venerdì 9 marzo 2012

L'infinita pazienza di Dio

Di seguito il Vangelo di oggi 9 marzo,venerdi della II settimana di Quaresima, con un
commento e un paio di testi per la meditazione. Lectio sul testo negli approfondimenti.


Dio, nell’incarnazione del Verbo, 
nell’incarnazione del suo Figlio, 
ha sperimentato il tempo dell’uomo, 
della sua crescita, del suo farsi nella storia. 
Quel Bambino è il segno della pazienza di Dio, 
che per primo è paziente, costante, 
fedele al suo amore verso di noi; 
Lui è il vero “agricoltore” della storia, che sa attendere. 

Benedetto XVI, Agli universitari di Roma, 15 dicembre 2011


Mt 21,33-43.45 


In quel tempo, Gesù disse ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: “Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. 
Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. 
Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. 
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. 
Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?”. Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. 
E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: ‘‘La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri’’? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. 
Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta. 


IL COMMENTO


L'unico peccato che non sarà perdonato in eterno è quello contro lo Spirito Santo che, nel Vangelo di oggi, si rivela come pazienza, longanimità. Essa non ha riscontri nel mondo, che ha misure sempre molto ristrette quando si tratta di giudicare. Ma Dio non è un uomo. La pazienza che appare nella parabola è sconvolgente. Chi di noi ha mai visto o sperimentato qualcosa di simile? Di fronte a tanta ostinazione violenta, la risposta di un amore senza limiti, se non quelli del suo stesso essere Dio, limiti destinati ad essere superati in un crescendo di follia. Al crescere della violenza dei vignaioli corrisponde un aumento di misericordia, sino a raggiungere l'estremo, la consegna di se stesso nella persona del Figlio. Al giungere del male al suo limite, la misericordia di Dio si espande oltre ogni limite, rivelandosi infinita come è infinito Egli stesso. 


Ci si sarebbe aspettato un altro atteggiamento, quello che conosciamo per esperienza. Giusto un po' di pazienza per non compromettere le relazioni, estesa a seconda dell'intimità delle persone coinvolte, ma per il resto, confini ben presidiati. Non riserviamo certo la stessa dose di pazienza che abbiamo con nostro figlio al collega che trama contro di noi. Ma anche la pazienza per un figlio ha i suoi limiti. E non cresce esponenzialmente in corrispondenza dell'aumento della violenza dell'altro. Piuttosto va assottigliandosi, sino a tramutarsi in ira, uno scudo eretto a difesa nella migliore delle ipotesi, vendetta doppia nella peggiore. Il nostro cuore segue i ritmi dei fast food, consuma veloce le passioni, non importa come siano. Non possiamo pazientare, vi è in noi come un impulso teso ad abbrancare subito i risultati sperati, normalmente quelli che, illusoriamente, crediamo ci spettino di diritto; più spesso quelli che, siamo convinti, ci siano stati sottratti ingiustamente. 


Padri e madri dei "nativi digitali" vediamo restringersi i tempi di attesa, esattamente come accade con i computer; stiamo scivolando rapidamente nell'era dei post-pc, e anche le relazioni si modellano sui tablet: "pazienza touch", un "tocco" e chi ci è prossimo è chiamato a sforzi sovrumani per rispondere alle nostre aspettative. Chat e tweet strozzano le relazioni nel cappio di brevi, secchi e rapidi messaggi. Niente elaborazione e approfondimento, rapporti che scivolano sulle onde dei sentimenti e delle passioni, senza spazio per la pazienza del sacrificio, dell'attesa, della misericordia. Senza accorgercene, siamo precipitati nel buio di una comunicazione che si muove in spazi e tempi ridotti all'osso, inadeguati alle capacità e alle possibilità dell'uomo. La tecnologizzazione selvaggia cui stiamo sottoponendo la società coinvolge, purtroppo, anche il suo nucleo originale, la rete di relazioni affettive tra genitori e figli, mariti e mogli, fidanzati, amici. Ci si "parla" in un lampo, lo spazio di un polpastrello a sfiorare uno schermo, ed è come se avessimo raccontato, spiegato, chiesto e ottenuto. Non vi è spazio per l'attesa e la pazienza, e così assassiniamo la speranza. Perchè la pazienza è sempre figlia della speranza.


Il Vangelo di oggi è un'immagine fedele della nostra vita, sorprendentemente attuale e profetica su quanto sarebbe accaduto duemila anni dopo. Una vigna che è un seno materno, curato e difeso, opera di un Dio pieno d'amore, provvidente e infinitamente generoso; una vigna come le viscere di una madre, piantata nella storia come il segno vivido e bello di un Dio proteso a creare qualcuno capace di partecipare del suo stesso essere Dio, nell'amore fecondo e creativo. Una vigna come un utero fecondato dallo Spirito Santo, Ruah di Dio effuso sulla carne perchè produca i suoi frutti squisiti: "I frutti dello Spirito sono perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna. La tradizione della Chiesa ne enumera dodici: « amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità »" (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1832). La vigna è Israele, e poi la Chiesa, e poi ciascuno di noi, eletto per rivelare Dio a un mondo che non lo ha conosciuto o lo ha rifiutato. I frutti sono i segni del suo amore fatto carne visibile e offerta perchè sia accolta con essa la salvezza. Per questi frutti Dio ha preparato tutto, esattamente come ha fatto con la Vergine Maria, la "piena di Grazia" per offrire la mondo ogni Grazia. Per questi frutti Dio ha avuto una pazienza infinita. In gioco infatti, è la salvezza di ogni uomo di tutte le generazioni.


E' questo l'ambito nel quale occorre ascoltare la parabola: tutto quello che in essa accade rivela l'ostinato amore di Dio per ogni uomo, testimoniato dall'importanza assoluta che per il "Padrone" hanno i frutti della vigna. Per essi è disposto a sacrificare tutto, persino se stesso. Perchè quei frutti sono la sua mano distesa a cercare e a salvare, non può restare ferma e inattiva. Ad ogni frutto non raccolto corrisponde un uomo cui è stata sottratta la possibilità di salvarsi. I vignaioli non devono far altro che custodire e consegnare i frutti per i quali il Padrone ha fatto tutto. E invece invidia, omicidio, concupiscenza, in un parossismo di violenza che non ha fine. I vignaioli sono preda di una carne schiava, imprigionata dalle passioni, che esplode al momento del raccolto, quando si debbono fare i conti. Dare e avere, questo l'angusto limite nel quale i vignaioli avevano chiuso il loro rapporto con il padrone, sterile, giocato sulle convenienze, senza amore. Gli occhi accecati dall'inganno più feroce, secondo il quale Dio non è amore, solo leggi, e sbarramenti, e tabù, e ingiustizie. E se Dio non è amore, allora niente amore in nessuno, l'equazione è fin troppo semplice. E giù violenza, apparentemente senza senso, senza moventi, se non quelli d'un veleno che scorre impazzito nelle vene, nei cuori e nelle menti. Tutto è avvelenato perchè qualcuno aveva rubato dal cuore dei vignaioli il senso più profondo della loro vita, della missione loro affidata. Così come per ciascuno di noi quando, per l'inganno del demonio, smarriamo l'ambito nel quale siamo stati chiamati alla vita, l'unicità della nostra vocazione e confondiamo tragicamente l'amore con il possesso, il dono con l'appropriazione, la Grazia con l'esigenza. 


