lunedì 6 febbraio 2012

Il culto delle labbra

Di seguito il Vangelo di oggi, 7 febbraio, martedi della V settimana del T. O., con qualche testo per la meditazione.


Tra tutte le piante che coprono il campo delle Scritture,
distinguo un fiore meraviglioso.
Esso ha cominciato a fiorire sulle labbra del Salvatore.
Ha la sua radice nel cuore di Gesù:
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

S. Macario, Omelia 18


Mc 7,1-13

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?”. Ed egli rispose loro: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. E aggiungeva: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”. 

IL COMMENTO

Annulliamo la Parola in nome della nostra scienza, ovviamente presunta. Tradizioni di uomini, oggi come ieri, tra gli scribi e i farisei di ogni tempo, tradizioni di famiglia, di lavoro, di gruppo. Principi assoluti, gli unici capaci di sostenere l'architettura del mondo. I nostri. E quel mantra ripetuto ed esibito come un lasciapassare: Per principio... E, oggi come allora, le nostre alchimie e i nostri castelli giuridici eretti perchè tutto funzioni secondo le nostre ragioni, immancabilmente esatte, senza l'ombra del minimo dubbio. E quel tono saccente di chi insegna sempre senza bisogno di apprendere nulla. Sicuri e al calduccio, infilati nelle calde pelliccie delle nostre idee fatte legge. Nelle case, nei rapporti matrimoniali, nei condomini, dal fruttivendolo, al bar, a scuola, al lavoro, anche durante una partita di calcio. Ovunque posiamo i piedi giunge sempre il nostro giudizio di merito, la soluzione pronta e infallibile, il rullo compressore dei nostri criteri.

Come negare una morte dignitosa ad un malato? Come negare il diritto a vedere esaurito, ad ogni costo e con ogni mezzo, il desiderio di un figlio, se è scritto proprio nella Bibbia, lì all'inizio, in quel bel "Crescete e moltiplicatevi"? Come negare il diritto ad avere diritto di pensare-decidere-fare secondo i propri diritti? Il sofisma antico, "se Dio vi ama perchè proibisce? Se sei Figlio di Dio perchè devi obbedire? Se il Creatore ti ha dato la ragione e i desideri, come è possibile soffocarli nell'abbraccio mortale dei limiti imposti dagli altri? Meglio sperimentare su un embrione e ucciderlo che milioni di malati, che diamine! A casa come nelle aule parlamentari, in famiglia come tra le urla delle piazze, assassiniamo soavemente la Parola, cioè la Vita, cioè Cristo. Eludiamo abilmente il "comando", il cammino per la vita, camuffando le nostre tradizioni e spacciandole per Parola divina e sostituendole ad essa. E sono solo precetti di uomini, forieri di corruzione e di morte. Delle famiglie come degli embrioni. Per i precetti umani, per il bene carnale, si uccide il bene spirituale. Per una menzogna si cancella il vero.

"Invano essi mi rendono culto". Una parola durissima per chi, come i farisei, avevano innalzato una barriera intorno alla Legge per impedire che fosse violata per inavvertenza. 613 comandamenti avevano la funzione di attualizzare la legge per la vita concreta. Solo l'obbedienza scrupolosa alla Legge e la dipendenza assoluta dalla loro interpretazione precettistica definiva l'appartenenza al popolo di Dio. E «un ignorante non può essere pio», amavano ripetere. Il precetto umano circoscriveva così il campo del puro e dell'impuro, che non atteneva alla sfera prettamente morale, ma che era in funzione del culto. I precetti avrebbero dovuto costituire il regolamento cui attenersi scrupolosamente per essere atti al culto. Ma, nelle parole di Gesù, i precetti della tradizione si svelano al contrario come un impedimento al culto, e i Farisei, insegnandoli, lo rendono vano. Le labbra ripetono vuote parole mentre il cuore scivola via lontano. La superficie diviene un assoluto mentre evapora la sostanza. Al punto di non comprendere più la libertà per la quale il Popolo ha ricevuto la Legge. E' lo stesso stordimento che sperimentiamo quando, issando i nostri criteri quali assoluti a prova di dubbio, cadiamo preda del giogo peggiore, quello del moralismo, che, schiacciandoci, trascina con noi chi ci è accanto.

I discepoli di Gesù invece sono entrati nel cuore della Legge, ne hanno assaporato la Verità compiuta in quel Profeta di Nazaret, e per questo sono ormai liberi. Li muove il cuore rinnovato nell'amore, e rendono così un culto autentico. Esso infatti è espressione di una relazione d'amore, non è frutto di sforzi moralistici che sporcano di giudizio ogni presunta opera pia. Non è un culto rattoppato come un vestito vecchio, è vino nuovo in otri nuovi. Così in famiglia, al lavoro, in parrocchia, ovunque. La libertà di chi ha consegnato a Cristo la propria vita senza riserve, facendo di ogni istante il frammento di una liturgia di lode. Un culto senza lode è sempre falso, una ipocrita esibizione di un certificato di buona condotta con il quale comprarsi il Cielo. Un culto vano, idolatrico, vanaglorioso. La lode invece scaturisce sempre dalla debolezza rivestita di misericordia, da un cuore contrito che ha conosciuto il perdono. Per questo il culto autentico, quello che Dio desidera, è il frutto di labbra che confessano il suo Nome, un cuore grato e stupito dinanzi al suo amore smisurato. I discepoli avevano conosciuto questo amore, e per loro tutto era ormai divenuto puro, perchè tutto era stato bagnato dalla misericordia. Ogni istante, ogni persona, tutto era santo, perchè tutto era stretto nell'abbraccio pieno di benevolenza del Signore.

Chi ha conosciuto Cristo, chi ne ha sperimentato il perdono, guarda tutto con occhi puri. La Legge non è più un giogo opprimente, ma è invece il gioco dolce di Cristo, la Croce che ha salvato dalla morte la propria vita. Chi ha conosciuto Cristo prende su di sé il suo giogo, e impara da Lui, mite e umile di cuore. Attrae la moglie, il marito, i figli, gli amici, i colleghi, nella sua vita trasformata in una liturgia di lode, e guarda tutti con occhi di speranza e misericordia. Chi ha conosciuto Cristo e gli ha consegnato il cuore ama, e nell'amore pensa, parla, lavora, prega. Ha rinnegato se stesso, i propri criteri, i precetti modellati dalla propria ragione. E' abbandonato alla Volontà del Padre, segue il Signore sul sentiero della conversione, della felicità e della vita, desiderando che si compia in lui il Comandamento, il primo e il più grande, la sintesi della Legge e dei Profeti: l'amore a Dio e al prossimo, l'amore riversato nel cuore dallo Spirito di Cristo risorto. Non vi è giudizio, esigenza, moralismo. Solo misericordia, pazienza, e quella letizia che solo chi ha sperimentato la liberazione autentica dalla schiavitù del peccato può gustare e diffondere. La letizia dei misericordiosi.

