino. Le immagini sono 
funzionali alla Scrittura, sono le didascalie della 
Parola, che permettono di avvicinare al mistero 
anche coloro che nella Parola incontrano 
difficoltà. 
Profondamente diversa è invece la concezione 
delle immagini nell'Oriente cristiano: 
l'Ortodossia riconosce infatti alle icone un 
carattere teologico, rivelativo e liturgico. Le icone 
sono opere teologiche, che hanno un ruolo 
centrale nel trasmettere la rivelazione e nel 
mettere in contatto il fedele con il soggetto raffigurato. 
Sintetizzando il concetto con un noto 
                       slogan, possiamo dire che l'icona è una «teologia 
in immagini». Le icone inoltre sono 
complementari alla Scrittura nell'attestare 
l'incarnazione di Cristo e nel rivelare la storia 
della salvezza. Icona e Scrittura sono due modi 
diversi, ma di pari valore nella rivelazione di 
Dio e di Cristo. L'immagine, per l'Oriente, non è 
funzionale alla Scrittura, non è riducibile alla 
Parola, bensì complementare ad essa. 
L'equivalenza di ruoli non è arbitraria: l'icona 
infatti è una forma di arte sacra la cui essenza è 
teologica. L'icona ha il compito di attestare il 
dogma dell'incarnazione, è garante della realtà e 
della verità del farsi carne del Verbo di Dio.
In Occidente, in particolare dal Rinascimento in 
avanti, l'arte è pensata essenzialmente come una 
libera creazione dell'artista: questa concezione 
permise di dar vita a una varietà di capolavori 
artistici che hanno esercitato un forte fascino 
anche sull'Oriente. La libertà creativa tradisce 
però per l'Ortodossia il carattere «debole» 
dell'arte occidentale. Dal punto di vista 
orientale, l'arte sacra è chiamata a seguire il 
percorso delineato dalla  Tradizione: l'immagine 
sacra ha un carattere «forte» perché trasmette la 
rivelazione. L'elemento estetico dunque è 
funzionale a quello teologico, che è costitutivo 
dell'icona. Al contrario, all'arte sacra occidentale 
manca strutturalmente l'idea di essere rivelativa, 
il suo intento è esplicativo e pedagogico. L'icona 
invece è tramite tra colui che guarda e Colui che è 
rappresentato: è irruzione dell'eternità nel 
tempo.
La comprensione, e il relativo riconoscimento 
della natura teologica e dogmatica delle icone, 
trova il suo fondamento nell'icona di Cristo e, più 
specificamente, nella convinzione da parte della 
tradizione dell'Ortodossia che lo stesso Cristo, sia 
nel corso della sua vita terrena che del suo 
apparire postpasquale sulla terra, abbia voluto 
lasciare ad alcune persone delle particolarissime 
immagini del suo volto: non immagini frutto di 
creatività artistica o di emozione spirituale, bensì 
immagini che egli stesso ha in vario modo 
miracolosamente impresso. Queste immagini, nel 
contesto dell'Oriente cristiano considerate le 
icone per antonomasia, prendono il nome di 
Acheropiti di Cristo. Il termine stesso che le 
definisce lascia intendere la realtà della loro 
natura. Gli Acheropiti sono immagini «non fatte 
da mano d'uomo» (aceiropoihtos) e questo 
concretamente significa che ebbero origine per 
un intervento volontario, diretto o indiretto, di 
tristo stesso. Gli Acheropiti sono dunque icone 
nate sotto il segno di un prodigio destinato a 
diventare un elemento così intrinseco ad essi da 
renderli capaci ci replicarsi autonomamente in 
modo portentoso e di compiere essi stessi ogni 
cenere di miracoli. E tuttavia questo clamoroso 
aspetto miracolistico è solo la conseguenza, nel 
contesto dell'Oriente cristiano, di ciò che gli 
Acheropiti del Salvatore in ultimo sono: 
immagini uniche lasciate  da Cristo per attestare 
l’autenticità della sua incarnazione.