Siamo nati per dare i frutti, non per saziarci di essi. Essi non ci appartengono, ci sono donati per la salvezza di coloro ai quali è destinata la nostra vita. Marito, moglie, figli, amici, fidanzati, colleghi, chiunque, sino ai nemici. Appropriarcene significa uccidere, con violenza senza limiti, se stessi prima e chi ci è intorno poi. Ma Dio non si arrende. E ci viene a cercare, e ad ogni peccato - orgoglio assassino - risponde con più amore. Più servi inviati, più Grazia, più misericordia. Apostoli, catechisti, presbiteri, la Chiesa intera ad annunciarci la Verità, l'amore di Dio per il quale esistiamo. Sino al sacrificio di suo Figlio, l'amore estremo, folle, per ciascuno di noi, per ogni uomo. Non vi è altra pedagogia che questa pazienza intrisa di misericordia, senza misura, per salvare ad ogni costo chi gronda violenza oltre ogni limite. Perchè Dio ama davvero, conosce la debolezza, non si scandalizza, sa che l'unica risposta al male iniettato dal demonio è un amore più grande, sino al corpo del suo Figlio, offerto in sacrificio, sperando che almeno Lui sia accolto.


Ma niente, il peccato è troppo grande, l'avidità ha reso insensibili e ciechi i vignaioli oramai schiavi del nemico; e il Figlio giace appeso ad una Croce, lì, fuori della vigna, rifiutato insieme alla missione affidata. E tutta la violenza, i peccati, gli inganni vengono caricati sulle sue carni. Eccolo muto, come un agnello di fronte ai suoi tosatori. Ecco la pietra scartata dai costruttori di imperi di carta. Solo, gettato in preda all'inferno. L'amore consumato, e compiuto nel perdono, di cui la risurrezione ne è la prova. L'ultimo divenuto primo, il rigettato divenuto testata d'angolo. E' questa l'opera di Dio, ed è una meraviglia. Essa ha dell'incredibile, eppure è proprio quello che tutti aspettiamo e non osiamo sperare: lo tsunami di morte infranto su un legno. La malizia del nostro peccato, quella violenza che giace sotto la cenere dei giorni che sembrano sempre uguali, passati a mormorare, a giudicare, tramando rivincite e riscatti, il fuoco che s'impenna alla resa dei conti, quelle fiamme d'ira che ci travolgono finalmente spente nelle viscere di misericordia di chi ci ama davvero. 


E' la vittoria della pazienza infinita di Dio. Noi, vecchi coltivatori fraudolenti e assassini rinnovati nel Suo sangue per consegnare i frutti a suo tempo. Il regno di Dio strappato al nostro uomo vecchio per essere consegnato all'uomo nuovo, ricreato nella nuova ed eterna Alleanza siglata nel sangue di Cristo, perchè dia i frutti di salvezza predisposti per ogni uomo. Siamo tutti frutti della pazienza di Dio. In essa siamo stati allevati, custoditi, accompagnati; nella sua pazienza abbiamo conosciuto le insondabili possibilità di male del nostro cuore ingannato, e le infinite possibilità di amore dello stesso cuore ricolmo di Spirito Santo. La pazienza di Dio ha ragione di ogni peccato, e ci attira nei suoi ritmi, ci strappa dal parossismo delle concupiscenze e dei "rapporti formato tablet",  rivelandoci il senso profondo della nostra vita e di quella del nostro prossimo. La longanimità di Dio ci "abitua" ad attendere e a sperare i frutti per i quali Egli stesso ha operato tutto. In noi e negli altri. Ci eleva al di sopra del contingente e della fame di risultati e riscontri, conducendoci a pazientare, a offrire noi stessi in sacrificio per avere ragione dei peccati e delle perversioni degli altri. La pazienza di Dio ci fa guardare chi ci è accanto fissando il frutto che è chiamato a dare, operando in tutto perchè possa accogliere l'amore di Dio per mezzo dello Spirito Santo. La pazienza di Dio ci fa pazienti, segno della sua longanimità che, sola, è capace di attirare e salvare. Siamo in questo mondo come Noè, crocifissi sul Legno perchè sia rivelata al mondo la magnanimità di Dio, nell'attesa che ogni uomo che giace imprigionato possa incontrare la salvezza annunciata dal Figlio gettato fuori e disceso sino agli inferi: "Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua..." (1 Pt. 3, 18-21).



J. Jansens - M. Ledrus. La Longanimità. 
Da I frutti dello Spirito Santo. 


La “longanimità” è l’esercizio della carità cristiana verso un prossimo reale e concreto. È l’atteggiamento di colui il quale persevera con animo illuminato e plasmato dalla longanimità divina contro gli ostacoli nello sforzo caritatevole a vantaggio dei fratelli, sopporta e tollera tutto per la loro salvezza effettiva; e, saldo nella speranza, non cessa di amarli e di avere fiducia nell’azione salvifica che Dio esercita nel loro cuore. La “longanimità” nei rapporti con gli altri non soltanto non si lascia abbattere dalle avversità, dalle contraddizioni, dalle ostilità, ma persiste nel suo proposito di bene con sempre rinnovato ardore e con slancio. Dal punto di vista umano, le opposizioni ingiuste, le persecuzioni e le sconfitte potrebbero essere valide ragioni per abbandonare l’altro alla sua sorte, ma la longanimità ci suggerisce di non desistere.




Benedetto XVI. Pazienza di Dio, pazienza dell'uomo.

Vespri con gli universitari romani, 15 dicembre 2011



«Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» (Gc 5,7).


