Una lettura indicata per la Quaresima...
La leggenda di San Giovanni Ospitaliere
da
"Tre racconti"
1.
Il padre e la madre di Giuliano abitavano in un castello in mezzo ai boschi, sul pendio di una collina.
Le quattro torri agli angoli avevano tetti a punta coperti di lamelle di
piombo e la base delle mura poggiava su blocchi di roccia che cadevano a
strapiombo fin giù nei fossati.
Il selciato del cortile era liscio come il pavimento di una chiesa.
Lunghe grondaie, raffiguranti draghi con le fauci in giù, sputavano
l'acqua piovana verso la cisterna; e sul davanzale delle finestre, ad
ogni piano, in un vaso di argilla dipinta, spuntava un basilico o un
eliotropio.
Una seconda cinta fatta di pali delimitava prima un frutteto, quindi
un'aiuola dove i fiori si combinavano a formare delle cifre, poi un
pergolato con delle nicchie per prendere il fresco, infine uno spiazzo
per la pallamaglio che serviva al divertimento dei paggi. Dall'altro
lato si trovavano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e i
granai. Un pascolo di erba verde si stendeva tutt'attorno, chiuso a sua
volta da una larga siepe di rovi.
Si viveva in pace da così lungo tempo che la saracinesca non si
abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua, le rondini facevano il
nido tra le punte dei merli; l'arciere, che durante tutto il giorno
passeggiava su e giù sulla cortina, appena il sole bruciava troppo
rientrava nella garitta, e si addormentava come un frate.
All'interno, gli arredi di metallo brillavano dappertutto; nelle camere
gli arazzi proteggevano dal freddo; e gli armadi erano stracolmi di
biancheria, le botti di vino si ammonticchiavano nelle cantine, i
forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete.
Nella sala d'armi si vedevano, tra stendardi e teste di animali feroci,
armi di ogni tempo e di tutte le nazioni, dalle fionde degli Amaleciti e
i giavellotti dei Garamanti alle daghe dei Saraceni e alle cotte di
ferro dei Normanni.
Lo spiedo grande della cucina poteva arrostire un bue; la cappella era
sontuosa come l'oratorio d'un re. C'era anche, in un luogo appartato, un
calidario alla romana; ma il buon signore non l'usava, considerandolo
una abitudine da idolatri.
Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, girava per la casa, rendeva
giustizia ai vassalli, sedava le liti dei vicini. Durante l'inverno
guardava i fiocchi di neve cadere, oppure si faceva leggere delle
storie. Alle prime belle giornate, se ne andava sulla sua mula lungo
piccoli sentieri, costeggiando le spighe ancora verdi e conversava con i
villani, ai quali dava consigli.
Dopo molte avventure, aveva preso in moglie una damigella di alto lignaggio.
Era di pelle bianchissima, un po' altera e seria. I corni del copricapo
sfioravano gli architravi delle porte; la coda del suo abito di panno
strisciava a tre passi da lei. La sua vita domestica era regolata come
all'interno di un monastero; ogni mattina assegnava il lavoro alle
serve, sorvegliava le conserve e gli unguenti, filava alla conocchia o
ricamava tovaglie d'altare.
A forza di pregare Dio, le arrivò un figlio.
Allora ci furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò tre
giorni e quattro notti alla luce delle fiaccole al suono delle arpe, su
tappeti di frasche. Si mangiarono le spezie più rare, con polli grossi
come montoni; per scherzo un nano saltò fuori da un timballo, e, non
bastando più le coppe, poiché la folla aumentava sempre, furono
costretti a bere negli olifanti e negli elmi.
La puerpera non assistette a quelle feste. Se ne stava nel suo letto,
tranquillamente. Una sera si svegliò, e intravide, sotto un raggio di
luna, un'ombra che si muoveva. Era un vecchio vestito di un saio di
rozzo panno, con un rosario alla vita, una bisaccia sulla spalla, in
tutto simile ad un eremita. Si avvicinò al suo capezzale e le disse,
senza dischiudere le labbra:
"Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!".
Lei stava per gridare; ma scivolando sul raggio di luna, egli s'innalzò
lentamente nell'aria, poi scomparve. I canti del banchetto esplosero più
forti. Lei udì le voci degli angeli; e il capo le ricadde sul
guanciale, sovrastato da un osso di martire incorniciato da rubini.
Il giorno dopo tutti i servitori interrogati dichiararono di non aver
visto nessun eremita. Sogno o realtà che fosse, doveva essere un
messaggio del cielo; ma lei fece attenzione a non dire nulla, temendo
che l'accusassero di superbia.
I convitati se ne andarono alle prime luci; e il padre di Giuliano si
trovava fuori della porticina esterna, dove aveva appena accompagnato
l'ultimo ospite, quando improvvisamente un mendicante si fece avanti
nella nebbia. Era uno zingaro con la barba a treccioline, anelli
d'argento alle braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò con aria
ispirata queste parole sconnesse:
"Ah! Ah! tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre felice! la famiglia di un imperatore".
E chinandosi per raccogliere l'elemosina, si perse nell'erba, svanì. Il
buon castellano guardò a destra e a sinistra, chiamò finché poté.
Nessuno! Il vento fischiava, le brume del mattino si dileguavano.
Attribuì questa visione alla stanchezza della mente per aver dormito troppo poco. "Se ne parlo rideranno di me", si disse.
Tuttavia gli splendori destinati a suo figlio lo abbagliavano, anche se
la promessa non era chiara ed egli dubitasse persino di averla sentita.
Gli sposi si nascosero i loro segreti. Ma tutti e due amavano il figlio
di pari amore; e, rispettandolo come segnato da Dio, ebbero per lui
infiniti riguardi. Il suo lettino era imbottito della piuma più fine;
una lampada a forma di colomba vi ardeva sopra, continuamente; tre balie
lo cullavano; e ben avvolto nelle fasce, la faccia rosea e gli occhi
azzurri, con il suo mantello di broccato e la cuffia tempestata di
perle, sembrava un Gesù Bambino. I denti gli spuntarono senza che
piangesse una sola volta.
Quando ebbe sette anni, la madre gli insegnò a cantare. Per renderlo
coraggioso, il padre lo mise in groppa a un grosso cavallo. Il bambino,
contento, sorrideva, e così non tardò molto a conoscere tutto ciò che
riguarda i destrieri.
Un vecchio monaco molto sapiente gli insegnò la Sacra Scrittura, la
numerazione araba, le lettere latine, e a fare eleganti miniature su
pergamena finissima. Lavoravano insieme in cima a una torretta, lontano
dai rumori.
Finita la lezione scendevano in giardino, dove, andando passo passo, studiavano i fiori.
A volte si vedeva, in fondo alla valle, una fila di bestie da soma,
condotte da un uomo a piedi, vestito all'orientale. Il castellano, che
l'aveva riconosciuto come mercante, gli mandava incontro un domestico.
