sabato 11 febbraio 2012

Come fanno i cristiani a sopportare la sofferenza?



Alla fine di questo giorno propongo una riflessione sul  senso del dolore
 secondo il fondatore dell'Opus Dei e secondo don Divo Barsotti 
(quest'ultima proprio sul Vangelo di domani, 12 febbraio,
 VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno "B")

* * * 
 Ora ti dirò quali sono i tesori dell'uomo sulla terra, affinché non li trascuri: fame, sete, caldo, freddo, dolore, disonore, povertà, solitudine, tradimento, calunnia, carcere...
Cammino, 194
La risposta definitiva
Davanti a queste amarezze, solamente il cristiano possiede una risposta autentica, una risposta definitiva, ed è questa: Cristo crocifisso, Dio che soffre e muore, Dio che dona il suo Cuore aperto da una lancia come pegno d'amore per tutti. Nostro Signore detesta le ingiustizie, e condanna chi le commette; ma rispetta la libertà di ogni individuo e permette, pertanto, che ve ne siano. Dio nostro Signore non causa il dolore delle creature, ma lo tollera perché, dal peccato originale in poi, il dolore è parte della condizione umana. Tuttavia, il suo Cuore, pieno d'Amore per gli uomini, lo ha portato a prendere su di sé, con la Croce, tutte le pene umane: la nostra sofferenza, la nostra tristezza, la nostra angoscia, la fame e la sete di giustizia.
È Gesù che passa, 168
Le afflizioni uniscono a Cristo
Se talvolta di fronte alla realtà della sofferenza sentite la vostra anima vacillare, il rimedio è guardare Cristo. La scena del Calvario proclama a tutti che le tribolazioni vanno santificate vivendo uniti alla Croce.
Le nostre afflizioni, infatti, vissute cristianamente, si trasformano in riparazione e in suffragio, in partecipazione al destino e alla vita di Gesù che, volontariamente, per amore degli uomini, ha sperimentato tutta la gamma del dolore, ha conosciuto ogni sofferenza. Nacque, visse, morì in povertà; fu combattuto, insultato, diffamato, calunniato e condannato ingiustamente; conobbe il tradimento e l'abbandono dei discepoli; assaporò la solitudine e le amarezze del supplizio e della morte. Ora lo stesso Cristo continua a soffrire nelle sue membra, nell'umanità tutta che popola la terra, e della quale egli è il Capo, il Primogenito, il Redentore.
È Gesù che passa, 168
Frequentare la scuola del dolore
L'Apostolo ci dà tutto un programma per frequentare con profitto la scuola del dolore: spe gaudentes lieti nella speranza; in tribulatione patientes pazienti nella tribolazione; orationi instantes costanti nella preghiera.
Cammino, 209
Unisci il dolore ― la Croce esterna o interiore ― alla Volontà di Dio, mediante un “fiat!” generoso, e ti riempirai di gioia e di pace.
Forgia, 771
Benedetto sia il dolore. ―Amato sia il dolore. Santificato sia il dolore... Glorificato sia il dolore!
Cammino, 208
Soffrire con allegria
Se uniamo le nostre piccolezze ― le contrarietà grandi e quelle insignificanti ― alle grandi sofferenze del Signore, Vittima ― l'unica Vittima è Lui! ―, aumenterà il loro valore, diventeranno un tesoro e, allora, prenderemo volentieri, con eleganza, la Croce di Cristo.
― E così non vi sarà pena che non sia vinta con rapidità; e non vi sarà niente e nessuno a toglierci la pace e l'allegria.
Forgia, 785
Di fronte al dolore altrui
Non passare indifferente davanti al dolore altrui. Questa persona ― un parente, un amico, un collega..., questo sconosciuto ― è tuo fratello.
― Ricordati di quello che riferisce il Vangelo e che tante volte hai letto con dolore: nemmeno i parenti di Gesù si fidavano di Lui. ― Fa' in modo che la scena non si ripeta.
Solco, 251
Con l’aiuto di Maria
Ammira la fortezza della Madonna: ai piedi della Croce, con il più grande dei dolori umani ― non c'è dolore come il suo dolore ― piena di fortezza. ― Chiedile questo vigore, per saper stare anche tu presso la Croce.
Cammino, 508
Non sei solo. ― Né tu né io possiamo trovarci soli. E meno che mai se andiamo da Gesù attraverso Maria, poiché è una Madre che non ci abbandonerà mai.
Forgia, 249

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Il valore della sofferenza nel Cristianesimo

Ritiro 17-2-1985 Firenze predicato da don Divo Barsotti

Vangelo:  Mc 1,40-45

Meditazione

La pericope evangelica di oggi fa presente soprattutto un tema: la malattia. Quale è la reazione di Dio di fronte al male dell'uomo? Lui che è perfettissimo, Lui che non conosce il male, come ha vissuto il contatto col male? ha reagito di fronte al male dell'uomo? Ecco la prima domanda che s'impone meditando questi testi. Nell'Antico Testamento sembra che il Signore in qualche modo voglia mettere fra parentesi tutto il male che contamina l'uomo: è immondo colui che tocca i cadaveri, nemmeno il sommo sacerdote può toccare o avvicinarsi al corpo del suo padre della sua madre; la morte deve essere in qualche modo esorcizzata, non conosciuta; e chiunque tocca un cadavere rimane immondo fino a sera, e poi deve lavarsi, per purificarsi. Lo stesso per i lebbrosi (e questo si è protratto anche nel Medioevo): dovevano allontanarsi dall'abitato, vivere soli, come scacciati dal consorzio umano, e gli uomini non dovevano in alcun modo stabilire una comunione con loro. Ma è cristiano tutto questo? Non è cristiano. Infatti, Nostro Signore non agisce così. Ma già l'atteggiamento proprio al pio israelita ci dice come per sé la vita religiosa dovrebbe escludere non solo il male morale ma anche il male fisico. Dio non è il datore della vita? Dio non è Colui di fronte al quale non può sussistere nessun male, dal momento che Egli è perfettissimo e i suoi occhi non possono contemplare il male, sia fisico sia morale?