Cari amici, san Giacomo esorta ad imitare l’agricoltore, che «aspetta con costanza il prezioso frutto della terra» (Gc 5,7). A voi che vivete nel cuore dell’ambiente culturale e sociale del nostro tempo, che sperimentate le nuove e sempre più raffinate tecnologie, che siete protagonisti di un dinamismo storico che talvolta sembra travolgente, l’invito dell’Apostolo può sembrare anacronistico, quasi un invito ad uscire dalla storia, a non desiderare di vedere i frutti del vostro lavoro, della vostra ricerca. Ma è proprio così? L’invito all’attesa di Dio è proprio fuori tempo? E ancora più radicalmente potremmo chiederci: cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società? Sono molte, nella nostra epoca, le persone, specialmente quelle che voi incontrate nelle aule universitarie, che danno voce alla domanda se dobbiamo attendere qualcosa o qualcuno; se dobbiamo attendere un altro messia, un altro dio; se vale la pena di fidarci di quel Bambino che nella notte di Natale troveremo nella mangiatoia tra Maria e Giuseppe.
L’esortazione dell’Apostolo alla paziente costanza, che nel nostro tempo potrebbe lasciare un po’ perplessi, è in realtà la via per accogliere in profondità la questione di Dio, il senso che ha nella vita e nella storia, perché proprio nella pazienza, nella fedeltà e nella costanza della ricerca di Dio, dell’apertura a Lui, Egli rivela il suo Volto. Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l’orizzonte del futuro dell’uomo ad una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti. 
Ma dovremmo chiederci allora: dove trova la mia ricerca il vero Volto di questo Dio? O meglio ancora: dove Dio stesso mi viene incontro mostrandomi il suo Volto, rivelandomi il suo mistero, entrando nella mia storia?
Cari amici, l’invito di san Giacomo «Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» ci ricorda che la certezza della grande speranza del mondo ci è donata e che non siamo soli e non siamo noi da soli a costruire la storia. Dio non è lontano dall’uomo, ma si è chinato su di lui e si è fatto carne (Gv 1,14), perché l’uomo comprenda dove risiede il solido fondamento di tutto, il compimento delle sue aspirazioni più profonde: in Cristo (cfr Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 10). 
La pazienza è la virtù di coloro che si affidano a questa presenza nella storia, che non si lasciano vincere dalla tentazione di riporre tutta la speranza nell’immediato, in prospettive puramente orizzontali, in progetti tecnicamente perfetti, ma lontani dalla realtà più profonda, quella che dona la dignità più alta alla persona umana: la dimensione trascendente, l’essere creatura ad immagine e somiglianza di Dio, il portare nel cuore il desiderio di elevarsi a Lui.
C’è, però, un altro aspetto che vorrei sottolineare questa sera. San Giacomo ci ha detto: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza» (5,7). Dio, nell’incarnazione del Verbo, nell’incarnazione del suo Figlio, ha sperimentato il tempo dell’uomo, della sua crescita, del suo farsi nella storia. Quel Bambino è il segno della pazienza di Dio, che per primo è paziente, costante, fedele al suo amore verso di noi; Lui è il vero “agricoltore” della storia, che sa attendere. 
Quante volte gli uomini hanno tentato di costruire il mondo da soli, senza o contro Dio! Il risultato è segnato dal dramma di ideologie che, alla fine, si sono dimostrate contro l’uomo e la sua dignità profonda. La costanza paziente nella costruzione della storia, sia a livello personale che comunitario, non si identifica con la tradizionale virtù della prudenza, di cui certamente si ha bisogno, ma è qualcosa di più grande e più complesso. 
Essere costanti e pazienti significa imparare a costruire la storia insieme con Dio, perché solo edificando su di Lui e con Lui la costruzione è ben fondata, non strumentalizzata per fini ideologici, ma veramente degna dell’uomo.
Questa sera riaccendiamo, allora, in modo ancora più luminoso la speranza nei nostri cuori, perché la Parola di Dio ci ricorda che la venuta del Signore è vicina, anzi il Signore è con noi ed è possibile costruire con Lui. Nella grotta di Betlemme la solitudine dell’uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell’umanità non nell’utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna.
A Lui questa sera vogliamo confessare con fiducia il desiderio più profondo del nostro cuore: «Io cerco il tuo volto, Signore; vieni, non tardare!». 
Amen.

* * *




APPROFONDIMENTI
 

1. COMMENTO DI SILVANO FAUSTI "UNA COMUNITA' LEGGE IL VANGELO DI MATTEO"

Messaggio nel contesto




«La pietra che i costruttori hanno scartato, questa è diventata testata d'angolo», dice Gesù ai capi del popolo. Dichiara così qual è il suo potere e da dove gli viene: è quello della «pietra scartata» diventata «testata d'angolo», quello del Figlio croci­fisso e risorto. La croce, stoltezza e debolezza per sapienti e potenti, è sapienza e potenza di Dio che salva l'uomo, distruggendo i suoi deliri di morte.


Gesù è il Messia che viene nel nome del Signore (v. 9), perché viene sull'asina. Ciò per cui è scartato, è il potere stesso di Dio, che alla fine sarà riconosciuto pro­prio da chi lo crocifigge (27,54).


Questo potere, che da sempre il Figlio ha in ciclo, gli viene conferito in terra da coloro che lo rifiutano - dai signori del tempio e del popolo, che non conoscono il Signore della gloria (ICor 2,6-8). Questi scatenano ciecamente contro di lui la loro violenza di morte. E lui si fa loro salvatore e Signore, perché assorbe in sé il loro male senza restituirlo, rivelando così chi è Dio e chi è l'uomo a sua immagine.


Senza soluzione di continuità con la parabola precedente, questo brano è un'allegoria della storia d'Israele, che nella parabola successiva sarà estesa alla Chiesa. Espone una «teologia della storia» in senso forte: dice come Dio vede la no­stra realtà, rivelando le «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (13,35). Dal punto di vista di Dio il mistero che sta all'origine del mondo è il suo amore di Padre verso i figli nel Figlio: tutto è fatto per lui e in vista di lui, e tutto in lui sussiste (Col l,16s). Ma noi, per ignoranza, strutturiamo tutto sul nostro egoismo, che ci uccide come figli e come fratelli.


Due cose occulte stanno quindi ora all'origine del mondo: il Corpo del Figlio e il cadavere del fratello. E Dio ne fa una sola: il fratello, al quale togliamo la vita, è il  Figlio che dà la vita per noi. La storia è un libro sigillato che solo l'Agnello immo­lato è in grado di aprire e leggere (Ap 5,9). Dio ha voluto fin dall'inizio un mondo bello, riflesso della sua gloria; ma noi ne abbiamo fatto un mondo brutto, pieno di violenza, che uccide il fratello. Al Signore, che rispetta la nostra libertà, non rimane che diventare lui stesso il fratello su cui si scarica la nostra violenza, per restituirci nel suo amore la nostra verità di figli. È una soluzione veramente divina: anche chi si oppone a lui, non fa che eseguire il suo disegno. La storia è una progressiva mani­festazione del mistero di un Dio che vince il nostro male portandolo su di sé, e fa del nostro sommo misfatto la sua mirabile opera di salvezza per tutti.


Il racconto narra l'intreccio tra la nostra infedeltà e la sua fedeltà. Il suo ve­nirci incontro e il nostro rifiuto. È una passione infelice, senza sbocco. La nostra è una provocazione sorda e continua, con una perversità latente che solo alla fine si esprime. Il brano presenta il braccio di ferro tra il potere dell'uomo, che è violenza distruttiva e autodistruttiva, e quello di Dio, che è amore più forte della morte.


Nell'uccisione del Figlio si compie tutto, sia la nostra perversità sia la sua bontà. Il nostro male esaurisce la sua carica negativa, togliendo la vita all'autore della vita; e Dio si manifesta tale, donando la sua vita a noi che gliela rubiamo. Nel­l'uccisione del Figlio otteniamo davvero la sua eredità: abbiamo tra le mani il frutto che ci fa simili a Dio (Gen 3,5)! Il Figlio, che nella sua mitezza si fa oggetto di pre­potenza, eredita da noi la nostra nudità, e noi da lui la sua veste di figlio (27,35).


Il racconto inizia descrivendo la cura che Dio ha per la sua vigna: manifesta il suo amore con i fatti, perché lo comprendiamo e possiamo fare quel frutto che ci rende simile a lui (vv. 33-34).


Al moltiplicarsi dei suoi gesti di bontà corrisponde un crescendo della nostra cattiveria: percuotiamo e uccidiamo sistematicamente i profeti che ci richiamano a produrre il frutto desiderato (vv. 35-36). La nostra risposta alle sue premure è un'automatica e monotona reazione. Non c'è via d'uscita. All'ostinazione del suo amore, corrisponde il muro sempre più spesso del nostro rifiuto!