Cristo dunque in queste icone non donò 
semplicemente il proprio ritratto o la propria 
immagine, ma consegnò invece alle generazioni 
di cristiani di ogni epoca una testimonianza reale 
ed autentica del suo essersi fatto uomo. I tratti 
fisici del suo volto sono rilevanti prima di tutto in 
quanto «certificano» il mistero cardine del 
cristianesimo, legittimando conscguentemente 
l'esistenza e il culto delle immagini sacre. Per 
questo gli Acheropiti finirono col giocare un 
ruolo centrale nel dibattito sviluppatosi in 
Oriente sulle immagini: la loro esistenza minava 
infatti alla base le tesi iconoclaste, proprio perché 
le «protoicone» avevano avuto origine da un 
intervento libero e volontario di Cristo stesso, 
intervento che diventava così il fondamento 
stesso della legittimazione dell'icona.
Gli Acheropiti di Cristo, considerati all'interno 
del panorama teologico dell'Oriente cristiano, 
rappresentano dunque l'obiettivo ultimo di 
questa ricerca. Accostarsi alla questione delle 
immagini «non fatte da mano d'uomo», prendendo 
sul serio l'istanza avanzata in merito 
dall'Ortodossia, significa tuttavia andare ben 
oltre i domini della storia e dell'arte per trovarsi 
invece a fare i conti in profondità con la 
dimensione del teologico. Lungi dal!'affrontare 
questa tematica in chiave puramente storica, 
artistica o addirittura devozionale, come potrebbe 
indurre equivocamente a pensare un approccio 
all'immagine cristiana sviluppato in una 
prospettiva superficialmente «occidentale», il 
metodo di analisi utilizzato, senza escludere le 
dimensioni sopra citate, avrà primariamente e 
costitutivamente un carattere squisitamente 
teologico-dogmatico: è alla teologia infatti che 
rimanda l'icona di Cristo, così come le immagini 
Acheropite che la fondano, laddove essa viene 
intesa come autonoma «attestazione» dell'incarnazione, 
pur nella complementarità con la 
Parola, e come «tramite» capace addirittura di 
rendere presente e «divinizzante» il prototipo 
rappresentato.
Il lavoro che segue si articola in tre ampie parti.



La prima si propone di esaminare la dimensione 
teologica delle icone, con un evidente riferimento 
agli Acheropiti di Cristo, considerati nel tratto 
«fondativo» che essi finiscono col rivestire in 
ordine all'icona di Cristo e a tutte le altre icone. Lo 
studio parte analizzandoli tratto cristologico 
dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano, 
orizzonte irriducibile della comprensione degli 
stessi Acheropiti di Cristo. La loro portata 
autenticamente teologica, per poter essere 
evidenziata al di là di ogni equivoco, richiede di 
vederli ricondotti alla dimensione propria che 
caratterizza l'ermeneutica dell'immagine 
cristiana nell'Ortodossia. D'altro canto sono gli 
stessi Acheropiti di Cristo a legittimare sul piano 
teologico-dogmatico, e in una prospettiva che fa 
della teologia il fondamento della pur irriducibile 
dimensione estetica chela  caratterizza, 
l'ermeneutica dell'icona che nell'orizzonte 
dell'Oriente cristiano è venuta gradualmente 
imponendosi. Per questa ragione la prima parte 
della ricerca delineerà le tappe del dibattito sulla 
legittimità delle icone, mettendo in evidenza i 
pronunciamenti conciliari che hanno esplicitato 
la natura teologica dell'icona, autorizzandone 
l'esistenza e il culto. Pertanto si evidenzierà 
come, proprio nell'alveo della teologia, vengono a 
collocarsi i principali snodi che connotano il 
carattere teologico-dogmatico delle icone, 
specialmente laddove ad essere precisata è la sua 
valenza attestativa dell'incarnazione del  Logos  e 
la singolarità del rapporto con il prototipo che 
essa rende efficacemente possibile. A questi due 
aspetti in particolare viene dedicata un'attenta 
analisi, poiché è in essi che si radica il senso 
autenticamente teologico del culto alle icone nel 
contesto dell'Oriente cristiano.