Lo straniero, rinfrancato, deviava dal suo cammino; e, introdotto nel
parlatoio, tirava fuori dai suoi bauli gioielli, aromi, oggetti strani
dall'uso sconosciuto; alla fine il brav'uomo se ne andava, con un grosso
guadagno, senza aver subito nessuna violenza. Altre volte, un gruppo di
pellegrini bussavano alla porta. I loro abiti bagnati fumavano davanti
al camino; poi, quando erano sazi, raccontavano i loro viaggi, le
peripezie delle navi sul mare schiumoso, le marce a piedi nelle sabbie
ardenti, la ferocia dei pagani, le grotte della Siria, il Presepio e il
Sepolcro. Poi davano al giovane signore qualche conchiglia cucita alle
loro vesti.
Spesso il castellano faceva festa con i suoi vecchi compagni d'armi.
Mentre bevevano, rievocavano le battaglie, gli assalti alle fortezze in
mezzo al fragore delle macchine da guerra e le portentose ferite.
Giuliano, che li ascoltava, esplodeva in grida; e così il padre non
dubitava che un giorno sarebbe diventato un conquistatore. Ma alla sera,
all'uscita dall'Angelus, quando passava tra i poveri che piegavano la
testa, metteva mano alla borsa con tanta modestia e tanta nobiltà nel
portamento che la madre era sicura di vederlo, in un futuro,
arcivescovo.
Il suo posto nella cappella era a fianco dei genitori; e per quanto
lunghe fossero le funzioni, rimaneva genuflesso sul suo inginocchiatoio,
il berretto in terra e le mani giunte.
Un giorno, durante la messa, vide, alzando la testa, un topolino bianco
che usciva da un buco del muro. Trotterellò sul primo gradino
dell'altare, e dopo due o tre giri a destra e a sinistra, fuggì dalla
stessa parte. La domenica seguente, l'idea di poterlo rivedere lo turbò.
Il topo ritornò; e ogni domenica lui lo aspettava, ne era infastidito;
cominciò a odiarlo, e decise di ucciderlo.
Dopo aver chiuso la porta e sparso sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in mano.
Dopo un bel po' spuntò un muso rosa, e poi l'animaletto tutt'intero.
Giuliano vibrò un colpo leggero, e rimase stupito davanti a quel
corpicino immobile. Una goccia di sangue macchiava la pietra. Lo asciugò
subito con la manica, gettò via il topo e non disse niente a nessuno.
Uccellini di ogni specie beccavano i semi nel giardino. Gli venne in
mente di mettere dei piselli in una canna cava. Quando udiva cinguettare
in un albero si avvicinava pian piano, poi alzava la canna, gonfiava le
gote, e gli uccellini gli piovevano sulle spalle così numerosi che non
poteva fare a meno di ridere, felice della sua astuzia.
Un mattino, mentre se ne tornava lungo il camminamento, vide sulla cima
del bastione un grosso colombo che gonfiava il petto al sole.
Giuliano si fermò ad osservarlo; siccome il muro in quel punto era
sbrecciato, si trovò in mano una scheggia. Roteò il braccio, e la pietra
abbatté l'uccello che cadde di peso nel fossato.
Si precipitò dabbasso, graffiandosi fra i rovi, frugando dappertutto più
svelto di un giovane cane. Il colombo, con le ali spezzate, palpitava
ancora impigliato tra i rami di un ligustro.
Il persistere di quella vita irritò il ragazzo. Lo afferrò per
strangolarlo; e le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il
cuore e lo riempivano di una voluttà selvaggia e impetuosa.
All'ultimo sussulto, si sentì mancare.
La sera, a cena, suo padre dichiarò che alla sua età si doveva imparare
l'arte venatoria, e andò a cercare un vecchio quaderno che conteneva, in
forma di domande e risposte, i punti essenziali della caccia. Un
maestro spiegava all'allievo l'arte di addestrare i cani e di
addomesticare i falconi, di tendere le trappole, come riconoscere il
cervo dai suoi escrementi, la volpe dalle impronte, il lupo dai solchi
lasciati sul terreno, il modo giusto di distinguere le loro tracce, come
si scovano, dove si trovano di solito le loro tane, quali sono i venti
più propizi, insieme all'elenco dei gridi e alle regole per la porzione
di preda spettante ai cani.
Quando Giuliano fu in grado di ripetere a memoria tutte queste cose, suo padre gli mise insieme una muta.
Anzitutto vi si notavano ventiquattro levrieri barbareschi, più veloci
delle gazzelle, ma facili alla collera, poi diciassette coppie di cani
bretoni, picchiettati di bianco su fondo fulvo, saldi nel non mollare la
preda, forti di petto e possenti urlatori. Per attaccare il cinghiale e
per i suoi passaggi pericolosi, c'erano quaranta grifoni, pelosi come
orsi. I mastini di Tartaria, alti quasi come asini, del colore del
fuoco, con il dorso largo e il garretto dritto, erano riservati
all'inseguimento degli uri. Il mantello nero degli spaniel luccicava
come raso, l'uggiolio dei talbot risuonava come quello dei canterini
ciechi.
In un cortile a parte latravano, scuotendo la catena e roteando le
pupille, otto alani, bestie formidabili, che assaltano al ventre i
cavalieri e non hanno paura dei leoni.
Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in abbeveratoi di pietra e avevano nomi squillanti.
La schiera dei falconi, forse, superava in quantità la muta; il buon
signore, a forza di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri
di Babilonia, girifalchi di Alemagna, e falchi pellegrini, catturati
sulle scogliere, in riva ai mari freddi, in paesi lontani. Erano
sistemati in un capannone coperto di stoppie, e attaccati, secondo la
taglia, sulla gruccia; davanti avevano una zolla d'erba, dove di tanto
in tanto venivano posati perché si sgranchissero. Furono costruiti
sacchi, esche, trabocchetti, e ogni altro tipo di ordigni.
Spesso conducevano nella campagna i cani da penna, che subito si
mettevano di punta. Allora i battitori, avanzando piano piano,
stendevano con cautela sui loro corpi immobili una immensa rete.
Abbaiavano a un preciso comando; le quaglie s'alzavano in volo, e le
dame dei dintorni invitate con i loro mariti, i figli, le cameriere,
tutti vi si lanciavano sopra e le prendevano facilmente.
Altre volte, per stanare le lepri, battevano il tamburo; le volpi
cadevano nelle fosse, oppure una tagliola, chiudendosi, imprigionava la
zampa di un lupo.
Ma Giuliano disprezzò quei comodi espedienti, preferiva cacciare lontano
dalla gente, con il cavallo e il falcone. Si trattava quasi sempre di
un gran tartaretto di Scizia, bianco come la neve.
Il suo cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli d'oro
tintinnavano alle sue zampe azzurre. Si teneva saldo sul braccio del
padrone mentre il cavallo galoppava e i campi scorrevano via. Giuliano,
sciogliendo i lacci, lo lasciava andare di colpo; la bestia ardita
saliva nell'aria come una freccia e si vedevano due macchie ineguali
volteggiare, congiungersi, poi sparire nell'azzurro. Il falco non
tardava a scendere con un uccello dilaniato, posandosi sul guanto di
ferro, con le ali frementi.
Così Giuliano ghermì al volo l'airone, il nibbio, la cornacchia e l'avvoltoio.
Suonando il corno, gli piaceva seguire i cani che correvano sul pendio
delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano verso il bosco; e quando
il cervo cominciava a gemere sotto i morsi, si affrettava ad
abbatterlo, poi si dilettava della furia dei mastini che divoravano i
pezzi dell'animale sulla sua pelle fumante.