Alla fine il Padre manda «il» Figlio. Proprio davanti a lui esce allo scoperto l'intenzione che covavamo nei suoi confronti: ucciderlo per rapirne l'eredità (vv. 37-39). Gli ascoltatori, interpellati da Gesù, rispondono dicendo che il delitto è de­gno della più severa condanna (w. 40-41). Ma il Signore da un'altra interpreta-zione: il rifiuto dei capi sarà l'inizio di un nuovo popolo, e la pietra scartata sarà te­stata d'angolo del nuovo tempio (vv. 42-44). I capi del popolo capiscono finalmente che si parla di loro, e si accingono a fare ciò che Gesù ha appena detto (vv. 45-46).


Si dice giustamente che la storia è rivelazione. In essa infatti la violenza toglie sempre più la maschera del suo potere mortifero. Non è un caso, se proprio oggi qualcuno scrive un «Elogio della mitezza» e un «Elogio della solidarietà». Sarebbe però fuori luogo un «Elogio del nostro tempo», se non si fa prima un elogio dell'a­sina e del fico, per ridare all'uomo la sua umanità e a Dio la sua realtà.


Gesù, il Figlio dell'uomo disprezzato e ucciso fuori le mura, è la pietra scartata che diventa pietra angolare: è il Figlio che ci da l'eredità, è il Pontefice che unisce il Padre ai fratelli e questi tra di loro. La sua croce svela la distruttività della nostra violenza e la forza del suo amore. Questa è l'opera meravigliosa di Dio: la nostra miseria fa uscire la sua misericordia.


La Chiesa riconosce in Gesù l'Agnello, immolato e vittorioso (Ap 5,6.13), che vince il male con il bene (Rm 12,21), spegnendo in sé la nostra potenza di morte. Uniti a lui, israeliti e pagani, siamo figli nel Figlio, albero fruttifero e tempio dello Spirito.


Lettura del testo




v. 33: C'era un uomo, un proprietario. È il Signore, del quale è la terra e quanto contiene, l'universo e i suoi abitanti (Sai 24,1). Lui però non è un padrone. Non si appropria di nulla e di nessuno; al contrario dona tutto a tutti, fino a dare se stesso. Il nostro errore, fin dall'inizio, fu pensarlo diverso da quello che è; noi poi, essendo figli e volendo diventare simili a lui (Gen 3,5), ci siamo efficacemente dati da fare per diventare come l'avevamo immaginato.


piantò una vigna. La vigna è Israele (Is 5,1-7), il primogenito, scelto da Dio tra tutti i popoli come sua proprietà (Es 19,5). Non perché è il più numeroso o forte; è anzi il più piccolo tra tutti i popoli (cf. Dt 7,7). In lui ha voluto far brillare il suo amore di Padre per i suoi figli, in modo che diventi luce per i fratelli.


«Piantare la vigna» è un lavoro paziente e intelligente, che esige impegno e fa­tica. Bisogna cercare il terreno giusto, adeguatamente solatio, scavarlo profonda­mente e drenarlo, scegliere e piantare ogni vitigno. Il contadino fa questo con gioia, pensando al frutto. «Piantare la vigna» sintetizza l'azione di Dio per il popolo eletto, dai patriarchi ai Giudici, dalla promessa all'eredità della terra, attraverso la liberazione dall'Egitto e il dono della Parola.


Questa vigna è fatta per rispondere all'amore del Padre con l'amore verso i fratelli (7,12; 22,36-40; Dt 4,6s e Lv 19,18). Se non lo fa, è come il fico sterile.


la circondò con una siepe. La siepe delimita e protegge la proprietà da ciò che la danneggia, ladri o bestie. È simbolo della legge, che caratterizza il popolo nella sua diversità: lo rende simile a Dio, indicandogli il bene e proteggendolo dal male.


vi scavò un torchio. Il torchio, posto al centro della torre per spremere il frutto della vigna, è l'altare da cui sale quel sacrificio gradito a Dio che è la misericordia dell'uomo (9,13; 12,7). Se non c'è questo, le foglie, anche se rigogliose, sono segno di sterilità e maledizione (vedi le critiche profetiche al culto del tempio, ad es.: Is 1,10-20; 58,lss; Ger 7,lss; Am 5,21-27; MI 3,1-5).


costruì una torre. La torre richiama il tempio, che serve a custodia della vigna e deposito dei frutti. Non dovrebbe essere pieno di mercanti e briganti, ma casa di co­munione con il Padre e con i fratelli, aperta a tutte le genti.


la affidò a dei coltivatori. Sono gli ascoltatori di Gesù, i capi del popolo, e quanti con loro si identificano. Dovrebbero, come Adamo, collaborare all'azione di Dio coltivando e custodendo il giardino (Gen 2,15), e non distruggerlo per posse­derlo.


emigrò. Dio non è impiccione. All'uomo fa dono di tutto. Soprattutto della li­bertà di agire come lui! Fatto al sesto giorno, ha il compito di portare la creazione al settimo, al riposo di Dio. Per questo lui è assente: la sua presenza di Padre è affidata alla responsabilità di figli adulti, che vivono da fratelli. Addirittura emigra all'e­stero: si fa estraneo, e lo incontriamo in ogni straniero che cerca accoglienza (cf. 25,31-46).


In questo versetto si sottolinea, con verbi di azione, la fatica di quel Dio che con la semplice parola ha creato tutto: è la cura del suo amore per formarsi un figlio adulto, il primogenito. Non è un padrone che fa lavorare altri per rapirne i frutti -come fanno i padroni di questo mondo. Lavora personalmente, a sue spese, e senza vantaggio; l'unica ricompensa per il padre è la felicità del figlio. «Pianta» con cura la vigna, vitigno per vitigno, perché ognuno fruttifichi secondo il suo cuore; la «cinge» di una siepe, che la protegga come le sue braccia; vi «scava» un torchio nella roccia, perché possa godere del proprio frutto; «costruisce» una torre, perché vegli su di lei e la custodisca; «emigra» altrove, per darle la libertà di essere come lui.



v. 34: il tempo dei frutti. La vigna è coltivata in vista di quel frutto che rallegra Dio e l'uomo (Gdc 9,13; cf. Sai 104,15): è l'amore per i fratelli, di cui ha fame tanto il Figlio quanto il Padre.


inviò i suoi servi. Invece di «servo», in greco c'è «schiavo». Lo schiavo è pro­prietà del suo signore. Schiavi sono i profeti, che appartengono a Dio, come Dio ap­partiene a loro (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Essere l'uno dell'altro per amore, è la vita stessa del Padre e del Figlio, e di chiunque ha il suo Spirito. I profeti vivono il mede­simo dramma del loro Signore che li manda. Vedi in particolare Elia, Geremia e il Battista (cf. 16,14). Sono inviati ai fratelli come testimoni, martiri dell'amore che chiama a conversione.