Noi possiamo dunque comprendere l'atteggiamento dell'Antico Testamento, anche se non lo approviamo. È mai possibile che l'orrore del male debba essere più grande dell'amore che un figlio deve avere per suo padre e sua madre? Ma più ancora, possiamo noi giustificare che il male, il dolore, la sofferenza, la malattia debbano essere più grandi di quell'amore che già nell'Antico Testamento era comandato al pio israelita, almeno nei riguardi di coloro che appartenevano alla stessa religione e alla stessa razza?
Una certa spiegazione la si può avere nel fatto che, non potendo ancora esser realizzata la redenzione dell'uomo, si doveva attraverso questo rifiuto del male rendersi conto che quanto il Signore avrebbe compiuto doveva essere la liberazione non solo del male morale ma anche del male fisico. Essere con Dio voleva dire essere sani, sani moralmente; ma anche fisicamente, perché l'uomo è uno. Può l'uomo dividere la sua anima dal corpo? Ed essendo anima e corpo, può dividere un bene spirituale da un bene puramente fisico? No, perché il bene o è totale o non è, c'insegna la teologia. E allora questo rifiuto del male non solo morale ma anche fisico, è una espressione precisamente di questa volontà umana di tendere a una perfezione che escluda ogni male, è l'atteggiamento dell'uomo che, scelto da Dio, si sente ordinato al superamento di ogni male, alla perfezione dell'anima o del corpo.
Ma dicevo, ben altro è l'atteggiamento del Cristo; e noi dobbiamo spiegarlo, perché ci sembra veramente incomprensibile. Gesù; mosso a compassione, turbato nell'intimo di fronte a Lazzaro morto, piange. E sempre di fronte al male dell'uomo, la sua anima reagisce, umana, con un fremito di compassione, di turbamento, di sgomento. Ma è proprio questo che non comprendiamo. Certo che doveva reagire così, ma questa reazione del Cristo è giustificata, dal momento che Egli era Dio? Non avrebbe potuto liberare gli uomini da ogni male, dal momento che era venuto proprio per questo? Com'è che invece Egli soffre che il male sussista, di questo male Egli medesimo è turbato e sgomento? Certo il suo turbamento dice una cosa: dice, se non altro, che Dio non è indifferente, non è "apates", come dicevano i greci, non è impassibile; Egli vive veramente, come diceva Origene, "una passione di amore", e proprio perché vive una passione di amore diviene uno con coloro che ama. Chi ama non può sopportare di essere diverso dall'amato. E proprio perché Egli ama vuol essere partecipe del male dell'uomo: ne è partecipe, se non altro, in questo turbamento interiore, in questa compassione che prova, in questa angoscia nei confronti del male che ha colpito l'umanità.
Si, ma se posso capire che nell'amore Egli si faccia solidale con l'uomo che soffre, quello che non comprendo ancora è perché Lui che era Dio non libera immediatamente da questo male. Eppure, se è vera la compassione di Gesù, se è vero il suo turbamento nei confronti della morte e della sofferenza, tuttavia questo turbamento di per sé, non lo muove ad operare il miracolo: il miracolo sembra che gli venga strappato, Lui non vorrebbe farlo. E poi (anche questo è significativo) quando lo fa Egli vuole che non se ne parli: perché? Non è venuto Lui a salvare? Non si è fatto uomo precisamente per operare questa salvezza? Dal momento che la guarigione è già entrata nel piano stesso della salvezza, come mai questa guarigione non deve esser pubblicata, non deve essere annunciata? E come mai queste guarigioni sono così poche, e lasciano il mondo come l'hanno trovato?
Quante domande! Ma vedete, queste domande sono quelle che si fanno in tutto il mondo di oggi, e proprio facendosi queste domande il mondo di oggi ha ripudiato il Cristianesimo. Si parla tanto del Cristianesimo che è la salvezza del mondo, ma dov'è questa salvezza? Né sul piano morale, né tanto meno sul piano fisico, né tanto meno sul piano sociale la salvezza si è compiuta. Non è tutta una menzogna il Cristianesimo? Possiamo credere ancora? È evidente che da parte mia queste parole, non sono altro che domande retoriche. Io credo, ma debbo giustificare la mia fede: com'è che io posso credere? Com'è che io posso annunciare ancora il messaggio di una salvezza, dal momento che questa salvezza non la si vede, dal momento che di fronte al male del mondo sembra che Dio stesso rimanga impotente? Vi ricordate quello che dice il popolo quando Gesù piange di fronte alla tomba di Lazzaro? "Non poteva costui impedire che egli morisse?". Invece di piangere, perché non ha impedito la morte? È forse Dio impotente ad operare davvero la salvezza? Il male del mondo è più grande della sua onnipotenza.? Ma non sarebbe onnipotenza la sua se il male, grande quanto si voglia, non fosse inferiore al potere che Egli ha di una liberazione, di una salvezza che il mondo aspetta da Lui?
E poi: come vedere i miracoli? come giustificarli? Dobbiamo infatti renderci conto di un fatto anche questo sconcertante: i miracoli, tranne uno, forse, sono strappati a Gesù; alla sua pietà, ma Egli non vorrebbe farli. Va in luoghi deserti per non essere facilmente raggiunto, perché Egli sa che quello che chiederanno gli uomini saranno soltanto questi miracoli e Lui non li vuole fare. Anche alla Vergine sua Madre risponde quasi in male modo, alle nozze di Cana, perché di per Sé Egli non è venuto a compiere i miracoli.