Nei giorni di nebbia si inoltrava nella palude per fare la posta alle oche selvatiche, alle lontre e ai germani.
Tre scudieri lo aspettavano, fin dall'alba, ai piedi della scalinata; e
il vecchio frate, sporgendosi dal suo abbaino, aveva un bello
sbracciarsi per richiamarlo. Giuliano non si girava.
Andava sotto il sole cocente, sotto la pioggia, con la tempesta, beveva
l'acqua nel cavo della mano, mangiava, cavalcando, mele selvatiche, se
era stanco si riposava sotto una quercia; e ritornava nel cuore della
notte, coperto di sangue e di fango, con spini nei capelli, con addosso
l'odore delle bestie feroci.
Diventò come loro. Quando la madre lo abbracciava, accoglieva con freddezza la sua stretta, sembrava assorto in meditazioni.
Uccise orsi a colpi di coltello, tori con l'ascia, cinghiali con lo
spiedo; e una volta accadde perfino che non essendogli rimasto altro che
un bastone, si difendesse con quello dai lupi che divoravano cadaveri
ai piedi di una forca.
Un mattino d'inverno, partì prima di giorno, ben equipaggiato, con una
balestra sulla spalla e la faretra piena di frecce appesa all'arcione
della sella.
Il suo ginetto danese, seguito da due bassotti, trottando con passo
regolare, faceva vibrare il terreno. Gocce di brina gelata gli si
attaccavano al mantello; soffiava una violenta tramontana.
Una parte dell'orizzonte si schiarì, e nella luce livida del crepuscolo vide dei conigli saltellare sull'orlo delle loro tane.
I due bassotti subito si avventarono su di loro e furiosamente spezzavano loro la schiena, mordendoli all'impazzata.
Poco dopo entrò in un bosco; in cima a un ramo, un gallo cedrone
intorpidito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Con un colpo di
spada gli recise le zampe e continuò la sua strada senza raccoglierlo.
Tre ore dopo, si trovò sulla vetta di una montagna così alta che il
cielo sembrava quasi nero. Davanti a lui, una roccia simile ad una
muraglia scendeva a picco su un precipizio; e sulla cima dello
strapiombo, due caproni selvatici fissavano l'abisso. Trovandosi senza
frecce (perché il suo cavallo era rimasto indietro), pensò di scendere
fino ad essi; piegato in due, a piedi nudi, raggiunse finalmente il
primo caprone e gli affondò il pugnale sotto le costole. Il secondo,
terrorizzato, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo, e,
scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro, la faccia
sull'abisso e le braccia spalancate.
Ridiscese quella pianura, seguì i salici che costeggiavano un fiume.
Delle gru che volavano bassissime gli passavano sulla testa. Giuliano le
abbatteva con la frusta, e non ne mancò una.
Nel frattempo l'aria più tiepida aveva sciolto la brina, grandi vapori
fluttuavano, e comparve il sole. Egli vide brillare in lontananza un
lago gelato, che pareva di piombo. In mezzo al lago c'era una bestia che
Giuliano non conosceva, un castoro dal muso nero. Nonostante la
distanza, una freccia lo abbatté; e gli dispiacque di non poterne portar
via la pelle.
Poi si inoltrò lungo un viale di grandi alberi, le cui cime formavano
come un arco di trionfo all'entrata di una foresta. Un capriolo balzò
fuori da una forra, un daino comparve ad un bivio, un tasso uscì da una
buca, un pavone sull'erba dispiegò la coda; e quando li ebbe uccisi
tutti comparvero altri caprioli, altri daini, altri tassi, altri pavoni,
e merli, gazze, faine, volpi, ricci, linci, una miriade di bestie, ad
ogni passo più numerose.
Gli giravano intorno, tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di
implorazione. Ma Giuliano non smetteva di ucciderle, ora con la
balestra, ora sguainando la spada, ora vibrando coltellate, e non
pensava più a nulla, non aveva memoria di nulla. Stava cacciando in un
paese senza nome, da un tempo indeterminato, per il solo fatto di
esistere, e tutto si compiva con la facilità che si prova nei sogni. Uno
spettacolo straordinario lo fece fermare.
Un branco di cervi riempiva un vallone che aveva la forma di un circo;
stavano gli uni addosso agli altri, e si scaldavano col fiato che si
vedeva fumare nella nebbia.
Per qualche minuto, la speranza di una simile carneficina gli mozzò il
respiro dal piacere. Poi scese da cavallo, si rimboccò le maniche e
cominciò a tirare.
Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi insieme voltarono la testa,
nel mucchio si aprirono dei vuoti, si alzarono dei gemiti, e un gran
subbuglio agitò il branco.
La sponda del vallone era troppo alta perché potessero superarla.
Saltavano in quello stretto cercando scampo. Giuliano mirava, tirava. E
le frecce cadevano come sferzate di pioggia nella tempesta. I cervi
infuriati si urtavano, si impennavano, montavano gli uni sugli altri; e i
loro corpi con le corna ramose aggrovigliate formavano una massa che,
spostandosi, crollava.
Alla fine, distesi sulla sabbia, morirono con la bava alle narici,
sventrati, e il palpito del loro ventre si affievoliva a poco a poco.
Poi tutto fu immobile.
Stava per calare la notte; e dietro al bosco, negli spiragli tra i rami, il cielo era rosso come una coltre di sangue.
Giuliano si appoggiò ad un albero. Contemplava con gli occhi spalancati
l'enormità di quel massacro, e non riusciva a capire come avesse potuto
farlo.
Dall'altro lato del vallone, sul limitare del bosco, scorse un cervo, una cerva e il loro piccolo.
Il cervo, che era nero e di statura prodigiosa, aveva corna con sedici
ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte,
brucava l'erba; e il cerbiatto dal pelo maculato, senza intralciarle il
passo, poppava alla mammella.
Ancora una volta la balestra sibilò. Il cerbiatto, subito, fu ucciso.
Allora la madre, guardando il cielo, bramì con voce profonda,
straziante, umana. Giuliano, esasperato, con un colpo in pieno petto
l'abbatté.
Il grande cervo lo aveva visto, fece un balzo. Giuliano gli scagliò la
sua ultima freccia. Essa lo raggiunse alla fronte, e vi rimase
conficcata.
Il grande cervo non sembrò sentirla; scavalcando i cadaveri continuava
ad avanzare, stava per piombargli addosso e sventrarlo; Giuliano
indietreggiava preso da una paura indicibile. Il mirabile animale si
fermò; e con gli occhi fiammeggianti, solenne come un patriarca e come
un giustiziere, ripeté tre volte, mentre lontano rintoccava una campana:
"Che tu sia maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, mostro feroce, assassinerai tuo padre e tua madre!".
Piegò le ginocchia, chiuse lentamente gli occhi e morì.
Giuliano fu sbalordito, poi oppresso da una stanchezza improvvisa; e un
disgusto, una tristezza immensa s'impadronirono di lui. Con la fronte
tra le mani, pianse a lungo.
Il suo cavallo era perduto; i cani lo avevano abbandonato; la solitudine
che lo circondava gli sembrò carica di minacce e di vaghi pericoli.