Oltre l'istituzione del tempio e della monarchia, comune a tutti i popoli - il re rappresenta Dio in terra e il tempio gli garantisce la protezione di Dio - in Israele c'è un'anti-istituzione: il profetismo. Il profeta è contro ogni sacralizzazione e asso-lutizzazione del tempio e della legge, e, a maggior ragione, del re, che dovrebbe ri­spettarla. Egli è contro la violenza religiosa e politica: richiama alla fraternità, ricor­dando al re l'osservanza della legge, e agli osservanti della legge l'amore di Dio e del prossimo.


per prenderne i frutti. Il Signore ha «fame» del frutto della vigna (21,18), come ha «bisogno» dell'asina (21,3). Egli desidera che l'uomo, suo figlio, si realizzi nell'a­more e nella libertà di servire, come lui.


v. 35:presi i suoi servi, ecc. È la sorte dei profeti (cf. 23,29-32): portando la mi­tezza del Padre, sono preda della violenza dei fratelli. Sono martiri, testimoni in­sieme del nostro male e del suo amore: sono i giusti, prefigurazione del Giusto, sul quale ricade l'ingiustizia (cf. Sap 2,12-20). Nelle loro ferite si spurga la virulenza della nostra cattiveria (cf. Is 53,1-12); nel loro silenzio si spegne la nostra menzogna. Chi opera il bene - può parere scandaloso - non resta mai impunito!


Noi, invece di ascoltare la voce dei profeti, tagliamo loro la gola. Più il Signore ci chiama con la loro parola e il loro esempio, più ci allontaniamo da lui. Chiamati a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo! Ma Dio è Dio, e non uomo. Per questo freme; ma non di ira, bensì di compassione, e viene a noi nella sua misericor­dia (cf. Os 11,2.7.9).


v. 36: di nuovo inviò altri servi, più numerosi dei primi. Dio non si stanca; molti­plica con generosità i suoi appelli. E noi ripetiamo, autisticamente, con violenza sem­pre più folle, il nostro rifiuto. Sordi alla Parola, uccidiamo chi la dice, facendo monu­menti a quelli che i nostri padri hanno ucciso. Ma questo non ci dissocia dalla loro colpa; ci serve solo da alibi per continuare le loro malefatte, testimoniando così di es­sere loro degni figli (23,29-32). Circa la sorte dei profeti, vedi anche Eb 11,32-40.


v. 37: alla fine inviò loro il Figlio suo (cf. Eb l,ls). Dio non ha nulla di più da dirci che la sua stessa Parola, nulla di più da darci che il suo stesso Figlio. Il quale non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (cf. Eb 2,lls)!


v. 38: / coltivatori, visto il Figlio. È il Figlio perfetto come il Padre (5,48), irra­diazione della sua gloria, impronta della sua sostanza, che tutto sostiene con la sua Parola (Eb 1,3). È il Figlio che fa la volontà del Padre, il quale fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (5,45).


è l'erede: venite, uccidiamolo, e avremo la sua eredità. Davanti al Figlio si svela l'intenzione perversa dei fratelli: la sua diversità manifesta la nostra. Noi vogliamo la morte del Padre e del fratello, per impadronirci dell'eredità; vogliamo possedere in proprio ciò che è donato (Gen 3; Ez 16). Questo è il movente della violenza che consuma la nostra storia: appropriarci del dono, non accorgendoci che così lo di­struggiamo. E siccome tutto è dono - il mondo, il mio io e Dio stesso - tutto è tra­volto nelle fauci della morte.


Noi vogliamo l'eredità del Figlio, il tesoro del Padre, ignorando che essa è lo Spirito d'amore, vita di ambedue. Ma proprio uccidendo il Figlio, ne otteniamo l'e­redità: a noi, che gli togliamo la vita, egli dona la sua vita.


In questo modo il bene trionfa di ogni male!


v. 39: presolo, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. È la storia che sta accadendo a Gesù, della quale gli ascoltatori (allora come adesso!) sono attori. Tra due giorni lo prenderanno nell'orto, lo cacceranno fuori le mura e lo uccideranno sul Golgota.


v. 40: Il Signore della vigna cosa farà a quei coltivatori? Gesù domanda agli ascoltatori il giudizio su ciò che stanno facendo. La loro risposta, senza pietà, è la stessa di Davide a Natan, che gli sta parlando del suo peccato (cf. 2Sam 12,5s). Gesù dice in anticipo ciò che essi intendono fare. Quando sarà accaduto, sapranno al­meno che «c'è un profeta», che ha predetto il loro male e l'ha portato su di sé, co­scientemente e liberamente. Solo allora potranno dire: «Ho peccato contro il Si­gnore» (2Sam 12,13) e capire che «davvero costui era Figlio di Dio» (27,54).


v. 41: sterminerà malamente quei malvagi. È la lettura della storia che facciamo noi: pensiamo che Dio sia più violento dei cattivi, e li ripaghi con la stessa moneta. La condanna che, senza saperlo, pronunciamo su di noi, sarà portata dal Signore stesso, che per noi si è fatto maledizione e peccato, perché noi diventassimo giusti­zia di Dio (Gai 3,13; 2Cor 5,21).


affiderà la vigna ad altri coltivatori, ecc. Questi coltivatori «altri» saranno quanti, vedendo il segno del Figlio dell'uomo, si batteranno il petto (24,30), ricono­scendo il proprio no e il suo eterno sì. Essi porteranno frutto, accettando il dono che il Messia crocifisso fa a quanti glielo rapiscono. Tra questi «altri» c'è la Chiesa di Matteo, composta da giudei che hanno ascoltato i profeti e riconosciuto, nel per­dono, il loro Signore (cf. Ger 31,31-34).


v. 42: la pietra che i costruttori hanno scartato, ecc. (Sai 118,22s). Questo stesso salmo, citato anche nell'ingresso messianico (21,9), offre a Gesù un'altra interpreta-zione del fatto, veramente divina. «Pietra» e «il Figlio» in ebraico si richiamano ('eben e haben): colui che abbiamo disprezzato, proprio questi è il Figlio che, in quanto ucciso, da la vita per tutti. Così diviene pietra angolare del nuovo tempio, che unisce ciclo e terra, divinità e umanità, giudei e pagani, formando di tutti un solo popolo, annullando ogni inimicizia e condanna tra gli uomini (cf. Ef 2,14-18).


dal Signore venne questo, ed è una meraviglia. Questa è l'opera del Signore, la meraviglia da lui compiuta davanti ai nostri occhi. Noi, del bene che lui ci da, ne fac­ciamo del male; lui, del male che noi gli diamo, ne fa un bene.


Con l'uccisione del Figlio noi abbiamo usato la nostra libertà - massimo bene che ci rende simili a lui - per compiere il massimo male, addirittura impensabile: uc­cidere l'autore della vita (At 3,15). E lui ne fa il sommo bene, per tutti: il dono di sé. Come Giuseppe ai suoi fratelli, Gesù dice: «Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si av­vera: far vivere un popolo numeroso» (Gen 50,20).


Davvero tutto, anche il male, coopera al bene (cf. Rm 8,28). Tutti si sono riu­niti contro il Cristo, per compiere ciò che la mano e il cuore di Dio aveva preordi­nato che avvenisse (At 4,28), per realizzare il suo disegno e la sua parola (cf. Ap 17,17). Con i perversi, Dio è astuto (Sai 18,27), divinamente astuto: noi facciamo dei suoi doni un furto, e lui fa del nostro furto il suo dono!


Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l'uccisione della vita non può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal caos primi­tivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua gloria. Veramente grande e santo è Dio!


v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne faccia i frutti. Nel Regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no, si riconoscono pecca­tori e accettano nel Figlio crocifisso l'eterno sì del Padre a tutti i suoi figli. Costoro conoscono l'amore del Padre, e possono portare il frutto di una vita fraterna.


v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l'idolo grande, splendido e terribile che l'uomo si è costruito, è la debolezza della croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo, uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è pro­fezia di ogni altra: ciò che è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (ICor 10,11). Coloro sui quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno rice­vuto il Figlio della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa promessa (cf. Gen 12,3).


Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all'uomo la sua libertà.


v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c'erano all'inizio (v. 23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il e. 23. La parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio, che è quello dell'asina e del suo asinelio.


v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l'azione dell'uomo esegua e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria dell'Agnello. Grande è la po­tenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa che compiere la sua bontà nei no­stri confronti.


temettero la folla, ecc. La folla l'ha osannato poco prima. Tra due giorni, quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il popolo dirà: «Sia crocifisso», e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità (27,22.23.25). I sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per questo li vogliono e li scel­gono così (cf. Gdc 9,8-15; ISam 8,lss).




Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l'uccisione della vita non può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal caos primi­tivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua gloria. Veramente grande e santo è Dio!


v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne faccia i frutti. Nel Regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no, si riconoscono pecca­tori e accettano nel Figlio crocifisso l'eterno sì del Padre a tutti i suoi figli. Costoro conoscono l'amore del Padre, e possono portare il frutto di una vita fraterna.


v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l'idolo grande, splendido e terribile che l'uomo si è costruito, è la debolezza della croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo, uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è pro­fezia di ogni altra: ciò che è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (ICor 10,11). Coloro sui quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno rice­vuto il Figlio della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa promessa (cf. Gen 12,3).


Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all'uomo la sua libertà.


v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c'erano all'inizio (v. 23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il e. 23. La parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio, che è quello dell'asina e del suo asinelio.


v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l'azione dell'uomo esegua e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria dell'Agnello. Grande è la po­tenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa che compiere la sua bontà nei no­stri confronti.


temettero la folla, ecc. La folla l'ha osannato poco prima. Tra due giorni, quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il popolo dirà: «Sia crocifisso», e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità (27,22.23.25). I sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per questo li vogliono e li scel­gono così (cf. Gdc 9,8-15; ISam 8,lss).

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2. Matteo e l’Antico Testamento - 5. Due parabole ecclesiologiche

La parabola di Mt 21, 33-44 è invece più violenta e ancora più orientata della precedente in senso ecclesiologico.
Si tratta della famosa parabola dei vignaioli omicidi. Il racconto è noto.
Un padrone pianta una vigna per farla fruttare; alla vendemmia invia varie serie di servi per ritirare il raccolto, ma inutilmente, finché egli non decide di inviare lo stesso suo figlio, che invece verrà ucciso. Il giudizio finale è terribile: «Perciò vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare».
Il riferimento alla storia della salvezza fino a Cristo, così come la presentava il kerygma (= predicazione) primitivo (cf. At 2, 14-36; 7) è evidente.
Dietro queste parole vi sono le sofferenze di un gruppo che ha subito anche persecuzioni da parte di un altro gruppo di fede affine, quella giudaica, e che si è visto uccidere il proprio leader, il rabbi di Nazaret Gesù.
Eppure, neanche questa così sofferta presentazione delle cose può legittimare una lettura semplicisticamente antigiudaica.
In primo luogo, perché nella prima ora entrambi i gruppi condividevano la comune fede giudaica, anzi era in base ad essa che si giudicavano e condannavano a vicenda.
In secondo luogo, perché bisogna storicizzare il racconto e non vi si può sovrapporre il susseguente atteggiamento più decisamente antigiudaico verso cui la Chiesa scivolerà, quando diventerà una potenza sociale e politica.
In terzo luogo, infine, perché, la parabola, in quanto parola di Gesù, non può ricevere solo una lettura legata ad una contingenza storica, bensì deve elevarsi ad insegnamento teologico che ci dà in mano la chiave per interpretare la storia umana come una serie di vicende nelle quali, a prescindere dalla nazionalità o dalla stessa religione, l’uomo si mostra ricorrentemente avversario di quella grazia che Dio periodicamente gli invia.

Un duro monito per tutti, per ebrei e per cristiani, anzi per gli uomini tout court.
Fonte: www.nostreradici.it 

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3. La parabola dei vignaioli omicidi




