mercoledì 18 gennaio 2012

Testimoni di preghiera


Di seguito il Vangelo di oggi, 18 gennaio, giovedi della seconda settimana del T.O., con un commento e qualche prezioso testo di approfondimento.



Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera
proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all'orizzonte divino 
e alla speranza che porta l’incontro con Dio. 
Nell’amicizia profonda con Gesù 
e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, 
attraverso la nostra preghiera fedele e costante, 
possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. 
Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, 
possiamo aiutare altri a percorrerla: 
anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.

Benedetto XVI, Udienza del 30 novembre 2011



Dal Vangelo secondo Marco 3,7-12.





Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui. Allora egli pregò i suoi discepoli che gli mettessero a disposizione una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti ne aveva guariti molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo. Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero. 





IL COMMENTO 





Vi è una fuga feconda. Un ritiro che genera figli e li salva. Così Gesù, sospinto dalle trame ordite contro di lui, si ritira presso il mare, e in quel fazzoletto di terra nascosto, è seguito da una moltitudine. Gesù non teme la morte, anzi, vi si avvicina di sua volontà. Il mare rappresenta sempre il pericolo, il mistero e la morte. E Gesù elegge a suo ritiro proprio la prossimità con il mare. Sul fronte del pericolo e del dolore Gesù sta come una sentinella a proteggere dai flutti di morte chiunque lo segua. Con lui i suoi intimi. Partecipi della stessa missione, servi di un'opera celeste. Insieme salgono su una barchetta (così l'originale greco) l'umiltà e la debolezza, la piccolezza sempre pronta a difendere la Chiesa e i suoi figli dalla massa, dal successo, dalla carne che idolatra e seduce. I discepoli hanno una missione specifica: mettere a disposizione, tenere sempre pronta la barca. Si svela qui un aspetto fondamentale della missione della Chiesa, ed in essa dei discepoli del Signore. Curare la barca, custodirne gli ormeggi, assicurarsi che sia sempre vicina al Signore, a sua completa disposizione. E' la fedeltà di cui Gesù parlerà alla fine della sua vita, nulla di moralistico o di volontaristico.





Per questo la barca si trova dove Gesù si è ritirato. Piccola, semplice, è lì pronta a issare a bordo il Signore perchè non sia schiacciato. La barca è il mezzo che impedisce l'anonimato delle masse, che garantisce l'incolumità del Signore e di ogni uomo; nella barca tutti sono unici, persone con una identità irripetibile, perchè ciascuno lo possa incontrare personalmente. Il mondo mira all'esatto contrario, allo stordimento, agli entusiasmi, all'anonimato delle masse da gestire e condurre senza problemi. Ideologie, musica, sport sguazzano nella massificazione, patria di ogni dittatura, non ultima quella del relativismo.





Gesù invece mostra la via di Dio, la via della Chiesa. E' la fuga, l'anacoresi secondo l'originale greco tradotto con ritirarsi (da ‘anachórein’ che in greco significa appartarsi, allontanarsi). Fuggire la carne che trama alle nostre spalle, per porsi seriamente di fronte alla vita e alla morte, nel combattimento decisivo, in comunione con tutta la Chiesa. "Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un'arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra" (Benedetto XVI). E' la storia della Chiesa: i monaci del deserto, gli anacoreti che sfuggivano il mondo per gettarsi nella lotta con il demonio; e poi i certosini, i benedettini, Padre Pio, il Curato d'Ars e molti altri. E tutti, nel profondo di quella solitudine anacoretica, divenivano segni di salvezza, e moltitudini li cercavano per essere sanati, nel corpo e nello spirito. Esattamente come Gesù.





E' questo il cammino preparato per la Chiesa, per le comunità, per ciascuno di noi. Anacoreti, sempre in fuga dal mondo, pur vivendoci sino in fondo. Come in una cella pur nel frastuono, come la Beata Elisabetta della Trinità, sempre accompagnata dai suoi Tre, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ovunque come nella cella di un monastero, il Cielo planato nelle ore che si spalmano nella storia, l'intimità con Cristo nell'abisso del cuore. Come dentro una nostalgia di Dio, la preghiera incessante, un atteggiamento interiore distaccato dalle cose del mondo. Nessuna persona, nessuna attività, nulla più come un assoluto; vivere sapendo che passa la scena di questo mondo. Accettare le persecuzioni di chi ci sta intorno, e fuggire con ali di colomba nel deserto dove il Signore ci attende per parlare al nostro cuore. “Il deserto è un distacco interiore da ogni creatura, nel quale l’anima né si ferma né si riposa in nulla” (San Giovanni della Croce, “Ascesa al Monte Carmelo”). E' il cuore della missione, di ciascuna missione, l'evangelizzazione come l'educazione. Più saremo soli con Dio, più verranno a noi le persone, i figli, i parenti, gli amici, i colleghi, i nemici. Soli con la preghiera incessante del cuore e quella della Chiesa, con la Scrittura ruminata e scrutata e celebrata, aggrappati ai sacramenti, stretti nella comunione dei fratelli, ben saldi nella barca, attenti che sia sempre pronta, lì, a un passo dal Signore.




APPROFONDIMENTI



SILVANO DEL MONTE ATHOS E LA SUA PREGHIERA PER GLI UOMINI. Divo Barsotti

Silvano nacque nel governatorato di Tambov nel 1866 e morì il 24 settembre 1938. Andò al Monte Athos nel 1892 e vi rimase fino alla morte. Non fu che un semplice monaco: dopo un breve periodo di vita solitaria rimase sempre al servizio della comunità nel più grande monastero dell'Athos dedicato a san Pantaleimone, il monastero dei russi. Lavorò al mulino, nel podere e soprattutto come economo nel magazzino dei viveri del monastero: la sua vita fu quindi la vita del monaco comune. La povertà dei fatti esteriori e la semplicità della vita interiore impedirono, finché visse, che la sua grandezza spirituale fosse riconosciuta pienamente anche dai monaci del suo stesso monastero. Il fatto più straordinario della sua vita è la sua maturazione spirituale. Umile contadino della Russia centrale, da giovane conobbe i traviamenti propri dell'ambiente e dell'età: sedusse una ragazza, accecato dall'ira colpì un suo compagno che lo beffava con un pugno così violento da provocarne la morte. Forte, violento, sensuale, sentì tuttavia nel suo cuore l'appello di Dio fin dalla giovinezza e non gli poté resistere. Dio fu più forte di lui e non gli lasciò requie finché a 26 anni, una settimanà dopo il suo ritorno dalla vita militare, non lasciò la famiglia e la patria per entrare al Monte Athos. Il suo cammino verso Dio fu segnato da tappe precise, da interventi soprannaturali. Fu prima la parola della Madre di Dio che lo distolse dalla vita impura e gli accese nel cuore un orrore invincibile per il peccato, un dolore incontenibile per l'offesa recata a Dio, sicché si sentì da quel momento come bruciare nel fuoco dell'inferno. Prima ancora di andare soldato, una notte si svegliò di soprassalto con l'impressione di avere ingoiato un serpente e nello stesso istante udì nell'intimo una voce: "Tu provi disgusto per avere in sogno inghiottito un serpente, così mi fa orrore di vedere quello che fai".
Da quel momento lottò contro il peccato e propose di farsi monaco per salvare la sua anima dall'inferno. Prima di ritornare dal servizio militare andò a Cronstadt per visitare il famoso padre Giovanni. Gli chiese di pregare per lui per ottenergli la perseveranza nella sua vocazione. Andato all'Athos, dopo un primo periodo di fervore, conobbe l'angoscia della solitudine, dell'impotenza.
Fino allora era stato protetto da un sentimento vivo di compunzione interiore: i suoi peccati gli erano sempre presenti ed egli si sentiva come avvolto dalle fiamme infernali. Ora non più. Dal suo intimo sorgevano continuamente, senza fine, pensieri ed immagini peccaminose.
S'iniziava per lui il combattimento spirituale. Non bastava il suo impegno, non era sufficiente la sua preghiera. Dio era assente. A nulla valeva il suo sforzo: Dio rimaneva in silenzio, indifferente a lui. E a Silvano sembrò di fallire: arrivò ai confini della disperazione, della bestemmia, forse della pazzia. Vedeva i demoni che ora lo blandivano, ora lo assalivano con furore. Li aveva intorno, davanti: gli impedivano la preghiera, gli toglievano la pace. Non dormiva più, mangiava pochissimo ed era gravato da un lavoro pesante al mulino.
Impossibile impetrare qualcosa da Dio! Gli sembrava di affondare nel buio.
Proprio in questo estremo tormento Dio lo soccorse. Gli apparve Gesù e Silvano non poté più dimenticare, finché visse, lo sguardo inconcepibilmente mite del Cristo. Allora «seppe» l'amore infinitamente misericordioso di Dio, svanì il dubbio e fu vinta per sempre la disperazione. Da allora la sua anima fu circondata di luce.
Una straordinaria delicatezza spirituale lo avvertiva di ogni sua imperfezione, lo faceva vigile e attento, lo teneva impegnato in una continua preghiera. Viveva in un desiderio umile, vivo, in un'aspirazione continua a Dio. Ma la prova non era finita. Quando pensò di confidare la sua anima ad uno dei padri del monastero, cercò quello che gli sembrava più avanti nelle vie dello spirito e gli aprì con candore l'anima sua.
Il padre spirituale si stupì che il giovane monaco fosse giunto già tanto avanti, più di quanto non fosse giunto lui dopo tanti anni di vita religiosa. La meraviglia di colui che doveva guidarlo nelle vie dello spirito, invece di far sentire semplicemente a Silvano che Dio lo voleva nella sua solitudine, scatenò di nuovo in lui la tempesta. Ecco: egli era dunque perfetto: pur essendo laico e assai giovane ancora, era così avanti nelle vie dello spirito da superare i più anziani monaci dell'Athos. Nel suo orgoglio egli non si difese contro le suggestioni del suo spirito, ebbe, o gli parve avere, delle visioni: si apriva il cielo sopra di lui, sentiva il canto degli angeli, contemplava i santi e si sentiva già come uno di loro. D'improvviso una luce lo avvolgeva nella notte ed egli non riusciva a combattere con perseveranza e vigore, si abbandonava a tutto questo susseguirsi di esperienze interiori che lo esaltavano per lasciarlo poi depresso. A volte la visione terminava in una tregenda bizzarra, in un ghigno satanico. Supplicava il Signore di assisterlo, ricacciava la tentazione, invocava Dio, lo implorava piangendo.
In quest'ultimo periodo del suo combattimento interiore l'anima sua non disperò mai, non dubitò mai dell'amore di Dio; egli non sapeva tuttavia in che modo liberarsi da tutte queste suggestioni importune che lo opprimevano e non gli davano requie. Se ne lamentò una notte col suo dolce Signore e finalmente ricevette la risposta di Dio che lo stabiliva per sempre nella pace, nella pace dell'umiltà e del silenzio interiore: "Tienti consapevolmente nell'inferno, gli disse il Signore, e non disperare".
La parola di Dio era comandamento, ma fu anche l'espressione che definiva per sempre la vita interiore del monaco, che Dio solo aveva guidato fino alla perfezione dell'umiltà e della pace.
Silvano ormai era giunto alla piena maturità spirituale: vi rimase umile, semplice, sereno fino alla morte. Nulla cambiò all'esterno. Era stimato e ben-voluto da tutti, ma, sebbene i monaci presentissero qualcosa della sua santità, egli non ebbe veri discepoli, rimase fino alla morte nascosto nel suo silenzio ed anche la sua morte fu silenziosa. Raccolto in Dio era divenuto, come dice il beato Tommaso da Celano di Francesco d'Assisi, una preghiera viva. La sua stessa grandezza spirituale lo isolava dagli altri, creava fra lui e gli altri monaci come una zona di protezione e di difesa. Eppure egli era diventato tutto pietà, così come era diventato tutto preghiera. Amava i suoi confratelli, li venerava come immagini del Cristo.
Soffriva per gli operai cui era preposto, umili lavoratori che avevano dovuto lasciar la famiglia per mettersi al servizio del monastero. Soffriva per tutti gli uomini e particolarmente per tutti coloro che erano nemici del Cristo e non conoscevano Dio. Nel suo cuore non vi era che un'infinita dolcezza, un'infinita pietà.
Passava le notti quasi totalmente in preghiera, pregava incessantemente piangendo il Signore nel sentimento vivo di una sua povertà spirituale, nel sentimento doloroso di una sua aridità, di una sua freddezza, ma soprattutto pregava per gli uomini.
Il loro dolore, il loro peccato gli erano sempre dinanzi, gli erano presenti nel cuore, ed egli ne era trafitto: gemeva dolcemente supplicando Dio per tutti. Discendendo nell'abisso dell'umiltà, nel fondo del proprio essere creato, egli era divenuto solidale con tutta la creazione, si era fatto uno con tutta la umanità. Non era più Silvano: egli era l'«uomo» che aveva perduto Dio e lo cercava con la pena, ma anche con l'ansia di tutta l'umanità smarrita, errante nel deserto del mondo, cacciata fuori dal paradiso di Dio, cieca, eppur bisognosa, e anelante alla pace. Forse la pagina più bella che Silvano ha scritto è precisamente quella dedicata al «lamento di Adamo». Un senso doloroso della lontananza di Dio, uno struggente desiderio di possederlo, un'ansia dolorosa d'intimità divina danno alle parole, pur tanto semplici e piane, un tono accorato, un movimento drammatico, una luce di bellezza anche poetica.