* * *

Clemente d'Alessandria (150-circa 215), teologo
Il Pedagogo, III 89, 94, 98 ; SC 158

La legge nuova scritta nel cuore degli uomini

Abbiamo il Decalogo, dato da Mosè ... e tutto ciò che viene raccomandato dalla lettura dei libri santi. « Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista ! Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova. Su, venite e discutiamo, dice il Signore » (Is 1, 16-18)... Ma abbiamo anche le leggi del Verbo, le parole di esortazione scritte non su tavole di pietra dal dito di Dio ( Es 24, 12), ma nel cuore dell'uomo (2 Cor 3, 3)... Per questo le tavole dei cuori duri sono state spezzate (Es 32, 19) ; la fede dei bambini imprima i suoi tratti negli spiriti docili. Queste due leggi sono servite al Verbo per la pedagogia dell'umanità, prima per bocca di Mosè, poi per bocca degli apostoli...

Tuttavia abbiamo bisogno di un maestro per spiegarci queste parole sante... Lui ci insegnerà le parole di Dio. La scuola, è la Chiesa ; il nostro unico Maestro, è il Fidanzato, che è volontà buona di un Padre buono, saggezza originaria, santità della conoscenza. « Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati » (1 Gv 2, 2). Guarisce l'uomo intero, sia i nostri corpi, sia le nostre anime, lui, Gesù, che è « vittima di espiazione non soltanto per i nostri peccati, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo d'averlo conosciuto : se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice « lo conosco » e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui » (1 Gv 2, 3-4).

Allievi di questa beata pedagogia, completiamo il bel volto della chiesa e accorriamo come bambini, verso questa madre piena di bontà. Diventiamo gli ascoltatori del Verbo ; glorifichiamo la beata provvidenza, la quale ci guida per mezzo di questo Pedagogo e ci santifica come figli di Dio.


Santa Teresa d'Avila (1515-1582), carmelitana, dottore della Chiesa
Il cammino di perfezione, ch. 28, 9-11

« Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me »

Immaginiamoci che, dentro di noi, c'è un palazzo di una ricchezza immensa, costruito con oro e pietre preziose, dunque degno,del Padrone a cui appartiene. Poi ditevi, sorelle mie, che la bellezza di tale edificio dipende anche da voi. Infatti, c'è forse edificio più bello di un'anima pura e piena di virtù ? Quanto più le gemme sono grandi, tanto più risplendono. Infine, pensate che in questo palazzo abita il grande Re che si è degnato di farsi nostro Padre ; siede su un trono preziosissimo, che è il vostro cuore...

Forse riderete di me, e direte che questo è evidente, e avrete ragione. Eppure questo per me è stato oscuro per un certo tempo. Avevo capito che avevo un'anima, però la stima che meritava quest'anima, la dignità di colui che vi abitava, non lo avevo capito. Le vanità della vita erano come una benda che mi mettevo sugli occhi. Se io avessi capito, come oggi, quale grande Re abitava in quel piccolo palazzo della mia anima, non l'avrei lasciato da solo così spesso ; sarei rimasta di tanto in tanto accanto a lui, e avrei fatto il necessario affinché il palazzo fosse meno sporco. Quanto è mirabile pensare che colui la cui grandezza potrebbe riempire mille mondi e anche molto di più, si rinchiude così in una così piccola dimora.
APPROFONDIMENTI





L'ebraismo di Gesù
di Isabelle Chareire
docente presso la Facoltà di teologia dell'Università Cattolica di Lione, 

sul rapporto di Gesù con i Farisei.


Gesù opera un rovesciamento di prospettiva nel modo di intendere la legge da parte del suo universo religioso: egli non la disprezza, ma supera il dilemma sottomissione-trasgressione per far intervenire un terzo dato, la situazione e attaccandosi ad un'osservanza meticolosa e ossessiva della Legge e della tradizione, i Farisei ne perdono infatti di vista l'ispirazione profonda che è quella di promuovere la giustizia, la misericordia e la fedeltà e di essere al servizio di questi valori.
Il discorso sulla purezza si inscrive in questo quadro che vede nel dinamismo profondo del cuore, di ogni cuore, dove è di casa lo Spirito, il luogo in cui può essere vinta la doppiezza ed essere accolta la Grazia che apre alla visione di Dio.
La proclamazione della sesta beatitudine da parte di Gesù dovette apparire agli occhi dei Farisei paradossale e addirittura scandalosa: come poteva tessere l'elogio della purezza Colui che senza complessi trasgrediva le regole della purità legale?
Questa apparente contraddizione segna più in generale l'atteggiamento di Gesù nei confronti della Legge.
Il compimento della Legge da parte di Gesù sposta radicalmente gli abituali punti di riferimento della Legge stessa.
Dopo aver messo in evidenza questo rovesciamento di prospettiva, vedremo di cogliere il nuovo modo di intendere la purezza che esso comporta, per concludere la nostra analisi con gli ostacoli e le poste in gioco di tale comprensione della purezza.



1. Gesù e la legge
L'aperto conflitto tra Gesù ed i Farisei si sviluppa in relazione alla Legge ed alla tradizione. Secondo C. Duquoc, la predicazione di Gesù è sovversiva in quanto opera un triplice rovesciamento di prospettiva: nei confronti della giustizia, della Legge e della tradizione.
La parabola del Figlio prodigo (Luca 15) e quella degli Operai dell'undicesima ora(Matteo 20) relativizzano la giustizia. 
Matteo 
20, rompe quell'equilibrio sociale per cui il parassita non viene trattato alla pari del lavoratore; il fatto è che le leggi del Regno non obbediscono affatto a questo genere di evidenze.