Commento
Il profeta Isaia (5,5) nel suo celebre canto aveva descritto una vigna nella quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, scegliendone il luogo in un terreno fertile, ripulendolo dai sassi e dagli sterpi, piantandovi la vite scelta, cintandola poi con un recinto di protezione e all'interno, in posizione favorevole, una torre dalla duplice funzione: guardia in cima e una pressa a livello di terra. Ma nonostante la cura la vigna produceva acri grappoli invece di uva dolce.
La spiegazione del canto allegorico ricordava che l'ingrata vigna era la nazione d'Israele e il suo padrone era Jahvè; il quale però, esasperato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola alla distruzione con conseguente crescita di rovi e spine.
La parabola è ripresa, ampliata e portata a compimento da Gesù che l'ha inserita in una cornice fortemente polemica. Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle Sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per comprendere all'istante che la vigna in oggetto era Israele, il padrone Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un lungo elenco necrologico all'interno delle pagine delle Scritture.
Oltre alla parte inerente il passato Gesù vi ha aggiunto, come conclusione, una parte riguardante il futuro, cioè che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, viene percosso e ucciso. Gesù si è implicitamente svelato come Figlio di Dio, accusando in anticipo i colpevoli del loro futuro omicidio.
Si tratta della dichiarazione di autorità.
Alla non più velata minaccia sottintesa nel racconto sulla sua autorità, Gesù oppone il suo insegnamento circa il piano e il progetto di Dio, legato in modo unico e inscindibile al suo destino che si trasforma in giudizio storico per coloro che tentano di contrastare il fine ultimo dell'azione di Dio.
Tutto ciò viene esposto con una forma che utilizza immagini classiche della tradizione biblica: la vigna è il Regno di Dio, i servi i profeti, il proprietario della Vigna è Dio Padre, i vignaioli l'umanità intera con i suoi capi, i frutti la fedeltà alla legge di Dio portata a compimento da Gesù (la nuova ed eterna alleanza).
Il racconto si ispira alla tradizione socio-economica della Palestina del primo secolo. Gran parte della Galilea apparteneva a pochi proprietari stranieri. La lontananza dei padroni favoriva la rivolta dei coloni, che si rifiutavano di consegnare al proprietario della vigna il raccolto conforme al contratto di affitto e accolgono gli inviati del padrone a bastonate. Ma il racconto di Marco evidenzia il crescendo dell'ostilità violenta: oltraggi, percosse, omicidio. Tutte queste azioni contrastano con la pazienza, sembrerebbe incomprensibile, del padrone, il quale dopo l'invio fallimentare di molti servi, decide in ultima analisi di mandare in missione suo figlio, l'unico, il diletto, l'erede.
Come possiamo già notare risalta l'immagine del figlio erede che per noi cristiani fa emergere prepotentemente il ruolo e il destino storico di Gesù, l'ultimo inviato, oltraggiato e ucciso da quelli che pretendevano di gestire la vigna, ossia quel regno che doveva restare un dono di Dio Padre.
La forza del racconto è racchiusa nell'intreccio intelligente di tre azioni: la prima tra il padrone e i contadini; la seconda tra i servi e il figlio; la terza è intorno all'atteggiamento del padrone.
Il padrone e i contadini sono gli unici personaggi del racconto che agiscono e parlano. Dei servi e del figlio si narra la sorte che subiscono, ma di loro non viene riportato né un gesto né una parola. La storia infatti si svolge tra il padrone e i contadini. Il padrone ha la parola per primo e per ultimo: sua è l'iniziativa, come già abbiamo visto, di piantare una vigna e poi di inviare i servi, sua è anche la decisione finale di punire i contadini. Fra questi due punti, che appartengono esclusivamente al padrone, sono descritte due ostinazioni: da una parte il ripetuto tentativo del padrone di ottenere i frutti della sua proprietà, dall'altra il testardo rifiuto dei contadini di darglieli. Un primo insegnamento lo possiamo già trarre: i servi della parabola, come i profeti di Israele, non sono rifiutati, percossi e uccisi in ragione di qualche loro pretesa personale, ma unicamente perché inviati da Dio e portavoce delle sue esigenze. Ecco perché Gesù li fa agire senza parole e senza gesti: essi non sono figure autonome, ma il tutto viene rinviato a Dio.
I servi e il figlio, visti attraverso l'atmosfera di contrasto tra il padrone e i contadini, la parabola racconta una storia che rinarra quella del popolo ebraico: la fedeltà a Dio, l'infedeltà del popolo, il giudizio. Nel racconto si distinguono palesemente due parti: una prima nella quale si parla della missione dei servi, e una seconda dove viene descritta la missione del figlio. Gesù ha cura di distinguere chiaramente le due missioni. Anche perché diversamente da quello dei servi, l'invio del figlio è seguito dalla riflessione del padrone e anche la reazione omicida dei contadini è preceduta da una riflessione.
Altra cosa da tenere presente è che per il padre è il figlio amato mentre per i contadini è l'erede; inoltre la sua missione è l'ultima.
In ultima analisi, se prima la parabola poteva apparire come una semplice rinarrazione della storia di Israele, ora, a questo punto, risulta essere il suo vertice. E rispetto al canto di Isaia, vanta una novità fondamentale: Dio ha inviato il Figlio, non solo i profeti; e il popolo ha rifiutato il Figlio, non solo i profeti.
L'atteggiamento del padrone è paziente, ostinato. Egli spera fino all'ultimo: "Rispetteranno mio figlio!". Tuttavia anche la sua pazienza ha un limite e non può accettare che la violenza dei contadini continui all'infinito. Non gli resta che andare di persona per infliggere un severo castigo: "Verrà e sterminerà i contadini e darà la vigna ad altri".
Per il profeta Isaia il giudizio finale è l'abbandono, mentre Gesù vi aggiunge un secondo tratto che svela un mistero: la vigna sarà data ad altri. In pratica il dono del regno di Dio passa da Israele ai pagani. Qualcuno potrebbe obiettare: non è Israele il popolo della promessa, al quale Dio ha giurato fedeltà?. La risposta è che Dio è fedele, certo, ma la sua fedeltà non può prescindere dal giudizio. Dio non abbandona il suo popolo, ma, anzi, è il popolo che ha rifiutato Dio.
Questo stile dell'azione di Dio vale per tutti i tempi. Contesta la sicurezza e i privilegi anche di una comunità cristiana, che pretenda di possedere in modo irreversibile il monopolio del regno di Dio. L'unica garanzia è quella legata alla fedeltà e gratuità di Dio e alla libera fede dell'uomo.
In definitiva, Gesù, come il figlio della parabola , è una pietra scartata dai costruttori, ma, nel progetto ultimo di Dio, è diventato la pietra d'angolo, che tiene unito e dona saldezza a tutto l'edificio.
La conclusione della parabola mette in luce la forza critica della parola di Gesù. Non si tratta di comprendere una teoria, ma di accogliere una persona. Ecco perché i capi, contro i quali direttamente è rivolto il racconto, comprendono il suo significato polemico ma non riescono ad accogliere la sua proposta salvifica. La parola di Gesù esige una decisione. Non esiste neutralità davanti alla sua persona. La parola di Gesù è selezionatrice, perché provoca la risposta dell'uomo.
Concludo con alcune domande: noi oggi ci identifichiamo nei contadini o nei servi? Accogliamo la proposta salvifica di Gesù?


La parabola dei vignaioli omicidi
La parabola dei vignaioli omicidi, che la Chiesa assegna alla tredicesima domenica dopo la Pentecoste, appare in tutti e tre i Vangeli sinottici. Il brano che abbiamo letto è quello del Vangelo Secondo Matteo (al capitolo 21). In questa storia strana, ricca di simboli e di tensione drammatica, si racconta con minuzia di dettagli la preparazione di un terreno, e tre diversi episodi in cui i lavoratori assegnati ad avere cura del terreno maltrattano gli emissari del loro padrone. Nell'ultimo dei tre incidenti, è il figlio stesso del padrone a essere gettato fuori della vigna e ucciso.

La storia è presentata come una condanna a quegli ebrei che presto avrebbero rifiutato il Messia (e di fatto, alla conclusione del brano, si sente serpeggiare l'ira dei sacerdoti e dei farisei, che capiscono che la parabola riguarda loro stessi); come accade nei passi del Vangelo, tuttavia, ci sono molti altri significati racchiusi in queste parole. Ricordiamoci anzitutto che c'è in gioco la nostra salvezza, e c'è sempre un significato delle parole del Vangelo che illustra direttamente il processo della salvezza. Qui lo scopo della parabola, ovvero l'aspettativa del padrone della vigna, non è nient'altro che la crescita dei beni che Dio ci ha dato, o che ha "piantato" in noi.

In questo racconto, il padrone della vigna è indubbiamente Dio. La vigna, nell'interpretazione che i sacerdoti e i farisei colgono subito, è il popolo di Israele, guidato da capi disonesti, che invano il Signore cerca di avvertire inviando i suoi profeti, e in ultimo il proprio stesso Figlio. Con la venuta del Messia, possiamo ora vedere anche la Chiesa come vigna, o popolo, del Signore. Ma in una visione più interiore dei simboli di questo racconto, la vigna rappresenta noi stessi, forniti di tutto il necessario per la salvezza tramite il battesimo e la molteplice e continua misericordia di Dio, nonché, come dice il Beato Teofilatto nel commentario a Luca 20:9-16, "responsabili della coltivazione di noi stessi".