Ma prima di rispondere alle domande che ci siamo fatte, s'impone per noi contemplare un Dio che soffre con l'uomo. No, dicevo prima, Dio non rimane indifferente nei confronti del male, riconosce il male fisico, riconosce il male morale. Nel Vangelo di San Luca, mi sembra, dice: "Se voi, che siete cattivi...". Con una sola parola ci ha tutti condannati. E non è:mica tanto alla buona Nostro Signore quando si tratta di riconoscere il male morale dell'uomo: Erode è "una volpe", i farisei sono "sepolcri imbiancati". Ha detto che se diciamo a un nostro fratello "raca" siamo condannati alla Geenna, ma Lui ha detto di più, non vi sembra? Nei confronti del male morale si erge la sua coscienza di Santo: è il Santo di Dio, a un visione chiara della responsabilità umana, di per sé che implica, se non una condanna definitiva, prima di tutto però un giudizio e una condanna presente. Ma nei confronti del male fisico, non c'è soltanto il senso di un suo giudizio, c'è il senso di una solidarietà più immediata: Egli si fa veramente uno con questo mondo che soffre. È vero che si fa uno anche coi peccatori, ma allora la sua solidarietà col mondo del peccato implica davvero che Lui è distrutto: lo vedete nell'Orto del Getsemani: non regge al peso, all'orrore di doversi Lui sentire come oppresso dal peccato del mondo. Qua invece non c'è questa oppressione, c'è una compassione senza fine. Gesù ha conosciuto il dolore, Gesù ha voluto conoscere il dolore dell'uomo, Gesù ha voluto sentire lo sgomento che prova l'anima nei confronti della morte. E questo non solo per quanto riguardava Se stesso, ma per quanto riguardava anche gli altri, come Marta e Maria, e la vedova cui era morto l'unico figlio, a Naim.
Gesù, ecco, è amore, ma un amore che prima di tutto si fa uguale a coloro che ama. E questo farsi, uno con coloro che soffrono rimane vero, perché l'atto del Cristo, pur essendo compiuto nel tempo, ha una sua virtualità infinita: Gesù vive questa passione di amore per tutti coloro che soffrono anche oggi. La vive nelle sue membra che siamo noi, nella misura che noi siamo uniti a Lui; ma, molto più di quanto non possa parteciparsi a noi questa sua compassione, Egli la vive in Se stesso, ed è questo che prima di tutto giustifica il ricorso di chi soffre al suo cuore. Se ognuno che soffre trova già una sua consolazione nella solidarietà con un'altra anima che soffre con lui, quanta maggiore consolazione può trovare nel sentire che il cuore di un Dio gli è vicino, che un Dio si è fatto suo compagno nel dolore! Gesù non lo libera, spesso, dal dolore, ma almeno si fa uno con lui nel portar la medesima pena.
Ed ecco, allora, dobbiamo considerare la presenza del Cristo nel mondo attuale: Egli è certamente vicino a tutti gli altri uomini che sono nei lager, a tutti i moribondi, a tutte le anime che soffrono. E la prima cosa che noi dobbiamo cercare di capire è precisamente questa: anche se tu sei solo nella tua pena, renditi conto che la tua solitudine è colmata da una presenza di amore; Egli è con te. Dobbiamo saperlo, dobbiamo prenderne coscienza, dobbiamo sperimentare questa presenza di un Dio che fa suo il nostro dolore, sua la nostra pena. Non ce ne libera, non se ne è liberato nemmeno Lui, anzi ha voluto essere solidale con noi, viver la nostra medesima pena. Questa è la prima cosa che dobbiamo dire.
Ma questa non è la risposta alla domanda che ci siamo fatta: perché Dio non ci libera? Ci deve essere una ragione grande perché Egli debba soffrire piuttosto che operare questa salvezza immediata che libererebbe Lui dalla sofferenza e ne libererebbe tutti noi per i quali Egli è venuto. Quale ragione vi può essere perché Egli rimandi la liberazione dalla sofferenza, dalla malattia, dalla morte? Quale ragione vi può essere perché il Signore non realizzi quello che ognuno di noi desidera? Perché, sì, noi possiamo desiderare anche la morte, proprio perché è la condizione per giungere alla beatitudine, ma la morte di per sé, non può essere desiderata. Gesù medesimo ha sentito l'orrore, lo sgomento di fronte alla morte; e anche San Paolo lo dice nella Lettera ai Corinzi "Non vorremmo essere spogliati ma supervestiti", cioè trasformati, senza passare attraverso questa rottura. Perché dunque Egli ha rimandato questa nostra salvezza totale?
La domanda non è inutile, perché la risposta a questa domanda è ciò che giustifica la nostra fede nel Cristianesimo. Se non sappiamo rispondere a questa domanda noi non soltanto non possiamo, ma non dobbiamo esser cristiani, perché Dio ci avrebbe mentito. Dov'è la salvezza? Perché Dio dunque non ha compiuto questa liberazione immediata? Alcuni hanno detto che Dio è impotente, che il male del mondo è così grande che Dio non può operare la salvezza dell'uomo. Non dobbiamo subito dire che questo non è vero, siamo troppo facili noi a dare subito una risposta: Lui stesso si è reso impotente, perché Lui stesso, donando la libertà all'uomo, rispetta quello che l'uomo vuole. E l'uomo vuole la morte, l'uomo vuole la malattia, l'uomo vuole i suoi mali, ecco la cosa terribile. Perché vuole i suoi mali, perché vuole la morte, perché vuole il dolore? Semplice: perché non vuole Dio. Perché nella misura che l'anima non vuole Dio e vuole invece qualche altra cosa essa vuole precisamente il suo male.
Ma, notiamolo bene, noi vorremmo dividere l'uomo. Proprio dopo il Concilio in cui si vuole andare contro il dualismo dell'anima e del corpo, noi vogliamo il dualismo. E come lo vogliamo? Quando vogliamo la guarigione dalle malattie, la liberazione dalla morte, e non ci rendiamo conto che se noi non vogliamo Dio dobbiamo conoscere il male, non soltanto spirituale e morale, ma anche fisico, perché l'uomo è uno. Come è possibile scindere il male spirituale dal male fisico? Non è possibile, dal momento che l'uomo è uno. Se voi continuate a dire che l'uomo è uno e che non si può parlare di dualismo di anima e corpo, ne viene come conseguenza che se tu non vuoi Dio, se nella tua libertà non scegli Dio, scegli la morte. È vero che non la scegli direttamente, ma la scegli ugualmente, anche se non consapevolmente, perché scegliendo il peccato, scegliendo cioè qualche cosa che ti allontana da Dio, che ti separa da Lui, tu di fatto scegli la tua morte, il tuo male. L'uomo è uno, e allora il male del mondo rimane non come conseguenza ma come l'altra faccia del peccato. E noi possiamo comprendere come giustamente al tempo di Gesù (ricordate il cieco nato?) si avesse la sicurezza che il male anche fisico era sempre conseguenza del peccato.