In realtà, la giustizia sociale, applicata rigidamente, genera alla fine esclusione. In base alla giustizia - che avrebbe riservato un diverso trattamento al figlio minore rispetto a quello maggiore - il figlio prodigo, nonostante il suo pentimento, sarebbe stato vittima della memoria, e cioè della sua reputazione.
La festa organizzata dal padre, il quale non lo tratta in base al peccato commesso, cancella nel figlio la memoria della colpa.
Il Regno di Dio non ha niente a che vedere con la logica sociale che produce l'esclusione, in quanto esso è speranza per coloro che sono senza speranza.
Gesù non disprezza la Legge, ma esce dal dilemma sottomissione/trasgressione facendo intervenire un terzo dato: la situazione.
Qui tuttavia la situazione viene fatta intervenire non nel senso deteriore della casistica, la quale è disposta ad accantonare la legge solo per non farsi scomodare dal prossimo, ma al contrario proprio nella misura in cui essa richiede un coinvolgimento nei confronti dell'altro. Gesù non disprezza la Legge, ma si sente libero riguardo ad essa: la trasgredisce in ragione della disperazione che incontra (guarisce il giorno di Sabato) e rimprovera ai Farisei di dimenticare lo scopo della Legge, quello cioè di "rivelare che ogni essere umano è affidato all'altro". L'essenza della legge consiste nello svincolarsi dall'esclusiva attenzione verso se stessi per richiamare il fatto che l'altro, gli altri esistono; fuori da questa funzione, della quale è al servizio, essa risulta vana, non oggettiva.
Nell'universo religioso di Gesù, la tradizione (cf Mt 15) assolveva una duplice funzione:
- come principio critico, era il luogo di verifica delle decisioni da assumere in presenza di situazioni inedite; questa giurisprudenza, tuttavia, tendeva a diventare impositiva, ed è questo che Gesù rifiuta;
- di fatto la tradizione, in quanto principio globale capace di fare memoria delle esperienze in ragione della loro esemplarità, fosse questa positiva o negativa, giungeva al punto di escludere ogni possibile spazio per una pratica trasgressiva di queste regole: "Gesù non rifiuta l'esperienza del passato come cosa senza valore, ma non accetta che essa sia la misura di ogni possibile esperienza. L'inatteso della decisione presa nel momento presente non viene giustificato facendo ricorso alla coerenza con le norme imposte dal passato".
Tale rovesciamento di prospettiva nei confronti di questi tre punti di forza del Giudaismo porta all'elaborazione di un giudizio critico sui loro possibili effetti perversi e apre all'immagine di un Dio non più ostaggio della Legge e della tradizione, ma mostrato da Gesù nell'inedito del suo divenire. E' in questo orizzonte che dobbiamo intendere la purezza alla quale Gesù ci invita.



2. L'essenziale e l'accessorio
Le dispute di Gesù a proposito del puro e dell'impuro sono riportate da Matteo ai capitoli 15,10-20, e 23,25 ss. Il primo passaggio si colloca dopo un contrasto con gli scribi e i Farisei a proposito della tradizione; Gesù si rivolge allora alla folla: ciò che rende impuro è ciò che esce dalla bocca dell'essere umano, non quanto vi entra.
La seconda pericope è inserita nel quadro di una lunga serie di invettive contro i Farisei; qui Gesù si rivolge alla folla e ai discepoli. Il Signore raccomanda di fare ciò che dicono i Farisei, ma di non imitarli nelle loro azioni perché "tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini" (23,5); sono degli ipocriti che, pur senza entrarvi essi stessi, chiudono agli altri l'ingresso nel Regno di Dio. Dopo uno sviluppo del discorso sui votidal quale emerge lo stravolgimento dei valori - agli occhi dei Farisei l'oro del tempio pareva più sacro del tempio stesso, e la decima della menta, dell'anèto e del cumino più importante della giustizia, della misericordia e della fedeltà - Gesù affronta la questione del puro e dell'impuro.
La pratica farisaica, che dà maggior peso all'apparenza esteriore che alla carità dei cuori, è ipocrita; questo non avere cura dell'essenziale a beneficio dell'accessorio porta a sconfessare gravemente i veri profeti.
Da questi testi emergono tre critiche:
- l'atteggiamento dei Farisei è caratterizzato dall'incoerenza e dall'ipocrisia in quanto essi predicano, ma non fanno ciò che predicano;
- attaccandosi ad un'osservanza meticolosa della Legge e della tradizione, i Farisei ne perdono di vista l'ispirazione profonda; certo, ciò che è secondario non può essere omesso (Mt 23,23), ma esso, tuttavia, deve sempre essere collocato all'interno della dinamica profonda della Legge, senza mascherarla;
- la purità rituale non conta nulla, è quanto si agita all'interno dell'essere umano che lo rende puro o impuro.
La doppiezza farisaica nasce dalla rimozione di ciò che è essenziale: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. La giustizia è la nervatura della Legge, ne rappresenta la sua ragion d'essere; ma poiché questa giustizia è quella di Dio, essa va oltre una rigida applicazione che produrrebbe un'altra ingiustizia (cf Mt 20 e Lc 25) e viene esercitata col metro della misericordia. La misericordia non nega la giustizia, ma la libera: attraverso il perdono accordato a chi ha sbagliato, essa la rende continuamente possibile.
Mentre l'esclusione chiude ogni orizzonte, la misericordia persiste senza posa a prospettare un avvenire, oltre ogni tradimento, ogni diserzione. É all'interno di questa tensione tra giustizia e misericordia che può essere vissuta una fedeltà perseverante al Dio della vita, perché Lui è indettibilmente fedele.
Scegliere la reale posta in gioco della Legge significa farla gravitare al servizio della giustizia autentica.
Questa giustizia non è quella degli esseri umani perché non opera esclusioni, quale che sia la situazione, e permette a chiunque di rinnovare l'Alleanza che Dio propone senza stancarsi mai.
Dimenticare questi tre elementi fondamentali equivale a rendersi davvero impuri. Se la purezza è l'assenza di ambiguità, prendere cioè in considerazione la giustizia di Dio senza secondi fini, essa può realizzarsi proprio incontrandosi sull'essenziale.
Quando i mezzi fanno perdere di vista il fine, per forza siamo indotti ad un atteggiamento ambiguo, di doppiezza: in fondo, l'ipocrisia dei Farisei non è che la conseguenza di questa dimenticanza di base, quella della giustizia e della misericordia.
L'osservanza della Legge, sottratta alla sua dinamica profonda, funziona allora in modo ideologico. L'ideologia, secondo la formula di Regis Debray, elude la storia e "ci passa sul corpo senza passare attraverso la testa".
Tagliar fuori il reale equivale a votarsi alla doppiezza, stabilendo un ideale meramente formale senza presa dinamica sulle azioni umane.
L'osservanza della Legge non ha senso se non alla condizione d'essere orientata alla volontà di desiderare il bene; la purezza esige di passare dalla eteronomia all'autonomia, di essere cioè mossa da un dinamismo interno e non esterno. E'quanto esprime il Dottore Angelico:
"Colui che evita il male in virtù di un precetto del Signore non è libero. All'opposto, chi evita il male perché è male, costui è libero. E' qui che opera lo Spirito Santo che perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un nuovo dinamismo, e così è per amore che egli non commette il male, e dunque è libero, non nel senso che egli non sia sottomesso alla legge divina, ma in quanto il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive".