Allora, spinto da un impulso di terrore, si mise a correre attraverso i
campi; scelse a caso un sentiero, e si ritrovò quasi di colpo alla porta
del castello.
Quella notte non dormì. Alla luce tremolante della lampada appesa
rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo ossessionava;
si rivoltava contro di essa. "No! no! no! non posso ucciderli!" poi
pensava: "E se lo volessi invece?..." e aveva paura che il diavolo
gliene ispirasse il desiderio.
Per tre mesi la madre angosciata pregò al suo capezzale, e il padre,
gemendo, vagava senza riposo per i corridoi. Fece venire i più famosi
medici speziali che gli prescrissero una quantità di farmaci. Il male di
Giuliano, dicevano, era provocato da un vento funesto, o da un
desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo.
Gli ritornarono le forze; e lo facevano passeggiare nel cortile,
accompagnato dal vecchio frate e dal buon signore che lo sorreggevano
ciascuno per un braccio.
Quando fu completamente ristabilito, si ostinò a non andare più a caccia.
Suo padre, volendo che ridiventasse allegro, gli regalò una grande spada
saracena. Essa faceva parte di un'armatura posta in cima ad una
colonna. Per raggiungerla ci volle una scala. Giuliano vi salì. La
spada, troppo pesante, gli cadde di mano, e cadendo sfiorò il buon
signore cosi da vicino che la sua palandrana ne fu tagliata; Giuliano
pensò di avere ucciso suo padre, e svenne.
Da quel momento ebbe paura delle armi. La vista d'una lama sguainata lo
faceva impallidire. Quella sua fragilità era una desolazione per la
famiglia.
Alla fine il vecchio frate, in nome di Dio, dell'onore e degli avi, gli ordinò di riprendere le sue attività di gentiluomo.
Tutti i giorni, gli scudieri si divertivano al lancio del giavellotto.
Ben presto Giuliano vi primeggiò. Lanciava il suo dritto nel collo delle
bottiglie, spezzava i denti delle banderuole, colpiva i chiodi delle
porte da una distanza di cento passi.
Una sera d'estate, nell'ora in cui la nebbia rende indistinte le cose,
mentre era sotto la pergola del giardino, scorse nel fondo due ali
bianche che svolazzavano all'altezza della siepe. Non dubitò che fosse
una cicogna; e lanciò il giavellotto.
Si udì un grido lacerante.
Era sua madre, rimasta con i lunghi nastri del suo copricapo inchiodati alla parete.
Giuliano fuggì dal castello, e non ricomparve più.
2.
Si arruolò in una banda di soldati di ventura che passavano.
Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si abituò al fracasso
delle mischie, alla vista dei moribondi. Il vento gli scurì la pelle. Le
sue membra si indurirono al contatto con le armi; e siccome era molto
forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando
di una compagnia.
All'inizio delle battaglie infondeva slancio ai suoi con un ampio gesto
della spada. Con una corda a nodi, si arrampicava sui muri delle
cittadelle, la notte, sballottato dall'uragano, mentre le fiammelle del
fuoco greco gli si appiccicavano alla corazza, e la resina bollente e il
piombo fuso colavano giù dai merli. Spesso il colpo di una pietra gli
fracassò lo scudo. Ponti sovraccarichi di uomini crollarono sotto di
lui. Facendo roteare la mazza ferrata, si sbarazzò di quattordici
cavalieri. Affrontò, in campo chiuso, tutti quelli che lo sfidavano. Fu
creduto morto più di venti volte.
Grazie al favore divino, la scampò sempre; perché lui proteggeva gli
uomini di chiesa, gli orfani, le vedove, e soprattutto i vecchi. Quando
ne vedeva uno camminargli davanti, gridava per vederlo in faccia, come
se avesse avuto paura di ucciderlo per errore.
Schiavi in fuga, contadini in rivolta, bastardi senza beni, intrepidi di
ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e così si formò intorno a
lui un esercito. L'esercito si ingrossò. Egli divenne famoso. Era
cercato da tutti.
Soccorse, di volta in volta, il delfino di Francia, il re d'Inghilterra,
i templari di Gerusalemme, il surena dei Parti, il negus d'Abissinia e
l'imperatore di Calcutta. Combatté Scandinavi ricoperti di scaglie di
pesce, Negri muniti di rondacce di cuoio di ippopotamo e che cavalcavano
asini rossi. Indiani color oro che, al di sopra dei loro diademi,
brandivano grandi sciabole, più lucenti di specchi. Vinse i Trogloditi e
gli Antropofagi.
Attraversò regioni così torride che al calore del sole le capigliature
prendevano fuoco come fiaccole, e altre così gelide che le braccia,
staccandosi dal corpo, cadevano a terra; e paesi dove vi era tanta
nebbia che si camminava attorniati da fantasmi.
Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nei colloqui con gli
ambasciatori otteneva condizioni insperate. Se un monarca si comportava
troppo male, egli arriva all'improvviso e gli faceva sentire le sue
rimostranze. Affrancò popoli. Liberò regine rinchiuse nelle torri. Fu
lui, e non altri, che schiacciò la serpe di Milano e il drago di
Oberbirbach.
Ad un certo punto accadde che l'imperatore di Occitania, avendo
trionfato sui Musulmani spagnoli, si fosse unito in concubinaggio con la
sorella del califfo di Cordova; e ne ebbe una figlia che teneva con sé e
aveva allevato cristianamente. Ma il califfo, fingendo di volersi
convertire, andò a fargli visita accompagnato da una numerosa scorta,
gli massacrò tutta la guarnigione e lo precipitò nella più profonda
segreta, dove lo trattava duramente per estorcergli tesori.
Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli,
assediò la città, uccise il califfo, gli mozzò la testa, e la buttò come
una palla al di là dei bastioni. Liberò di prigione l'imperatore e lo
ristabilì sul trono, in presenza di tutta la corte.
In premio di tale aiuto, l'imperatore gli offrì ceste colme di denaro;
Giuliano lo rifiutò. Credendo che ne volesse di più, gli offrì i tre
quarti delle sue ricchezze; nuovo rifiuto. Poi gli propose di dividere
con lui il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e l'imperatore piangeva di
rabbia, non sapendo in che modo testimoniargli la sua riconoscenza,
quando di colpo si batté la fronte, disse una parola all'orecchio di un
cortigiano; le cortine di una tenda arabescata si aprirono e apparve una
fanciulla.
I suoi grandi occhi neri brillavano come lumi dolcissimi. Un sorriso
incantevole le schiudeva le labbra. I capelli inanellati le si
impigliavano nelle gemme della veste semiaperta; e, sotto la trasparenza
della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era molto
graziosa, ben tornita e con la vita sottile.
Giuliano fu preso d'amore, tanto più che la sua esistenza era stata fino ad allora castissima.
E così prese in sposa la figlia dell'imperatore, ed ebbe un castello che
lei aveva ereditato dalla madre. Terminata la cerimonia nuziale, essi
se ne andarono, dopo infinite cortesie da entrambe le parti.
