martedì 17 gennaio 2012

La speranza di Dostoevskij



Gesù guarisce il paralitico




La speranza di Dostoevskij

                                                                di Tat'jana Kasatkina



Per gentile concessione dell'editore Itaca, anticipo alcune pagine della preziosa raccolta di saggi Dal paradiso all'inferno. I confini dell'umano in Dostoevskij di Tat'jana Kasatkina, a cura di Elena Mazzola.                                               

Gesù è entrato nella nostra vita, ma noi non facciamo neanche un passo verso di Lui. Per questo ci muoviamo sempre nelle regioni della speranza.
La vita dell’uomo nella sua essenza ci mostra che egli non è autonomo, non fa tutto da sé: l’uomo è co-autore, collaboratore, cooperatore, e quindi è sempre quello che deve fare il secondo passo, perché il primo passo in realtà è stato già fatto nel momento della creazione. La caratteristica dell’uomo come creatura è quella di avere inscritta in sé l’immagine di Dio, un’immagine inestirpabile: si può trattarla come si vuole, si può dimenticarla, si può non prenderla sul serio e si può anche ferirla, offenderla; l’immagine rimane, sempre. 
L’idea fondamentale di Dostoevskij è che nell’uomo l’immagine di Dio è assolutamente indistruttibile, e questo avviene in qualsiasi uomo incontriamo, per quanto tremendo possa essere, per quanto terribile e disumano possa sembrarci. Nel profondo dell’uomo, nonostante tutto e sempre, l’immagine di Dio permane e risplende.
Egli l’ha compreso in circostanze molto gravi, nei quattro anni passati ai lavori forzati. Ciò che lo ripugnava di più nella vita di prigionia non era il fatto di essere condannato, di essere obbligato a svolgere un lavoro durissimo, di avere le catene ai piedi, ma accorgersi che attorno a lui c’era sempre gente e che mai, neanche per un istante, avrebbe potuto rimanere da solo. Era circondato da uomini ferini, ridotti allo stato di bestie. Erano persone nelle quali sembrava che tutto l’umano si fosse spento. Non solo il divino, anche l’umano.
Una scena particolarmente terribile si era verificata in occasione della Pasqua, una Pasqua che i forzati festeggiavano a modo loro: tutti rinchiusi in uno stanzone, si ubriacavano, si azzuffavano, bestemmiavano, e facevano tutto quello che possiamo immaginarci pensando a un modo di divertirsi disgustoso. In quel campo i detenuti politici erano pochi; tra loro c’erano tre polacchi, persone che non erano nate e cresciute in Russia e che non avevano alcun legame con quel popolo che dava così brutta prova di sé.
Alla ricerca di un momento di solitudine, Dostoevskij incrocia uno di questi polacchi che gli dice: «Come odio questi delinquenti!». A quelle parole Dostoevskij, che provava per loro esattamente gli stessi sentimenti, si è come fermato, si è soffermato a guardare dentro di sé, a riflettere, a ricordare. Questo episodio è avvenuto quando Dostoevskij aveva ventinove anni, e lì gli è tornato in mente un fatto che si era verificato quando aveva solo nove anni: era un ragazzino e viveva nella proprietà del padre, era estate e lui si era allontanato da casa addentrandosi in un boschetto per prendere dei ramoscelli; all’improvviso aveva sentito una voce, o forse gli era soltanto parso di sentirla, e si era spaventato terribilmente, si era messo a correre a più non posso e correndo aveva incrociato un contadino di suo padre, che si chiamava Marej. Arrivato vicino a lui, il ragazzo si era fermato e aveva detto: «Arriva il lupo!». Erano soli, intorno non c’era nessuno. Allora il contadino Marej aveva iniziato a tranquillizzarlo, a consolarlo, gli aveva sorriso con dolcezza, e con le sue grossa dita gli aveva sfiorato le guance dicendogli: «Ma no, stai tranquillo, non c’è nessuno». 
Questo è il ricordo che torna in mente a Dostoevskij venti anni dopo. E in quel momento egli si rende conto che il contadino non aveva assolutamente alcun obbligo verso di lui, un ragazzino spaventato, e che a parte Dio nessuno li poteva vedere, nessun occhio umano stava osservando la scena. Certo, chiunque avrebbe tranquillizzato un bambino, ma lui aveva dimostrato una tenerezza e una carità così grandi verso il figlio del suo padrone, l’aveva saputo confortare con tale dolcezza, che Dostoevskij, venti anni dopo, se lo ricordava ancora come una delle cose più belle della sua vita e a ventinove anni si era sorpreso a pensare: «Ecco, io adesso ho intorno ubriaconi, gente corrotta, eppure ciascuno di loro potrebbe essere quel contadino Marej, perché, in altre circostanze, quello stesso Marej avrebbe potuto finire anche lui qui nel reclusorio, e quindi in ciascuno di questi uomini che ho intorno adesso potrebbe esserci, in fondo, quel contadino che mi ha mostrato tanta carità, dolcezza e affetto». E riflettendo era giunto a constatare: «Certo, per me è molto più facile che per questo polacco, perché lui non ha ricordi come i miei».