3. La purezza: un dinamismo interiore
La trappola dell'atteggiamento farisaico consiste nello stabilire un ideale assoluto senza prendere in considerazione le condizioni concrete nelle quali gli uomini e le donne si trovano a vivere; siamo qui di fronte ad un meccanismo ideologico, vale a dire la teorizzazione di un comportamento a partire da un'unica chiave di lettura che nega la complessità del reale.
La doppiezza è conseguenza dell'atteggiamento ideologico che rifiuta le ombre e la fallibilità della condizione umana. Ma ciò che Gesù propone non è quell'autenticità un po' sfrontata spesso evidenziata dai comportamenti dei nostri tempi, e che tende ad identificare direttamente la moralità con la schiettezza e la spontaneità.
Il criterio della moralità si ridurrebbe in questo caso alla pura soggettività, alla trasparenza verso se stessi e gli altri; ora, anche in modo autentico, si può ben essere perversi o immorali! Rifiutare la doppiezza non vuol dire cadere nell'ideologia della spontaneità.
La purezza è, invece, un atteggiamento che deve essere costruito nell'incontro tra la verità personale e la legge.
L'autonomia, e cioè la coerenza interiore tra il desiderio profondo del soggetto e il fine ultimo della legge, non significa assenza di oggettivi punti di riferimento, ma trasformazione interiore che armonizza la legge ed il desiderio.
E' distintivo della Nuova Legge, secondo san Tommaso d'Aquino, il trovarsi all'interno dell'essere umano: "grazia dello Spirito Santo che si manifesta mediante la fede operante nella carità ".
Ciò che caratterizza la Nuova Legge è che essa antepone l'etica alla morale.
Mutuiamo questa distinzione da Paul Ricoeur: l'etica è il dinamismo interiore del soggetto, la moralità è l'insieme degli imperativi e dei divieti ai quali il soggetto deve ridare una sistemazione in rapporto al suo progetto etico primario. 
La legge non viene per prima, ma per ultima, dal momento che si pone come istanza di verifica del desiderio o del progetto etico; la legge è la realizzazione e non il requisito della filtrazione di senso della nostra azione.
Nel cristianesimo è proprio l'etica, ed il suo fondamento propriamente teologale, ad avere la priorità; come dice san Paolo "non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me".
La purezza nasce da questa disponibilità alla grazia che forma il desiderio interiore.
Questa trasformazione del desiderio non è alienazione, ma liberazione, in quanto rappresenta non la negazione dell'umanità ditale desiderio, ma il suo compimento.
Non esiste purezza possibile al di fuori di questo orientamento teologale del soggetto e della sua azione; solo il dinamismo profondo del cuore può produrre un'azione autenticamente morale e cioè frutto realmente della giustizia e della misericordia.
La tensione tra questi due poli, giustizia e misericordia, è in effetti un crinale che può essere percorso solo con la disponibilità del cuore.
Non è senza significato che questa esigenza di purezza ci venga trasmessa da Colui che ha frequentato i peccatori ed i lebbrosi.
All'orgogliosa purità dei Farisei, basata sul criterio di fondo della legalità, Gesù oppone una purezza densa d'umiltà. Se la peccatrice è perdonata (Lc 7,36ss) è "poiché ha molto amato"; non è che Gesù non la inviti alla conversione, ma essa è perdonata perché, avendo amato molto, è capace, riconoscendosi debole e peccatrice (v. 38), di operare in modo effettivo e non ideologico, sul proprio desiderio.
Puro non è chi non commette peccato - ciò equivarrebbe a sottrarsi in modo illusorio alla propria condizione - ma colei o colui per i quali questi peccati rappresentano non l'occasione per un facile compiacimento né per una eccessiva colpevolizzazione, ma il luogo d'accoglienza della grazia in vista di una conversione che deve essere continuamente operata.
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio": se la purezza è proprio questa capacità dell'essere umano di lasciarsi rinnovate interiormente dall'azione dello Spirito, al punto che il suo desiderio si armonizza con la legge divina, questo atteggiamento non può che aprire alla visione di Dio.
Proiettandoci nella dinamica del divenire, voluta per noi dal nostro Creatore, essa ci orienta, nel cuore stesso della complessità della nostra condizione umana, verso l'Avvenire della visione definitiva di Colui-che-viene.