Matteo, più di Marco e Luca, insiste nel suo racconto sui particolari della costruzione della vigna: il padrone "piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre" (Mt 21:33) Tutti questi dettagli hanno qualcosa da dirci. Una siepe di recinzione viene di solito piantata per proteggere un terreno dagli animali predatori e dai ladri. Questa era la funzione della Legge, che proteggeva il popolo ebraico dalla contaminazione pagana dell'idolatria. Secondo un'altra interpretazione che ci danno i Padri la siepe rappresenta gli angeli, che custodivano Israele. In entrambi i casi, la siepe protegge quanti credono in Dio in modo corretto, e lo adorano in Spirito e verità. Un simbolo simile è il fianco di una nave, che protegge i marinai dalle tempeste (anche l'arca e le navi, così come la vigna, sono forti simboli della Chiesa).

Il frantoio, che era usato come pressa per i grappoli d'uva, è visto come simbolo dell'altare, che era tanto essenziale nel culto e nei sacrifici ebraici, e che prefigurava, con il sangue degli animali sacrificali, il Sangue redentore di Gesù Cristo. Oggi l'altare è ancor più importante per noi, dato che da esso ci viene data in nutrimento la "medicina dell'immortalità" (la Santa Eucaristia). La torre (che nell'usanza ebraica conteneva il frantoio e il magazzino dell'uva e del vino) è il Tempio: si tratta del luogo in cui il lavoro della vigna trova il suo compimento, e nel quale i lavoratori ricevono ristoro e protezione.

Tutta la preparazione della vigna è fatta dal padrone: i vignaioli sono lasciati responsabili della vigna DOPO che questa è stata piantata. Succede lo stesso nella vita cristiana. Dio si rivela a noi attraverso la sua misericordia, e ci dona tutto il necessario per la nostra salvezza. Non dobbiamo appropriarci il credito delle cose che ci sono date, poiché "Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene" (Ef 2:8-9). Tuttavia, dopo che ci è donata la grazia del battesimo, dobbiamo prenderci cura della vigna, vale a dire, compiere il proposito per cui Dio ci ha creati: "Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo" (Ef 2:10).

Anche i vignaioli possono essere interpretati in due modi. I primi vignaioli sono gli insegnanti del popolo ebraico, gli scribi e i farisei (che del resto si riconoscono subito nel racconto del Signore). Ai nostri tempi, i vignaioli sono i pastori della Chiesa, i vescovi, i preti che rappresentano i vescovi nelle parrocchie, e tutti i cristiani che credono e agiscono rettamente.

Dopo che la vigna è stata affidata ai vignaioli, il padrone va "in un paese lontano". C'è sempre un profondo significato in questi spostamenti: pensate, per esempio, a quanto è importante il senso del "paese lontano" nella parabola del figliol prodigo, in cui l'allontanamento significa l'abbandono della virtù. In questo caso, però, è Dio stesso ad allontanarsi, e questo può far pensare che Egli voglia abbandonare il suo popolo. Tutt'altro: come si vede in seguito, ogni istante riflette la preoccupazione del padrone per la sua vigna. Ma Egli agisce sempre attraverso intermediari, e in questo si manifesta il grande mistero dell'amore e della pazienza di Dio, che aspetta il nostro pentimento senza intimidirci con una sua presenza potente o schiacciante. Se sappiamo usare bene il tempo che il Signore ci dà proprio quando Egli sembra più lontano da noi, allora sapremo anche trarre frutto dalla libertà di azione che ci ha donato.

Conoscendo la nostra debolezza, tuttavia, Dio ci manda anche altri stimoli a seguirlo, attraverso persone che parlano a suo nome (è questo il senso più autentico della parola "profeti"). Ecco il senso dei servitori che vengono inviati a più riprese a reclamare i frutti della vigna per conto del padrone. Essi arrivano "quando è il tempo dei frutti", e di fatto l'intera era dei profeti era un periodo in cui si predicava l'arrivo imminente del Messia e la prossima redenzione dell'uomo. Le sventure a cui vanno incontro i profeti sono ben note (pensiamo a Isaia segato in due, a Geremia malmenato e gettato in un pozzo, a Elia inseguito dai cani da caccia, a Zaccaria ucciso tra il tempio e l'altare): La Lettera agli Ebrei, al capitolo 11, ne offre un resoconto drammatico.

Alla fine, il messaggio dei profeti (in questa parabola, così come nella storia della salvezza) si compendia nella venuta del Figlio unigenito di Dio. Nella parabola, Gesù profetizza la sua stessa morte parlando della morte del figlio "cacciato fuori" dalla vigna (il Signore fu crocifisso fuori delle mura di Gerusalemme). Può sembrare strano che il padrone della vigna (che dopotutto è Dio, e ci si aspetta che conosca il cuore degli uomini) si ponga una domanda sull'efficacia del ruolo del figlio, e addirittura (nel Vangelo di Luca) mostri incertezza: ma questo dubbio apparente vuole insegnarci che Dio ci dà piena libertà di scelta, e la sua conoscenza anticipata delle cose non è la causa della nostra disubbidienza (Beato Teofilatto, Commentario su Luca 20:9-16). Questa forma letteraria si trova presto nelle Scritture.

La parabola si chiude con una profezia sul fato dei vignaioli omicidi, che nel caso dei sacerdoti e dei farisei si compì esattamente trentacinque anni dopo quello stesso giorno, quando Tito distrusse la "vigna" di Gerusalemme. La vigna del popolo di Dio fu passata quindi ad altri vignaioli, i pastori e i fedeli della nostra Chiesa. Ancora oggi, cari fratelli e sorelle, spetta a ciascuno di noi il compito di custodire la vigna del Signore e portare i frutti che sono stati seminati in noi al momento del battesimo.

Al termine del brano del Vangelo c'è una citazione, in cui Cristo parla di se stesso:

La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri?

(Salmo 117:22-23)
Questi due versi sono letti spesso in Chiesa (nella maggior parte degli offici del Mattutino, al canto antifonale di "Dio è il Signore". Una testata d'angolo è la pietra più solida si un edificio, che tiene in piedi assieme due muri. Nella comprensione della Chiesa, Cristo è la pietra angolare che tiene assieme i "muri" degli ebrei e dei gentili. Rifiutando Cristo come pietra angolare, gli scribi e i farisei (di ogni epoca) perdono il Regno di Dio, che viene dato ad altri.
"Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà" (Mt 21:44) Questa promessa è terribile e al tempo stesso enigmatica. La profezia di distruzione, da una parte, è rivolta direttamente agli ebrei, realizzandosi alla vista di tutti nella distruzione di Gerusalemme. L'altro aspetto della profezia riguarda tutti coloro che incontrano Cristo, e indica la perdita totale di un'anima che rifiuta di credere in lui: la prima parte del verso parla tuttavia del processo di redenzione dei peccatori, come dice San Girolamo:
"Chiunque pecca, ma crede in lui, cade invero su una pietra e si spezza, ma non viene distrutto del tutto, bensì è custodito per la salvezza attraverso la perseveranza. Ma su chiunque cade la pietra, ovvero chiunque assale questa pietra negando completamente Cristo, essa lo stritolerà in tal modo, che non rimanga in lui un osso da cui poter trarre una goccia d'acqua."
Chiediamo a Dio, mentre si avvicina il "tempo dei frutti" della nostra vita, di saper riconoscere sempre la pietra d'angolo su cui è costituita la nostra esistenza e la nostra felicità.