Era un palazzo di marmo bianco in stile moresco, costruito su un
promontorio, in mezzo ad un bosco di aranci. Terrazze di fiori
scendevano fin sulla riva di un golfo, dove conchiglie rosa crepitavano
sotto i passi. Dietro al castello si apriva una foresta a forma di
ventaglio. Il cielo era perennemente azzurro, e gli alberi si piegavano
ora alla brezza del mare, ora al vento delle montagne che, lontane,
chiudevano l'orizzonte.
Le stanze, pervase di crepuscolo, erano rischiarate dai preziosi
rivestimenti dei muri. Alte colonnine, sottili come canne, sostenevano
la volta delle cupole, decorate di rilievi che imitavano le stalattiti
delle grotte.
C'erano zampilli d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti
traforate, mille squisitezze architettoniche, e ovunque un tale silenzio
che si poteva udire il fruscio di un velo o l'eco di un sospiro.
Giuliano non faceva più guerre. Si riposava, circondato da un popolo
pacifico; e ogni giorno una folla gli passava davanti, con inchini e
baciamani secondo l'uso orientale.
Vestito di porpora, se ne stava appoggiato coi gomiti nel vano di una
finestra, ricordando le sue cacce di un tempo; e avrebbe voluto
inseguire nel deserto le gazzelle e gli struzzi, star nascosto tra i
bambù a fare la posta ai leopardi, attraversare foreste piene di
rinoceronti, raggiungere la vetta delle montagne più inaccessibili per
osservare meglio le aquile, e combattere gli orsi bianchi sul mare
ghiacciato.
A volte, in sogno, si vedeva come nostro padre Adamo al centro del
Paradiso, tra tutti gli animali; stendendo il braccio li faceva morire;
oppure, gli sfilavano davanti, a due a due, in ordine di grandezza,
dagli elefanti e dai leoni fino alle anatre e agli ermellini, come il
giorno in cui erano entrati nell'Arca di Noè.
All'ombra di una caverna scoccava su di essi infallibili giavellotti; ma
altri se ne aggiungevano, senza fine; e si svegliava stralunato, con
occhi feroci.
Alcuni prìncipi suoi amici lo invitarono a caccia. Egli rifiutò sempre,
credendo con quella specie di penitenza di allontanare da sé la sua
sventura; perché gli sembrava che dall'uccisione degli animali
dipendesse il destino dei suoi genitori. Ma soffriva di non vederli, e
questa mancanza gli diventava intollerabile.
Per distrarlo, sua moglie fece venire giocolieri e danzatrici.
Passeggiava con lui in campagna, su una portantina aperta; a volte,
sdraiati sul bordo d'una barca, guardavano i pesci vagare nell'acqua,
limpida come il cielo. Spesso lei gli gettava fiori sul viso;
accoccolata ai suoi piedi, improvvisava melodie su una mandola a tre
corde; poi, posandogli sulla spalla le mani giunte, diceva con voce
timida: "Cosa mai vi rattrista, dolce signore?".
Egli non rispondeva, o scoppiava in singhiozzi; infine un giorno confessò la sua tremenda angoscia.
Lei lo contestò con un ragionamento molto lucido: suo padre e sua madre
probabilmente erano morti; e se anche li avesse rivisti, per qual caso,
per quale scopo, sarebbe giunto ad una simile infamia?
Quindi il suo timore non era giustificato, e doveva rimettersi a cacciare.
Giuliano l'ascoltava sorridendo, ma non si decideva a soddisfare il suo desiderio.
Una sera d'agosto erano nella loro stanza; lei si era appena coricata e
lui si inginocchiava per recitare le preghiere, quando udì il guaito di
una volpe, poi dei passi leggeri sotto la finestra; e gli sembrò di
vedere delle forme d'animali. La tentazione era troppo forte.
Staccò la faretra.
Lei parve sorpresa.
"E' per obbedirti!" disse. "Al levar del sole sarò di ritorno".
Ma lei temeva un'avventura funesta.
Lui la rassicurò, poi uscì, stupito dall'incoerenza dell'umore della moglie.
Poco dopo, un paggio le annunziò che due sconosciuti, in assenza del
signore, chiedevano della signora, immediatamente. Subito entrarono
nella camera un vecchio e una vecchia, curvi, polverosi, vestiti di
tela, appoggiandosi ognuno ad un bastone.
Si fecero animo e annunciarono di portare a Giuliano notizie dei suoi genitori.
Lei si chinò per ascoltarli.
Ma, dopo essersi scambiati uno sguardo d'intesa, le chiesero se egli li amava ancora, se qualche volta parlava di loro.
"Oh! sì!" fece lei.
Allora, essi esclamarono:
"Ebbene! siamo noi!". E si sedettero, perché erano molto stanchi e
sfiniti dalla fatica. Niente garantiva alla giovane sposa che suo marito
fosse loro figlio.
Ma essi ne diedero la prova descrivendo alcuni segni particolari che lui aveva sulla pelle.
Lei saltò giù dal letto, chiamò il suo paggio e fece servire loro una cena.
Nonostante avessero molta fame, non riuscivano quasi a mangiare; lei, in
disparte, osservava il tremito delle loro mani ossute quando alzavano i
bicchieri.
Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispose a tutte, ma ebbe cura di tacere l'angoscia che li riguardava.
Erano partiti dal loro castello non vedendolo ritornare; ed erano in
cammino da anni e anni, seguendo vaghe indicazioni, senza perdere la
speranza. C'era voluto tanto denaro per il pedaggio dei fiumi e nelle
locande, per i diritti dei prìncipi e per le richieste dei briganti,
così il fondo della loro borsa era vuoto, e adesso mendicavano. Ma che
importava, poiché presto avrebbero riabbracciato il loro figlio! E
lodavano la sua fortuna di avere una moglie tanto graziosa, e non si
stancavano di ammirarla e baciarla.
La ricchezza della casa li sbalordiva; e il vecchio, dopo avere
esaminato i muri, chiese come mai vi si trovasse lo stemma
dell'imperatore di Occitania.
Lei rispose:
"E mio padre!".
Allora egli trasalì, ricordando la profezia dello zingaro; e la vecchia
pensava alle parole dell'Eremita. Senza dubbio, la magnificenza di suo
figlio era solo l'alba degli splendori eterni; e tutti e due restavano
sbalorditi, sotto la luce del candelabro che illuminava la tavola.
Dovevano essere stati molto belli in gioventù. La madre aveva ancora
tutti i capelli, che divisi in due bande sottili, simili a falde di
neve, le scendevano fin sotto le guance; e il padre, con la sua alta
statura e la grande barba, sembrava una statua di chiesa.
La moglie di Giuliano li pregò di non aspettarlo. Lei stessa li fece
stendere nel suo letto, poi chiuse la finestra; si addormentarono. Stava
per far giorno, e dietro la vetrata gli uccellini cominciavano a
cantare.
Giuliano aveva attraversato il parco; e camminava nella foresta con
passo nervoso, godendo dell'erba soffice e dell'aria tiepida.
Le ombre degli alberi si allungavano sul muschio. La luna creava macchie
bianche nelle radure, ed egli procedeva esitante, credendo di scorgere
una pozza d'acqua o la superficie di stagni silenziosi confuse nel
colore dell'erba. Tutto intorno era silenzio; e non scorgeva nessuno
degli animali che, pochi istanti prima, vagavano intorno al suo
castello.