Isabelle Chareire
* * *




Gesù e i Farisei
di Alberto Mello
(QOL febb 1986; Sefer n. 25, gennaio-marzo 1984)
Gesù era un ebreo: che cosa significa questo per noi, cristiani non ebrei? Certo nessuno di noi contesta l’evidenza storica dell’ebraismo di Gesù, ma in che misura questo fatto determina anche la nostra conoscenza spirituale» di Gesù, ha un posto nella nostra confessione di fede in lui? Siccome per noi Gesù è il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo — e non solo il Messia di Israele, il Re dei Giudei — il suo ebraismo ci appare in genere come un aspetto di secondaria importanza, se non perfino limitativo e imbarazzante, Non è un po’ fastidioso, per tutti noi, il comportamento iniziale di Gesù con la donna cananea: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini? (Mt 15,26). Eppure l’ebraismo di Gesù non traspare solamente in una qualche particolarità dei suoi atteggiamenti, ma è la modalità di fondo di tutta la sua esistenza, è il suo modo di vivere, di pensare e di credere in Dio. La nostra posizione riguardo all’ebraismo di Gesù non può non avere le più profonde conseguenze sul nostro modo di concepire la sua umanità, e di conseguenza su tutta la nostra fede cristiana, Bisogna confessare che, in questo senso, quasi tutta la nostra cristologia rappresenta un grosso arretramento rispetto all’ebraismo di Gesù, e dunque anche alla sua vera e piena umanità. Forse ai Padri è sfuggito qualcosa: la umanità così semplice di Gesù, la semplicità di Gesù è più profonda delle teologie più profonde; sono parole del Patriarca Atenagora[1]. Accanto ad esse vorrei porre quelle, così convergenti, di un altro uomo molto rappresentativo della propria tradizione di fede, Martin Buber: ciò che Gesù dice è al tempo stesso semplice e profondo, ingenuo e pieno di paradossi, violento e calmo: avremo mai finito di penetrare il senso delle sue parole?[2].
Ecco, il mistero, il segreto di Gesù è tutto qui: in questa sua umanità così semplice e così piena di profondità, nelle sue parole e nei suoi gesti che non finiremo mai di spiegarci e di capire. Ma questa umanità è interamente ebraica dal principio alla fine. L’ebraismo non spiega solo l’origine di Gesù, ma è l’intero orizzonte della sua esistenza. Egli stesso non ha mai inteso oltrepassarlo, uscirne fuori: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24).
L’esasperazione polemica delle differenze.
L’ebraismo è dunque il campo ermeneutico della figura di Gesù, fuori dal quale la sua umanità non è più significativa, non è più parlante, oppure riceve delle connotazioni profondamente estranee, proiezioni delle nostre sempre più cangianti ideologie: dal Gesù moralista liberale al Gesù socialista rivoluzionario, per tacere delle figure trionfalistiche del passato
Tutto questo ovviamente non vuol dire che Gesù sia riducibile ad una certa somma di influenze ambientali, che non abbia cioè una sua originalità del tutto singolare; però la sua stessa originalità è perfettamente ebraica, comprensibile soltanto all’interno dell’ebraismo. Uno dei modi con cui l’esegesi specializzata, ma anche la lettura cristiana corrente del Vangelo, sottraggono Gesù al suo ebraismo, è l’esasperazione polemica delle differenze che lo opporrebbero appunto al «giudaismo» a sua volta preso come un tutto unico e indifferenziato. Ho il sospetto che una contrapposizione così frontale non serva affatto a capire Gesù, ma serva piuttosto a rivendicare una propria identità cristiana, In questo senso, il fenomeno si attesta già nel Nuovo Testamento: negli stessi Vangeli è molto evidente la polemica, sia specialmente anti-farisaica (Matteo) sia globalmente anti-giudaica (Giovanni), ma non sfugge neppure come essa rifletta in misura determinante il conflitto successivo tra la Chiesa nascente e la Sinagoga, anacronisticamente antidatato nella vita stessa di Gesù. Che cosa è più anacronistico del Gesù giovanneo che parla ai « Giudei», come se egli stesso non fosse tale?
Gesù non ha affatto voluto rompere con il « giudaismo». Se la polemica arriva fino a questo punto, vuol dire che non è sua, ma è una esasperazione della Chiesa primitiva: si veda il modo in cui Matteo trasforma una parola di Gesù sul raduno escatologico dei dispersi d’Israele in un giudizio senza appello contro i figli del Regno e in favore solamente dei pagani (cfr. Lc 13,28-29 con Mt 8,11-12).
Anziché inasprire del toni polemici comprensibili se situati storicamente ma di cui oggi, dopo Auschwitz, abbiamo misurato anche le più tragiche conseguenze, la nostra comprensione di Gesù e del Vangelo si avvantaggerebbe molto se cercassimo anzitutto di situarlo nel suo ambiente ebraico palestinese. Una identità non si costruisce solamente per contrapposizioni e non tutto ciò che è importante deve anche essere originale: se Gesù condivide la fede farisaica nella resurrezione, se su questo non è originale, non per questo la cosa ha meno valore. Lo stesso si dica di tutte le possibili «differenze» di Gesù, di cui l’esegesi neotestamentaria ha fatto un criterio per giungere alle ipsissima verba Jesu: esse non sono significative di per se stesse, ma lo diventano solo su un ampio «fondo di continuità» che nonostante tutto è molto maggiore delle differenze.
I silenzi del Vangelo.
Anche al di là della polemica, è chiaro infatti che la testimonianza evangelica è fortemente selettiva e limitata ai gesti e alle parole decisivi, cruciali.
Del primi trent’anni di Gesù non sappiamo nulla o quasi dai Vangeli e in generale sono molte le cose non dette evidentemente perché date per scontate. Alcune vengono dette solo di sfuggita: così è solo di passaggio che veniamo a sapere che Gesù, come ogni ebreo osservante, portava sul mantello le zizioth, le frange prescritte dalla Legge, perché i malati le toccavano per essere guariti (Mt 9,20; 14,36). Forse, se non ci fossero queste testimonianze casuali, saremmo già stati indotti a credere che Gesù non si curasse di simili dettagli nel modo di vestire, tanto più che in Mt 23,5 i farisei sono proprio accusati di «allungare le frange» dei loro scialli di preghiera. E invece Gesù obbediva alla Torah anche in questo, che non è affatto un punto trascurabile, poiché la prescrizione delle frange di Num 15,38-40 è la terza parte dello Shema’, la confessione di fede con cui ogni figlio di Israele si impegna ad amare il Signore precisamente attraverso l’obbedienza alle sue volontà: «E sarà per voi come un fiocco, e quando lo guarderete vi ricorderete di tutti i precetti del Signore, per metterli in pratica» (Num 15, 39). Come questa, vi sono molte altre cose che i Vangeli non dicono esplicitamente e che noi in qualche modo dobbiamo restituire a Gesù, se lo vogliamo capire. Ad esempio, la preghiera sinagogale: i Vangeli ci insegnano ripetutamente che Gesù partecipava al culto sabbatico nelle sinagoghe e che spesso, come Rabbi, vi spiegava le Scritture, ma essi non ci dicono qual era la preghiera che si faceva in sinagoga. Mi sembra chiaro che la conoscenza della preghiera che Gesù faceva in sinagoga è anche una conoscenza elementare della sua preghiera, una conoscenza elementare di Gesù stesso. Tutte queste cose «elementari», cioé fondamentali, cui il Vangelo accenna soltanto, dove le possiamo imparare? Evidentemente soltanto dalla tradizione ebraica, quella tradizione orale che si è sedimentata essa pure in documenti scritti, la Mishnah, i Midrashim e ilTalmud, ma che soprattutto è stata ininterrottamente trasmessa, custodita, praticata all’interno del giudaismo e da questa osservanza è stata sempre riattualizzata e resa viva. Con questo si vuol dire in sostanza che ‘per la conoscenza di Gesù è essenziale la conoscenza del giudaismo: una conoscenza, beninteso, non puramente storica ed erudita, ma sapienziale e spirituale, quale può nascere solo dall’incontro con una tradizione vivente.
La ricerca ebraica.
Di fatto, che cosa ha cambiato oggi la situazione della ricerca sulla vita di Gesù? L’evento più importante in questo dopo-guerra, dopo-Auschwitz, è proprio che degli studiosi ebrei si stanno di nuovo interessando a Gesù. Questo rinnovato interesse comincia già durante Auschwitz, con il Gesù e Israele di J. Isaac (‘43-’45), che ha assolto il compito catartico di denunciare i pregiudizi cristiani antiebraici su Gesù. Ma poi prosegue con i lavori di R. Aron, Sh. Ben Chorin, P. Lapide e, soprattutto, D. Flusser e G. Vermès[3]. Queste opere non hanno tutte lo stesso carattere e valore, ma sono tutte esempi diversi di una profonda «riappropriazione ebraica» della figura di Gesù, di un approccio storico religioso estremamente simpatetico che si può spingere fino alla resurrezione, la quale è appunto una possibilità propria della fede ebraica tradizionale (cioè: farisaica) nel Dio di Abramo, nel Dio di Isacco e nel Dio di Giacobbe. Per questi autori ebrei Gesù resta pienamente compatibile con l’ebraismo, e si può spiegare solo a partire da questo. Se rottura vi è stata tra il giudaismo e il cristianesimo, essa non è imputabile a Gesù, ma al superamento della Legge conseguente alla predicazione evangelica ai pagani.