La ricerca si precisa poi concentrandosi sugli 
Acheropiti di Cristo. Di essi viene innanzitutto 
fornita una disamina preliminare che evidenzia 
come solo una comprensione teologica degli 
stessi abbia potuto trasformarli in immagini che 
godevano, in ambito bizantino, di una 
venerazione tanto rilevante da renderli 
protagonisti della stessa liturgia. Questo scavo 
intorno agli Acheropiti di Cristo è fatto 
precedere da un sintetico studio sui loro 
antecedenti pagani dal quale si evince come, pur 
in contesti religiosi diversi, l'immagine possa 
divenire oggetto di un'attenzione il cui orizzonte 
più proprio è quello del «manifestarsi» attraverso 
di esse di una presenza effettiva del divino. A 
emergere con forza è tuttavia il fatto che fu 
proprio l'ambiente cristiano dei primi secoli a 
creare il contesto teologico-dogmatico a partire 
dal quale, nei confronti di queste specifiche 
immagini, presero forma una venerazione e un 
culto che risulterebbero del tutto implausibili se a 
fondarli e legittimarli non fosse la teologia. E 
questa connotazione intrinsecamente teologica 
degli Acheropiti ad evidenziare l'importanza che, 
a questo livello, viene attribuita al volto di 
Cristo: un approfondimento quindi delle radici 
scritturistiche e della loro recezione da parte 
della teologia e dell'iconografia ortodosse 
chiude dunque questa parte, dettando la linea 
allo sviluppo successivo della ricerca stessa.
Con la seconda parte si entra nel vivo della 
trattazione sugli Acheropiti di Cristo nell'Oriente 
cristiano. La loro storia fu segnata da un inizio 
sconvolgente: il gesto di Cristo di dar forma ai 
propri ritratti in modo miracoloso. Il primo 
Acheropita, l'icona di Camuliana, e il più celebre 
Mandylion portano in sé i tratti fisici del volto del 
Salvatore che scelse liberamente e 
volontariamente di lasciare una prova singolare e 
straordinaria del suo costituirsi concreto come 
Logos  fatto carne. Certo, di entrambi questi 
Acheropiti non si da originale, andato distrutto o 
forse smarrito. E tuttavia questa «assenza», lungi 
dal vanificare il senso della ricerca, ne diventa il 
fondamento. La Tradizione dell'Oriente cristiano 
infatti, proprio laddove l'Occidente guarda con 
sufficienza agli Acheropiti impegnandosi 
addirittura in rigorosi studi volti a liquidarli come 
mere leggende e invenzioni, ne afferma 
apoditticamente l'esistenza. Né potrebbe essere 
diversamente, visto che essi si configurano come 
l'attestazione squisitamente teologica della 
visibilità irrinunciabile del Dio con noi. È per 
questo che la Tradizione ortodossa non ha dubbi a 
scorgere nelle numerose copie che di questi 
Acheropiti di Cristo i secoli ci hanno tramandato, 
a dispetto della «sparizione» dei loro originali, i 
tratti stessi del Volto effettivo ed autentico del 
Salvatore.
Tra intricate leggende e complesse cronache, viene 
delineandosi il ruolo chiave che queste immagini di 
Cristo rivestirono nella dogmatica, nella teologia, 
nella liturgia, nel culto e nella devozione 
dell'Oriente cristiano. L'ampio spazio conferito ai 
documenti relativi alla Camuliana e al Mandylion 
è voluto: alcuni di essi, raccolti da E. von 
Dobschütz, che li ha lasciati tuttavia in lingua 
originale, trovano in questa ricerca una traduzione 
in lingua italiana che,  pur lasciando il testo originale in nota,
li rende più fruibili; altri documenti, 
in vari studi citati o più semplicisticamente 
«ventilati», paradossalmente tuttavia senza
indicarne gli estremi, sono stati rinvenuti, 
finalmente citati e infine tradotti del tutto o in 
parte.