Il bosco si infittì, l'oscurità divenne fonda. Folate di vento caldo
passavano, cariche di odori snervanti. Egli affondava nei mucchi di
foglie morte, e si appoggiò ad una quercia per riprendere fiato.
Ad un tratto, alle sue spalle scattò una massa cupa, un cinghiale.
Giuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco, e se ne lamentò come di
una disgrazia. Poi, uscito dal bosco, vide un lupo che correva lungo una
siepe.
Giuliano gli tirò una freccia. Il lupo si fermò, voltò la testa per
guardarlo e riprese la corsa. Correva mantenendo sempre la stessa
distanza, di tanto in tanto si fermava, e, appena era sotto mira,
riprendeva la fuga.
In tal modo Giuliano attraversò una pianura sconfinata, poi dei
monticelli di sabbia, e infine si trovò su un altopiano che dominava una
larga parte del territorio. Pietre piatte erano disseminate tra tombe
in rovina. Inciampava su ossa di morti; qua e là, croci divorate dai
vermi si piegavano miseramente. Ma alcune forme si mossero nell'ombra
vaga delle tombe; e ne balzarono fuori delle iene impaurite e ansimanti.
Con un secco suono di unghie sulle lapidi, si mossero verso di lui e lo
annusavano aprendo le fauci fino a scoprire le gengive. Egli sguainò la
sciabola.
Fuggirono tutte insieme in ogni direzione, e continuando nella loro
corsa zoppicante e precipitosa scomparvero lontano in una nube di
polvere.
Un'ora dopo, incontrò in un burrone un toro furioso, con le corna basse, e che raspava la sabbia con lo zoccolo.
Giuliano gli ficcò la lancia sotto la gola. La lancia si spezzò, come se
l'animale fosse stato di bronzo; chiuse gli occhi, aspettando la morte.
Quando li riaprì, il toro era scomparso.
Allora la sua anima cedette per la vergogna. Un potere superiore
distruggeva la sua forza; e, per tornarsene a casa, rientrò nella
foresta.
Essa era tutta intricata di liane; ed egli le tagliava con la sciabola
quando una faina gli scivolò improvvisamente tra le gambe, una pantera
gli balzò al di sopra della spalla, un serpente si attorcigliò intorno a
un frassino.
In mezzo al fogliame c'era una taccola mostruosa, che osservava
Giuliano; e, sparse, apparvero tra i rami miriadi di scintille, come se
il firmamento avesse fatto piovere nella foresta tutte le sue stelle.
Erano occhi d'animali, di gatti selvatici, di scoiattoli, di gufi, di
pappagalli, di scimmie.
Giuliano scoccò contro di loro le sue frecce; le frecce piumate si
posavano sulle foglie come farfalle bianche. Gettò loro delle pietre; le
pietre, senza colpire nulla, ricadevano a terra.
Maledisse se stesso, avrebbe voluto battersi, imprecò, soffocava di rabbia.
E tutti gli animali che aveva inseguito ricomparvero, stringendolo in un
cerchio. Alcuni stavano seduti, altri dritti in tutta la loro altezza. E
lui era in mezzo, gelato dalla paura, incapace del minimo movimento.
Con uno sforzo supremo di volontà, fece un passo; quelli che stavano
appollaiati sugli alberi aprirono le ali, quelli che calpestavano la
terra mossero le membra; e tutti l'accompagnavano.
Le iene camminavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro.
Il toro, alla sua destra, dondolava il muso; e, alla sua sinistra, il
serpente ondeggiava nell'erba, mentre la pantera, arcuando il dorso,
avanzava a passo di velluto e a grandi falcate. Camminava il più adagio
possibile, per non innervosirli, e vedeva uscire dal folto dei cespugli
porcospini, volpi, vipere, sciacalli e orsi.
Giuliano si mise a correre; e anch'essi corsero. Il serpente sibilava,
le bestie puzzolenti sbavavano. Il cinghiale gli sfregava i talloni con
le zanne; il lupo, il palmo delle mani con i peli del muso. Le scimmie
lo pizzicavano facendo smorfie; la faina si rotolava sui suoi piedi. Un
orso, con una zampata, gli tolse il cappello; e la pantera,
sdegnosamente, lasciò cadere una freccia che teneva nelle fauci.
Una certa ironia traspariva dal loro atteggiamento sornione.
Continuando ad osservarlo con la coda dell'occhio, pareva che
meditassero un piano di vendetta. Assordato dal ronzio degli insetti,
percosso dalle code degli uccelli, soffocato dal fiato delle belve, egli
camminava con le braccia tese e gli occhi chiusi come un cieco, senza
nemmeno avere la forza per gridare "pietà!".
Il canto del gallo risuonò nell'aria. Altri gli risposero; era giorno;
ed egli riconobbe, al di là degli aranceti, la cima del suo palazzo.
Poi, sul ciglio di un campo, a tre passi di distanza, vide pernici rosse
che svolazzavano tra le stoppie. Si sfibbiò il mantello e lo gettò su
di esse come una rete. Quando lo sollevò, ne trovò solamente una, per di
più morta da molto tempo, putrefatta.
Questa delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sete di massacro
lo riprendeva; in mancanza di bestie, avrebbe voluto sterminare uomini.
Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi delle scale, il ricordo della cara sposa placò il suo cuore.
Certamente dormiva e l'avrebbe sorpresa.
Si sfilò i sandali, girò piano la maniglia, ed entrò.
I vetri legati in piombo oscuravano il chiarore dell'alba.
Giuliano inciampò in vesti che giacevano a terra; poco più in là urtò
contro una tavola ancora piena di piatti. "Avrà mangiato" si disse; e
avanzava verso il letto, perduto nelle tenebre in fondo alla stanza.
Quando fu alla sponda, per baciare sua moglie si chinò sul guanciale
dove le due teste riposavano una accanto all'altra. Allora ebbe sulle
labbra la sensazione di una barba.
Indietreggiò, credendo d'impazzire; ma ritornò accanto al letto, e le
sue dita, tastando, incontrarono dei capelli molto lunghi. Per
convincersi del suo errore, passò ancora una volta la mano sul
guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un uomo! un uomo
coricato con sua moglie!
Sconvolto da una collera incontenibile, si avventò su di loro colpi di
pugnale; e barcollava, schiumava, con urla da bestia selvaggia. Poi si
fermò. I morti, trafitti al cuore, non si erano nemmeno mossi. Ascoltava
attentamente i loro rantoli quasi uguali, e man mano che si
affievolivano, un altro, lontano, li continuava.
Dapprima incerta, questa voce lamentosa, incessante, si avvicinava, si
ingrossò, divenne atroce; ed egli riconobbe, terrorizzato, il bramito
del grande cervo nero.
E mentre si voltava, gli sembrò di vedere nel vano della porta l'ombra
della moglie, con un lume in mano. Il rumore della strage l'aveva fatta
accorrere. Passò intorno lo sguardo, capì tutto e, fuggendo inorridita,
lasciò cadere il lume.
Lui lo raccolse.