«Il Gesù sinottico, secondo i tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca, non ha mai e in nessun luogo trasgredito o comunque invitato a trasgredire la legge di Mosè. Voi cristiani vi rendete le cose troppo facili limitandovi alla sola immagine paolina di Gesù e affermando che Gesù ha mutato la Legge, cioè l’ha resa invalida o addirittura abolita. Ciò non è vero: Paolo ha predicato in questo modo ai pagani, ma non certo agli ebrei... Questo Gesù fu così fedele alla Torah come spero di esserlo io; ho anzi il sospetto che Gesù fosse più fedele alla Torah di quanto non lo sia lo, ebreo ortodosso»[4]. Per misurare la diversità e la freschezza di questi approcci ebraici basta considerare l’impasse in cui l’esegesi cristiana del Nuovo Testamento è stata condotta in questo secolo dalla problematica bultmanniana, cioè da un paolinismo protestante esasperato secondo il quale il Gesù «secondo la carne» è una realtà storicamente irraggiungibile e teologicamente irrilevante, mentre ciò che unicamente conta è la fede cristologica postpasquale.
Qui, al contrario, non solo si ha un po’ più di ottimismo circa la conoscenza storica di Gesù (secondo Flusser, egli è il giudeo post-testamentario del quale conosciamo meglio la vita e il pensiero), ma si ha soprattutto una fiducia assai maggiore appunto nella sua umanità ebraica, e quindi nella sua fede, nella sua esperienza di Dio (e, caso mai, un po’ più di sfiducia in quella postpasquale dei discepoli). La mia fondata impressione è che il giudaismo vissuto dal quale partono questi autori sia realmente un fondo di continuità, a livello di fede e di esperienza religiosa che li sintonizza con Gesù per molti aspetti più direttamente di quanto non avvenga a noi cristiani per i quali l’accesso a Gesù è mediato da formulazioni dogmatiche più che da una similarità di esperienza.
Il giudaismo radicale di Gesù.
Un dato storico ammesso da chiunque è che Gesù si iscrive in un giudaismo radicale, fortemente segnato dalla tensione escatologica e in qual che modo lo rappresenta: l’appello alla conversione per la prossimità del Regno di Dio fa da esordio alla sua predicazione itinerante. Fin dall’inizio del Vangelo Gesù appare nel deserto, accanto a Giovanni dal quale si fa battezzare. Ora, il deserto è proprio il luogo dell’attesa e della purificazione in vista del Regno che viene, della sua «preparazione», secondo il programma di Isaia 40, citato dai Vangeli per situare l’opera del Battista.
La predicazione penitenziale ed escatologica che caratterizza il movimento battista è certamente un elemento di grossa novità nel giudaismo dell’epoca. Un fatto come il battesimo di Giovanni « per la remissione dei peccati» non si introduce nella prassi del giudaismo senza modificare profondamente tutto ciò che concerne la purità e il perdono del peccati, fino a toccare il Tempio e i sacrifici. D’altra parte, esso si inserisce a sua volta in un movimento ascetico più vasto, che oggi siamo in grado di ricostruire attraverso i manoscritti di Qumran, sulle rive del mar Morto. Questa comunità monastica del deserto incarna infatti un ideale sacerdotale apertamente dissidente rispetto al culto del tempio, considerato illegittimo e impuro, La sua origine risale alla crisi asmonea del II sec. a.C., quando i Maccabei unirono nella stessa persona il regno e il sommo sacerdozio, per di più non sadocita. Ritiratisi nel deserto secondo la profezia di Isaia (c. 40), i monaci sadociti di Qumran seguono un calendario liturgico diverso da Gerusalemme, radicalizzando all’estremo le norme di purità (abluzioni rituali; celibato) e attendono la venuta di un Messia di Aronne, sacerdotale, che purificherà il culto del Tempio. Questo «giudaismo radicale» del deserto è il primo orizzonte entro il quale dobbiamo situare Gesù. Sappiamo che di fronte ai sadducei del Tempio, quelli che per noi rappresentano il «giudaismo ufficiale», Gesù giustifica la propria autorità rimandando al battesimo di Giovanni; ed egli sarà protagonista di un gesto profetico di purificazione dei Tempio che, quale che ne sia la portata ultima, già diversamente interpretata dai Vangeli, ha in ogni caso un carattere contestativo. Anche riguardo alla purità Gesù assume un atteggiamento radicale, come appare dalla disputa coi farisei (Mt 15,1-20 par.). La netilath jadajim, il lavarsi le mani prima dei pasti, è una prescrizione farisaica che estende alla vita quotidiana di ogni ebreo le esigenze e le prerogative del sacerdote che si accosta all’altare. La risposta di Gesù è perfettamente ad rem (non ciò che entra, ma ciò che esce dalla bocca contamina l’uomo), poiché la preoccupazione dei Farisei era che le mani impure potessero contaminare i cibi, come l’esterno della coppa può contaminare il suo interno. Ciò che invece non è più ad rem è che Gesù intendesse dichiarare puri tutti gli alimenti secondo la glossa di Mc 7,19 che riattualizza la parola di Gesù secondo la problematica della Chiesa dei gentili (cfr. At 10, dove Pietro, il commensale di Gesù, dichiara di non avere mai mangiato cibi immondi). In sostanza, ai farisei Gesù dice: non basta lavarsi le mani, occorre una purificazione ben più profonda di tutto l’uomo, a partire dal suo interno, dal suo cuore. In questo egli è certamente più radicale dei farisei, anche se lo è in un modo del tutto diverso dagli stessi monaci di Qumran, che prima dei pasti facevano una abluzione completa ed accusavano i farisei di «cercare degli alleggerimenti» per la gente. Del resto, già il Battista con il suo battesimo offerto a tutti ed una volta per sempre si discostava dalla prassi delle abluzioni quotidiane. Gesù andrà ancora più lontano: stando al IV Vangelo, anch’egli battezzava come Giovanni, all’inizio del suo ministero, ma poi non lo farà più, ed ogni volta che parlerà ancora di un battesimo si riferirà alla propria morte (cfr. Mc 10,38 ss; Lc 12,50).
Ad ogni modo, spesso il radicalismo di Gesù in materia di halakhah (norme legali!) si avvicina alle posizioni di Qumran, come sul divorzio: Essi sono presi dalla concupiscenza sposando in vita due donne, mentre il principio della creazione è: maschio e femmina li creò (Doc. Damasco 4.20; cfr. Mt 19,1-9 par.). Tuttavia a proposito delle halakhah va notato che al tempo di Gesù essa non era ancora molto fissa, ed era oggetto di discussioni anche tra i farisei, tra le scuole di Hillel e di Shammai, come si può dimostrare proprio con l’esempio del divorzio. E in fine non bisogna dimenticare che Gesù era un galileo:
certe intransigenze da « violenti» per il Regno di Dio si spiegano anche a partire dalla Galilea, la patria degli Zeloti, benché Gesù non fosse uno zelota nel senso politico del termine.
Il giudaismo universale di Gesù.
Dopo l’arresto di Giovanni, Gesù lascia il deserto di Giuda per tornare in Galilea, dove inizia un ministero pubblico di rabbì itinerante e carismatico, di maestro autorevole della Scrittura e di profeta autore di guarigioni. “Gesù, questo battista che presto non battezzerà più, raccoglie tutto l’apporto della corrente battista e lo trasforma stranamente nella sua parola che annuncia il perdono, nei suoi gesti di esorcista e taumaturgo che pongono la salvezza, e più ancora nella sua vita e nella sua morte di profeta martire in questo sorprendente spiazzamento teologico che va dal Battista a Gesù, è difficile non riconoscere il segno personale di Gesù stesso”[5]. Ouesta predicazione dell’evangelo del Regno che è fatta per tutti specialmente i più lontani, i peccatori, i malati e non i sani, le pecore perdute della casa d’Israele; questa proclamazione della misericordia del Signore che riscatta l’uomo dal male e dal peccato, rendendo visibile la venuta del suo Regno (Se io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio, allora è venuto per voi il Regno di Dio: Mt 12,28): tutto ciò è appunto il segno più personale di Gesù, l’aspetto più caratteristico del Vangelo. E si tratta di un atteggiamento profondamente universale, poiché estremamente consapevole della gratuità della salvezza, e che la misericordia di Dio è senza confini. In questo, a me pare, Gesù manifesta anche tutta la sua solidarietà e il suo radicamento nell’ebraismo più popolare, meno settario, più