La terza e ultima parte riporta il lettore nel mondo 
occidentale. Il fascino per le icone non è un 
fenomeno solo recente: la Chiesa latina ha 
accolto all'interno della propria storia alcuni 
presunti Acheropiti di Cristo. L'approccio è stato 
molto entusiasta, ma in generale riduttivo: queste 
immagini sono state infatti ridotte a «Volti 
Santi», ossia a preziose reliquie risalenti a Cristo 
stesso.
Questo accadde al più celebre Acheropita 
occidentale, l'icona di Cristo detta «della 
Veronica»: questa icona fu centrale, per un certo 
arco di anni, per il culto e la devozione di milioni 
di fedeli che si recavano a Roma per 
contemplarla. E tuttavia molte risultano le 
differenze dell'Occidente nel rapportarsi, in 
generale, agli Acheropiti di Cristo. In primo 
luogo essi non vennero mai considerati 
«attestazioni» dell'incarnazione del Verbo di Dio, 
bensì semplicemente reliquie, indiscutibilmente 
uniche e straordinarie, ma pur sempre reliquie; la
devozione latina, inoltre, posticipò alla passione di 
Cristo il momento della nascita degli Acheropiti, 
evidenziando così la propria attenzione per 
l'umanità di Cristo, laddove l'Oriente preferiva 
sottolineare in essi l'emergere dell'incarnirsi del 
Logos  divino. Infine alcuni papi, in particolare 
nel periodo che va da Innocenzo III (1198-1216) a 
Giovanni XXII (1316-1334), elessero l'icona di 
Cristo «della Veronica» a reliquia per eccellenza 
della cristianità, associando ad essa delle 
indulgenze e attirando a Roma per contemplarla 
fiumi di pellegrini provenienti da tutta Europa. 
Nonostante questo divergere ermeneutico, 
rimane comunque indubitabile, oltre che 
interessante, l'attenzione dell'Occidente per i 
Santi Volti orientali, testimoniata anche dalla 
diffusione di celebri icone bizantine che tuttora 
sono oggetto di venerazione e di pellegrinaggio da 
parte di molti fedeli cattolici.
Sia laddove essa si occupa in specifico 
dell'approccio sviluppato dalla Tradizione 
orientale nei confronti degli Acheropiti di Cristo e 
delle icone da essi derivate, sia invece laddove 
essa rileva l'attenzione dell'Occidente per i 
«Volti Santi», questa ricerca tenta di non perdere 
mai di vista il discrimine che separa a questo 
riguardo i due contesti cristiani in questione: la 
considerazione squisitamente teologica di essi da 
parte dell'Oriente e la marginalizzazione 
devozionale da essi subita in Occidente. Una 
prospettiva quest'ultima che ha avuto in 
Occidente il suo esponente di punta in E. von 
Dobschütz, il cui monumentale lavoro su questo 
tema inaugura un filone di ricerche che, pur 
impegnate ad esplorare con attenzione e rigore il 
mondo degli Acheropiti, trascurano tuttavia 
quella dimensione teologica che, nel contesto 
dell'Oriente cristiano, rappresenta la ragione 
stessa del loro essere pensati come parte della 
Tradizione ecclesiale e degni di entrare a pieno 
titolo nella liturgia. E proprio questa 
«disattenzione» al teologico da parte 
dell'Occidente, folgorato dallo splendore delle 
icone senza tuttavia riuscire ad andare oltre la 
loro superficie, che questa ricerca tenta modestamente
 di colmare. E questo tentativo non 
potrà che passare attraverso una riaffermazione 
della teologia come elemento decisivo per 
comprendere queste «immagini di Cristo» e per 
ricollocarle nella luce di quell'Oriente cristiano 
che, al di là del loro costituirsi di questi «volti di 
Cristo» come reali o leggendari, li ha comunque 
venerati come «attestazioni» dell'incarnazione di 
Cristo e come «tramite» effettivo di un rapporto 
con Lui nell’hic et nunc  della storia.