Adamo, padre dell'umanità, aveva conosciuto la beatitudine dell'amore di Dio nel paradiso, e perciò soffriva amaramente quando il peccato lo ebbe scacciato e gli ebbe fatto perdere l'amore e la pace di Dio. Si riempiva il deserto del suo lamento, e il pensiero tormentava la sua anima: ho offeso il mio Signore amato. Non tanto egli desiderava il paradiso e la sua bellezza, quanto si doleva di aver perso l'amore che attrae continuamente l'anima a Dio. Ogni anima che dopo aver conosciuto Dio nello Spirito Santo ha perso la grazia, sente come Adamo. È malata e triste per aver afflitto il Signore amato. Adamo piangeva amaramente. Non più lo rallegrava la terra, e per il deserto andava il suo grido: l'anima mia desidera il Signore e Lo cerco con lagrime. Come non cercherei il Signore? Era lieta in Lui la mia anima in pace, e in me non aveva parte il nemico. Ora invece ha acquistato potere su me lo spirito di malizia, è diventata incerta la mia anima, tribolata da lui. Perciò languisce l'anima per il Signore; fino alla morte Lo desidera. Il mio spirito tende a Dio, nulla in terra mi rallegra più, e nulla può consolare l'anima mia. Voglio vedere il Signore e in Lui essere sazio. Non Lo posso dimenticare e grido nella pienezza della mia pena: Dio, Dio mio, abbi pietà di me, abbi pietà della tua creatura caduta. Così si lamentava Adamo. Le lacrime gli correvano per la faccia, bagnavano la terra ai suoi piedi; tutto il deserto udiva il suo gemere, gli uccelli tacevano di pena. Ogni pace lasciava la terra. Quando vide Abele ucciso dal fratello Caino, non contenne più il suo dolore e piangendo gridò: Da me sorgeranno dei popoli e si moltiplicheranno, ma vivranno in inimicizia e si uccideranno. Era profondo come il mare il suo dolore: lo può capire Solo chi ha conosciuto il Signore e sa quanto Egli ci ama. Anche io ho perso la grazia e grido come Adamo: Sii misericordioso, Signore, per me. Donami Tu lo spirito dell'umiltà e dell'amore! Ti desidero e Ti cerco con lagrime. Ti sei rivelato a me nello Spirito Santo. In questa cognizione l'anima mia ti desidera. Adamo piange dicendo: Non mi è caro il deserto, non amo le alte montagne, non i prati, non le foreste né il canto degli uccelli. Porta lutto l'anima mia, ho offeso Dio. Se Dio mi richiamasse nel paradiso, io piangerei nell'afflizione; perché ho rattristato un Dio amato. Scacciato dal paradiso, Adamo soffriva, piangeva con lacrime di accoramento. Così ogni anima, avendo conosciuto Dio, languisce: dove sei Tu, Signore, dove sei Tu, mia luce? Tu hai nascosto il Tuo volto dinanzi a me. Cosa Ti è di ostacolo per abitare nella mia anima? Ecco: mi manca l'umiltà del Cristo, e non vi è nell'anima l'amore dei nemici. Adamo piangeva per il suo misfatto e l'afflizione gli riempiva il cuore. Anche le lacrime gli si esaurivano, il suo spirito ardeva per Dio, e più della bellezza del paradiso lo attraeva la forza dell'amore divino. Adamo, tu lo vedi, il mio spirito debole non può contenere la tua brama di Dio, e nemmeno può caricarsi del peso della tua penitenza. Tu vedi come io, tuo figlio, soffro in terra. È poco il fuoco dell'amore in me, è quasi spento. Adamo, cantaci il cantico del Signore, affinché l'anima nostra si innalzi e si lasci muovere a lodarlo e benedirlo, come in cielo lodano il Signore i Cherubini e i Serafini; come gli cantano il triplice canto sacro tutte le schiere degli angeli. Patriarca Adamo, cantaci il canto del Signore, affinché il mondo intero lo ascolti e tutti i figli tuoi sollevino il loro spirito a Dio, affinché tutti si ristorino nel canto celeste e dimentichino la pena terrestre. Parlaci della gloria di Dio che tu vedi, narraci della madre di Dio, e come Ella viene glorificata e benedetta nel cielo. Raccontaci della gioia dei santi nel Cielo, come stanno IImili dinanzi a Dio, raggianti nella grazia. Adamo, padre nostro, siamo nell’afflizione sulla terra, noi, tuoi figli, che tu dimentichi. Consola e rallegra le nostre anime afflitte. Ecco patisce tutta la terra intera... Non puoi nella pienezza dell’amore di Dio ricordarti di noi? Tu vedi, padre, la nostra pena in terra, di' una parola che ci consoli.

Lo Staretz vede in Adamo cacciato dal Paradiso la condizione di ogni uomo e in questo senso il lamento di Adamo è il lamento di ogni uomo che sospira per aver perduto Dio. Secondo lo Staretz nessuno potrebbe amare Dio se non lo conoscesse, ma ogni uomo porta come sepolto nel più profondo di sé il ricordo del paradiso perduto: è questo ricordo che dà all’uomo che ritorna in se stesso una così viva e dolorosa nostalgia di Dio.
La dottrina spirituale di Silvano è la dottrina del monachesimo orientale: egli l'ha appresa attraverso l'assidua lettura della Philocalia, ma anche, e soprattutto, attraverso la tradizione viva dell'Athos. Da secoli questa dottrina forma i monaci, non è insegnamento speculativo che si apprende dai libri degli antichi padri: i documenti stessi di questa spiritualità non hanno nulla di libresco, sono la testimonianza di una esperienza interiore profonda.
Quello che di nuovo, d'importante, anzi, di veramente grande noi scopriamo nella dottrina di Silvano è precisamente questo: forse egli è, non solo in questo nostro secolo, ma in tutta la storia del monachesimo orientale, uno dei più perfetti rappresentanti di una tradizione spirituale che in lui sembra riassumersi tutta. Altri insiste su qualche altro aspetto: lo vive e ne rende testimonianza in maniera particolarmente efficace: san Teodosio e san Sergio sono i santi della umiltà e della dolcezza, san Serafino è il santo della gioia pasquale. Il tema della luce, della trasfigurazione, dell'azione deificante dello Spirito sono fondamentali nella vita di quasi tutti i santi orientali ed in particolar modo dei russi, così come quello della continua preghiera.
Nella vita e nella dottrina di Silvano del monte Athos, forse più che nella vita e nella dottrina degli altri santi, è dato riconoscere una sintesi perfetta di questi temi. Non senza ragione la vita di Silvano, scritta dall'archimandrita Sofronio, si risolve in una trattazione e in una esposizione sistematica della dottrina spirituale dell'oriente cristiano. L'umiltà e la semplicità delle parole di Silvano non ci potrebbero di fatto ingannare: se escludono un procedimento dialettico, un linguaggio tecnicamente filosofico, non nascondono ad alcuno la reale ed impressionante profondità di una esperienza spirituale più unica che rara. P in questa profondità di esperienza religiosa che si è compiuta una sintesi mirabile, difficile ad analizzarsi proprio per la sua densità estrema. Meno teologo indubbiamente di tanti altri scrittori e mistici orientali, si comprende tuttavia facilmente come Silvano abbia potuto dire che, se anche si fossero perdute tutte le opere dei Padri sulla vita spirituale, vi sarebbero sempre state sul monte Athos delle anime capaci di scrivere di nuovo tutte quelle opere. Silvano forse alludeva a se stesso. Egli sentiva certo che tutte quelle opere erano la pura testimonianza della sua intima vita, non dicevano nulla di più di quanto egli viveva, di quanto la grazia di Dio gli aveva fatto realizzare.
Prima di tutto egli conosce la durezza del combattimento spirituale, egli deve sottrarsi all'impero delle passioni, deve dominarle, deve strapparsi al potere del nemico, deve vigilare costantemente per non essere preda di suggestioni sempre più sottili, sempre più insidiose; deve chiedere luce a Dio per capire i raggiri, gli inganni dell'amor proprio, per riconoscere l'azione del nemico e smascherarla. La fede e l'umiltà saranno le sue armi principali. Duro è il combattimento, continuo. L'anima, per essere salva, non deve mai sentirsi al sicuro. "I santi lottavano fortemente con i demoni, digiunavano e pregavano e vincevano il nemico con la loro umiltà".
E ancora Silvano scrive:

L'orgoglioso ha paura dei demoni o è diventato demoniaco egli stesso. Ma noi dobbiamo temere la vanità e l'orgoglio, non i demoni, altrimenti perdiamo la grazia.
Non dobbiamo trattenerci con gli spiriti maligni. affinché l'anima nostra non sia insudiciata. Chi rimane nella preghiera viene illuminato dal Signore.
La nostra battaglia è dura e rabbiosa, ma solo per gli orgogliosi e i superbi; è invece facile per gli umili, che amano il Signore; Egli dà loro un'arma potente: la grazia dello Spirito Santo. I nostri nemici temono tale arma, tale arma li brucia. Questa è la via più breve e più facile alla nostra salvezza: sii ubbidiente e casto, non giudicare, conserva il tuo spirito e il tuo cuore dai pensieri cattivi, pensa che tutti gli uomini sono buoni e che il Signore li ama.

Tante sono le armi: il digiuno, la vigilanza, la preghiera, ma l'arma più efficace di tutte è l'umiltà. Anzi l'umiltà è l'arma assolutamente efficace: "chi è umile ha già vinto l'avversario".
Sull'umiltà Silvano è inesauribile. Sembra difficile che si possano aggiungere testi alla ricchezza di una tradizione dottrinale che ha sempre insistito sull'umiltà come la virtù caratteristica del monaco e la più necessaria; ma Silvano ha conosciuto l'umiltà nello sguardo mite di Gesù, ne ha conosciuto le esigenze nelle parole profonde che un giorno memorabile gli furono rivolte dal Signore medesimo.

Quando ricevetti la grazia dello Spirito Santo, sapevo che Dio mi aveva perdonato i miei peccati. La sua grazia me lo testimoniava; e credevo di non aver bisogno di altro. Ma non bisogna pensare così. Benché i nostri peccati ci siano già perdonati, noi dovremmo ricordarli per tutta la nostra vita in compunzione e pentimento. Io, non facendo così, perdevo la compunzione e avevo da soffrire molto dai demoni. Non potevo capire cos'era avvenuto in me: la mia anima conosceva il Signore e il suo amore: perché mi venivano i cattivi pensieri? Ma il Signore ebbe pietà di me e mi mostrò la via dell'umiltà: Tienti consapevolmente nell'inferno e non disperare. Con questo viene vinto il nemico. Se io invece mi volto e lascio con la mia coscienza il fuoco dell'inferno, i pensieri cattivi riprendono vigore.

E Silvano chiese a Dio l'umiltà con lacrime incessanti; l'amò e finalmente la conobbe in una gioia pura, segreta.

O umiltà del Cristo, tu dai indescrivibile gioia all'anima! Ho sete di te, perché in te l'anima dimentica ogni cosa terrena e tende sempre più ardentemente a Dio. … Se il mondo capisse la potenza delle parole del Cristo: "Imparate da me mansuetudine e umiltà", deporrebbe ogni altra scienza per imparare solo questa celeste. … Gli uomini non conoscono la forza dell’umiltà del Cristo, e desiderano perciò le cose terrene; l’uomo non può accedere alla potenza di queste parole del Signore senza lo Spirito Santo. Chi l'ha conosciute non le lascia più, anche se gli fossero offerti tutti i tesori del mondo.

L’umiltà è la rivelazione stessa di Dio nel volto di Gesù: per Silvano, come per Francesco d’Assisi, solo l’umile può vedere Dio.

Non c'è nulla di più grande che imparare l'umiltà del Cristo. L'umile vive cieco e contento, tutto è buono al suo cuore. Solo gli umili vedono il Signore, nello Spirito Santo. L'umiltà è la luce nella quale noi vediamo Dio che è la luce: nella tua luce noi vediamo la luce. Cosa di più grande l'anima potrebbe cercare in terra? Cosa ci potrebbe essere di più grande e di più ammirabile: di un tratto l'anima conosce il suo Creatore e l'amore di Lui! Essa contempla il Signore, vede quanto è mite e umile, e non desidera altro se non di acquistare l'umiltà del Cristo. Finché sosta sulla terra, non può dimenticare questa umiltà inconcepibile.

Nulla più dell'umiltà di Gesù rivela la santità, la grandezza di Dio: l'essere Assoluto sembra aver bisogno, per rivelarsi, di questa purezza, di questo spogliamento supremo, che non nascondono Dio, non pongono un limite e una misura alla sua luce. Così Silvano sente che solo nell'umiltà egli non si oppone alla santità di Dio che vuol vivere in lui, vuol farsi presente nella sua vita, ma sente nello stesso tempo che l'umiltà cui aspira è irraggiungibile come Dio ed egli la cerca e la implora dal Signore.

O umiltà di Cristo, ti conoscevo, sì, ma non ti posso raggiungere. I tuoi frutti sono saporiti e dolci perché non sono di questo mondo! L'anima dell'umile è come un mare; se uno butta un sasso nel mare, la superficie dell'acqua si muove per un attimo, poi esso sprofonda nell'abisso. Così ogni pena è sommersa nel cuore dell'umile, perché in lui è la virtù di Dio.

La preghiera di Silvano diviene un canto:

Dove stai, anima umile? Chi abita in te? A chi paragonarti? … Tu bruci chiara come il sole, ma non ti consumi bruciando, riscaldi invece tutto con il tuo ardore. … A te è la terra dei mansueti, secondo le parole del Signore. Sei simile a un giardino di fiori, nel cui centro sta una bella casa, ove abita Dio. … Ti amano il cielo e la terra. … Ti amano i santi apostoli, i profeti, i santi e i beati. … Ti amano gli Angeli, i Cherubini e i Serafini. … Te, anima umile, ama la tutta pura Madre del Signore.
Ti ama e si rallegra di te il Signore. … Non agli orgogliosi si rivela il Signore. … Questi non possederà mai Dio, anche se possederà la scienza di tutta la terra. … Il cuore dell'orgoglioso non lascia in se posto alla benedizione dello Spirito Santo.