È in questa occasione che Dostoevskij ha definitivamente imparato a vedere nell’uomo, nonostante tutto il fango e il male che si può essere incrostato su di lui, l’immagine di Dio. Allora ha capito che questo è quello che noi dobbiamo e possiamo sperare nell’uomo. Perché in qualsiasi momento, anche nell’ultimo istante, qualsiasi uomo può far tornare alla luce quella profonda tenerezza, quella delicatezza umana che è stata posta in lui da Dio stesso. 
Abbiamo dunque detto che la speranza indica qualcosa che non c’è, ma che d’altra parte c’è sempre, immancabilmente. E qui abbiamo visto un esempio relativo alla memoria, un ricordo: anche il ricordo è un qualcosa che c’è di qualcosa che non c’è; è un tipo di speranza che si sviluppa in un’altra direzione, verso il passato, eppure funziona esattamente come la speranza. L’immagine che un tempo era apparsa chiaramente al bambino lo aiuta a vedere nel momento attuale, in persone che non rivelavano niente di simile, quella stessa immagine umana splendente che ha sempre la possibilità di riemergere e mostrarsi. Occorre capire che se Dio spera sempre nell’uomo, anche l’uomo deve sperare nell’uomo, e questo è, di fatto, ciò che unisce gli uomini. 
Dostoevskij ha sempre costruito le proprie opere ponendo alle fondamenta un’immagine che, celata in profondità, dal profondo traluce, emana luce: questa immagine può essere quella stessa di Cristo, può essere rappresentata da un fatto che ha un significato evangelico, o ancora può essere l’immagine della Vergine; in ogni caso si tratta di un’immagine, alla base c’è sempre un’immagine. Questa caratteristica è stata notata da molti studiosi di Dostoevskij, eppure non è mai stata considerata come uno dei principi generativi di tutta la sua opera. Invece si tratta esattamente di questo, perché non è soltanto il principio secondo cui lo scrittore componeva le sue opere, ma è anche quello con cui l’uomo Dostoevskij guardava il mondo. 
Prendiamo ad esempio quanto scrive su un fatto di cronaca. È la storia di una giovane donna che aveva buttato la figliastra dalla finestra. La ragazza (aveva appena vent’anni ed era incinta) era subito andata a costituirsi e l’avevano giudicata colpevole. Dostoevskij, che era convinto che il suo gesto fosse stato causato da una reazione nervosa, isterica, legata alle sue condizioni fisiche, per cui era stata presa da un impulso incontrollabile, espone il suo punto di vista nel Diario di uno scrittore e riesce a convincere della sua opinione alcuni lettori che poi si impegneranno personalmente nel tentativo di mitigare la sentenza di condanna. Uno di questi, in particolare, gli aveva scritto enumerando tutte le azioni intraprese per difendere e aiutare la ragazza, e Dostoevskij avvia con lui una corrispondenza assolutamente – questo è importante sottolinearlo – professionale, strettamente inerente al caso in questione, ma poi termina la lettera in modo del tutto sorprendente. Senza interrompere il filo del discorso, senza nemmeno andare a capo, scrive: «A Gerusalemme c’era una piscina, Betzaetà, e un malato si era lamentato con Cristo perché non c’era nessuno che potesse immergerlo nell’acqua. A giudicare da questa lettera, per il nostro malato questa persona vuole essere lei: non lasci passare il momento in cui l’acqua si agiterà». 
Da un fatto di cronaca molto concreto Dostoevskij passa direttamente, senza interruzione, a un episodio evangelico, un testo che è inscritto nella storia eterna dell’umanità. Nel profondo di un evento dell’attualità egli vede riemergere la dinamica universale della storia evangelica; ma non si tratta di una storia che, semplicemente, si ripete, è una storia che si rinnova, prende forme nuove per ogni singolo uomo, ogni volta in maniera diversa. Cristo osserva la scena: Egli guarda e aspetta di vedere se ci sarà un uomo pronto a collaborare con Lui o se dovrà invece, ancora una volta, intervenire personalmente, uomo e Dio in una stessa persona. 
La speranza di Dio, quindi, è costantemente riposta nell’uomo: Dio perennemente spera che l’uomo sia suo collaboratore. E questo è ciò che ci permette di sperare nelle persone che abbiamo accanto, perché chiunque può essere lo strumento di Dio.