È vero, bisogna vedere però quale peccato. E anche qui il discorso non è così facile, perché evidentemente ci sono quelli che peccano e che stanno benissimo, e quelli che sono santi e hanno tutte le malattie, tutti i dolori, tutte le sofferenze e magari la morte; e allora? Allora dobbiamo renderci conto che non solo l'uomo è uno anima e corpo, ma che l'uomo è uno con tutti gli uomini. Vi è una solidarietà che non si può distruggere; ognuno di noi, salvando se stesso, salva in qualche modo tutti gli uomini e ognuno di noi nel suo peccato compromette anche tutti gli uomini. Ma è questa la cosa bella: che allora quelli che non hanno peccato soffrono ora il male di quelli che hanno peccato, e questo implica, poiché Dio è infinita misericordia, che molto spesso quelli che hanno peccato non trovano nel dolore umano un altro motivo di bestemmiare, di ribellarsi a Dio, di far più grande il loro peccato nell'inveire contro di Lui, perché Dio permette che il castigo che a loro è dovuto vada ad altre anime, le quali sono più capaci di sopportarlo e di accettarlo dalla sue mani. E allora, notatelo bene, il dolore che esse hanno accettato dalle mani di Dio diviene dolore redentivo. È come la passione del Cristo: anche il Cristo ha voluto subire tutto il male del mondo, ma subendolo Lui innocente, questo dolore è divenuto la forza che ha redento il mondo.
Così il dolore delle anime giuste, nella misura che non è dovuto a un loro personale peccato, ma è una conseguenza del peccato del mondo, proprio per questa ragione diviene in loro non più frutto del peccato, ma forza viva di redenzione anche del peccato altrui.
Vediamo un poco, allora, che cos'è questo Cristianesimo, che cos'è questa salvezza che noi annunciamo? La salvezza che noi annunciamo si esprime soltanto nell'annuncio di Giovanni: "Noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto all'amore". Non c'è altra salvezza, oggi e qui. Che questo amore domani possa essere la nostra beatitudine noi lo crediamo, ma oggi e qui la salvezza è soltanto nell'essere coscienti che Dio ci ama e si è fatto uno con noi. E facendosi uno con noi, Dio che cosa opera? Opera, non in un modo da travolgere la nostra libertà, ma da consentire, da persuadere, da agire dall'intimo nel cuore umano, perché gli uomini lentamente si separino dal peccato. Ma fintanto che il peccato sussiste, vi saranno sempre necessariamente delle anime che dovranno invece portare il peso del peccato altrui. Ecco le anime riparatrici che Dio chiede. Dal 1671-73, cioè da Santa Margherita Maria, fino a santa Gemma Galgani, attraverso tutte le apparizioni Dio ha chiesto sempre questa riparazione; e la riparazione vuol dire soffrire, e la riparazione vuol dire accettare la sofferenza e la riparazione vuol dire associarsi al Cristo nella sua passione. Passione che è incominciata quando Egli ha incominciato a conoscere gli uomini, perché appena conosciuto l'uomo ha conosciuto il suo peccato, il suo dolore, la sua sofferenza, la sua malattia, la sua morte. E questa conoscenza che Cristo ha avuto dell'uomo ha iniziato la sua passione, la sua pietà. La passione del Cristo è soltanto il prendere sopra di Sé il peso del peccato e del male del mondo. Il peso del male del mondo, Lui che era Dio, Lui che era infinitamente beato, l'ha conosciuto fin dalla sua nascita quando si è fatto uomo passibile per soffrire la persecuzione di Erode, per soffrire il freddo, per soffrire quello che ogni uomo soffre.
Che cos'è dunque il Cristianesimo? Il Cristianesimo è la fede nell'amore di Dio, amore verace, amore pieno, reale. Oh, miei cari fratelli, se Dio con la sua onnipotenza ci avesse salvato dal male, non ci avrebbe salvato, ci avrebbe umiliato, avrebbe scaricato su di noi un bene che non sarebbe stato il frutto della nostra volontà nell'adesione a Lui. Noi non lo possiamo accettare; non è degno dell'uomo, non è proprio dell'uomo accettare un dono che non merita. Non possiamo accettarlo nemmeno da Dio; Dio stesso salva la nostra dignità, non permette che noi riceviamo se non quello che in qualche modo abbiamo meritato, proprio nella libertà del nostro volere, unendoci a Lui. La salvezza dell'uomo dipende da questa libertà, oltre che da Dio. Certo la nostra libertà non può far nulla, non può che consentire all'atto divino, è Dio che ci salva; ma se è Dio che ci salva la salvezza stessa di Dio non ci raggiunge se noi non consentiamo a Lui. E consentire a Dio vuol dire liberarci da quello che impedisce la nostra adesione a Lui, alla sua volontà.