Discendendo nel fondo dell'umiltà, nell'abisso del suo nulla, anzi precipitando ancora di più nel sentimento vivo di una sua indegnità radicale, per rimanere consapevolmente nell'inferno, Silvano si era sentito non soltanto fatto solidale con gli uomini, ma identificato a tutta l'umanità, perché nella sua «identità» con ogni uomo egli era subitamente divenuto uno con Cristo. L'umiltà più profonda era stata così per Silvano la condizione e la misura della sua più intima unione con Dio e con gli uomini.
Caratteristica di Silvano è il senso di una sua unità con tutti gli uomini che lo fa insistere continuamente negli scritti sul comandamento dell'amore verso i nemici. L'amore dell'umile nella sua trasformazione in Cristo non tollera nessuna separazione, non conosce più che l'amore: un amore universale, un amore che esige il dono totale di sé. Se Silvano prega per gli uomini, la sua preghiera non sarà certo solo un atto, sia pure il più santo, della sua giornata, ma il suo impegno più grande sarà "dare il sangue del cuore". Chi ha raggiunto l'umiltà ottiene da Dio la sua grazia ed egli prega per i suoi nemici come per se stesso, prega per tutto il mondo con calde lacrime. Non si tratta soltanto di un amore verso i nemici personali: tale amore in Silvano è l'esigenza di un superamento di tutte le divisioni, di tutte le opposizioni che l'odio può creare tra gli uomini: per questo amore egli vuol sormontare ogni barriera, fondere ogni durezza, realizzare quella stessa unità per la quale Gesù aveva pregato alla vigilia della sua passione. Tanto grande è questo amore che nella sua preghiera lo Staretz si fa uno coi nemici stessi della Chiesa del Cristo, assume sopra di sé il loro peccato, implora per loro, come per se stesso, la misericordia di Dio. E questo tanto più è mirabile se pensiamo che la preghiera dell'umile monaco viene innalzata mentre i nemici del Cristo opprimono la sua Chiesa, uccidono i suoi sacerdoti e con odio accanito perseguono il fine di strappare Cristo da ogni anima, di fare della sua patria una terra deserta di Dio.

Ci sono degli uomini che augurano ai loro nemici ed ai nemici della Chiesa pene e tormenti nel fuoco eterno. Essi non conoscono l'amore di Dio, pensando così. Chi ha l'amore e l'umiltà del Cristo piange e prega per tutto il mondo. Tu forse dici: questi è un malfattore, deve perciò bruciare nella fiamma eterna. Ma io ti domando: Ammettiamo che il Signore ti dia un posto nel suo regno, se tu vedi nel fuoco eterno colui al quale hai augurato l'eterno tormento, non avrai compassione per lui, anche se egli fosse stato nemico della Chiesa? Hai forse un cuore di sasso? Ma nel Regno dei Cieli non c'è posto per dei sassi. Lì ci vuole l'umiltà e l'amore di Cristo, che ha compassione per tutti.

E Silvano terminava con la preghiera:

Signore, come tu hai pregato per i tuoi nemici, così insegna anche a noi per lo Spirito Santo ad amarli e a pregare con lacrime anche per loro. Ma è difficile per noi peccatori se non è con noi la tua grazia.

Tutti gli scritti di Silvano continuamente ripetono la stessa preghiera:

Misericordioso, da' la tua grazia a tutti i popoli della terra… Signore da' a tutti i popoli la virtù della tua grazia, affinché essi ti riconoscano nello Spirito Santo e ti lodino nella gioia, perché anche a me, pur essendo misero e impuro, tu hai concesso la gioia di desiderarti e la mia anima arde verso di te, in un amore inappagabile giorno e notte... Santifica. Signore, tutti i popoli per il tuo Spirito e la tua volontà sarà fatta in terra come in cielo.

L'esperienza religiosa di Silvano è soprattutto l'esperienza di un amore insaziabile, di un'ansietà, di un bisogno doloroso di universale salvezza. Lo Spirito Santo c'insegna ad amare tutti gli uomini, ad avere compassione per gli erranti, a pregare per la loro salvezza. Con una sublime semplicità egli scrive:

Il mio cuore patisce per gli uomini che non conoscono Dio. Chi abbandona il suo Creatore come supererà il giudizio universale? Dove potrebbe fuggire per nascondersi dalla faccia di Dio?

Come egli vive continuamente nella presenza di Dio, così ha presenti tutti gli uomini: si rivolge a loro, li supplica nel suo amore di aver pietà per se stessi.

Prego con insistenza Dio per voi affinché siate tutti salvati e vi rallegriate eternamente con gli angeli e i santi... Molti uomini non sanno quanto grande è la misericordia di Dio: essi non si pentono dei loro peccati e non vogliono far penitenza. E l'anima mia è triste e piange per essi, perché vede la loro condanna. … Se in un uomo abita la grazia dello Spirito Santo anche solo in misura minima, quest'uomo allora piange per tutti gli uomini è maggiormente ha pietà di coloro che non hanno conosciuto Dio e gli resistono.

L'azione di Dio in un'anima, la sua presenza hanno un segno infallibile in questo amore universale che non si dà mai per vinto e sembra voler vincere perfino Dio stesso. Silvano riporta un antico detto dei Padri: l'antica sapienza, l'antica santità dei solitari dei primi secoli si rinnovano nell'umile monaco che è nostro contemporaneo.

San Paissio pregava per un suo discepolo che aveva abbandonato il Cristo. Il Signore, volendo consolare il suo servo, gli apparve e gli disse: "Paissio, tu preghi per colui che mi ha rinnegato?". Ma il santo non smise di pregare per l'errante. "O Paissio, tu mi hai uguagliato nella carità", gli disse il Signore.
Io sono vecchio - dice Silvano - mi avvicino alla morte. Scrivo la verità per amore degli uomini per i quali il mio cuore soffre. Se aiutassi un sol uomo a trovare la salvezza ringrazierò Dio per questo. Ma la mia anima soffre per tutto il mondo; prego e piango per tutti gli uomini affinché facciano penitenza e riconoscano Dio.

L'amore verso i nemici non era in Silvano solo una libera disposizione del cuore, era l'espressione stessa indivisibile di una sua identità con tutti gli uomini: egli non poteva dividersi da alcuno, egli non poteva attestare che l'unità. Nella sua vita, in ogni suo atto, tutta l'umanità viveva il suo anelìto a Dio. La parola di Dio Amerai il prossimo tuo come te stesso, più che un comandamento etico, era divenuta per Silvano l'espressione di una unità quasi ontologica. Ma come poteva egli essere uno con tutti, se in lui non fosse vissuto il Cristo, colui cioè che, solo, dopo il peccato aveva ristabilito questa unità con la sua morte? Così Silvano viveva l'unità con tutti gli uomini, perché Gesù gli aveva dato il suo Spirito, perché egli viveva nello Spirito Santo. I suoi scritti lo attestano. Silvano aveva coscienza di vivere nello Spirito: di conoscere Dio nello Spirito, di amarlo nello Spirito, di operare in questo medesimo Spirito, sempre.

Io sono cattivo e, dinanzi al Signore, più brutto di un cane rognoso, per i miei peccati. Ma ho pregato Dio di perdonarmeli, ed egli non soltanto mi dette il perdono, ma anche lo Spirito Santo, e nello Spirito Santo io riconobbi Dio. ... Lo Spirito Santo è come una madre che ama suo figlio e sente con lui. Egli si fa conoscere nella preghiera umile, soffre con noi e perdona, sana e istruisce. … Lo Spirito Santo ci fece parenti del Signore. Se senti in te la pace divina e l'amore per tutti, la tua anima assomiglia già al Signore.

Nella semplicità di un linguaggio che non inganna, Silvano rende testimonianza di una esperienza mistica straordinaria. Le parole, nella loro povertà. hanno qualcosa di assoluto: dicono l'ineffabile.

Improvvisamente l'anima vede il Signore e lo riconosce! Chi può descrivere questa gioia e questa consolazione? Il Signore è riconosciuto nello Spirito Santo e lo Spirito Santo agisce in tutto l'uomo: nello spirito, nell'anima e nel corpo. Così viene riconosciuto Dio, tanto in cielo come sopra la terra. Nella sua infinita bontà il Signore mi dette questa grazia, a me peccatore. … L'anima per l'amore di Dio è come rapita; rimane nel silenzio e non vorrebbe parlare, guarda al mondo, assente e senza desiderio. Gli uomini non sanno che essa vede il Signore amato e ha lasciato dietro di sé e dimenticato il mondo, non trovandovi più alcuna dolcezza. Così colma d'amore divino è l'anima che ha gustato la dolcezza dello Spirito Santo. O Signore, dona questo amore a tutti noi, dallo al mondo intero. Spirito Santo, discendi nella nostra anima affinché lodiamo il Creatore in pieno consenso: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo!

Quanti testi non dovremmo rileggere! Nella loro purezza, nella loro umiltà hanno una bellezza che li allinea ai testi maggiori della mistica cristiana. Tutto divien semplice e piano per Silvano: egli cammina nella luce. Con una naturalezza che sconcerta noi che siamo così lontani dal vivere una tale unione con Dio, egli ti assicura della propria esperienza interiore come se fosse la cosa più semplice e comune.

Ecco, così come l'uomo vivo naturalmente sente se abbia freddo o caldo, così l'uomo che ha conosciuto lo Spirito Santo per la sua esperienza sa quando la grazia visita l'anima e quando lo spirito maligno la assale. … Gli uomini non sanno nulla di questo mistero, ma san Giovanni evangelista lo insegna chiaramente: noi saremo simili a Lui. Ciò non sarà soltanto dopo la morte, ma già ora, perché il Signore ha mandato lo Spirito Santo sopra la terra ed Egli è presente nella Chiesa.

Il fine della vita cristiana - diceva Serafino di Sarov - è l'acquisto dello Spirito Santo; ma Silvano, ormai, non viveva più per acquistarlo: viveva nel possesso pacifico e dolce di questo medesimo Spirito che lo penetrava tutto e trasformava ogni suo atto: il suo atto era preghiera, aspirazione fervida a Dio, abbandono umile a Lui, lode pura di amore. Tutta la sua vita era preghiera; egli cercava Dio perché lo possedeva, non cercava che Lui, non aspirava che a Lui.

È dolce la grazia dello Spirito Santo e infinita la bontà del Signore. Non lo possono descrivere le parole. L'anima tende verso di Lui, insaziabile, invasa e tutta piena dell'amore di Dio. Ha trovato in Lui la sua quiete ed ha completamente dimenticato il mondo. Non sempre il Misericordioso concede questo all'anima, spesso la lascia invece nell'amore verso il mondo. Allora l'anima piange per tutto il mondo e implora l'Onnipotente che effonda la sua grazia su ogni anima e la perdoni nella sua misericordia.

Il suo pianto era nostalgia del cielo ed era già intima dolcezza per esservi introdotto, per sentirsi come tutto inondato e sommerso dalla pace di Dio. Si liquefaceva nell'amore. Un'immensa pietà per tutti gli uomini, un desiderio insaziabile di Dio: non passava da un sentimento all'altro, da un atteggiamento all'altro: la pietà era desiderio e il desiderio era pietà. Tutto diveniva semplice, puro: tutto si riduceva all'unità di una vita che era un essere presente agli uomini e a Dio; ogni pensiero, ogni immaginazione, ogni ricordo pendevano il loro alimento e cadevano lentamente dal suo cuore. La sua vita discendeva, affondava nel silenzio di Dio. La sua morte dice fino a qual punto giungesse in questo suo puro discendere nel silenzio ineffabile. Umilmente, senza bruschi passaggi, egli se ne andò pian piano, rimanendo fisso nella preghiera, fedele sempre alla sua vocazione, nel silenzio, nella pace. Sparve senza che alcuno se ne accorgesse; la morte portava a compimento il suo passaggio da questo mondo a Dio. Alla vigilia della guerra, nell'ansia dolorosa che teneva sospesi tutti gli animi per la catastrofe imminente, egli passò in un abbandono dolcissimo a Dio. (Divo Barsotti)



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«Silentio et solitudini» Giovanni Paolo II