universale e, in una parola, più misericordioso: cioè quello farisaico. Non vi è dubbio infatti che in Galilea gli interlocutori di Gesù, che lo invitano nelle loro case e lo accolgono nelle sinagoghe, sono soprattutto i farisei. Certo anche loro possono essere scandalizzati dalla spregiudicatezza con cui Gesù si siede alla mensa dei pubblicani e dei peccatori, infrangendo le barriere religiose della purità e dei meriti, ma ci sbagliamo nel pensare ad essi come a persone distanti dalla povera gente o che disprezzavano l’am ha-arez, i contadini ignoranti della Legge: i Rabbini di Javne dicevano: io sono una creatura e l’am ha-arez ( il popolo contadino ignorante della Torah) è una creatura, io lavoro in città e lui lavora in campagna, io mi alzo per il mio lavoro e lui si alza per il suo. E non dire: io faccio molto e lui fa poco, poiché abbiamo imparato che sia che uno faccia molto, sia che faccia poco, basta che abbia il cuore rivolto verso il Cielo (b Berakot 17a). È piuttosto a Qumran che si nota la tendenza ad autoconsiderarsi come gli unici eletti, il resto santo, e a considerare gli altri, non solo i pagani ma gli stessi israeliti, come massa dannata e figli delle tenebre con i quali è interdetto il commercio. I monaci di Qumran applicavano a sé il testo di Is 60.21: il tuo popolo sarà tutto di giusti, germogli della piantagione del Signore, mentre il giudaismo farisaico fonda proprio su questo versetto la speranza che «tutto Israele abbia parte del mondo che viene» (Sanhedrin X, 1; anche Paolo resterà sempre legato a questa speranza: cfr. Rom 11.26), e pensa che anche i giusti delle nazioni avranno parte all’ ‘olam habbà. È infatti proprio l’ebraismo farisaico, il solo a sopravvivere dopo il 70, quel giudaismo universale che in Mt 23,15 viene accusato di percorrere il mare e la terra per fare proseliti — esattamente la stessa cosa che più tardi faranno Paolo e i missionari cristiani, trovando accoglienza tra quegli stessi proseliti che si erano già convertiti ai Dio d’israele.
Ma, per restare a Gesù, vorrei aggiungere che, a dispetto di tutta la polemica evangelica, è proprio con la dottrina e l’insegnamento dei farisei che si verificano i suoi contatti più significativi. Mi limito a due soli esempi, entrambi molto noti, l’osservanza del sabato e il comandamento principale della Legge. Quanto al sabato, sappiamo che una osservanza letterale della Legge vieterebbe di compiere in esso qualunque lavoro o attività, In 1 Macc 2,29ss, si narra il caso estremo di un gruppo di chassidimrifugiati nel deserto per sfuggire la persecuzione di Antioco che, attaccati in giorno di sabato, rifiutano di difendersi e piuttosto che trasgredire il precetto, preferiscono farsi massacrare, I monaci rigoristi di Qumran sono in un certo senso gli eredi di questi Asidei radicali che rifiutavano di salvare la vita di sabato: Ogni uomo vivo che di sabato cade in una buca piena d’acqua o in qualche altro posto, non si può farlo salire con una scala, con una corda o un altro oggetto (Doc. Damasco 11, l8ss). Ma il racconto di 1 Maccabei ci insegna che in quella stessa occasione un’altra parte prese la decisione di difendersi anche di sabato, e tale sarà sempre la posizione dei farisei. Il principio che «il sabato è stato dato all’uomo e non l’uomo al sabato» è rabbinico e farisaico prima che evangelico: il salvare la vita. (piqquach nefesh) prevale sempre sul sabato. Anche qui Gesù è più radicale: per lui proprio questo diventa il senso del sabato: È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla? (Mc 3,4). Ma la preoccupazione di fondo, per l’uomo, è la stessa.
Il comandamento dell’amore.
Il caso del precetto riassuntivo di tutta la Torah è ancor più conosciuto: Gesù è d’accordo con lo scriba fariseo nell’individuare come tale il duplice comandamento dell’amore verso Dio (Dt 6) e verso il prossimo (Lev 19). Molto nota è anche la pagine talmudica - di b. Shabbat 31a - con la risposta di Hillel al pagano: Quello che non vuoi sia fatto e te, non farlo agli altri. Questa è tutta la Torah, il resto è commento. Va’ e studia!. Qui si può notare che, in un certo senso, Hillel è persino più libero di Gesù nel riassumere tutta la Torah in una massima che non è neppure della Torah, pronunziata per giunta in aramaico. Si vede bene cioè che l’accordo non è solo di contenuto, ma anche di metodo: Gesù come i Rabbini ammette che sia possibile stabilire una gerarchia dei precetti, distinguere nella Torah tra precetti pesanti e precetti leggeri, anche se beninteso ciò non esime dal compiere anche quelli più leggeri {cfr. Mt 5,19 e Mt 23,23).
Contrariamente ad un pregiudizio troppo diffuso tra noi cristiani, l’esegesi farisaica della Scrittura non è affatto letterale, ma è estremamente libera nell’adattare e nell’attualizzare le esigenze della Legge: la stessa moltiplicazione delle prescrizioni halakiche è fatta per rendere possibile l’ubbidienza a precetti come quello del sabato che, presi alla lettera, sarebbero impraticabili. Paradossalmente, la polemica evangelica si indirizza talora proprio contro questa eccessiva libertà: Voi annullate il comandamento di Dio per conservare la vostra tradizione (Mc 7,9).
Per tornare al principio fondamentale della Torah, mi sembra che esso rappresenti il punto di massima convergenza di Gesù con il fariseismo e, al tempo stesso, della sua massima divergenza da tutte le posizioni settarie o apocalittiche, Per David Flusser, l’ebreo Gesù ha esteso sino al limite estremo la dottrina di misericordia insegnata al suo tempo da certe correnti di Farisei[6]. Anzi, secondo lui la novità di Gesù è l’insegnamento dell’amore fino ai nemici, che non ha neppure nella Torah una formulazione così esplicita (ma vedi ad es, Es 23,4-5). Tuttavia, quando Gesù dice: Avete udito che è stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ora, io vi dico; Amate i vostri nemici (Mt 5,43) certamente non polemizza né con la Torah che proibisce di odiare (Lev 19,17s), nè con i Farisei che non insegnano questo, ma molto più probabilmente con delle tendenze settarie o radicali. Fin dall’inizio della Regola di Qumran si impone il dovere di amare coloro che Dio ha scelto e di odiare coloro che egli ha rigettato: è questo dualismo settario tra figli della luce e figli delle tenebre che Gesù condanna. Si è davvero figli della luce e del Regno solo essendo misericordiosi come il padre nostro celeste. Sta scritto nel Talmud:Chi è misericordioso verso tutte le creature, è certamente della stirpe di Abramo.
Dentro o fuori l’ebraismo?
In conclusione, Gesù si lascia difficilmente inquadrare sia come un monaco o un battista del deserto, sia come un rabbi di tendenza farisaica, sia tanto meno come un rivoluzionario zelota; egli ha sempre qualche cosa in comune e qualche cosa di diverso rispetto alle varie figure del giudaismo del suo tempo. Il suo insegnamento in genere è più radicale e intransigente di quello farisaico. e questo lo avvicina alle posizioni rigoriste dei monaci del deserto o delle correnti apocalittiche, ma è anche soprattutto misericordioso, e questo gli impedisce di essere settario. Per citare ancora Flusser Gesù aveva le sue radici nel giudaismo universale e non settario, e dunque in una ideologia e in una prassi che erano quelle dei farisei[7], ma egli stesso ammette che non si può riconoscere semplicemente come un fariseo questo rabbì carismatico e taumaturgo formatosi alla scuola del Battista nel deserto. La domanda decisiva che andrebbe posta circa l’identità di Gesù riguarda il profetismo della sua figura, quel carattere profetico, in stretta relazione con la manifestazione dal Regno di Dio, che egli certamente ha rivendicato: La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora viene annunziato il Regno di Dio (Lc 16.16).
Perciò i cristiani parlano volentieri di un «anarchismo» di Gesù, di una sua eccedenza o superamento dell’ebraismo. È un’affermazione facile a farsi ma difficile da provare: in che cosa Gesù uscirebbe dall’ebraismo, rispetto a quali autorità può esser detto anarchico? Per quale ragione gli aspetti più radicali, o anche più apocalittici, del suo Vangelo non sarebbero più compatibili con l’ebraismo?
Siccome le risposte a simili domande dipendono in ultima istanza da ciò che si intende per ebraismo, preferisco che siano degli ebrei a rispondere. Ancora nel 1922 J. Klausner rispondeva così: il Popolo di Israele, nel suo insieme, non poteva vedere in ideali pubblici come quelli di Gesù che un sogno irreale e pericoloso. La maggioranza non poteva assolutamente accettare l’insegnamento di Gesù, bevuto alla fonte del giudaismo profetico e, fino a un certo punto, farisaica. Egli faceva del giudaismo qualcosa di così estremo che questo diventava, in un certo senso, un non-giudaismo[8]. Credo che oggi gli autori ebrei che ho nominato rispondano assai diversamente: certo comunque è molto diversa la loro valutazione del realismo del messaggio di Gesù. Molta cose, in bene o in male, sono cambiate dal ‘22 ad oggi tali da modificare profondamente il giudizio ebraico su Gesù, e quello cristiano su Israele. La domanda alla quale siamo tenuti a rispondere noi cristiani è un’altra, e cioè: fino a che punto la nostra fede cristiana è veramente conciliabile con l’ebraismo di Gesù? Non abbiamo noi sradicato Gesù dall’ebraismo per innestarlo nelle nostre cultura e ideologie, anziché essere noi ad innestarci sulla radice santa di Israele, come voleva Paolo (Rom 11,16-24)?