Miei cari fratelli, è ben questa la dottrina cristiana. La dottrina cristiana riconosce la sovrana onnipotenza di Dio, la sovrana onnipotenza della grazia, ma la onnipotenza della grazia sempre si deve coniugare con la libertà dell'uomo. Dio ci ha fatto così grandi, dice Soloviov, da farci capaci di lottare con Lui. Questo è purtroppo la vita dell'uomo, la vita di ogni anima religiosa. Tutti noi non facciamo altro che lottare con Dio, non vogliamo arrenderci fino in fondo, non vogliamo abbandonarci mai fino in fondo all'onnipotenza della sua grazia, non crediamo al suo amore; vogliamo difendere noi stessi e difendendo noi stessi noi impediamo che la salvezza giunga a noi e giunga al mondo. L'unico modo di ottenere la nostra salvezza è quella di abbandonarci totalmente, nella libertà del nostro volere, alla sua volontà. Scegliere Dio: ecco la cosa che s'impone all'uomo; sceglierlo e sceglierlo in un modo assoluto, sceglierlo senza condizionamenti, sceglierlo senza attendere, saperci donare a Lui totalmente: ecco l'unico modo perché noi possiamo divenire, col Cristo, partecipi non solo di una salvezza nostra, ma di una salvezza che attraverso di noi giunga anche agli altri, perché, solidali con tutta l'umanità in Cristo Signore, noi stessi operiamo la salvezza del mondo. Il Cristo continua la sua passione attraverso i cristiani; noi non possiamo rifiutare la nostra parte di sofferenza: rifiuteremmo la nostra parte di amore, rifiuteremmo la nostra solidarietà col Cristo, rifiuteremmo di essere una sola cosa con Lui. Questo è grande nell'uomo, che non siamo soltanto passivi nei confronti di Dio, ma proprio perché riceviamo tutto da Lui, proprio per questo diveniamo attivi nei confronti del mondo, nei confronti dei nostri fratelli.
Ecco quello che c'insegna prima di tutto il Vangelo che abbiamo ascoltato; e questo noi diciamo quando diciamo la triplica Consacrazione: nella consacrazione alla Vergine diciamo che vogliamo essere una sola cosa col Cristo "per essere in Lui e con Lui salvatori del mondo, rivelatori del Padre". Sì, non solo il Cristo ci salva, ma noi tutti partecipiamo di questa salvezza in quanto anche noi in Lui siamo uno strumento di salvezza che giunge ai fratelli, proprio nella misura che noi come Lui ci facciamo solidali col mondo del peccato, accettandone la pena, accettandone il castigo. Ecco perché i santi amano la loro sofferenza, ecco perché Dio stesso non libera i suoi santi dalla sofferenza, anzi qualche volta si compiace di gravare sopra di loro con tanta pena, con tanto dolore.
Ecco perché continua la passione del Cristo, e continuerà fintanto che la nostra passione non consentirà agli uomini, nella loro libertà, di aderire a Dio. Fintanto che sussiste il peccato non può non sussistere il male anche fisico, dal momento, si diceva prima, che il male fisico e il male morale sono un unico male, ed è inseparabile l'uno dall'altro. Può essere separabile colui che soffre il male nei confronti di colui che fa il peccato, ma suppone anche questo la solidarietà di una umanità che, come tutta è nel peccato, così tutta deve essere redenta; ricordiamocelo: che tutta deve essere redenta. Tu puoi essere unito a Dio, ma tu non puoi essere salvo senza la salvezza di tutti coloro che ami e che devi amare. Per noi in qualche modo si realizza quello che è il voto del Bodisavva nel Buddismo; lì però è soltanto un fatto mitico, mentre per il cristiano è un fatto vero, è reale. Voi sapete quale è il voto? Il Bodisavva che ha raggiunto la liberazione rimanda la sua salvezza; "fintanto che vi è una creatura sola che non è salva, io non accetto la mia salvezza", dice. Ecco, è questo che noi dobbiamo volere, è questo che deve volere l'umanità anche cristiana, perché non possiamo volere la nostra salvezza senza la salvezza degli altri. E allora noi dobbiamo esser pronti ad accettare la nostra parte di sofferenza con la sofferenza del Cristo perché questo male del mondo possa essere veramente eliminato, poiché non vi può essere eliminazione che nell'amore. Non la sofferenza di per sé è amore, ma come la sofferenza del Cristo è stata l'atto supremo del suo amore, così deve esserlo anche la nostra. Di qui la grandezza della sofferenza quando è accettata per amore, quando è vissuta nell'amore, come l'ha vissuta Gesù.
Omelia
È vero, dunque, che col Cristianesimo il male non è immediatamente scomparso, ma ha preso un'altra significazione, ha acquistato un altro valore. È questa una delle note che noi dobbiamo soprattutto contemplare e meditare. La sofferenza, il dolore, la malattia e la morte erano nell'Antico Testamento non solo castigo, ma anche uno scandolo. Si comprende il discorso di Giobbe: com'è che Dio debba infierire sull'innocente? Com'è che la pena, il dolore la morte, debbano colpire proprio coloro che sono stati fedeli a Dio? Nei primi tempi infatti s'insegnava, nell'antico Israele, che premio della fedeltà al Signore sarebbe stata una lunga vita e anche la prosperità. Ma tutto questo non è avvenuto nell'Antico Testamento e non avviene nemmeno oggi. Come mai? Come mai non segue, alla fedeltà al Signore, una liberazione dal male? Si è detto: perché siamo solidali ancora con un mondo di peccato, ma questo non dice tutto, perché il male in questo caso non è più un castigo, diviene invece una forza di redenzione. Quello che era riprovevole; quello che l'uomo dell'Antico Testamento rifiutava e non poteva non rifiutare, ora invece diviene la preghiera del santo. Certi santi si sentivano abbandonati da Dio quando nessuna prova o fisica o morale li colpiva. La croce diviene ora nel Cristianesimo il segno di una benedizione. E di fatto quando noi si chiede anche la benedizione al sacerdote e al Vescovo, il Vescovo traccia su di noi un segno di croce. Non è mica una cosa troppo bella per noi che non vogliamo tanto soffrire! Però la benedizione si dà con un segno di croce: vuol dire che la croce stessa è benedizione, per il cristiano. Ecco la rivelazione che ha compiuto il Cristianesimo.