Lettera di Giovanni Paolo II al Reverendo Padre
14 maggio 1984
«Silentio et solitudini»
di Giovanni Paolo II
Al diletto figlio ANDREA POISSON
Ministro Generale dell’Ordine Certosino
«Attendere al silenzio e alla solitudine della cella» è, come è noto, la più importante applicazione e vocazione dell’Ordine Certosino, al quale tu presiedi .
I suoi membri, seguendo la singolare chiamata di Dio, sono passati «dalla tempesta di questo mondo al sicuro e quieto riposo del porto», per vivere solo di Dio.
L’Ordine Certosino si sforza di condurre tale «vita nascosta con Cristo» (Cf. Col. 3,3) con lodevole energia e fermezza, già da novecento anni.
Ciò va giustamente messo in luce in questo tempo in cui si celebra la memoria della sua fondazione. Infatti S. Bruno, uomo eminente, iniziò con alcuni compagni questa forma di vita separata dal mondo nel luogo chiamato Certosa in diocesi di Grenoble, verso il 24 giugno dell’anno 1084, giorno dedicato a S. Giovanni Battista, «il più grande tra i profeti ed eremita», che i Certosini onorano come celeste patrono dopo la Beatissima Vergine Maria.
Commemorando un così felice avvenimento uniamo la nostra gioia alla vostra e congratulandoci con tutto il cuore di una così perseverante fedeltà, vogliamo approfittare di questa circostanza per esprimere a tutta la Famiglia Certosina la nostra particolare stima e il nostro paterno amore.
Fin dai primi secoli della Chiesa, come è noto, vissero degli eremiti dediti alla preghiera e al lavoro nel deserto, uomini «che lasciato tutto, avevano abbracciato una vita celeste»; da loro prese origine la stessa vita religiosa.
I loro esempi provocarono l’ammirazione degli uomini e incitarono molti all’esercizio della virtù. S. Girolamo, tanto per citare un testimone fra molti altri, esaltò con parole ardenti questa vita nascosta dei monaci: «O deserto, ornato dei fiori di Cristo! O solitudine, dove nascono le pietre con cui si costruisce la città del gran Re, secondo la visione dell’Apocalisse! O eremo, dove si gusta più familiarmente Dio!».
Più volte i Romani Pontefici approvarono e lodarono questa vita segregata dal mondo, e recentemente, per quanto riguarda voi, Pio XI nella Costituzione Apostolica «Umbratilem» e Paolo VI nella Lettera che ti mandò per il Capitolo Generale .
Anche il Concilio Vaticano II esaltò questa vita solitaria, con cui gli abitatori del deserto seguono più da vicino Cristo dedito alla contemplazione sul monte, e ne afferma la misteriosa fecondità promanante nella Chiesa .
Infine il nuovo Codice di Diritto Canonico ribadisce con forza questa verità dichiarando che: «Gli Istituti interamente dediti alla contemplazione hanno sempre un posto eminente nel Corpo mistico di Cristo» (can. 674).
Tutto questo si addice a voi, diletti monaci e monache dell’Ordine Certosino, che, estranei al rumore del mondo, «avete scelto la parte migliore» (Cf. Lc. 10,41).
Pertanto, nel rapido scorrere degli avvenimenti che afferrano gli uomini del nostro tempo, bisogna che voi, rifacendovi continuamente allo spirito originario del vostro Ordine, restiate saldi, con volontà incrollabile, nella vostra santa vocazione.
Il nostro tempo infatti sembra aver bisogno dell’esempio e del servizio di questa vostra forma di vita.
Gli uomini di oggi, divisi fra opinioni divergenti e spesso turbati dal fluttuare delle idee, indotti persino in pericoli di ordine spirituale dalla pubblicazione di una moltitudine di scritti, e soprattutto dai mezzi di comunicazione che hanno un grande potere sugli animi ma che talora sono in opposizione con la dottrina e la morale cristiane, hanno bisogno di ricercare l’assoluto, e di vederlo in certo modo provato da una testimonianza di vita.
Dare loro questa testimonianza è vostro compito.
E anche i figli e le figlie della Chiesa che si dedicano ad attività apostolica devono, tra le realtà fluttuanti e transitorie del mondo, appoggiarsi sulla stabilità di Dio e del suo amore, che vedono testimoniata in voi, che in modo speciale ne siete partecipi in questo pellegrinaggio terreno.
La Chiesa stessa, che come Corpo mistico di Cristo ha tra i suoi principali compiti il dovere di offrire incessantemente il sacrificio di lode alla divina Maestà, ha bisogno della vostra pia sollecitudine, con cui quotidianamente «persistete nelle veglie divine».
Bisogna tuttavia riconoscere che la vostra vita eremitica in questi tempi, in cui forse si dà troppa importanza all’attività, non è sufficientemente compresa né giustamente stimata, soprattutto di fronte alla mancanza di tanti operai nella vigna del Signore.
Contro siffatte opinioni va affermato che i Certosini, anche in questo nostro tempo, devono salvaguardare integralmente l’autentica fisionomia del loro Ordine.
Questo è perfettamente conforme alla norma del nuovo Codice di Diritto Canonico, che, pur rammentando l’urgente necessità dell’apostolato attivo, protegge il carattere specifico della vocazione dei membri degli Istituti puramente contemplativi. Questo anche a motivo del servizio che essi offrono al Popolo di Dio, che «stimolano con il proprio esempio e dilatano con una misteriosa fecondità apostolica» (Cf. can. 674).
Pertanto, se per tale motivo i membri della vostra Famiglia «non possono essere chiamati a prestare l’aiuto della loro opera nei diversi ministeri pastorali» (can. 674), non deve essere svolta da voi, se non straordinariamente, nemmeno quell’altra forma di apostolato, consistente nell’accogliere persone esterne desiderose di trascorrere qualche giorno nella sacra solitudine dei vostri monasteri, perché questo non concorda con la vostra vocazione eremitica.
Senza dubbio i numerosi e rapidi mutamenti della società contemporanea, le nuove teorie psicologiche che influenzano gli animi soprattutto dei giovani, e la tensione nervosa di cui tanti oggi soffrono, possono far sorgere difficoltà nelle comunità certosine, specialmente tra coloro che si trovano ancora nel periodo di formazione.
Perciò dovete comportarvi con prudenza e fermezza – non trascurando però ogni sforzo per comprendere le difficoltà dei giovani – in modo da conservare il vostro autentico carisma nella sua integrità, senza deviare dai vostri collaudati Statuti.
Solo una volontà infiammata d’amore di Dio e disposta a servirlo strenuamente in una vita austera segregata dal mondo, aiuterà a superare gli ostacoli.
La Chiesa è con voi, diletti figli e figlie di S. Bruno, e si attende grandi frutti spirituali dalle vostre preghiere e dalle vostre austerità che sostenete per amore di Dio.
Abbiamo già avuto occasione di dire, parlando della vita consacrata a Dio: «L’importante non è ciò che fate, ma ciò che siete». Ciò sembra applicarsi in modo specialissimo a voi che vi astenete dalla vita attiva.
Mentre dunque commemorate le origini del vostro Ordine, certamente vi sentirete spinti ad aderire con rinnovato ardore dell’animo e con gioia spirituale alla vostra sublime vocazione.
E infine, sia segno dell’amore che ci ha dettato questa Lettera, e pegno di abbondanti grazie del Cielo, la Benedizione Apostolica che di tutto cuore impartiamo nel Signore a te diletto figlio e a tutti i monaci e le monache dell’Ordine Certosino.
Dal Vaticano, 14 maggio 1984, anno sesto del nostro Pontificato.
Joannes Paulus pp.II

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Il deserto, l’anacoresi ed il senso di Dio

“Il deserto è un distacco interiore da ogni creatura, nel quale l’anima né si ferma né si riposa in nulla”

San Giovanni della Croce: “Ascesa al Monte Carmelo

La ricerca della percezione sensibile di Dio, divino motore delle nostre esistenze, e l’emergere allo stato cosciente della Nous ovvero dell’anima che, come afflato divino, rende consapevole la nostra esistenza, è sempre stato sostenuto da un allontanamento dal ‘quotidiano’ e da uno sporgersi oltre il limite sensibile del normale vivere quali membri di una società antropica.
Varcare la soglia ed entrare in un luogo di culto, una chiesa, significa accedere ad uno spazio intimo e protetto, lo spazio terminale del mondo oggettuale e quotidiano, dal quale percepire ed immergersi in una proiezione intima dell’ immagine divina.
Più che uno spazio architettonico quindi uno spazio d’ascolto del misterioso eco della propria esistenza che come scrive Jaspers ‘sostiene e penetra tutte le cose’: l’Essere.
Essere quindi e non semplicemente esistere, ritrarsi oltre i limiti cognitivi della nostra vita ob-gettuale, nel quale la natura, l’universo, ci si pone solo come strumento per la dimostrazione empirica delle nostre conoscenze scientifiche, significa prendere coscienza dell’esistenza di un mondo non pensato e di un mistero che esula dalle capacità razionalizzanti del nostro pensiero scientifico-logico.
La percezione dell’Essere, è la percezione della nostra vera esistenza, ec-sistenza che sporge sopra il quotidiano vincolo di modelli e limiti del vivere in una società di tipo Occidentale, dove la percezione di noi stessi non avviene tramite l’ascolto diretto del nostro Essere, ma avviene solo attraverso la comprensione e la razionalizzazione degli effetti derivanti dalla nostra interazione sensoriale con il mondo oggettuale.
In altre parole, per i limiti dovuti alla struttura cognitiva dei nostri cervelli, abbiamo coscienza di noi stessi solo attraverso la ‘comprensione’ degli stimoli sensoriali legati all’interazione della nostra persona con il mondo sensoriale che ci circonda, popolato di esseri animati, inanimati e di persone.
Entrando in una chiesa ci si disallinea quindi dalla direttrice soggetto-oggetto Cartesiano sorretta dai nostri sensi, per accedere al luogo della conoscenza de-sensibile, mediante una limitazione forzata delle percezioni.
Conoscenza de-sensibile che, non potendo sfruttare gli strumenti canonici della conoscenza scientifico-logica che dominano il mondo della realtà ontica, oggettuale, diventa percezione, sensazione non oggettivabile, Verità perché inconfutabile (dato che il processo di confutazione, che è logico, può essere applicato solo ad un pensiero logico): il senso dell’Essere, il senso di Dio.
Per tutti questi motivi i luoghi di culto sono sempre stati concepiti, dal punto di vista architettonico, come spazi protetti, al riparo da una iperstimolazione delle percezioni sensoriali uditive e visive derivanti dalle continue interazioni con il mondo antropico circostante con cui ci si confronta e ci si rapporta: l’enorme quantità di persone che attraversa il nostro tempo e la nostra vita.

Raccoglimento è il concetto che meglio descrive il processo di intimo accesso allo spazio privilegiato che il luogo di culto custodisce: una pausa nel trascorrere affannoso del tempo vissuto in società, una pausa non cristallizzata ed oziosa, ma processo in divenire che apre le porte della comunicazione con l’intimo partendo da una negazione percettiva.
La negazione intesa quindi come passo indietro, come un sollevarsi rispetto al piano ontico, oggettuale della conoscenza scientifico-logica, quindi un processo attivo e non un semplice ozio.
Entrare in un luogo di culto significa infatti, sollevare il nostro cervello dal costante carico di lavoro derivante dalla quotidiana appartenenza ad un sistema antropico basato sui rapporti interpersonali, per poter accedere alla percezione dell’intimo, di quelle sensazioni ed emozioni altrimenti relegate costantemente alle aree inconsce del nostro vivere.
Da un punto di vista neurologico la possibilità di percepire alcuni stimoli endogeni ed esogeni “deboli” ovvero normalmente percepiti come sensazioni e non facenti parte della realtà scientifico-logica, è determinata dalla riduzione degli stimoli forti (principalmente visivi) che coinvolgono dal punto di vista operativo in modo importante la nostra corteccia prefrontale, per far spazio a stimoli che normalmente risiedono nelle aree emotivo-inconsce: le aree del sistema limbico.
Il nostro cervello infatti è molto più attratto dagli stimoli provenienti dell’esterno, che da quelli più ‘intimi’ provenienti dalle aree più antiche del nostro sistema nervoso. La nostra corteccia cerebrale che regola e domina i nostri desideri di conoscenza, ha ‘stabilito’ infatti che gli stimoli prodotti dalle percezioni provenienti dall’esterno sono molto più ‘interessanti’ (perché altamente neurotrofici) rispetto a quelli provenienti dal nostro intimo e di conseguenza tutto l’interesse dell’essere umano si è sempre più rivolto alla scoperta e allo sfruttamento del mondo esterno piuttosto che all’interpretazione dei mormorii dello spirito.
Tra tutti, la vista, è sempre stato il senso che dal punto di vista delle attività cerebrali ha prevalso sugli altri; la funzionalità visiva infatti è anche strettamente legata alla nostra capacità di evitare pericoli, di socializzare, di nutrirci, di riprodurci, tutti fattori essenziali alla sopravvivenza e alla diffusione della razza umana.
Tra tutti i soggetti animati ed inanimati che possono entrare nel nostro campo visivo, l’immagine antropomorfa rappresenta uno degli stimoli più forti dal punto di vista delle energie cerebrali utilizzate, per la sua ricezione, elaborazione, valutazione e per la gestione delle azioni seguenti: in altre parole le basi del nostro vivere sociale.
Mediante la visione nasce l’interazione tra individui e dall’interazione nascono tutti gli aspetti che regolano il vivere in società: paura o desiderio, aggressività o mimesi, riconoscimento o esclusione.
Rabbia, desiderio, indifferenza, amichevolezza, ma anche il riconoscimento di caratteri morfologici simili o dissimili da noi, sono espressioni corporee, gestuali e morfologiche, la cui percezione sensoriale e comprensione permette all’individuo di vivere un’interazione proficua con gli individui che occupano lo stesso territorio.
La presenza di persone attorno a noi è quindi fonte di un enorme lavoro cerebrale che coinvolge diverse strutture tra cui amigdala, ippocampo e corteccia pre-frontale (Nomura, 2004 – Le Grand, 2001 – Gross, 2000).
La gestione cerebrale della percezione e dell’elaborazione degli atteggiamenti di un singolo individuo e la decisione del nostro comportamento conseguente, richiede dal punto di vista cerebrale un notevole dispendio energetico.
Quando l’interazione avviene simultaneamente con una moltitudine di individui, passeggiando ad esempio per le vie di una città, il nostro cervello non è in grado di gestire dal punto di vista delle capacità elaborative, tutte le possibili interazioni interindividuali utilizzando le stesse modalità che utilizza nella gestione dell’interazione interpersonale con un singolo individuo.
Questo limite delle capacità elaborative cerebrali, viene superato mediante una compressione cognitiva che genera la percezione massificata e mediata della moltitudine, la quale diventa, dal punto di vista cognitivo, l’equivalente di un´unica entità dotata di atteggiamenti propri definiti entro determinati limiti precostituiti dall’esperienza: in altre parole il cervello, non potendo elaborare tutte le percezioni che contraddistinguono ogni singolo individuo, genera il concetto di ‘massa’ all’interno del quale fa rientrare tutti gli individui che hanno caratteristiche e atteggiamenti che rientrano nella media degli atteggiamenti da lui rilevati nella sua esperienza.
È la stessa cosa che succede quando osserviamo uno sciame d’api, di cui riusciamo a farci un’idea del suo insieme, ma che non riusciamo a suddividere e gestire dal punto di vista cerebrale, in ogni singolo elemento costitutivo.
Solo un atteggiamento particolarmente aggressivo o amichevole di un individuo determina il suo distacco percettivo dalla moltitudine indifferenziata che scorre davanti ai nostri occhi.
L’atteggiamento o l’aspetto che significativamente discosta un individuo dalla media dei comportamenti e degli aspetti rilevati durante la nostra esperienza di vita, determina l’attivazione della corteccia pre-frontale e di tutta una serie di meccanismi previsionali e di altre strutture tipo l’ippocampo, in grado di determinare se l’elemento in questione possa rappresentare una minaccia, un’opportunità o possa rientrare, dopo questa analisi, all’interno della media indifferenziata.
Un esempio è una persona che cammina su un marciapiede in ‘rotta di collisione’ verso di noi. La rilevazione della sua traiettoria confrontata mediante un sistema previsionale con la nostra, determina il primo allarme: il soggetto si stacca dal punto di vista percettivo dalla massa. Da qui inizia l’analisi corticale del soggetto.
Consideriamo il suo aspetto, se ha un atteggiamento ‘strano’ ovvero al di fuori di quelli che noi consideriamo i canoni medi, se sta guardando verso di noi o è inconsapevole della sua traiettoria, se ha un aspetto minaccioso o meno e decidiamo sul da farsi: ci spostiamo, ci fermiamo, lo affrontiamo o cerchiamo di attrarre la sua attenzione in modo che cambi rotta.
Il nostro cervello quindi, valuta continuamente la “massa” utilizzando una parte del cervello, l’amigdala, che ha il compito di scandagliare la moltitudine degli individui che passano nel nostro campo visivo, alla ricerca di atteggiamenti che possano rappresentare per noi una potenziale opportunità o rischio. Solo in casi particolari vengono utilizzate le aree cognitive analitiche a maggior dispendio energetico.
Tanto per fare un esempio, se ci mettessimo un giorno consapevolmente e quindi utilizzando la parte razionale del cervello a maggior dispendio energetico, a valutare tutti i tipi di atteggiamenti ed espressioni delle persone che incontriamo lungo un marciapiede, ci renderemmo conto dell’enormità del lavoro che dovrebbe essere svolto ad ogni istante dal nostro cervello e non saremmo in grado di continuare per più di pochi minuti.
Vivere in un’area densamente popolata, potrebbe quindi significare un lavoro immane per il cervello se non fosse stato predisposto questo tipo di risparmio energetico.
Anche se a minore dispendio energetico, l’attività dell’amigdala è comunque per noi come un rumore di fondo continuo che non ci permette di percepire altro che questo continuo “analizza e confronta”.
Maggiore è l’attività dell’amigdala quando siamo in mezzo alla moltitudine e maggiore sarà la percezione di un differente stato emotivo quando ci si troverà da soli, senza nessuna presenza umana nel campo visivo.

Entrare in un luogo di culto significa dal punto di vista cerebrale ridurre al minimo l’attività dell’amigdala.
D’un tratto il rumore di fondo scompare, ma non per far posto ad una attività razionale a maggiore dispendio energetico.
L’occhio non rileva più movimenti, atteggiamenti, espressioni: una deprivazione sensoriale visiva grazie alla quale il nostro cervello, non dovendo assolvere i compiti più alti nella scala delle sue priorità, ha sufficienti energie per rivolgere la sua attenzione verso gli echi di deboli segnali provenienti dalle aree più antiche del nostro sistema nervoso, quello ancestrale, fatto di sensazioni e di percezioni, quello che ci avvicina di più alla madre Terra e che è pervaso dal senso di Dio.
Deboli segnali neuronali che, andando ad interagire anche con aree corticali a matrice attiva deputate alla percezione di immagini e suoni possono, a volte, trasformarsi in allucinazioni, in apparizioni, mediate dalle nostre esperienze pregresse e dalla nostra cultura (Weingarten, 1988 – Horowitz, 1968).

Il luogo di culto quindi deve essere per questo motivo un luogo lontano dall’umano e dalla sua immagine.
La ricerca della situazione ideale per poter accedere a questa percezione dell’Essere, porta anche alla scelta di situazioni estreme quali l’anacoresi (da ‘anachórein’ che in greco significa appartarsi, allontanarsi). Si tratta della creazione di un luogo virtuale di culto personale, estremo, dedito all’ascolto delle nostre percezioni ancestrali intrise del senso di Dio.
Una sorta di deserto concepito come il luogo naturale di isolamento totale, di distacco da ogni tipo di stimolo legato alla convivenza con altri individui.
Luogo mistico per eccellenza, il deserto è dove Gesù approda ad un livello di consapevolezza superiore della sua missione, è dove molti santi e martiri hanno potuto godere di un rapporto privilegiato con il proprio Dio, è dove il popolo di Israele ricevette la Torah.
Più che apparizioni quindi, rivelazioni. Midbar – deserto, in ebraico ha la stessa radice di parola – Medaber, quindi deserto non come desolazione, silenzio, ma come luogo della rivelazione, luogo privilegiato per ascoltare la parola di Dio (ma non per vederne l’immagine).
Dal punto di vista neuronale, il poter spaziare visivamente su un luogo dagli orizzonti lontani e caratterizzato dall’assenza dell’uomo e di ogni altro essere vivente, genera una ipostimolazione dell’ippocampo ed una maggiore stimolazione delle regioni paraippocampali deputate normalmente alla gestione delle immagini dei paesaggi (Yago, 2005 – Bohbot, 2004): questo determina la minore stimolazione delle nostre attività corticali e quindi una maggiore riserva energetica cerebrale necessaria per prestare attenzione alle sensazioni intime del nostro sistema limbico.
Intime, come il deserto, come un non-luogo al di fuori di ogni coordinata spazio-tempo, dove risiede il significante umano, fatto ad immagine e somiglianza divina, dal quale poter accedere mediante la sua contemplazione ed il suo ascolto, alla percezione di Dio.

La solitudine, dove l’occhio può spaziare sino ai confini del suo orizzonte percettivo, oltre il quale, incomprensibile, Dio pervade e significa tutto.

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"HESYCHIA, ESICASMO E PREGHIERA PURA" (A cura di B. De Matteis)

INDICE:


1. Hêsychia ed esicasmo

2. Il termine hêsychia
3. L’esicasmo
4. L’hêsychia esteriore (hêsychia-anacoresi)
5. L’hêsychia interiore
1. Hêsychia ed esicasmo (1)
Il significato primario del termine esicasmo rimanda ad un sistema particolare di spiritualità, così antico da coincidere con l’origine del monachesimo orientale. Già questo dato fa emergere come si tratti di una realtà complessa, non riducibile alla “preghiera a Gesù” e che richiede un piccolo approfondimento etimologico, storico e spirituale.
2. Il termine hêsychia
Nel greco “profano” la parola hêsychia (hsucia) indica uno stato di calma, , riposo, tranquillità, quiete, segno dell’avvenuta cessazione delle cause esterne che creavano agitazione e disturbo.
Nel greco dei LXX il termine hêsychia conserva gli stessi significati:
- la pace esteriore, l’assenza di guerra che permette al popolo di vivere un periodo di pace e tranquillità (2);
- la calma interiore (3), il cui principio è la fede in Dio, il timore del Signore e la sottomissione alla sua volontà (4);
- il silenzio (5) e
- l’assenza di inutili movimenti (6).
Nel N.T. lo si trova molto più raramente rispetto all’A.T. e significa tacere (7), osservare il riposo del sabato (8), smettere di importunare (9).
San Paolo usa il termine hêsychia e i suoi derivati per esortare a vivere in pace (10), a trascorrere una vita tranquilla (11), a lavorare in pace (12).
In particolare, tre testi, due paolini e uno petrino, che contengono il termine hêsychia, sono indirizzati alle donne (13):
- “La donna impari in silenzio [...] se ne stia in atteggiamento tranquillo”;
- “Il vostro ornamento non sia quello esteriore [...]; cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace”.
3. L’esicasmo
P. Adnès dà dell’esicasmo questa definizione:
“Un sistema spirituale d’orientamento essenzialmente contemplativo, che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio per mezzo della preghiera continua. Ma ciò che lo caratterizza è l’affermazione dell’eccellenza, perfino della necessità, dell’hêsychia, o della quiete nel senso più lato, per attendere a questa unione” (14).
Non si tratta quindi di quietismo perché l’esicasmo insegna che non si perviene a questa quiete senza sforzo o rinunce, senza ascesi; e, d’altra parte, la stessa hêsychia non è il fine, ma un mezzo, forse anche il migliore, per disporre l’anima nella sua ricerca di Dio. A questo fine, si rivelano di fondamentale importanza elementi quali la solitudine e il silenzio, senza i quali è ben difficile giungere al raccoglimento, alla preghiera contemplativa, all’unione con Dio.
Possiamo perciò distinguere due forme di hêsychia:
- l’una esteriore, che coincide con l’allontanamento dal mondo e dai suoi affari, dagli uomini;
- la seconda interiore, che risiede nell’anima e nelle sue facoltà, che è evidentemente più importante della prima, ma la suppone.
L’esicasmo richiede, dunque, sia uno stile di vita esteriore sia un cammino ascetico di vita interiore.
4. L’hêsychia esteriore (hêsychia-anacoresi)
Ciò che contraddistingue il fenomeno storico dell’esicasmo è l’insistere sulla solitudine o anacoresi, al punto che talvolta solitudine ed hêsychia sono quasi sinonimi, ad indicare che solo nella solitudine, nel deserto, si possa trovare la “quiete”.
Solo in tempi successivi si arriverà a distinguere l’hêsychia interiore dalla hêsychia-anacoresi, anche se in autori successivi la sinonimia permane.
Praticare l’hêsychia è proprio del monaco che si rifugia nel deserto, fra le montagne e le grotte, o che almeno vive in una cella separata dalle altre: egli si è allontanato dal mondo per vivere il distacco e la solitudine. È questo amore per la solitudine che fa denominare questi monaci anche amanti dell’hêsychia o esicasti.
Quali sono le esigenze dell’hêsychia-anacoresi? Oltre la solitudine, favorita dall’isolamento materiale, il silenzio. Una sintesi di questo modello di vita, la si può trovare nella vocazione di Arsenio, raccontata negli Apophtegmi. Arsenio si rivolse a Gesù chiedendogli cosa fosse necessario fare per essere salvato. Gesù gli rispose: “Fuge, tace, quiesce (hsucaze)”, fuggi, taci, resta tranquillo (15).
Se l’esicasta si isola dal mondo, e difende la propria solitudine in modo accanito, certo non si disinteressa dei propri fratelli: fra gli esicasti troviamo molti padri spirituali (famosi soprattutto gli "startsi"), che esercitavano questo ministero con scritti e lettere. Questa paternità spirituale veniva però esercitata solo dopo la loro “guarigione spirituale”, il perfezionamento nella solitudine e nella vita ascetica, e dopo essere stati riempiti delle "energie divine" dello Spirito (16).
Con lo sviluppo del cenobitismo si iniziò a suddividere i monaci in cenobiti ed anacoreti (e/o reclusi) e questi ultimi erano chiamati anche esicasti.
L’esicasta non è un eremita radicale, anche se ci sono dei reclusi: più sovente lo si trova in gruppi semi-anacoretici, che consentono comunque una certa solitudine.
Dal V-VI sec. si trovano monaci che, dopo aver trascorso un periodo di formazione in un cenobio, chiedono la dispensa dalla vita comunitaria e vivono in una cella isolata, anche all’interno dello stesso monastero, o nei pressi di una laura (17).
Altri esicasti vivranno in solitudine la maggior parte del loro tempo, trovandosi con gli altri eremiti nel giorno del Signore per la celebrazione eucaristica.
L’hêsychia, dì'altra parte, è l’aspirazione di molti cenobiti: fra questi si può ricordare Evagrio Pontico che ci ha lasciato, tra i tanti scritti e insegnamenti spirituali, il Sommario di vita monastica che insegna come si debba esercitare l’ascesi e l’hêsychia (18): si tratta, come dice lo stesso titolo, di un insegnamento tradizionale con il quale l’autore ci trasmette quanto ha ricevuto dai monaci egiziani. (19).
Secondo quest’opera il monaco è colui che: ha abbandonato ogni realtà materiale di questo mondo ed abbraccia l’hêsychia; è impassibile; non ha concupiscenze; si attiene all’uso di cibi leggeri e poveri; è attento ai poveri; ha un abbigliamento semplice, sobrio; preferisce il riposo spirituale al riposo fisico; evita la compagnia di uomini legati alla materia o implicati in affari e abita solo o con uomini distaccati e di un “unico sentire”; ha una cella povera e semplice; cerca luoghi liberi da traffici e solitari; teme le cadute ed è stabile nella propria cella; non si incontra frequentemente con i propri amici; non abita con chi vive nella distrazione; si occupa di una lavoro manuale per non essere di peso a nessuno; se non gli è possibile vivere l’hêsychía cerca almeno di vivere la xenitía (estraneità, distacco, sradicamento: alcuni monaci sceglievano un paese straniero, per vivere quello sradicamento che è ontologicamente di ogni cristiano dal momento in cui il battesimo ne ha fatto uno straniero al mondo); pensa alla propria morte e al giudizio finale; sa digiunare secondo le proprie forze; sopporta le veglie e il dormire per terra; è un uomo di preghiera, una preghiera compiuta nel timore e nel tremore e nella sobrietà.
5. L’hêsychia interiore
Nell’esicasmo si possono individuare alcuni tratti che permettono di indicare la sua particolare fisionomia; sono essenzialmente quattro: amerimnia, népsis, ricordo di Dio, preghiera continua (20).


A. L’amerimnia: assenza di pensieri e di preoccupazioni

L’esicasta sa bene che se la fuga dal mondo gli permette di allontanarsi dalla società e dalla sua dissipazione, molto più grave è la dissipazione del cuore, che, malgrado la solitudine, resta inquieto, immerso nei suoi pensieri e preoccupazioni che lo hanno seguito anche nel deserto.
L’esicasta è chiamato a vivere perciò l’apatheia, l’impassibilità che governa tutte le passioni inferiori (21). Questa impassibilità, è bene sottolinearlo, non è mai negligenza o acedia, ma una virtù che ha il suo fondamento nella Scrittura: “Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l’inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto” (22); “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso...” (23); “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?” (24); “Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore...” (25).
La scuola sinaitica, ed in particolare Giovanni Climaco, ha posto una particolare attenzione alla vigilanza sui pensieri ("logismoi") e alla necessità dell'hesychia (26).

Riportiamo il suo insegnamento tratto dalla Scala del Paradiso:

Giovanni Climaco: L'esichia
"Chi è ancora immerso tra le passioni non può lanciarsi nel dialogo con Dio, ché correrebbe il rischio di chi si lanciasse a nuoto avvolto nelle sue vesti. La cella dell'esicasta circoscrive il suo corpo, e lì dentro egli dà spazio alla conoscenza. Chi, ancora psichicamente ammalato e avvolto tra le passioni, volesse cominciare a fare l'esicasta assomiglierebbe al navigante che si lanciasse dalla nave credendo di poter raggiungere la terraferma aggrappato ad un asse senza correre alcun pericolo. Chi combatte col fango a suo tempo potrà vivere in esichia, se e quando abbia avuto una guida. Poiché il solitario - parlo del solitario in senso stretto - cioè nel corpo e nello spirito da vero e proprio esicasta deve avere una forza angelica.
Rinnegherebbe l'esichia e mentirebbe un tiepido che accondiscendesse agli umani cavilli che lo spingessero a prendersi una vacanza dal suo stato di esicasta. Lasciando la cella darà la colpa ai demoni, dimenticando che è lui il demonio tentatore di se stesso. Ho visto io cosa vuol dire essere esicasti: non facevano che rinfocolare le fiamme del desiderio di Dio, riempiendosi e mai sentendosi abbastanza pieni; aggiungere sempre fuoco a fuoco, amore ad amore, desiderio a desiderio. L'esicasta è un angelo in terra; egli, liberatosi dall'accidia e dalla pusillanimità, nella sua orazione scrive sulla carta del desiderio lettere perfette che espri mono il suo impegno nell'amore. Era un esicasta colui che gridava: «O Dio, è pronto il mio cuore» . Era un esicasta colui che diceva: «Io dormo, ma il mio cuore veglia»
Chiudi fisicamente la porta della cella per il tuo corpo, ferma la porta alla lingua perché non parli, sbarra la porta dal di dentro contro gli spiriti. La mancanza di tante cose allora rivelerà provandola la fortezza dell'esicasta, nel mezzogiorno quando la bonaccia mette alla prova la resistenza del marinaio. Questi per impazienza si getterà nell'acqua a nuoto; quello preso dal tedio bramerà tornare tra la folla. Tu non temere gli scherzi di quelli che ti frastornano, poiché la compunzione non conosce viltà né costernazione. Quanti hanno veramente appreso a pregare mentalmente sapranno instaurare il colloquio quasi parlando all'orecchio del Re; quanti sanno fare preghiera vocale si prostreranno a Lui nella grande adunanza; quanti vivono nel mondo pregheranno il Re tra il tumulto del suo popolo.
Se hai imparato l'arte, intenderai quel che dico. Dall'alto della torre sorveglia come ti ho spiegato; e allora potrai discernere come, quando e donde, quanti e quali ladri entrino nella vigna a rubare i grappoli. Chi non si stanca di fare la guardia, si alza e prega, ritornerà a star tranquillo, attendendo con coraggio al suo lavoro. Così un tale ricco di questa esperienza, che avrebbe voluto parlarne sottilmente e con esattezza, temendo di rendere trasandati nel servizio di Dio i fervorosi ovvero di scoraggiare quanti avevano scelto l'esichia al suono delle sue parole, se ne astenne. Chi ne parla con sottigliezza e sapienza eccita contro di sé i demoni, perché nessun altro potrebbe trionfare della loro malefica attività con sì felice risultato.
[L'esicasta vive nel silenzio per ascoltare Dio, spiritualizzandosi: PG 11OOC-11O1B]
180. Chi si impegna nell'esichia infatti riesce a penetrare le profondità dei misteri. Ma non vi si cimenta senza aver prima affrontato il fragore dei flutti, il soffiare dei venti diabolici; lo fa dopo avere visto, udito e fors'anche dopo essersene contaminato. Lo conferma Paolo, che peraltro non avrebbe potuto ascoltare arcane parole senza essere stato rapito in paradiso come in esichia. Nell'esichia l'orecchio intende le straordinarie parole che Dio gli fa sentire, perché essa è ricca di sapienza; perciò fu questa a parlare con Giobbe in quei termini: «Non intenderà forse il mio orecchio le straordinarie parole che Egli mi ha fatto sentire?».
Esicasta è chi fugge il mondo senza odiarlo; lo fugge come altri corre dietro alle sue mollezze, cioè perché non vuole gli siano tagliate le dolcezze di Dio. Perciò lascialo immediatamente, distribuisci il tuo tempo per potere pregando raggiungere l'esichia, applicando a te le parole: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri» e le altre: «Prendi la tua croce e seguimi» . Portando il peso dell'ubbidienza e sopportando l'amaro taglio della tua volontà con tutta la tua forza, poi lo seguirai aderendo alla beatissima esichia dove imparerai a vedere quanto operano e come vivono beate le potenze spirituali che mai cessano di lodare il Creatore per i secoli dei secoli; né tu sarai privo dei loro inni al Creatore, una volta entrato nel cielo dell'esichia.
Come gli esseri immateriali non si curano della materia, gli spirituali uniti alla materia non si preoccupano di ciò che l'alimenta; i primi non sentono il gusto del cibo e i secondi non hanno bisogno di procurarselo, in quanto quelli non hanno beni di uso o di possesso cui badare e questi non hanno mali spirituali da cui guardarsi da parte degli spiriti malvagi: gli esseri celesti non hanno interesse a volgere lo sguardo alle creature materiali e gli spirituali non hanno interesse per le forme sensibili una volta che hanno diretto i loro desideri lassù. Come gli esseri celesti progrediscono nell'amore senza mai cessar di migliorare, così gli spirituali non fanno che emulare ogni giorno i celesti; gli uni sanno bene che tesoro sia quel progredire, gli altri non ignorano il valore di amore che li fa salire continuamente fino alla mèta dei Serafini, cioè fino a diventare essi stessi angeli attraverso un cammino ben travagliato e mai interrotto. Felice chi spera di giungere a tale stato, mille volte beato chi per diventare angelo ha fatto di tutto per esserlo. (27)


La vittoria sui logismoi non è fine a se stessa, ma è in vista di disporsi alla contemplazione: Evagrio parla di una stretta connessione tra la preghiera pura, liberata da tutto ciò che “non è Dio”, e l’hêsychia; preghiera contemplativa ed hêsychia sono praticamente sinonimi.
Sempre questo autore ci ha lasciato un’opera estremamente importante: Sul discernimento delle passioni e dei pensieri (28), un trattato di terapeutica del IV sec. che si prefigge di far conoscere all’uomo la sua vera natura fatta “ad immagine e somiglianza di Dio”, e di insegnare a liberarla da tutto ciò che la nasconde o la deforma. In questo senso, per Evagrio, il termine apatheia si può intendere anche come “stato non patologico” e la conversione, per usare parole di san Giovanni Damasceno “consiste nel ritornare da ciò che è contrario alla natura a ciò che le è proprio” (29).
Il cammino spirituale nel pensiero di Evagrio è contrassegnato da tre tappe (l'ascesi pratica - osservanza dei comandamenti ed esercizio delle virtù) e conduce al perfetto dominio degli istinti passionali. Questo dischiude la prima forma della conoscenza: la contemplazione, non colorata da passionalità, delle creature corporee ed incorporee, e la comprensione della parola divina che è la ragione di essere di ciascuna creatura. Superata questa forma di conoscenza, si raggiunge la contemplazione di Dio al di là di tutte le forme e di tutti i concetti distinti e separati.
B. La népsis: vigilanza e attenzione
È l’attitudine di un’anima pronta, presente a se stessa e a Dio, vigilante e attenta a non lasciarsi sorprendere dall’Avversario e dai logismoi.
Evagrio distingue otto logismoi, pensieri, che sono otto sintomi di una malattia dello spirito o dell’essere:
1. gastrimargía (Cassiano tradurrà: de spiritu gastrimarigiae): non è solo golosità, ma ogni patologia orale;
2. philargyría (de spiritu philaguriae): non solo l’avarizia, ma tutte le forme di stitichezza dell’essere e di patologia anale;
3. porneia (de spiritu fornicationis): non solo fornicazione, masturbazione, ma ogni forma di ossessione sessuale, di deviazione e di compensazione della pulsione genitale;
4. ofré (de spiritu irae): la collera, patologia dell’irascibile;
5. lypé (de spiritu tristitiae): depressione, tristezza, malinconia;
6. akédia (de spiritu acediae): acedia, depressione con tendenza suicida, disperazione, pulsione di morte;
7. kenodoxia (de spiritu cenodoxiae): vanagloria, inflazione dell’ego;
8. hyperéphanía (de spiritu superbiae): orgoglio, paranoia, delirio schizofrenico.
Evagrio Pontico

Ad Anatolio: sulle otto radici dell'agitato pensare

"La golosità suggerisce al monaco di fare qualche pausa nel suo impegno ascetico, gli mette davanti i malesseri dello stomaco, del fegato e della bile, l'idropisia ed altre eventuali gravi infermità, la mancanza di medici e di rimedi. Poi gli ricorda quei monaci che hanno contratto tali mali. Altre volte, questo nemico, suggerisce a quei monaci che hanno avuto quelle malattie, di andare a far visita ai frati che stanno digiunando per parlare dei loro disturbi e additarli come la conseguenza di astinenze austere.
Il demone della sensualità stimola le bramosie carnali, e con astute insidie muove all'assalto degli astinenti, cercando di dissuaderli dalla loro austerità, presentandola come sterile per loro stessi. Con queste suggestioni inquina la loro anima, per spingerli a compiere azioni sensuali, e li mette nell'occasione di dire ed ascoltare quelle parole solite a chi commette atti di lussuria.
Il demone dell'avidità di denaro suggerisce pensieri di prudenza per l'età avanzata, per quando le forze verranno meno ed il solitario non potrà più lavorare con le sue mani, gli rappresenta la fame, la malattia, l'asprezza del bisogno, il peso di dover accettare dagli altri il necessario per il sostentamento fisico.
La mancata soddisfazione di un desiderio o, alle volte, l'irascibilità stimolano le suggestioni del risentimento. Quando c'è la mancata soddisfazione di desideri, tutto il lavorio dei pensieri del risentimento si svolge così: tornano prima i ricordi dei conforti che il solitario aveva avanti di abbracciare la vita dell'ascesi.

Quando l'anima comincia a fermarsi con piacere su queste memorie, il risentimento ghermisce il solitario, sottolineando che quei conforti sono ormai passati e che, proprio per esser monaco, non potrà più averli. Quanto più volentieri accoglie i primi ricordi con piacere, tanto più, la povera anima, ne resta colpita e invasata.

L'iracondia è il più vivace di tutti gli istinti passionali. Sorge e s'infiamma contro chi ci ha fatto, o sembra averci fatto una qualche offesa. Rende l'anima sempre più inflessibile; il suo tempo preferito è quello della preghiera; in quel momento presenta vividamente la figura di chi ha recato l'offesa. Alle volte si radica nell'anima e diventa inimicizia, produce notturni incubi ed immagini di torture, di morte orrenda, di assalti eseguiti da velenosi serpenti e mostri bestiali. Questi quattro fenomeni sono il segno che nell'anima nasce l'inimicizia, che è attorniata da numerosi pensieri tormentosi; chi osserva se stesso può capire che dico il vero.
Il demone dello scoramento detto il demone meridiano, è il più opprimente di tutti. Assale ordinariamente il monaco verso le dieci del mattino, lo assedia fino alle quattordici. Comincia col far notare, in modo deprimente, il lento girare del sole, tanto lento da sembrare immoto, il giorno appare di cinquanta ore. Dopo spinge il monaco a occhieggiare spesso dalla finestra, o ad uscire dalla cella ed osservare il sole per fare il computo del tempo che manca ad arrivare alle quindici; contemporaneamente lo fa guardare a destra e a sinistra per vedere se qualche frate venga a trovarlo. Quindi lo assale con il disgusto del posto, del genere di vita e di impegno scelti, suggerendogli considerazioni come queste: tra i frati non c'è amore, nessuno è pronto a darti un conforto. Se nei giorni di prova, qualche frate gli ha recato offesa, il demone glielo ricorda e lo vessa con tale pensiero. Da queste suggestioni, lo spirito del male, provoca nel solitario il desiderio di vivere in altro luogo, dove più agevole sia trovare il necessario, e dove l'impegno ascetico sia più lieve e proficuo. I pensieri malvagi sussurrano che il piacere a Dio non dipende dal posto ove uno è, perchè Dio può esser venerato ovunque. Insieme a questi pensieri, unisce il ricordo del benessere goduto prima della solitudine; e prospetta il lungo tempo che ancora dovrà vivere nell'asprezza dell'ascesi; si serve, in una parola, di tutte le sue astuzie per spingere il monaco ad abbandonare la sua cella, e interrompere il suo impegno.

Questo demone è seguito da un altro, ma non subito; perchè se il solitario supera lo scoramento, si trova immerso in uno stato di pace interiore, colma d'ineffabile gioia.

Il demone che segue lo scoramento, è il più sottilmente malizioso di tutti, è quello della vanagloria. Svolge la sua opera nel cuore di chi ha raggiunto il giusto dominio delle forze vitali. L'assalto comincia con il compiacimento dello sforzo ascetico compiuto e con gli elogi mossi dagli altri uomini. Il solitario vede sorgere, per l'incantesimo della fantasia, le urla dei demoni fugati dalla sua presenza, la guarigione delle donne ammalate, la turba degli infermi che l'attornia per esser guarita dal solo contatto delle sue vesti. Sente profetizzarsi la dignità sacerdotale, vede schiere di uomini alla sua porta per ricercarlo e consacrarlo prete, immagina di rifiutare e si scorge legato e costretto ad accettare il sacerdozio contro la sua volontà. Una volta accese queste speranze, lo spirito del male se ne va lasciando il campo ad altre tentazioni, quelle del demone della superbia o del risentimento che suggerisce pensieri opposti alle speranze nutrite. Può anche succedere che a questo punto il demone impuro vinca il solitario che poco prima immaginava di essere un santo e venerato sacerdote.
Lo spirito malvagio della superbia causa le più gravi rovine nell'anima. Suggerisce all'anima di non riconoscere Dio come l'unico soccorritore, attribuendo solo al proprio sforzo ogni progresso nella bontà; di collocarsi al di sopra degli altri frati, reputandoli ignoranti non avendo essi pensieri sublimi come lui. La superbia ha sempre l'irrequietezza e il malcontento, al suo seguito. L'ultimo stadio del superbo è la frenesia mentale e la visione degli spiriti del male." (30)


Questo atteggiamento di difesa prende anche il nome di attenzione, difesa dello spirito, del cuore. Secondo Esichio il Sinaita, per fare un esempio, tutta l’ascesi sembra ricondursi alla népsis che è un “metodo spirituale che libera interamente la persona, con il soccorso di Dio e per mezzo di una pratica costante e decisa, dei pensieri e delle parole animati, come delle azioni cattive” (31), e alla prosoché, l’attenzione data ai logismoi, che in fondo esprime lo stesso impegno.
C. Il ricordo di Dio
Anche questo è un tema tradizionale della spiritualità orientale, già presente fin negli Apophtegmi e nelle Vite dei Padri del deserto.
I Padri orientali suggeriscono vari modi per mantenere costante questo ricordo, anche per mezzo di una breve formula verbale di preghiera, tratta preferibilmente dalla Sacra Scrittura. Così il ricordo di Dio, che lentamente si precisa come ricordo di Gesù, può divenire incancellabile.
E' sempre Giovanni Climaco che stabilisce una connessione del ricordo di Gesù con l’hêsychia: “L’hêsychia consiste nello stare in continua adorazione del Signore, sempre alla sua presenza, con il ricordo di Gesù aderente al suo (dell’esicasta) respiro, allora potrai toccare con mano i vantaggi dell’hêsychia” (32).
D. La preghiera pura
La preghiera e l’hêsychia sono strettamente connesse: se l’hêsychia è il clima favorevole per la preghiera, la preghiera è ciò che rende possibile l’hêsychia.
La ricerca della quiete interiore in vista della contemplazione è un tema classico della spiritualità orientale, anche per autori che non si possono classificare tra gli esicasti.
Per esempio, Basilio scriveva: “L’hêsychia è un buon ausilio per la theoría, la contemplazione, l’attività dello spirito per la quale noi siamo uniti a Dio” (33), a cui il Crisostomo faceva eco dicendo che “se il Cristo se ne va solo sulla montagna o in luoghi solitari per pregare, ciò che ci vuol dire è che il deserto è la madre dell’hêsychia e che la preghiera reclama, come preparazione, molta hêsychia e calma” (34).
Ma negli autori esicasti si scorge qualcosa in più. L’hêsychia non è soltanto un mezzo, ma il centro stesso della vita contemplativa e in un certo senso la vita contemplativa stessa, e l’esicasta è la preghiera fatta uomo.
Giovanni Climaco ha scritto molto a questo proposito: “L’esicasta poi lotta per circoscrivere dentro il corporeo l’incorporeo, cosa veramente straordinaria” (35). “Chi conosce il pensiero d’un uomo che vive nell’hêsychia esteriore e interiore? La forza dell’esicasta sta nella molta preghiera, come la forza di un re nelle ricchezze e nel numero” (36).
Sant’Efrem, in un testo di dubbia attribuzione (lo “condivide” con Giovanni Crisostomo), De patientia et consummatione, fa un elogio dell’hêsychia partendo da una figura del vangelo: Maria di Betania. Maria, che si era messa ai piedi di Gesù e non aveva attenzione che per lui, è l’immagine dell’hêsychia. D’altra parte non è Gesù stesso che ha garantito il riposo per chi fosse andato a lui? (37).
Simeone il Nuovo Teologo ci ha lasciato una descrizione delle grazie della contemplazione promesse all’hêsychia, ma non dimentica di sottolineare come non si possa chiamare riposo il non compiere opere o hêsychia l’oziosità e mettere questi atteggiamenti al di sopra della legge del Cristo: umiltà, carità, servizio agli altri.
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NOTE
1 P. Adnès, Hésychasme, in Dictionnaire de Spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire, Paris 1969, t. 7, coll. 381-399; E. BEHR-SIGEL, Il luogo del cuore. Iniziazione alla spiritualità ortodossa, Cinisello Balsamo 1993; J.-Y. Leloup, L’Esicasmo. Che cos’è, come lo si vive, Milano 1992; NICODIMO AGHIORITA e MACARIO DI CORINTO, op. cit.; K. Ware, Philocalia, in Dictionnaire de Spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire, Paris 1984, t. 12, coll. 1336-1352.
2 Cf. Gdc 3,11 (“Il paese rimase in pace...”; 3,30; 5,31; 8,28; ...).
3 Cf. Is 7,4 (“Tu gli dirai: Fa’ attenzione e sta’ tranquillo...”).
4 Cf. Pv 1,33 (“... chi ascolta me [la sapienza] vivrà tranquillo e sicuro dal timore del male”).
5 Tacere: Pv 11,12 (“L’uomo prudente ... tace”).
6 Stare: Pv 7,11 (“... non sa tenere i piedi in casa sua). Cf. anche Lam 3,26 (“È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”) in cui si trovano entrambi i significati.
7 Lc 14,4 (“... essi tacquero”).
8 Lc 23,56 (“Il giorno di sabato osservarono il riposo)”.
9 At 21,14 (“... smettemmo di insistere...”).
10 1Tess 4,11 (“... attendere alle cose vostre...).
11 1Tm 2,2 (“perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla...”).
12 2Tess 3,12 (“... mangiare il proprio pane lavorando in pace”).
13 1Tm 2,11-12; 1Pt 3,4.
14 P. Adnès, Hésychasme, col. 384.
15 Apophtegmi, PG 65, 88c, cit. in: T. Š pidlík, La preghiera esicastica, in: E. Ancilli (cur.), La preghiera, Roma 19902, vol. II, p. 263; cf. anche J.-Y. Leloup, op. cit., pp. 27-46.
16 Ammonas vede nell’hêsychia il fondamento della sua genealogia delle virtù; S. Nilo afferma che bisogna abbracciare l’hêsychia o la “mónosis” che chiama “la madre della filosofia”, cioè la vita monastica perfetta; un luogo comune della letteratura esicasta definisce l’hêsychia “genitrice di ogni bene”: cf. P. ADNÈS, Hésychasme, col. 387.
17 Organizzazione monastica bizantina, caratterizzata da un certo numero di celle separate di anacoreti, aventi però la chiesa in comune.
18 EVAGRIO MONACO, Sommario di vita monastica che insegna come si debba esercitare l’ascesi e l’hêsychia, in Filocalia, vol. I, pp. 99-106.
19 Ibid
20 Cf. in part.: P. Adnès, Hésychasme, coll. 388-397.
21 Il termine apatheia, accettato da Evagrio e dalla sua scuola, manca negli esicasti più antichi e non ha mai prevalso sul termine amerimnia: i due termini si richiamano a vicenda e spesso sono associati. Cf. G. BARDY, Apatheia, in Dictionnaire de Spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire, Paris 1936, t. 1, coll. 727-746.
22 Mc 4,18-19.
23 Lc 21,34.
24 Mt 6,25.
25 1Cor 7,32.
26 GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, PG 88, 1109b, cit. in: P. Adnès, Hésychasme, col. 391.
27 Ibid.
28 EVAGRIO MONACO, Sul discernimento delle passioni e dei pensieri, in Filocalia, vol. I, pp. 107-124.
29 Cit. in: J.-Y. Leloup, op. cit., p. 48.
30 Ibid., pp. 47-48. Per un approfondimento: EVAGRIO MONACO, op. cit.,; CASSIANO (IL) ROMANO, Al Vescovo Castore. Gli otto pensieri viziosi, in Filocalia, vol. I, pp. 129-153; J.-Y. Leloup, op. cit., pp. 47-67.
31 ESICHIO (IL) SINAITA, Centurie, I, 1, PG 93, 1480d, cit. in: P. Adnès, Hésychasme, col. 392. J. Gouillard attribuisce quest’opera non al santo, ma a un monaco, di nome Esichio, del monastero sinaitico di Batos.
32 GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, Roma 1995, p. 318.
33 BASILIO DI CESAREA (Magno), Epistola, 9, 3, PG 32, 272c, cit. in: P. Adnès, Hésychasme, col. 394.
34 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthaeum, 50, 1, PG 58, 503-504, cit. in: P. Adnès, Hésychasme, col. 395.
35 GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, Roma 1995, p. 306.
36 Ibid., p. 323.
37 Cf. Mt 11,28.
(A cura di B. De Matteis)

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La discrezione. G. Cassiano

Tratto dal libro "Conferenze spirituali " di G. Cassiano - Edizioni Paoline

II Conferenza

La discrezione
I - Esordio dell'abate Mosè sulla grazia della discrezione
Dopo aver concesso al sonno le prime ore del mattino, finalmente - col cuore tumultuante di gioia - vedemmo il sole tornare a splendere, e subito chiedemmo di riprendere la conferenza interrotta. L'abate Mosè incominciò: quanto desiderio, quale struggente fiamma vi divora? Io dubito che i pochi istanti sottratti alla nostra conversazione spirituale e concessi al sonno vi abbiano veramente giovato.
Osservando in voi tanto fervore, io mi sento confuso. Quanto più è grande il vostro desiderio, tanto più dovrà esser grande il mio impegno nel soddisfarlo, secondo quella parola della Scrittura che dice: " Quando siedi commensale di un gran signore, sta attento a ciò che ti vien messo dinanzi, e quando allunghi la mano, pensa che anche tu dovrai imbandire un banchetto somigliante " (Pr 23, 1-2).
Incominciamo dunque a parlare del valore della discrezione, argomento che già avevamo pregustato la scorsa notte, quando mettemmo fine alla nostra conferenza.
Innanzi tutto sarà bene sottolineare l'eccellenza di questa virtù, riferendo le sentenze dei Padri a suo riguardo. Allorché avremo conosciuto il pensiero dei Padri, porterò esempi riguardanti le miserevoli cadute di alcuni monaci; cadute che ebbero come unica causa la mancanza di discrezione. Infine dimostrerò - se ne sarò capace - i benefici e i vantaggi di questa virtù, affinché - persuasi della sua eccellenza e bontà - possiamo imparare con più gioia il modo di raggiungerla e perfezionarci in essa.
Non si tratta certamente di una virtù da poco, che possa essere acquistata con la naturale industria dell'uomo: noi non potremmo mai ottenerla se non ci fosse elargita dalla divina bontà. S. Paolo apostolo la enumera fra i doni più nobili dello Spirito Santo: ecco le sue parole: " A uno, per via dello Spirito, fu data la parola della sapienza, a un altro la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. A un altro la fede nel medesimo Spirito; a un altro ancora il dono delle guarigioni nell'unico Spirito " (1 Cor 12, 8-9); e poco dopo: " A un altro il discernimento ( = discrezione) degli spiriti " (1 Cor 12, 10).
Terminato l'elenco dei carismi spirituali, l'apostolo aggiunge: " Or bene, tutti questi effetti li produce l'unico e medesimo Spirito che distribuisce a ciascuno secondo che vuole " (1 Cor 12, 11).
Voi lo vedete bene, il dono della discrezione non è cosa terrestre e da poco, ma è un premio grandissimo della grazia divina. Se il monaco non si sforza di ottenerlo e non impara a bene usarlo, per saper distinguere con sicurezza gl'impulsi da cui è pervaso e sollecitato, somiglierà ad uno che va di notte, fra le tenebre più fitte, col rischio di cadere in fosse e precipizi, e anche di smarrirsi là dove la via è piana e diritta.
II - I vantaggi che il monaco può trovare nella sola discrezione, e discorso del beato Antonio su tale argomento
Un ricordo della fanciullezza mi ripresenta alla mente molti monaci anziani venuti un giorno a trovare Antonio nel deserto della Tebaide. La conversazione di quegli uomini di Dio si prolungò dal tramonto del sole all'aurora del giorno seguente, e rammento che il tema della discrezione occupò quasi tutta la nottata. Si investigò a lungo quale sia la virtù o l'osservanza che, oltre a custodire il monaco immune dai lacci e dagli inganni del demonio, possa anche farlo progredire sulla via della perfezione. Ciascuno diceva il suo pensiero secondo il proprio modo di vedere. Alcuni dicevano che a produrre si mirabili effetti era l'amore per le veglie e i digiuni, perché l'anima - spiritualizzata da quelle pratiche e fatta padrona d'un cuore e d'una carne pura - più facilmente si unisce a Dio. Altri dicevano che era la rinuncia totale, perché se l'anima riesce a spogliarsi di tutto e a liberarsi da ogni attacco o legame alla terra, può volare più spedita verso Dio. Altri ancora dicevano che era l'anacoresi, cioè l'abbandono del mondo e il ritiro nel deserto, dove la conversazione con Dio diventa più familiare e l'unione con lui più intima. Non mancò un gruppo secondo il quale la virtù prima del monaco sarebbe stata la pratica della carità, perché il Signore, nel Vangelo, ha promesso di dare il regno dei cieli a coloro che esercitano questa virtù: " Venite, benedetti dal Padre mio, entrate in possesso del regno che vi è stato preparato fin dall'origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere... " (Mt 25, 34-35).
Chi dava a una virtù, chi ad un'altra, il merito d'introdurre l'anima all'unione con Dio. Era già passata gran parte della notte, quando prese a parlare Antonio.
" Tutte le pratiche da voi enumerate - egli disse - sono utili all'anima assetata di Dio e desiderosa di giungere a lui, ma le tristi esperienze e le lacrimevoli cadute di molti solitari ci sconsigliano di assegnare la palma a qualcuna di codeste virtù. Noi abbiamo visto molti monaci applicarsi ai digiuni e alle veglie più rigorose, acquistarsi grande ammirazione per il loro amore alla solitudine, dar prova di distacco così completo da non serbare per sé né il pane per un sol giorno, né una sola moneta; abbiamo visto monaci caritatevoli esercitare con somma devozione le opere di misericordia, eppure, costoro si sono miseramente illusi! Non hanno saputo portare a buon termine l'opera intrapresa ed hanno posto fine al loro ammirevole fervore, alla loro vita lodevolissima, con una caduta abominevole. Perciò noi potremo riconoscere la virtù più atta a condurci a Dio, se cercheremo la causa delle loro illusioni e delle loro cadute.
Le opere di quelle virtù che voi avete enumerate, sovrabbondavano in quei monaci, ma la mancanza della discrezione fece sì che quelle opere non durassero fino in fondo. Non si trova altra causa, per spiegare la loro caduta, all'infuori di questa: essi non ebbero la possibilità di formarsi alla scuola degli anziani e non acquistarono la virtù della discrezione. E' la discrezione che, tenendosi lontana dai due eccessi contrari, insegna al monaco a camminare sempre sulla via regia, e non gli permette di deviare a destra (verso una virtù scioccamente presuntuosa, o un fervore esagerato che passerebbe i confini della buona misura), né a sinistra (verso il rilassamento e il vizio, o verso la tiepidezza dello spirito, che si annida dietro il pretesto di ben governare il corpo).
Gesù pensava alla discrezione quando nel Vangelo parlava dell'occhio che è lampada del corpo: " La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio: se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è torbido, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre " (Mt 6, 22-23).
La discrezione, infatti, esamina atti e pensieri dell'uomo, e sceglie oculatamente quelli che sono da ammettere. Se quest'occhio interiore è cattivo, o - per parlare fuori di metafora - se siamo privi di scienza e di giudizio sicuro, se ci lasciamo trascinare dall'errore e dalla presunzione, tutto il nostro corpo sarà tenebroso, perché la luce dell'intelligenza e la nostra stessa attività si saranno oscurate. Il vizio - evidentemente - acceca, e la passione è madre di tenebre. " Se la luce che è in voi diventa tenebra - dice ancora il Signore - quanto grandi saranno le tenebre! " (Mt 6, 23).
Nessuno dubita che, se il nostro giudizio è falso e immerso nelle tenebre dell'ignoranza, anche i nostri pensieri e le nostre opere - che da quel giudizio derivano come da naturale sorgente - saranno avvolte nelle tenebre del peccato.
III - Errore in cui caddero Saul e Acab per non aver avuto conoscenza della discrezione
Saul, che Dio scelse come primo re d'Israele, per non aver posseduto l'occhio della discrezione, diventò tenebroso in tutto il corpo, e alla fine fu sbalzato dal trono. La sua " luce ", diventata sorgente di tenebre e d'errore, lo rovinò. Egli pensò che Dio avrebbe gradito di più i suoi sacrifici che l'obbedienza al comando di Samuele, e trovò modo di offendere Dio con un gesto che mirava a rendergli propizia la divina maestà (1 Sam 15).
La stessa mancanza di discrezione rovinò Acab, re d'Israele. Dopo la bella vittoria che gli era stata concessa per bontà del Signore, egli pensò che la misericordia verso i vinti sarebbe stata preferibile all'esecuzione letterale di un comando divino, che ai suoi occhi appariva crudele. Questo pensiero lo indusse a porre fine alla vittoria e allo spargimento di sangue con un atto di clemenza. Ma una simile pietà senza discrezione lo fece tenebroso in tutto il corpo e lo condannò a morte irrevocabile (1 Re 20).
IV - Testimonianze della sacra Scrittura sul valore della discrezione
Questa è la virtù della discrezione, che, dopo essere stata detta " lucerna " del corpo, viene chiamata da S. Paolo anche " sole ", là dove è detto: " Il sole non tramonti sulla vostra collera " (Ef 4, 26). La stessa virtù è chiamata nella sacra Scrittura " timone " della nostra vita: " Coloro che non hanno discrezione cadono come foglie " (Pr 11, 14). La discrezione è pur giustamente assimilata a quel dono del consiglio senza il quale la Scrittura ci proibisce di fare le cose anche piccolissime; dobbiamo infatti esser guidati dal consiglio anche quando beviamo quel vino spirituale che allieta il cuore dell'uomo (Sal 103, 15), secondo la sentenza sapienziale: " Farai tutto con consiglio; col consiglio bevi anche il vino " (Pr 31,3). E ancora: " Città senza mura e senza difesa è l'uomo che agisce senza consiglio " (Pr 25,28). Quest'ultimo passo del libro Sacro, con la figura della città incustodita e indifesa, dice assai chiaramente quanto sia nociva al monaco la mancanza di discrezione. In questa virtù sono racchiusi anche l'intelletto e il giudizio, senza i quali non ci è possibile né costruire il nostro edificio interiore, né ammassare le ricchezze spirituali, secondo una parola divina che suona così: " Una casa si edifica con la sapienza e le continue ricchezze preziose e gustose " (Pr 24, 3-4).
Dice S. Paolo che la discrezione è il cibo sostanzioso fatto per uomini completi e robusti. " Il cibo solido è fatto per uomini che hanno raggiunto il perfetto sviluppo, per coloro che hanno esercitato l'occhio a distinguere il bene dal male " (Ebr 5, 14). E' tanto evidente la sua utilità che essa viene paragonata alla parola di Dio e le vengono attribuite le prerogative di quella. La discrezione - a somiglianza della parola di Dio - è " viva, efficace, più tagliente di una spada a due tagli, così tagliente che giunge a separare l'anima e lo spirito, le giunture e il midollo: essa separa i pensieri e i sentimenti del cuore " (Ebr 4, 12).
Tutti questi testi ci convincono che senza la grazia della discrezione non ci può essere alcuna virtù completa e duratura.
Il beato Antonio e gli altri monaci andati a visitarlo, convennero all'unanimità che è la virtù della discrezione quella che conduce l'uomo, con passo fermo e impavido, fino a Dio. E' ancora la discrezione a conservare sempre intatte quelle stesse virtù di cui gli altri solitari avevano parlato prima che Antonio prendesse la parola. Per mezzo di essa, infatti, il monaco progredisce con poca fatica verso le vette della perfezione; alle quali vette - senza l'aiuto della discrezione - mai sarebbero arrivati molti di quelli che per tale via si erano già spinti molto innanzi. La discrezione dunque può esser salutata madre, custode e guida di tutte le virtù.
IX - Domanda sui mezzi per acquistare la vera discrezione
Germano rispose: dagli esempi recenti e dalle sentenze degli antichi Padri, ci è apparso chiarissimo che la discrezione è in certo modo la sorgente e la radice di tutte le virtù. Vorremmo ora sapere quale sia il metodo per acquistarla e il metodo per riconoscere quando è vera e proveniente da Dio, oppure falsa e suggerita dal diavolo. Così, a norma della parabola evangelica che ci avete raccontata nella precedente conferenza - e che vuol far di noi degli abili banchieri - noi potremo accorgerci se l'immagine del re, che pur è vera, è impressa su metallo illegale e rifiutare la moneta come falsa. Noi vogliamo esser dotati di quella scienza che voi, con chiare e complete spiegazioni, ci avete mostrato essere la dote più preziosa del banchiere spirituale, o banchiere secondo il Vangelo (citazione dal cosiddetto "Vangelo degli Ebrei", apocrifo - n.d.r.).
Che cosa ci gioverebbe conoscere l'eccellenza della discrezione e il metodo della sua grazia, se non conoscessimo il modo di trovarla e acquistarla?
X - Risposta sul modo di acquistare la vera discrezione
Mosè riprese: la vera discrezione si acquista per mezzo della vera umiltà. E il primo segno della vera umiltà sarà quello di lasciare agli anziani il giudizio di tutte le nostre azioni e di tutti i nostri pensieri, fino al punto che uno non si affidi mai al proprio giudizio, ma sempre e in tutto stia alle decisioni degli anziani e voglia conoscere solo dalla loro bocca ciò che sia da ritenersi buono e ciò che sia da stimarsi cattivo.
Questa disciplina, non solo insegnerà al giovane monaco a camminare diritto sulla via della vera discrezione, ma gli darà anche sicurezza contro tutti gl'inganni e tutte le insidie del nemico. E' impossibile che cada nell'illusione chi prende come regola della propria vita, non già il suo giudizio, ma gli esempi degli anziani. L'astuzia del demonio non potrà valersi dell'ignoranza di un monaco il quale non cede al falso pudore e non nasconde qualcuno di quei pensieri che gli nascono in cuore, ma tutti li mostra al prudente giudizio degli anziani, per sapere se deve ammetterli o rifiutarli.
Un cattivo pensiero, portato alla luce del giorno, perde subito il suo veleno. Prima ancora che la discrezione abbia proferita la sua sentenza, il serpente infernale, che la confessione ha tirato fuori dal suo nascondiglio tenebroso, se ne fugge svergognato. Le sue suggestioni hanno potere su noi finché restano nascoste in fondo al cuore.
XIV - La vocazione di Samuele
La venerazione verso gli anziani è molto gradita a Dio, che ce la inculca dalle pagine della sacra Scrittura.
Per decreto della sua Provvidenza, Dio aveva scelto il piccolo Samuele, ma invece d'istruirlo direttamente e intraprendere un colloquio con lui, lo mandò una e due volte dal vecchio sacerdote (1 Sam 3). Dio volle che questo fanciullo, chiamato a diventare il suo confidente, fosse istruito da un uomo, che per giunta era in colpa: Dio volle così per l'unica ragione che quell'uomo era un anziano.
Il fanciullo giudicato degno di una vocazione altissima fu sottoposto alla direzione di un anziano affinché brillasse l'umiltà di chi era stato chiamato da Dio a un grande ministero, e fosse offerto alla gioventù un esempio di sottomissione.
XV - La vocazione dell'apostolo Paolo
L'apostolo Paolo fu chiamato direttamente da Cristo, ma colui che poteva, subito e senza intermediari, insegnargli la via della perfezione, preferì indirizzarlo ad Anania e fargli imparare da quello la via della verità. " Alzati - disse il Signore - entra in città, e là ti sarà detto quello che devi fare " (At 9, 6).
Se Dio indirizza anche Saulo a un anziano, e preferisce metterlo a quella scuola anziché istruirlo direttamente, lo fa per evitare che l'intervento diretto- spiegabile nel caso di Paolo - possa in seguito incoraggiare la presunzione. Il pericolo era che tutti avessero a persuadersi di non avere (come l'Apostolo) altra guida o maestro all'infuori di Dio, e non volessero formarsi alla scuola degli anziani.
Quanto sia da detestare la presunzione, l'apostolo stesso ce lo insegna, non solo con le parole, ma con le opere e con l'esempio. Egli infatti afferma di essersi recato a Gerusalemme unicamente per confrontare ed esaminare - in un incontro privato ed amichevole con i fratelli e predecessori nell'apostolato - il Vangelo che predicava tra i pagani, con accompagnamento di prodigi derivanti dalla grazia dello Spirito Santo. Ecco le sue parole: " Esposi loro il Vangelo quale lo predico ai Gentili, nel pensiero che io, forse, corressi o avessi corso invano " (Gal 2, 2).
Chi sarà tanto presuntuoso e cieco da volersi affidare al suo giudizio e alla sua discrezione, quando perfino il " Vaso di elezione " afferma di aver avuto bisogno di un incontro con i fratelli nell'apostolato? In questo noi abbiamo la riprova di un metodo caro al Signore: egli non manifesta la via della perfezione a chi, pur avendo la possibilità di farsi istruire, disprezza la dottrina degli anziani e le loro regole di vita, senza far caso a una parola di Dio che dovrebbe essere diligentemente ascoltata: " Interroga tuo padre e te lo insegnerà, interroga gli anziani e te lo diranno " (Dt 32, 7).
XVI - Dovere di tendere all'acquisto della discrezione
Sforziamoci dunque con tutte le nostre energie per giungere alla virtù della discrezione attraverso la pratica dell'umiltà: solo la discrezione può tenerci lontani dagli eccessi opposti.
C'è un vecchio proverbio che dice: " Acròtes isòtes ", cioè: gli eccessi sono tutti dannosi. L'eccesso del digiuno e la voracità portano allo stesso fine; le veglie smodate non sono meno dannose, per un monaco, di un sonno pigramente prolungato. Per le eccessive privazioni, uno si indebolisce ed è necessariamente ricondotto allo stato in cui prosperano la negligenza e l'apatia. Molti che non poterono essere ingannati dalla golosità, li vedemmo ingannati dai digiuni smodati: la passione vinta, prese la sua rivincita in occasione dell'infermità. Spesso le lunghe veglie e le intere notti sottratte al sonno riuscirono ad ingannare quelli che il sonno non aveva potuto vincere.
Noi, " muniti delle armi della giustizia, a destra e a sinistra " (2 Cor 6, 7) _ come ci insegna S. Paolo - dobbiamo procedere con molta moderazione e passare tra i due estremi, guidati dalla discrezione. Così non ci faremo allontanare dalla giusta misura nel mortificarci, né cederemo alla gola e all'intemperanza, vinti da fiacchezza funesta.
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Benedetto XVI. La preghiera di Gesù e del cristiano



Udienza del 30 novembre 2011 




Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un'arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti. Proprio l’esperienza esemplare di Gesù mostra che la sua preghiera, animata dalla paternità di Dio e dalla comunione dello Spirito, si è approfondita in un prolungato e fedele esercizio, fino al Giardino degli Ulivi e alla Croce. Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all'orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio. Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.



Cari fratelli e sorelle, educhiamoci ad un rapporto con Dio intenso, ad una preghiera che non sia saltuaria, ma costante, piena di fiducia, capace di illuminare la nostra vita, come ci insegna Gesù. E chiediamo a Lui di poter comunicare alle persone che ci stanno vicino, a coloro che incontriamo sulla nostra strada, la gioia dell’incontro con il Signore, luce per la nostra l’esistenza.