Suo padre e sua madre gli stavano davanti, distesi supini con uno
squarcio nel petto; e i loro visi, di una maestosa dolcezza, sembravano
custodire un segreto eterno. Schizzi e macchie di sangue si allargavano
sulla loro pelle bianca, sulle lenzuola del letto, per terra, su un
crocifisso d'avorio appeso nell'alcova. Il riflesso scarlatto dei vetri
colpiti in quel momento dal sole, illuminava quelle chiazze rosse e ne
gettava numerose altre nella stanza. Giuliano avanzò verso i due morti
ripetendo a se stesso, volendo credere, che non era possibile, che si
era ingannato, che vi sono talvolta somiglianze misteriose. Poi si chinò
leggermente per osservare bene il vecchio da vicino; e scorse, tra le
sue palpebre semichiuse, una pupilla spenta che lo bruciò come fuoco.
Infine si spostò dall'altro lato del letto, occupato dall'altro corpo, con i capelli bianchi che coprivano una parte del viso.
Giuliano passò le dita sotto i capelli, sollevò quella testa, e la
osservava tenendola all'estremità del suo braccio irrigidito, mentre con
l'altra mano si faceva luce col lume. Dal materasso, gocce stillavano
ad una ad una sul pavimento.
Sul finire del giorno si presentò davanti alla moglie e, con voce che
non era più la sua, le ingiunse innanzitutto di non rispondergli, di non
avvicinarsi a lui, di non guardarlo nemmeno, e di eseguire, pena la
dannazione, tutti i suoi ordini, che erano irrevocabili.
I funerali dovevano essere fatti secondo le istruzioni che egli aveva
lasciato per iscritto, su un inginocchiatoio, nella camera dei morti. Le
lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi beni, senza
nemmeno tenersi i vestiti che aveva indosso, né i sandali, che avrebbero
trovato in cima alle scale.
Lei aveva obbedito alla volontà di Dio, dandogli l'occasione del
delitto, e doveva pregare per la sua anima, perché lui ormai non
esisteva più.
I morti furono sepolti fastosamente, nella chiesa d'un monastero a tre
giornate dal castello. Un frate col cappuccio calato seguì il corteo,
lontano da tutti gli altri, senza che nessuno osasse parlargli. Restò,
durante la messa, disteso bocconi al centro del portale, con le braccia a
croce, e la fronte nella polvere.
Dopo la sepoltura, fu visto prendere il cammino che portava alle montagne. Si voltò indietro più volte, e poi scomparve.
3.
Se ne andò mendicando la vita per il mondo.
Tendeva la mano ai cavalieri lungo le strade, si inginocchiava davanti
ai mietitori, o se ne stava immobile davanti al recinto dei cortili; e
il suo viso era così triste che mai nessuno gli rifiutava l'elemosina.
Per spirito d'umiltà, raccontava la sua storia; allora tutti scappavano
via, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già passato,
appena lo riconoscevano chiudevano le porte, gli lanciavano minacce, gli
tiravano sassi. I più caritatevoli posavano una scodella sul davanzale
della finestra sotto la tettoia, poi la chiudevano per non vederlo.
Respinto ovunque, evitò gli uomini; e si nutrì di radici, di piante, di
frutti buttati via e di molluschi che cercava lungo le spiagge.
A volte, alla svolta di un'erta, vedeva di sotto un ammasso di tetti, di
guglie di pietra, ponti, torri, strade nere che si incrociavano, e
dalle quali saliva fino a lui un brusio incessante.
Il bisogno di mescolarsi all'esistenza degli altri lo faceva scendere in
paese. Ma l'espressione di quei visi da bruti, il frastuono dei
mestieri, l'indifferenza dei discorsi gli gelava il cuore. Nei giorni di
festa, quando il campanone delle cattedrali spandeva letizia fin
dall'alba nel cuore della gente, guardava gli abitanti uscire dalle loro
case, poi le danze nelle piazze, le fontane che davano birra ai
crocicchi, le tende di damasco davanti alle dimore dei prìncipi, e
caduta la sera, attraverso le vetrate dei pianterreni, le lunghe
tavolate di famiglia in cui i vecchi tenevano i nipotini sulle
ginocchia; allora i singhiozzi lo soffocavano, e se ne tornava verso la
campagna.
Contemplava colmo di impeti d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli
nei nidi, gli insetti sui fiori; ma al suo avvicinarsi tutti correvano
via, si nascondevano impauriti e volavano più lontano.
Cercò le solitudini. Ma il vento portava al suo orecchio lamenti di
agonia; le lacrime della rugiada cadendo per terra gli ricordavano altre
gocce di un peso più greve. Il sole, tutte le sere, spandeva sangue
sulle nuvole; e ogni notte, in sogno, il suo parricidio si ripeteva.
Si fece un cilicio con punte di ferro. Percorse in ginocchio tutte le
colline che avevano una cappella sulla vetta. Ma l'implacabile pensiero
oscurava lo splendore dei tabernacoli, lo torturava con le macerazioni
della penitenza.
Non si ribellava contro Dio che gli aveva inflitto quell'atto, e tuttavia si disperava per averlo potuto commettere.
La sua stessa persona gli faceva un tale orrore che sperando di
liberarsene la espose ad ogni pericolo. Salvò paralitici dagli incendi,
bambini caduti nel fondo dei burroni. L'abisso lo rifiutava; le fiamme
lo risparmiavano.
Il tempo non placò la sua sofferenza. Essa diventava intollerabile. Decise di morire.
E un giorno, mentre si trovava sull'orlo d'un pozzo, e vi si chinava
sopra per misurare la profondità dell'acqua, gli apparve davanti un
vecchio scarnito, con la barba bianca e un aspetto così pietoso che gli
fu impossibile trattenere le lacrime. Anche l'altro piangeva. Senza
riconoscere quell'immagine, Giuliano si ricordava confusamente un viso
simile a quello. Gettò un grido; era suo padre; e non pensò più a
uccidersi.
Così, portando il peso del suo ricordo, percorse molti paesi; e arrivò
presso un fiume la cui traversata era pericolosa per la violenza della
corrente, e perché sulle sponde c'era una grande distesa di melma. Da
molto tempo nessuno osava più attraversarlo.
Una vecchia barca, affondata di poppa, drizzava la prua tra le canne.
Giuliano esaminandola scoprì un paio di remi; e gli venne l'idea di
mettere la sua esistenza al servizio degli altri.
Cominciò a costruire sulla riva una specie di argine che permettesse di
scendere fino al canale; e si spezzava le unghie a smuovere le pietre
enormi, se le appoggiava sulla pancia per trasportarle, scivolava nella
melma, vi affondava; più volte rischiò di morire.
Poi riparò la barca con relitti di navi, e si fece una capanna con argilla e tronchi d'albero.
Il traghetto divenne noto, e i viaggiatori vi affluivano. Lo chiamavano
dall'altra sponda, agitando delle bandiere; Giuliano rapido saltava
nella barca. Era pesantissima; e la sovraccaricavano d'ogni sorta di
bagagli e di pesi, senza contare le bestie da soma che, scalciando per
la paura, aumentavano l'ingombro. Egli non chiedeva nulla per la sua
fatica; alcuni gli davano gli avanzi del cibo che tiravano fuori dalle
bisacce o i vestiti logori di cui si volevano disfare. I più rozzi
urlavano bestemmie. Giuliano li rimproverava con dolcezza, essi
rispondevano con ingiurie. Egli si accontentava di benedirli.