E in che modo questa rivelazione si è compiuta? È semplice: perché la sofferenza accettata volontariamente in unione alla volontà divina, diviene l'espressione suprema dell'amore. "Nessuno ha maggiore amore di colui che dà la vita peri i suoi amici", ha detto Gesù. Ma anche tutto quello che implica di per sé sofferenza, dolore, mortificazione dell'anima, se è accettata volontariamente, diviene la prova dell'amore, la presenza stessa dell'amore. Miei cari fratelli, proprio questo è il Cristianesimo. Certo, dall'amore viene la gioia, ma verrà solo come frutto dell'amore; la cosa più importante è che ci sia l'amore, perché la gioia senza l'amore sarebbe una cosa da escludere più ancora della sofferenza medesima. Una gioia che nasce soltanto dall'egoismo è qualcosa che si oppone "toto coelo" a ogni visione della vita cristiana. Meglio essere sulla croce, come Gesù, che vivere una gioia che è soltanto una soddisfazione egoistica, perché vivere, per noi, è amare. Come è dell'essenza di Dio essere amore, così anche l'uomo realizza se stesso soltanto nella misura che ama; e allora è evidente che prima viene l'amore e poi verrà anche la gioia, prima viene l'amore e poi verrà anche la beatitudine, verrà anche la beatitudine, verrà anche la liberazione da ogni male; ma la cosa che l'anima deve volere prima di ogni altra e alla quale tutto deve essere sacrificato è l'amore. E l'amore nel Cristianesimo ha un solo volto, ha una sola rivelazione di sé: la Croce di Gesù. È nella sua morte di croce che Gesù ha rivelato a noi il suo amore, la perfezione del suo amore, la grandezza del suo amore, l'efficacia del suo amore, e non solo dell'amore che Egli porta a noi, ma dell'amore che Egli porta al Padre. Cosicché proprio questo ha compiuto il cristianesimo: ha rovesciato i valori. La morte, la pena, il dolore, che erano le cose dalle quali l'uomo istintivamente rifuggiva, che sentiva veramente che minacciavano l'essere suo; che sentiva come scandalo supremo, sono divenuti invece il premio per l'anima che ama, il premio di poter morire, di poter donare la propria vita a coloro che si ama.
E tutto questo, guardate bene, è avvenuto quasi naturalmente, perché la grazia divina agisce nel cuore dell'uomo se l'uomo lascia che essa lo investa. Quale è la mamma che non vuole soffrire col figlio che soffre? Quale è la mamma che rifiuta di sacrificarsi per il suo figlio che ama? È vero che ora siamo tornati in un mondo totalmente pagano, se si pensa alla piaga dell'aborto, al delitto dell'aborto, che sempre più si distende come una malattia mortale per questa umanità di oggi, che rifiuta la sofferenza; ma quando le mamme erano cristiane, non rifiutavano certamente di sacrificarsi per i loro figli, quando queste mamme erano cristiane non hanno sentito un peso a dover soffrire per il proprio figlio che poteva essere malato, che poteva essere moribondo; non ci sarebbe stato nulla di più terribile per una mamma che impedirle di vivere il dolore del figlio suo. È l'amore. Il dolore può essere anche la manifestazione dell'amore.
Il fatto che oggi sia venuta fuori la piaga dell'aborto deriva proprio dal fatto che non c'è più l'amore; l'uomo non ama più e perciò non sa più soffrire, non può accettare più di soffrire; mentre è il privilegio di un'anima che ama il poter dare se stessa per coloro che ama; ed è questo che il Signore ci chiede.
Considerate allora quello che è avvenuto col Cristianesimo, Dio ha dato la possibilità all'uomo di amare. Vi sembra poco? Amavano anche prima, sì, è vero, difatti il martirio antecede il Cristianesimo (II Libro dei Maccabei) però è col Cristianesimo che si è veduto fino in fondo come l'amore non può avere nella vita quaggiù altra rivelazione, altra espressione, altra realizzazione che la morte di sé. Ed è per questo che noi dobbiamo allora capire il perché il Signore non ha tolto la sofferenza dal mondo. Prima di tutto, quando l'anima consente, la sofferenza ci strappa a noi stessi, al nostro egoismo. Poi può divenire veramente l'espressione suprema del nostro amore, quando è, accettata liberamente, quando la si vive come dono di sé a coloro che amiamo. Ecco quello che ha compiuto il Cristianesimo. Ora questo è già salvezza, è salvezza dal peccato che è egoismo, è salvezza dal peccato ed è un aprirsi dell'essere precisamente a questa legge che fa sì che l'uomo viva l'amore. Dio si è fatto presente, ha rivelato Se stesso soprattutto nella sua morte di Croce. È quello che dice San Giovanni nel IV Vangelo, la Passione di Gesù, negli ultimi versetti viene presentata da Giovanni come rivelazione suprema dell'amore di Dio. E Giovanni poi, nella Prima Lettera, dirà appunto questo: che tutta la vita cristiana non consiste poi in fondo in altro che nel conoscere e credere nell'amore: "et nos cognovimus et credidimus caritate". E dire anche: "Noi abbiamo conosciuto l'amore perché Egli per primo ci ha amato ed ha dato Se stesso per noi". È la rivelazione suprema di Dio ed è il dono supremo che Egli ci ha fatto di Sé.
La salvezza non è prima di tutto la liberazione dalla morte, è la liberazione dal nostro egoismo che c'impedisce di vivere, che ci fa vivere soltanto la morte nella misura che c'impedisce di amare. Perché veramente la vita dell'uomo quaggiù, se non è vita di amore, è veramente un morire: morire a tutto, morire a tutti, morire a se stessi, perché l'uomo in sé non è che vuoto, pura capacità. Noi siamo quello che riceviamo. Apriamoci ad accogliere l'amore di Dio e impariamo, nell'accogliere l'amore, anche ad amare. La malattia, la sofferenza, la morte, ci sono ancora, ma nel Cristianesimo non son più né castigo, né scandalo. Possono essere scandalo per chi non è cristiano, e infatti "la Croce è scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani ma per noi è la forza di Dio", per noi è veramente la rivelazione stessa di Dio. questo ci dice San Paolo, questo noi dobbiamo vivere. E noi possiamo capire se siamo cristiani o meno solo nella misura che siamo più o meno capaci non soltanto di accettare la sofferenza ma di trasformarla in atto di amore. Ci può essere sempre una ripugnanza della nostra natura, l'ha sentita anche Gesù; ma nella misura che noi volontariamente accettiamo la nostra morte, come Gesù ha accettato la sua, nella misura stessa che noi nella nostra morte, nel nostro sacrificio nella nostra mortificazione viviamo il dono di noi stessi a coloro che amiamo, noi siamo figli di Dio, siamo coloro nei quali vive Dio, che è l'amore.
Allora noi dobbiamo ringraziare Dio se Egli ci chiede di soffrire. Vi sembra strano? No, non è strano! Vuoi che Dio ti abbandoni, che ti lasci vivere la tua piccola vita? Ma nella tua piccola vita tu non vivrai altro che il vuoto, la mediocrità, la sterilità, la morte. Questa è la morte vera: il non conoscere amore; questa è la morte vera: il non donar nulla di sé; infatti tu possiedi soltanto quello che doni, e allora possiedi soltanto il tuo amore; ogni Persona divina è soltanto nella Persona che ama e siccome ama infinitamente è l'infinito; ma è l'infinito proprio nel donarsi all'altra Persona, nel non essere per Sé e in Sé, nulla. Nell'essere tutta nell'altra Persona e per l'altra Persona. E così noi: noi siamo soltanto nella misura che ci doniamo, nella misura che la nostra vita diviene questo dono di amore.
Ora noi potremmo vivere questo dono di amore anche senza soffrire, è vero, ma la sofferenza non l'ha creata Dio, nasce dal fatto che noi siamo legati a noi stessi. Se siamo legati, ogni atto che ci strappa a noi stessi crea una ferita, ma se tu sei libero non c'è più dolore. Esser libero da ogni sua volontà, da ogni suo pensiero, libero da se stesso, non avere altra proprietà che quella di amare, questo è quello che dovrebbe distinguere il cristiano. Se non hai altra proprietà che quella di amare, non trovi la tua gioia e la tua vita se non nella morte, nella morte totale a te stesso, nella rinunzia totale a quello che sei e a quello che hai, in vista di Colui che tu ami.
Ecco perché i santi vivono la pazzia della Croce, come diceva il Grandmaison: uno dei caratteri distintivi della santità, è questa fame di sofferenza, questo bisogno di morte. Ma non della morte per la morte: non siamo degli uomini che vivono un amore morboso, che non è conforme alla natura; non la morte per la morte, ma la morte in quanto è amore. Io leggo in questo momento la vita di Sant'Alfonso de Liguori: a cena un bicchier d'acqua, a mezzogiorno una minestra; cambiava però alcune volte: ci metteva l'assenzio o la cenere. E in ginocchio, 10 minuti e basta. E poi si flagellava due o tre volte la settimana in tal modo che le pareti rimanevano macchiate di sangue; una volta addirittura è svenuto, pensavano che dovesse morire, talmente si era flagellato. Ma perché tutto questo? Voleva dimostrare il suo amore. Io non vi dico di fare altrettanto, ma vi dico però che non potete amare Dio se non vi strappate a voi stessi, al vostro egoismo, soprattutto all'egoismo spirituale: l'orgoglio, la vanità, l'amor proprio.
Ma anche uno strapparsi a tutto questo implica sempre delle ferite, l'umiltà non è facile. L'essere dimenticati, disprezzati, messi da parte, che nessuno ci consideri, che nessuno nemmeno ci guardi, non è una cosa molto piacevole alla nostra natura, non vi pare? Se i nostri figli non ci guardano, se il marito ha un'altra donna, sono tragedie, perché non vogliamo sentirci metter da parte, vogliamo essere un po' qualcosa per qualcuno. Non so se accetteremmo volentieri di non essere nulla per nessuno, perché siamo legati a noi stessi, perché vogliamo attrarre gli altri a noi. Amiamo, sì, ma di un amore centripeto, che trae a sé e vorrebbe che tutti pensassero a noi; siamo come dei bambini che vogliono tutta l'attenzione di tutte le persone presenti per sé. Siamo cristiani? Non siamo cristiani. Però Nostro Signore ci porta per questa via; ci mette da parte, fa sì che gli altri ci dimentichino. Che meraviglia.
Vivere tutto questo, accettarlo serenamente, con amore. Dobbiamo esser di Dio: che importa che gli altri non abbiano per noi nessun sentimento di affetto, nessun sentimento di stima, di rispetto, che importa? Liberarci da questo orgoglio, da questa volontà di avere tutto per noi e anche dall'egoismo sul piano della vita fisica.
Miei cari fratelli, il cammino è questo. Non occorre imitare Sant'Alfonso de Liguori, che è ancora un pochino del '700 e continua una certa spiritualità, che non so quanto sia perfettamente evangelica; non mi risulta che Nostro Signore portasse le catenelle o il cilicio. "Già - voi mi dite - ma Lui era libero dall'egoismo"; però noi dobbiamo dire anche che Gesù non ha chiesto che noi imitassimo san Giovanni Battista (io per ora non ho mai mangiato le cavallette) ma di imitare Lui. Guardate che non ci guadagnate mica molto, sapete, perché in fondo le mortificazioni scelte da voi sono sempre qualche cosa che può nutrire una stima di voi stessi, un ripiegarvi sopra di voi. Accettate piuttosto le prove a cui Dio vi sottopone nella vostra vita, accettatele con amore; sappiate trasformarle in amore, perché questo il Signore vi chiede. Sappiate amare, amare fino in fondo senza preoccuparvi di voi, senza pensare a voi stessi, senza ripiegarvi sopra di voi; fate sì che gli altri abbiano ogni diritto su di voi e voi non abbiate altro diritto che quello di amare. Non chiedete nulla per voi, chiedete soltanto la grazia di poter amare e donarvi senza fine.
Cerchiamo di trovar la nostra gioia (parlo anche per me) proprio in questo dono del nostro tempo, delle nostre possibilità, di noi stessi, alla Chiesa, alle anime, ai fratelli, alle sorelle della Comunità, ai nostri cari nella famiglia; troviamo veramente la ragione della nostra vita in questo dono. Gesù è venuto nel mondo soltanto per morire, per donare la sua vita per noi, e anche noi dobbiamo vivere soltanto per dare la nostra vita. A chi? Ai fratelli. Nella Comunità? Sì, certo, e anche al vostro marito e ai vostri figli, certo! Non è Dio che vi ha legato a queste anime perché voi viveste per loro? Vivere per gli altri così è vivere per Iddio. Vivere per Iddio vuol dire vivere questa disponibilità continua a un dono di sé che esige la morte: la morte al nostro modo di pensare, al nostro modo di vivere, ai nostri comodi, ai nostri sentimenti. Essere disponibili agli altri, non difendere nulla; quello che difendiamo è perduto, perché lo difendiamo nei confronti dell'amore; è salvato soltanto quello che doniamo. Non si possiede che quello che si dona, si diceva prima; l'uomo, se è persona, è essenzialmente rapporto, perciò tanto più è quanto più ama, l'amore non è qualche cosa di accidentale nella natura. Se Dio è amore anche il cristiano, che è stato creato a immagine e somiglianza di Dio è nella misura che ama. Perciò torna vero quello che vi dicevo: non si possiede se non quello che si dona. Quello che tratteniamo per noi è per noi è veramente un impedimento, non a essere santi, ma a essere semplicemente uomini, a essere semplicemente cristiani. Come Dio è amore, così l'uomo sia amore.
Vedete, in Dio (e anche in noi quando saremo in paradiso) questo dono di sé non implica sofferenza, ma quaggiù implica sofferenza e la sofferenza sarà tanto più grande quanto più grande è l'attaccamento ai nostri egoismi.
Non è Dio che vuole la nostra sofferenza e che crea la nostra morte, siamo noi a crearla, e la creiamo nella misura che siamo attaccati a noi stessi. Vedete Giovanni XXIII? Quasi le ultime parole che dice sono: "Mi sono rallegrato grandemente perché mi è stato detto che andrò nella casa del Signore". E pensate anche alla lettera che scrive San Luigi Gonzaga alla madre, e, documento più impressionante di tutti, alla lettera di Sant'Ignazio di Antiochia ai Romani: "Da questo saprò se mi avete voluto bene, se voi inciterete le bestie feroci ad azzannarmi e a mangiarmi, e saprò invece che voi mi avete odiato se voi farete qualcosa per risparmiarmi la morte". Poter morire per Cristo, ecco la gioia del martire. Guarda, non sarai mangiata dai leoni, ma potrai essere mangiata dai tuoi familiari. Stare sempre a loro disposizione è difficile, è duro, perchè è una cosa di tutti i giorni e di tutte le notti. Sappi amare, non ti rifiutare, cerca di viverlo in una gioia profonda, in un dono di amore che cresca in te, che faccia crescere in te l'amore stesso che tu devi avere per Dio, perché questa è la tua comuione con Lui, questo è il cammino della tua santità. Dio ti vuole santa, ed è questa la prova.
Con me invece Nostro Signore si è stancato, non mi chiede mai nulla, ma potete voi ottenermi la grazia che mi faccia soffrire un poco, perché? Perciò anch'io debbo amare, e amare vuol dire strapparmi da tutti gli orgogli segreti che possono ancora legarmi a me stesso, da ogni mia vanità, da ogni mio amor proprio, e anche dall'egoismo dello spirito e dall'egoismo della carne. Quando sarò liberato nell'amore, allora proprio nell'amore io vivrò la mia resurrezione, come Gesù. Egli, che si era addossato tutto il peccato del mondo, doveva sentire sul piano psicologico la ripugnanza al patire, ma nel suo amore ha superato questa ripugnanza e nel puro abbandono al Padre ha vissuto, nell'atto della sua morte, la sua resurrezione medesima.
Che cos'è la resurrezione del Cristo? È un atto diverso dalla sua morte? No, assolutamente no. Credete che Nostro Signore sia risorto tre giorni dopo essere morto? Non è vero nulla! Questo è avvenuto sul piano del la vita apparente, ed era necessario, perché altrimenti gli uomini non si sarebbero resi conto di nulla, ma è nell'atto del suo morire che Egli vive l'atto supremo dell'amore. La sua natura umana diviene l'organo dell'amore divino, e proprio nel suo venir meno alla vita passibile, alla vita umana, diviene strumento della vita divina, di un amore infinito, di un amore totale, per noi uomini e per il Padre suo. Nell'atto della morte il Cristo vive l'atto supremo della sua vita, perché non si vive che nell'amore ed è nell'atto della sua morte che Gesù ha amato sino alla fine, sino alla consumazione di Sé.
Anche noi, miei cari fratelli, dovremmo trovare proprio nella nostra morte la nostra gioia suprema, perché fintanto che non moriamo ci rimane ancora qualche cosa da dare. Che bello poter morire! Davvero la morte diviene il dono supremo che Dio ci possa fare se la morte è, come in Santa Teresa di Gesù Bambino, l'atto supremo dell'amore di un'anima che si offre a Dio e ai fratelli per la loro salvezza. Noi dobbiamo sentire tutta la nostra vita come un tendere precisamente a questo. Ancora non siamo così santi da poter morire stasera, vero? però dobbiamo vedere la nostra vita come cammino a questa morte. La morte non deve essere un accidente nel lavoro, deve essere l'atto supremo del nostro vivere, non può essere altro, com'è stata in Gesù. E se la morte deve essere l'atto supremo del nostro vivere bisogna che cresca in noi l'amore, e divenga ogni giorno più puro, e ci chieda ogni giorno di più, fintanto che non ci chiede finalmente anche il nostro venir meno a noi stessi perché in noi non viva più che Dio solo.
Ecco, miei cari fratelli, come Dio ha trasformato la sofferenza e la morte, così da fare della morte il dono supremo della vita, il dono supremo che Egli può farci, se nella morte è veramente la manifestazione suprema dell'amore nostro per Lui, dell'amore nostro per i fratelli. Ancora non ci siamo, ma avremo ancora da vivere. Non vi spaventate, non vi dico mica che dovete morire stasera! Ci sono tanti legami, legami a noi stessi, e avanti di scioglierli tutti ce ne vuole! Forse dovremo vivere ancora 90 anni, se andiamo di questo passo. Speriamo che Nostro Signore veramente ci strappi, ci tiri a Sé e operi questa nostra trasformazione nell'amore.