[1] 0. Clément. Dialoghi con Atenagora. Gribaudi, Torino 1972, PD- 159-161
[2] Sono parole dette da Buber in un colloquio personale con Flusser e che quest’ultimo riporta nel suo libro: Jésus, Seuil, Paris 1970, p- 43
[3] R. Aron, Gli anni oscuri di Gesù, Mondadori, Milano 1978 (ed. francese 1963); Id., Cosi pregava l’ebreo Gesù, Marietti, Casale Monf, 1982 (ed. francese 1968); Sh. Ben Chorin, Bruder Jesus, Miinchen 1967 (traduzione francese da Seuil, Paris 1983); P. Lapide, Der Rabbi von Nazaret, Trier 1974: Id,, lst das nicht Josephs Sohn?. Mùnchen-Stuttgart 1976 (traduzione francese da Desclée, Paris 1979); D. Flusser, Jesus, Hamburg 1968 (esiste anche una traduzione italiana ma sconsigliabile, oltre che difficilmente reperibile; io cito secondo la traduzione francese, vedi n. 2); G. Vermès, L’ebreo Gesù, Seria, Roma 1983 (ed. inglese 1973).
[4] P. Lapide in: H. Kung-P. Lapide. Gesù, segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 24s.
[5] Ch. Perrot, Jésus et l’histoire, Desclée, Paris 1979, p. 131. Questo studio mette molto bene in rilievo l’apporto battista necessario per ricostruire la figura di Gesù; un po’ meno, invece quello farisaico e sinagogale che pure l’autore conosce altrettanto bene.
[6] Questa è una delle tesi fondamentali del suo libro su Gesù. Le parole citate sono tratte da un’intervista rilasciata a V. Messori per la rivista Jesus, n. 5, maggio 1980.
[7] Jésus, cit. p. 58s.
[8] J. Klausner, Jesus of Nazareth, London 1925, p. 376 (ma la prima edizione ebraica dell’opera risale al ‘22).