Un piccolo tavolo, uno sgabello, un letto di foglie secche e tre
scodelle d'argilla erano tutto il suo mobilio. Due buchi nel muro
servivano da finestre. Da un lato, si stendevano a perdita d'occhio
pianure sterili interrotte qua e là da pallidi stagni; e di fronte a lui
il grande fiume scorreva svolgendo i suoi flutti verdastri. In
primavera, la terra umida aveva un odore di marcio.
Poi, un vento disordinato sollevava turbini di polvere. Entrava dappertutto, rendeva l'acqua torbida, scricchiolava fra i denti.
Dopo arrivavano nugoli di zanzare che ronzavano e mordevano
incessantemente, giorno e notte. Infine, sopraggiungevano tremende
gelate che davano alle cose la rigidità della pietra, e inducevano un
folle bisogno di mangiare carne.
Passavano mesi senza che Giuliano vedesse qualcuno. Spesso chiudeva gli
occhi, cercando con la memoria di tornare alla sua giovinezza; e
appariva il cortile di un castello, con levrieri su una scalinata,
valletti nella sala d'armi e, sotto un pergolato di pampini, un
adolescente con i capelli biondi tra un vecchio coperto di pellicce e
una dama dall'alto copricapo; ma di colpo, ecco apparire due cadaveri.
Allora si gettava bocconi sul letto, e ripeteva piangendo:
"Ah! povero padre! povera madre! povera madre!".
E cadeva in un torpore in cui le visioni funeste continuavano.
Una notte, mentre dormiva, gli sembrò di sentire qualcuno che lo
chiamava. Tese l'orecchio e distinse solo il mugghiare del flutti.
Ma la stessa voce ripeté:
"Giuliano!".
Veniva dall'altra sponda, cosa che gli parve straordinaria, data la larghezza del fiume.
Una terza volta la voce chiamò:
"Giuliano!".
E quella voce alta aveva l'intonazione d'una campana di chiesa.
Accesa la lanterna, uscì dalla capanna. Un uragano furioso riempiva la
notte. Le tenebre erano profonde, squarciate qua e là dal biancore delle
onde che salivano impetuose.
Dopo un minuto d'esitazione, Giuliano sciolse l'ormeggio. L'acqua si
calmò immediatamente, la barca vi scivolò sopra e toccò l'altra sponda,
dove un uomo aspettava.
Era avvolto in un telo a brandelli, la faccia simile a una maschera di
gesso e gli occhi più rossi delle braci. Avvicinando a lui la lanterna,
Giuliano si accorse che era coperto da una lebbra ributtante; tuttavia
aveva nel suo atteggiamento una certa regale maestà.
Appena entrò nella barca, questa sprofondò straordinariamente sotto il
suo peso; uno scossone la risollevò e Giuliano si mise a remare.
A ogni colpo di remo la risacca dei flutti le sollevava la prua.
L'acqua, più nera dell'inchiostro, correva con furia ai due lati
dell'imbarcazione. Scavava abissi, si innalzava a picco, e la scialuppa
vi era spinta sopra, e poi ributtata nei gorghi dove girava su se
stessa, sballottata dal vento.
Giuliano piegava il corpo, stendeva le braccia e facendo forza sui piedi
si rovesciava indietro torcendo il busto per prendere più spinta. La
grandine gli frustava le mani, la pioggia gli scorreva per la schiena,
la violenza del vento lo soffocava; si fermò.
Allora la barca fu trascinata alla deriva. Ma, consapevole che si
trattava di una cosa importante, di un ordine a cui non si poteva
disobbedire, riprese i remi; e il battito degli scalmi rompeva il
fragore della tempesta.
La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Gli uccelli, svolazzando, a
tratti gliela nascondevano. Ma sempre scorgeva le pupille del lebbroso
che si teneva dritto a poppa, immobile come una colonna.
E tutto questo durò a lungo, molto a lungo!
Quando furono giunti nella capanna, Giuliano chiuse la porta; e lo vide
sedersi sullo sgabello. La specie di sudario che lo copriva gli era
caduto sui fianchi; e le sue spalle, il suo petto, le sue braccia magre
sparivano sotto croste squamose. Enormi rughe gli solcavano la fronte.
Come uno scheletro, aveva un buco al posto del naso; e dalle labbra
livide usciva un alito denso come nebbia, e fetido.
"Ho fame!".
Giuliano gli dette ciò che aveva, un pezzo di lardo vecchio e avanzi di pane nero.
Dopo che li ebbe divorati, la tavola, la scodella e il manico del
coltello avevano le stesse chiazze che si vedevano sul suo corpo.
Poi disse: "Ho sete!".
Giuliano cercò la brocca; e mentre la prendeva, ne uscì un aroma che gli
dilatò le narici e il cuore. Era vino; che sorpresa! ma il lebbroso
allungò il braccio e vuotò tutta la brocca d'un fiato.
Poi disse: "Ho freddo!".
Giuliano accese con la candela un fascio di felci in mezzo alla capanna.
Il lebbroso si avvicinò per riscaldarsi, e, chinato sui talloni, tremava
in tutte le membra, si affievoliva; i suoi occhi non brillavano più, le
sue ulcere colavano e, con voce quasi spenta, mormorò: "Il tuo letto!".
Giuliano lo aiutò a trascinarvisi piano piano, e stese su di lui, per coprirlo, anche la tela della sua barca.
Il lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca gli scoprivano i denti, un
rantolo affannoso gli scuoteva il petto, e il suo ventre ad ogni
inspirazione si incavava fino alle vertebre.
Poi chiuse gli occhi.
"Mi sento il ghiaccio nelle ossa! Vienimi vicino!".
E Giuliano, alzando la tela, si coricò sulle foglie secche, accanto a lui, fianco a fianco.
Il lebbroso girò il viso.
"Spogliati, lasciami ricevere il calore del tuo corpo!".
Giuliano si tolse le vesti; poi, nudo come alla nascita, si rimise sul
giaciglio; e sentiva contro la coscia la pelle del lebbroso, più fredda
di un serpente e ruvida come una lima.
Cercava di fargli coraggio; e l'altro rispondeva, ansimando:
"Ah! sto morendo!... Avvicinati, riscaldami! Non con le mani! no!
con tutto il tuo corpo".
Giuliano gli si distese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto.
Allora il lebbroso lo strinse; e i suoi occhi di colpo presero il
chiarore delle stelle; i suoi capelli si allungarono come raggi di sole;
il soffio delle sue narici aveva il profumo delle rose; una nuvola
d'incenso si alzò dal focolare, le onde cantavano. Intanto una
profusione di delizie, una gioia sovrumana scendeva su Giuliano estatico
inondando la sua anima; e colui le cui braccia lo stringevano sempre,
diventava sempre più grande, fino a toccare con la testa e con i piedi i
muri della capanna. Il tetto volò via, il firmamento si spalancava; e
Giuliano salì verso gli spazi azzurri, col viso contro il viso di Nostro
Signore Gesù che lo portava con sé in cielo.
Questa è la storia di san Giuliano Ospitaliere, come la si trova più o
meno raccontata sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese.