venerdì 16 marzo 2012

Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare

Di seguito il Vangelo di oggi, 17 marzo, sabato della III settimana di Quaresima,
con un commento e qualche testo di approfondimento.




Oppresso da un nugolo di colpe,
ho superato il pubblicano per eccesso di malizia,
e ho assunto per giunta la boria millantatrice del fariseo,
rendendomi da ogni parte privo di qualsiasi bene.
Signore, usami indulgenza.
Aprimi le porte del pentimento,
Datore di vita,
perché fin dall'alba si leva il mio spirito,
si volge in preghiera al tuo santo tempio,
portando con sé il tempio contaminato del mio corpo.
Ma nella tua compassione purificami,
per la tenera benevolenza della tua misericordia.
Guidami sulla via della salvezza,
o Madre di Dio,
perché ho profanato la mia anima con peccati vergognosi
e ho dissipato la mia vita nella negligenza.
Ma per la tua intercessione liberami da ogni impurità.

Tropari della domenica del fariseo e del pubblicano della liturgia bizantina



Lc 18, 9-14


In quel tempo, Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

IL COMMENTO

Pregare non basta. Anzi. Salire al Tempio a pregare ed uscirne assolutamente identici è una possibilità tutt'altro che remota. Presumere di se stessi è infatti un veleno che infetta anche i momenti più sacri. La presunzionedal latino praesuntionem, participio passato di praesumere, prae-innanzi e sumere-attribuirsi, è aver chiuso in anticipo il cuore a qualunque altra possibilità, parere, alla stessa Verità. Quante volte nelle discussioni in famiglia, con il coniuge, con i figli, con i genitori, e poi nella comunità, o con gli amici, ci attribuiamo ragione a priori, forti di chissà quali esperienze, studi, letture; sempre "pre" e mai "post",sempre avanti e mai dietro, in un atteggiamento opposto a quello del discepolo che segue il suo Maestro, umilmente, nella verità che ci colloca nell'autentica povertà e indigenza, ignoranti nella fede come nella vita. Come Pietro che, presuntuosamente, salta avanti a Gesù intimandogli di non andare a Gerusalemme a compiere la sua missione, perchè la Croce mai e poi mai... Prigionieri di un Io sconfinato, consideriamo gli altri solo dei poveri scarti di noi stessi, schiavi della presunzione di essere gli unici giusti sempre nel giustoIo sono diverso, un ritornello che risuona spesso in questa società edonistica e carnale dove il diverso a tutti i costi rivendica più diritti degli altri. La presunta diversa immacolatezza morale nella politica, la propria diversa onestà al lavoro, e poi nello studio, in amore, in famiglia, nello sport, anche nella Chiesa che opta per la "tolleranza zero" verso chi si ritiene pubblicano, gettando così con l'acqua anche il bambino. Ovunque, io sono unico, diverso, migliore. E anche chi crede di essere immune da questo virus, sprofondato nelle proprie incapacità intellettuali, chi pensa d'essere inferiore agli altri, forse meno brillante, scopre che, alla fine, è proprio in questa "presunta" inferiorità che trova unicità e diversità dalle quali giudicare e disprezzare. Non a caso il disprezzo degli altri, inseparabile compagno della presunzione, è un criterio infallibile nel discernimento degli spiriti. Dal presumere di se stessi al presumere di pregare ed essere pii, il passo è breve"Per questo, bisogna non soltanto pensare a praticare il bene, ma anche vegliare con cura sui nostri pensieri, per tenerli puri nelle nostre opere buone. Perché se sono fonte di vanità o di superbia nel nostro cuore, combattiamo allora soltanto per vana gloria, e non per la gloria del nostro Creatore" (S. Gregorio Magno). 


Il fariseo infatti, superficiale nei confronti dei propri pensieri, "pregava così tra sé". Ma l'originale greco invece utilizza un'espressione diversa: "il fariseo stando in piedi pregava rivolto verso se stesso". Il centro del dialogo è lui stesso. Lui è dio. Per questo la "presunta" giustificazione gli perviene dalle sue stesse opere. Il Tempio è solo un luogo puramente convenzionale, la passerella dell'ipocrisia. La preghiera diventa per lui "un puro occuparsi di se stesso, recidendo così la radice dell'autentica adorazione" (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo); adorando se stesso abbandona Dio, l'unica fonte di giustificazione, e torna a casa senza giustificazione. E' di fronte a Dio come davanti ad uno specchio nel quale non vede che se stesso travestito da dio. Tanti sforzi per nulla! "Con la vanità, ha concesso al suo nemico di poter entrare nella città del suo cuore, che purtuttavia egli aveva chiuso con i chiavistelli dei suoi digiuni e delle sue elemosine. Tutte le altre precauzioni sono dunque inutili, quando rimane in noi qualche apertura attraverso la quale il nemico possa entrare...  dalla breccia di una sola colpa..." (S. Gregorio Magno).

Il pubblicano invece non osa neanche ad alzare lo sguardo, posato invece sulla terra che definisce la verità su se stesso. Il testo greco suggerisce che egli non si sentiva semplicemente un peccatore, ma il peccatore. Non ha null'altro in cui confidare se non la misericordia di Dio. La mano tesa a percuotersi il cuore dal quale sgorga ogni malvagità, per spezzettarlo e farne un cuore contrito ed umiliato. "Dio ascoltò il gemito del pubblicano e, giustificandolo, mostrò a tutti che egli si lascia sempre piegare se gli chiediamo il perdono delle colpe con gemiti e lacrime" (Tropario della Domenica detta del Fariseo e Pubblicano). Isacco il Siro scrisse nel sesto secolo: "Non dire mai che Dio è giusto. Se lo fosse, saresti all'inferno. Confida solo nella sua ingiustizia, che è misericordia, amore, perdono". Il pubblicano ha sperato contro ogni speranza come Abramo, che non si fermò di fronte alla sua sterilità, ma credette a Colui che aveva promesso l'impossibile, e questo gli fu accreditato come giustiziaLa folle ingiustizia divina, la misericordia che non ha riscontro in nessun codice umano, giustifica l'ingiustificabile"Rendi degni della tua beatitudine coloro che per te si trovano mendicanti di spirito.... L'umiltà guadagna la giustizia proprio con l'estrema indigenza di questa: anche noi possiamo acquisirla!" (Tropario).

Nel pubblicano, peccatore pubblico e reietto, rinveniamo le sembianze del Signore Gesù, l'esatto opposto del Fariseo: Lui non è mai rivolto verso se stesso, ma perennemente rivolto verso il seno del Padre ("eis ton kolpon", Gv 1,18). La sua confidenza nel Padre lo ha spinto sino all'audacia. Sulla Croce Gesù ha gridato implorando perdono per tutti noi; è sceso all'ultimo posto, nel buio di morte di ogni pubblicano, "a distanza" - e che distanza... - sino a sentire l'abbandono del Padre, e così dare una voce umiliata a tutti noi innalzati nella menzogna e per questo umiliati nella morte. Gesù si è fatto pubblicano tra i pubblicani, disprezzato dai religiosi e clericali come dagli agnostici e laicisti ad oltranza: nella penombra non si vede bene e non si comprende che, in Gesù, la stessa struttura del Tempio risulta rovesciata, esattamente come canta la Vergine Maria nel Magnificat. Il Santo dei Santi non si trova più laddove il fariseo si era inoltrato a presentare la propria pretesa giustizia. Il cuore del Tempio, le viscere di misericordia di Dio, sono precipitate laddove è sceso Cristo, accanto al pubblicano umiliato e così esaltato sino all'intimità con il Padre. 

Nell'attitudine del Pubblicano si riscontrano i tratti di chi ha percorso un cammino di fede e conversione attraverso la discesa dei vari gradini dell'umiltà che portano alle acque della piscina battesimale. Nella sua preghiera umile perchè umiliata dalla scoperta della propria realtà, e contrita nell'accettare d'essere un povero peccatore, lo vediamo pronto ad immergersi nella viscere della misericordia rigeneratrice. Il pubblicano, nell'abisso del suo nulla ha incontrato Cristo sino ad assumerne la stessa confidenza filiale; così anche noi, proprio laddove gli eventi illuminati dalla Parola, dall'insegnamento della Chiesa e dalla Grazia ci hanno umiliato svelandoci la verità, possiamo imparare con Cristo ad abbandonare presunte e inutili autogiustificazioni e a volgere noi stessi al seno misericordoso di Dio.

"Questa è la sorte di chi confida in se stesso, sarà loro pastore la morte". Ma sì! Ben venga la morte, la distruzione degli ideali che ci infilzano ai sogni. Che giunga presto la piccola pietruzza a distruggere la statua di quei miserevoli Nabucodonosor che siamo. Il carattere della moglie, la ribellione del figlio o i pantaloni a vita bassa della figlia, quel professore o la vicina di casa. Una malattia, la morte di chi ami di più; anche un terremoto. Tutto ad uccidere il nostro uomo vecchio, per diventare finalmente come il pubblicano, stravolti, impauriti, insicuri, contriti e umiliati, per entrare nella vita nuova sussurrando "Signore pietà di me..... davvero mi ami così?". Come Pietro che ha imparato a non presumere di se stesso dagli eventi che ha vissuto, sino alle lacrime, sino all'incontro decisivo con la misericordia fatta carne nello sguardo del Signore risorto sulle sponde del Mare di Galilea. 

Pregare, andare al tempio, fare sacrifici, essere impegnati nelle attività parrocchiali, la stessa filantropia volontaristica infatti non bastano, anzi. La domanda di Grazia d'un condannato a morte. Se non è questo, la nostra preghiera, la nostra relazione con Dio, resterà vuota, non varcherà la soglia delle nostre labbra e rimbalzerà sul soffitto ricadendoci addosso. Chi ha conosciuto la misericordia di Dio, chi è tornato a casa giustificato, risuscitato ad una vita giusta, santa, conforme alla volontà di Dio, ha imparato a guardare le cose secondo un criterio nuovo, opposto a quello della carne, fosse anche carne religiosa. Un pubblicano giustificato entra nel Tempio e si volge subito al fondo, certo di incontrarvi il Servo di Yahwè, il Buon Pastore alla ricerca della pecora perduta, e con Lui ogni uomo. Il Pubblicano che ha conosciuto la giustificazione vive ogni relazione in modo nuovo, da umiliato graziato: nel marito, nella moglie, nei figli, nei fratelli cerca l'indigente peccatore in attesa di misericordia, il condannato in attesa di un'impensabile grazia. Non guarda alla pretesa giustizia di chi gli è accanto, non si ferma a contestarla in sterili polemiche per averla vinta, va diritto al cuore umiliato, intercetta il dolore profondo che si nasconde, spesso, dietro a tanta tronfia sicurezza. Sa che la situazione nella quale giace ad esempio suo figlio - di fallimento, solitudine, dolore - è esattamente quellagiusta per conoscere la giustificazione; non si attarda a discutere con lui, ma scende in quella "distanza" che è stata ed è anche la sua, e, con Cristo ed in Lui, si fa voce all'umiliazione di suo figlio, lo aiuta a implorare misericordia, lo ama umiliandosi con lui. Il Pubblicano giustificato va oltre l'apparenza, il Tempio della vita e della storia è, ai suoi occhi, un'architettura diversa da quella che la sapienza mondana e carnale suggerisce. Il Pubblicano che ha conosciuto la misericordia gratuita di Dio non si allontana dal fondo della storia, perchè sa che solo lì può davvero incontrare i fratelli, perchè è "a distanza" dall'apparenza che Dio scende a cercare ogni uomo. 


Condannato a morte tra i condannati a morte, in attesa della medesima Grazia: così il cristiano nel mondo, così la Chiesa a far risplendere la Luce delle Genti, la misericordia giustificatrice di Dio, negli angoli più fetidi della terra. E da quella "distanza" da Dio, accompagnare ogni uomo nel "ritorno a casa giustificato": chi ha incontrato la giustificazione gratuita vedrà la sua "casa", la sua famiglia, la sua vita, trasformata nello stesso Tempio dove ha incontrato la misericordia. Tutto diviene luogo di prossimità perchè laddove e abbondato il peccato ha sovrabbondato la Grazia. La Chiesa e ciascuno di noi esiste, si sveglia ogni mattina, perchè si compia questo mistero di perdono, perchè ogni uomo incontri viscere di misericordia dove essere accolto e giustificato. 


Per questo è necessario che la Chiesa innanzi tutto si ponga a pregare "a distanza", scenda nella verità, che ciascuno di noi viva nell'umiliazione che apre alla conversione. Un grande monaco della Chiesa Orientale, Silvano del Monte Athos lo aveva compreso bene: "Signore, vedi che i demoni mi impediscono di pregare con uno spirito puro. Ispirami ciò che devo fare perché i demoni mi lascino in pace". E nell'anima il Signore gli risponde: "Le anime orgogliose soffrono sempre a causa dei demoni". "Signore, insegnami che cosa devo fare perché la mia anima diventi umile". E di nuovo, nel suo cuore, riceve questa risposta: "Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!". E subito comincia a mettere in pratica quella parola. Trova la pace, e lo Spirito gli testimonia la sua salvezza"(Vita di San Silvano del Monte Athos narrata dal suo discepolo, l'archimandrita Sofronio). Accettare le conseguenze amare del nostro peccato, lo struggimento e la nostalgia della pace, il dolore per il male commesso verso chi ci è vicino, questo è rimanere all'inferno e non disperare. E dal fondo della verità più aspra attendere con speranza la Verità che giustifica.


Uomo, fratello mio -chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra - tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!


Fratello, se vedi il tuo peccato
sei più grande di chi risuscita i morti!
Quando guardi gli uomini, di' nel tuo cuore:
tutti saranno salvati, io solo sarò dannato.
Se pensi all'inferno, credi che esso esiste
ma solo per te che sei peccatore.
Tieni il tuo spirito agli inferi
e non disperare mai dell'amore di Dio.
Se pensi di andare all'inferno
sappi che anche là
potrai sempre cantare l'amore di Dio.
Se il tuo Signore è asceso in alto
egli è pure disceso in basso, agli inferi.
Se il tuo Signore ha preso l'ultimo posto
tu non potrai mai rubarglielo.
Se scenderai agli inferi, 
troverai il Signore, 
se salirai nei cieli, egli ti attende.
Da quel giorno, da quell'alba pasquale
il Tabor e il Golgota sono un unico monte!



APPROFONDIMENTI


San [Padre] Pio di Pietrelcina (1887-1968), cappuccino
Ep 3, 713 ; 2, 277 in Buona Giornata


« Abbi pietà di me peccatore »

È capitale che tu insista su quello che è la base della santità e il fondamento della bontà, cioè la virtù per la quale Gesù si è presentato esplicitamente come modello : l'umiltà (Mt 11,29), l'umiltà interiore, più dell'umiltà esteriore. Riconosci quello che sei realmente : un nulla, miserabilissimo, debole, impastato di difetti, capace di cambiare il bene in male, di abbandonare il bene per il male, di attribuirti il bene e di giustificarti nel male, e per amore del male, di disprezzare Colui che è il bene supremo.
Non andare mai a letto senza aver prima esaminato in coscienza come hai passato la tua giornata. Rivolgi tutti i tuoi pensieri verso il Signore, e consacragli la tua persona e tutti i cristiani. Poi offri alla sua gloria il riposo che stai per prendere, senza mai dimenticare il tuo angelo custode, che sta in permanenza accanto a te.

COMMENTI PATRISTICI


S. Giovanni Crisostomo

Ho descritto molte forme di penitenza per renderti Sii umile facile l'accesso alla salvezza attraverso la varietà delle vie. Qual è dunque la terza via? L'umiltà: sii umile e avrai sciolto i legami del peccato. Anche di questo ci porta una prova la Scrittura nel racconto del pub­blicano e del fariseo. Salirono al tempio, dice, un fa­riseo e un pubblicano per pregare. Il fariseo cominciò a elencare le sue virtù. Io non sono, disse, peccatore come gli altri, né come questo pubblicano. Misera e infelice anima: hai condannato tutto il mondo, per­ché hai contristato anche il tuo prossimo? Non ti bastava tutto il mondo senza voler condannare an­che quel pubblicano? E che fece il pubblicano? Adorò a capo chino con gli occhi fissi in terra, dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore(Le 18, 13); e poiché si mostrò umile fu giustificato. Quando dunque il fariseo uscì dal tempio aveva perduto la sua giustizia. Il pubblicano invece l'aveva ottenuta: le sue parole furono più for­ti delle opere. Quello, nonostante le sue opere perse la giustizia; questo invece con parole di umiltà la conquistò, benché la sua non fosse propriamente umiltà. Infatti è umiltà quando uno che è grande si fa piccolo; l'atteggiamento del pubblicano non fu u-miltà, ma verità: erano vere quelle parole, perché e gli era peccatore.Chi peggiore di un pubblicano? Cercava il suo van­taggio nelle disgrazie del prossimo, approfittava del­le fatiche altrui e senza rispetto per le loro pene giungeva a procurarsi il guadagno. E dunque grandissimo il peccato del pubblicano. Perciò se il pub­blicano, pur essendo peccatore, dando prova di u-miltà ha ricevuto così gran dono, quanto maggiore potrà riceverlo chi sia virtuoso e umile? Se riconosci i tuoi peccati e sei umile, diventi giu­sto. Desideri conoscere chi sia veramente umile? Guarda Paolo. Maestro delle nazioni, predicatore ri­colmo dello Spirito, vaso d'elezione, porto tranquil­lo, che nonostante un fisico modesto girò tutto il mondo e lo percorse quasi avesse le ali: guarda con quanta umiltà e modestia egli si definisce inesperto e amante della sapienza, indigente e ricco. Era umi­le quando diceva: Io sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo ( Cor 15, 9): questa è la vera umiltà, abbassarsi in tutto e chiamarsi il più piccolo. Pensa chi era colui che pronunciava queste parole: Paolo, concittadino del ciclo, sebbene ancora rivestito del corpo, colon­na della Chiesa, uomo celeste. È tale infatti la po­tenza della virtù da trasformare l'uomo in angelo e far sì che l'anima, quasi avesse le ali, si protenda ver­so il ciclo. Questa virtù c'insegni Paolo. Di questa virtù sforziamoci di diventare imitatori.

Dall'Omelia 2


S. Agostino

Qual è la speranza degli uomini, se Dio non ascolta i peccatori? Non salirono in due al tempio a pregare, l'uno Fariseo e l'altro Publicano? E non diceva il Fariseo: Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ingiusti, ladri, come questo Publicano? Nulla aveva da implorare, era salito come uno ben soddisfatto, dava in rutti da sazietà. Non disse: Soccorrimi; non disse: Abbi pietà di me, poiché mio padre e mia madre mi hanno abbandonato; non disse: Sii il mio aiuto, non lasciarmi. Ma il Publicano si teneva a distanza, e proprio costui si rendeva vicino al Dio del tempio. Era infatti a distanza, e non osava alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: Signore, abbi pietà di me peccatore. Abbiamo avvertito il contrasto: Cristo pronunzi la sentenza. Ecco che parla, ascoltiamo: In verità - egli afferma - quel Publicano si allontanò dal tempio giustificato, a differenza di quel Fariseo. E' certo che Dio non ascolta i peccatori. Quando si batteva il petto puniva i suoi peccati, si rendeva somigliante a Dio giudice. Dio odia infatti i peccati; se anche tu li avrai in odio ti avvicinerai a immedesimarti con Dio e a potergli dire:Distogli il tuo volto dai miei peccatiDistogli il tuo volto: ma da che cosa? Dai miei peccati; non distogliere da me il tuo volto. Che vuol dire, invece, il tuo volto dai miei peccati? Non vederli, non li notare così che tu li possa perdonare. Quindi c'è speranza per il peccatore; preghi Dio, non disperi, si batta il petto, espii in se stesso con la penitenza, per ovviare a che egli proceda a punire con la condanna. Chi si umilia va verso l'Eccelso.
Ma quanto al perché abbia affermato: Quel Publicano si allontanò dal tempio giustificato a differenza di quel Fariseo, il Signore nostro immediatamente su che si fondava, non te lo nascose, quasi gli dicessimo: Com'è questo, asserì infatti: Poichè chi si esalta -disse -sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato. Hai udito il perché: se hai udito ed hai compreso, fa' ciò che hai ascoltato, umìliati, prega Dio, di' al Signore Dio tuo che sei peccatore; cosa che egli vede, quantunque tu non lo dica. Tu dici forse: Se lo vede prima che io parli, che bisogno c'è che io dica? Uomo, hai dimenticato che è cosa buona confessare al Signore ? Hai dimenticato:Celebrate il Signore perché è buono ? Anche se non confessi ad un giudice uomo perché è infido, confessa al Signore perché è buono; confessa, gemi, prova pentimento, battiti il petto. Dio si compiace di un tale spettacolo: la vista di un peccatore che accusa il suo peccato. Da parte tua riconosci ed egli non ne fa conto; tu espia ed egli ti risparmia. Ma perché egli ti perdoni non devi indulgere con i tuoi peccati. Rispondi: Non risparmi, cancelli la mia malizia.

Dal Discorso 136/a



Se Dio non avesse ascoltato i peccatori, quel Publicano sarebbe uscito mortificato dal tempio. Si allontanò, invece, giustificato, a differenza di quel Fariseo. Ma com'è che costui si allontanò giustificato? Perché mise in pratica ciò che dice la Scrittura: Ho riconosciuto il mio peccato e non ho nascosto la mia perversità. Ho detto: Confesserò la mia colpa al mio Signore e tu hai rimesso la malizia del mio cuore. E' certo allora che Dio non ascolta i peccatori? Credete dunque quello che credono quanti hanno già ricevuto la luce: Dio ascolta i peccatori. Veramente può turbare molti che non intendono ciò che afferma il Signore che è venuto in questo mondo per il giudizio affinché i ciechi vedano e coloro che vedono diventino ciechi. Cristo è venuto infatti come Salvatore. In un certo passo afferma pure: Il Figlio dell'uomo non è venuto infatti per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Di conseguenza, se è venuto per questo, per salvare, trova pieno consenso l'affermazione che sia venuto perché quelli che non vedono vedano. Quello invece che resiste al buon senso è il perché quelli che vedono diventino ciechi. Se giuniamo a comprendere, non è impenetrabile, è semplice. Ma perché intendiate come sia stato detto in tutta verità, tornate a guardare proprio quei due che pregavano nel tempio. Il Fariseo vedeva, il Publicano era cieco. Che significa: " vedeva "? Si riteneva uno con gli occhi aperti, si vantava della sua vista, cioè della giustizia. Quello, invece, era cieco perché confessava i suoi peccati. Quello vantò i suoi meriti, costui confessò i suoi peccati. Il Publicano si allontanò giustificato, a differenza di quel Fariseo, perché Cristo è venuto nel mondo affinché i ciechi vedano e quelli che vedono diventino ciechi. Pertanto, avendo detto i Farisei che allora ascoltavano il suo dire: Siamo forse ciechi anche noi? senza dubbio erano simili a colui che era salito al tempio e diceva a Dio: Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: ingiusti, adùlteri, ladri , quasi a dire: " Ti ringrazio perché non sono cieco, come gli altri uomini del genere di questo Publicano, ma vedo ". Che dissero quelli? Siamo forse ciechi anche noi? E il Signore a loro: Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma per il fatto che ora dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane . Non disse: " entra il peccato ", ma: rimane. C'era infatti. Poiché non confessate, non viene tolto, ma rimane.
DAl Discorso 136/b

1. L’umiltà ottiene il perdono

Poiché la fede non è dei superbi, ma degli umili, "disse per alcuni che credevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, questa parabola. Due uomini andarono al tempio a pregare; un fariseo e un pubblicano. Il fariseo diceva: Ti ringrazio, Dio, che non sono come tutti gli altri uomini" (Lc 18,9s). Avesse detto almeno: come molti uomini. Che cosa dice questo "tutti gli altri", se non tutti, eccetto lui? Io, afferma, sono giusto; gli altri son tutti peccatori. "Non sono come tutti gli altri uomini, ingiusti, ladri, adulteri". Ed eccoti dalla vicinanza del pubblicano un motivo di orgogliosa esaltazione. Dice, infatti: "Come questo pubblicano". Io sono solo, dice; questo è uno come tutti gli altri. Non sono come costui, per la mia giustizia, per cui non posso essere un cattivo, io. "Digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutte le mie cose". Cerca nelle sue parole, che cosa abbia chiesto. Non trovi niente. Andò per pregare; ma non pregò Dio, lodò se stesso. Non gli bastò non pregare, lodò se stesso; e poi insultò quello che pregava davvero. "Il pubblicano se ne stava invece lontano"; ma si avvicinava a Dio. Il suo rimorso lo allontanava, ma la pietà lo avvicinava. "Il pubblicano se ne stava lontano; ma il Signore lo aspettava da vicino. Il Signore sta in alto", ma guarda gli umili. Gli alti, come il fariseo, li guarda da lontano; li guarda da lontano, ma non li perdona. Senti meglio l’umiltà del pubblicano. Non gli basta di tenersi lontano; "neanche alzava gli occhi al cielo". Per essere guardato, non guardava. Non osava alzare gli occhi; il rimorso lo abbassava, la speranza lo sollevava. Senti ancora: "Si percoteva il petto". Voleva espiare il peccato, perciò il Signore lo perdonava: "Si percuoteva il petto, dicendo: Signore, abbi compassione di me peccatore". Questa è preghiera. Che meraviglia che Dio lo perdoni, quando lui si riconosce peccatore? Hai sentito il contrasto tra il fariseo e il pubblicano, senti ora la sentenza; hai sentito il superbo accusatore, il reo umile, eccoti il giudice. "In verità vi dico". È la Verità, Dio, il Giudice che parla. "In verità vi dico, quel pubblicano uscì dal tempio giustificato a differenza di quel fariseo". Dicci, Signore, il perché. Chiedi il perché? Eccotelo. "Perché chi si esalta, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato". Hai sentito la sentenza, guardati dal motivo; hai sentito la sentenza, guardati dalla superbia.

Agostino, Sermo 115, 2


2. Pensa a te stesso

Mi verrebbe meno il giorno, se volessi elencare gli studi di quelli che s’interessano del Vangelo e quanto esso si adatti a tutti. Pensa a te stesso; sii sobrio, ascolta i consigli, controlla il presente, prevedi il futuro. Non trascurare, per indolenza, il presente e non t’illudere d’aver già in mano cose future, che ancora non sono e forse non si avvereranno mai. Non è questa la malattia propria dei giovani, che per leggerezza dimente credono di avere già le cose che sperano? Infatti in un momento di riposo o nella pace della notte costruiscono delle immagini di cose inesistenti e si ripromettono splendore di vita,illustri matrimoni, figli fortunati, lunga vecchiaia, tributi di onore. Poi, incapaci come sono di fermarsi a una qualsiasi speranza si lasciano trasportare dall’ardore del loro animo alle cose più grandi della terra. Comprano case belle e grandi e le riempiono di preziosa e vaga suppellettile; e aggiungono tutto quanto è fuori del mondo. Aggiungono greggi, folle di servi, magistrature civili, principati, comandi militari, guerre, trofei, regno. Passate queste cose in rassegna, per eccesso di stoltezza, credono presenti queste cose sperate e se le vedono già innanzi ai piedi. È la malattia dell’ignavo, veder nella veglia gli oggetti d’un sogno. Per reprimere questa sfrenatezza di mente, la Scrittura enunzia il sapiente precetto: "Pensa a te stesso" e non promette mai ciò che non esiste e dirige le cose presenti alla tua utilità. Penso che il legislatore si sia servito di questo monito, per eliminare un tal vizio dalle abitudini degli uomini. Perché a noi è più facile curiosare nelle cose altrui, che pesare le proprie cose. Perciò finiscila di andare a scovare nei mali altrui, guardati dal frugare nelle malattie altrui, volgi gli occhi e scruta te stesso. Non son pochi coloro che, secondo la parola del Signore (Mt 7,3), vedono la pagliuzza nell’occhio del fratello e non s’accorgono della trave che è nel loro occhio. Non cessar mai di esaminarti se la tua vita si attiene al precetto; ciò che è intorno a te, non lo guardare, perché non ti si presenti l’occasione di imitare quel fariseo, che giustificava se stesso e disprezzava il pubblicano (Lc 18,11). Chiediti sempre se hai peccato in pensieri, se la lingua sia stata troppo facile, se la mano sia stata temeraria. E se troverai che hai peccato molto (e lo troverai, perché sei uomo), usa le parole del pubblicano: "Dio, abbi pietà di me peccatore" (Lc 18,13). Bada a te stesso. Questa parola ti starà bene nel felice successo, quando la tua nave è portata dalla corrente, e ti gioverà nei momenti difficili, in modo che non diventi orgoglioso nel fasto e non disperi nell’avversità. Ti senti grande perché sei ricco? T’inorgoglisci per la nobiltà dei tuoi antenati? Ti glorii della tua nazione, bellezza, onori ricevuti? Pensa a te stesso: Sei mortale; vieni dalla terra e tornerai nella terra (Gn 3,19)

Basilio di Cesarea, Hom. «Attende tibi ipsi», 5


3. Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato

Dato che egli aggiunge: «Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?» e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato. Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. È quel che rivela a chi legge lealmente il vangelo la parabola del pubblicano che dice: "Abbi pietà di me peccatore", mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: "Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano". Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: "Il pubblicano scese a casa sua giustificato, al contrario dell’altro, poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,13 Lc 1,14).

Siamo ben lontani, perciò, «dal bestemmiare Dio e dal mentire», insegnando ad ogni uomo, chiunque esso sia, a prendere coscienza della propria umana piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, e a chiedere incessantemente ciò che manca alla nostra natura a colui che solo può colmare le nostre insufficienze.

Origene, Contra Celsum, 3, 64


4. Il fariseo e il pubblicano (Lc 18,9-14)

Il fariseo della Legge,

Nella sua preghiera al Tempio,

In mostra metteva il ben compiuto

Agli occhi tuoi che tutto scrutano.

S’inorgoglisce l’anima insensata,

Se stessa comparando all’uman genere

Lontano, ed al vicino pubblicano,

Che, nello stesso istante, supplicava.

Non sol non ebbe quel che domandava

Per il magniloquente suo linguaggio,

Ma le antecedenti opre di giustizia,

Perse per il suo dire vanitoso.

Ma allora che farò io alla mia anima,

Affezionata al vizio totalmente,

Del tutto disattenta al buon oprare,

E attenta ad ammassar cattive azioni?

Le buone azioni, in effetti, io non compio

Di cui si gloriava il fariseo;

Eppure di gran lunga io lo supero

Nel vezzo del vanto e dell’orgoglio.

Del pubblicano dona bensì la voce

Capo di pubblicani, all’anima guarita,

Per gridare di sua propria voce:

«Mio Dio, perdona i miei peccati!».

Con lui, Signor, giustificami,

Con un sol verbo come facesti a lui;

Lo spirito mio umilia dal di dentro,

Perché dalla tua grazia sia esaltato.

Nerses Snorhali, Jesus, 659-665

San Gregorio Magno (circa 540-604), papa, dottore della Chiesa
Moralia, 76
Una breccia aperta


Con quale attitudine il fariseo, che saliva al Tempio per farvi la sua preghiera, e aveva fortificato la cittadella della sua anima, si disponeva a digiunare due volte la settimana e pagare le decime di quanto possedeva. Dicendo « O Dio, ti ringrazio » , è ben chiaro che aveva messo in atto tutte le precauzioni immaginabili per premunirsi. Ma lascia una breccia aperta ed esposta al suo nemico aggiungendo : « Che non sono come questo pubblicano ». Così, con la vanità, ha concesso al suo nemico di poter entrare nella città del suo cuore, che purtuttavia egli aveva chiuso con i chiavistelli dei suoi digiuni e delle sue elemosine.

Tutte le altre precauzioni sono dunque inutili, quando rimane in noi qualche apertura attraverso la quale il nemico possa entrare... Questo fariseo aveva vinto la gola con l'astinenza ; aveva superato l'avarizia con la generosità... Ma quanti sforzi in vista di questa vittoria sono stati annientati da un solo vizio ? dalla breccia di una sola colpa ?

Per questo, bisogna non soltanto pensare a praticare il bene, ma anche vegliare con cura sui nostri pensieri, per tenerli puri nelle nostre opere buone. Perché se sono fonte di vanità o di superbia nel nostro cuore, combattiamo allora soltanto per vana gloria, e non per la gloria del nostro 
Creatore.

* * *

Benedetto XVI. Il Fariseo e il Pubblicano

Come abbiamo sentito, i figli d’Israele si dicevano l’un l’altro: «Affrettiamoci a conoscere il Signore». Essi si rincuoravano con queste parole, mentre si vedevano sommersi dalle tribolazioni. Queste erano cadute su di loro – spiega il profeta – perché vivevano nell’ignoranza di Dio; il loro cuore era povero d’amore. E il solo medico in grado di guarirlo era il Signore. Anzi, è stato proprio Lui, come buon medico, ad aprire la ferita, affinché la piaga guarisse. E il popolo si decide: «Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà» (Os 6,1). In questo modo hanno potuto incrociarsi la miseria umana e la Misericordia divina, la quale null’altro desidera se non accogliere i miseri.

Lo vediamo nella pagina del Vangelo proclamata: «Due uomini salirono al tempio a pregare»; di là, uno «tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18,10 Lc 18,14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e «non come questo pubblicano». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, «perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).

Di questo Dio, ricco di Misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: «Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché «fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce.

Fondamentale nella vita di Paolo è stato il suo incontro con Gesù, quando camminava per la strada verso Damasco: Cristo gli appare come luce abbagliante, gli parla, lo conquista. L’apostolo ha visto Gesù risorto, ossia l’uomo nella sua statura perfetta. Quindi si verifica in lui un’inversione di prospettiva, ed egli giunge a vedere ogni cosa a partire da questa statura finale dell’uomo in Gesù: ciò che prima gli sembrava essenziale e fondamentale, adesso per lui non vale più della «spazzatura»; non è più «guadagno» ma perdita, perché ora conta soltanto la vita in Cristo (cfr Fl3, 7-8). Non si tratta di semplice maturazione dell’«io» di Paolo, ma di morte a se stesso e di risurrezione in Cristo: è morta in lui una forma di esistenza; una forma nuova è nata in lui con Gesù risorto.

Miei fratelli e amici, «affrettiamoci a conoscere il Signore» risorto! Come sapete, Gesù, uomo perfetto, è anche il nostro vero Dio. In Lui, Dio è diventato visibile ai nostri occhi, per farci partecipi della sua vita divina. In questo modo, viene inaugurata con Lui una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale viene integrata anche la materia e mediante la quale sorge un mondo nuovo. Ma questo salto di qualità della storia universale che Gesù ha compiuto al nostro posto e per noi, in concreto come raggiunge l’essere umano, permeando la sua vita e trascinandola verso l’Alto? Raggiunge ciascuno di noi attraverso la fede e il Battesimo. Infatti, questo sacramento è morte e risurrezione, trasformazione in una vita nuova, a tal punto che la persona battezzata può affermare con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Jl 2,20). Vivo io, ma già non più io. In certo modo, mi viene tolto il mio io, e viene integrato in un Io più grande; ho ancora il mio io, ma trasformato e aperto agli altri mediante il mio inserimento nell’Altro: in Cristo, acquisto il mio nuovo spazio di vita. Che cosa è dunque avvenuto di noi? Risponde Paolo: Voi siete diventati uno in Cristo Gesù (cfr Jl 3,28).

* * *

Domenica del Fariseo e del Pubblicano nella Liturgia Bizantina

Pagani, Roberto
Cultura Cattolica


Abbiamo due persone. Da un lato il fariseo, un membro di quella comunità religiosa osservante contro cui Gesù si è frequentemente scontrato, nonostante fosse la corrente più spirituale del Giudaismo. Dall'altro lato un pubblicano, dal latino publicanus, esattore di denaro pubblico: occupazione alquanto disprezzata nell'antichità, ancora di più in quella sperduta provincia dell'impero romano nella quale le tasse andavano a finire nelle casse dell'odiato invasore, opportunamente alleggerite della quota di spettanza, più o meno lecitamente convenuta, allo stesso esattore. Gesù li paragona ponendoli allo stesso livello: paragone alquanto sorprendente, perché come esempio da seguire Gesù presenta un individuo considerato spregevole e sceglie il modello da evitare tra i membri di uno movimenti religiosi più vivaci del momento.
Con questa domenica inizia ad essere utilizzato il Triodion Katanyktikon (della contrizione, del pentimento), il libro liturgico proprio del periodo quaresimale, le cui specifiche preghiere si vanno ad aggiungere a quelle dell'ufficio domenicale che celebra settimanalmente la risurrezione di Cristo dai morti.
La Quaresima, prima ancora delle sue pratiche esteriori, inizia con una preghiera per ottenere l'umiltà, che è l'inizio del vero pentimento, che è prima di tutto un ritorno all'ordine autentico delle cose, il ristabilimento della giusta prospettiva. Esso è dunque radicato nell'umiltà. Che ne è frutto e compimento. La cultura della nostra società infonde in noi costantemente il sentimento dell'orgoglio, dell'autoglorificazione e dell'auto-giustificazione, caratteristiche appaiono per lo più come virtù, soprattutto in ambito lavorativo, ma non solo. Ne siamo così prigionieri che ascoltando la parabola lucana non siamo nemmeno sfiorati dal dubbio che gran parte della nostra vita sia assorbita da queste dimensioni così poco evangeliche. Tutto questo si fonda sul presupposto che l'uomo è capace di realizzare ogni cosa da se stesso, perfino la propria salvezza. Siamo disposti ad accettare l'umiltà solo come ammissione della nostra ignoranza o incompetenza su un determinato argomento. Ma allora cos'è l'umiltà? Non possiamo che rispondere partendo da Dio. Dio stesso è umile! La nostra mentalità umana tende ad opporre gloria ed umiltà. Dio è umile perché è perfetto, la sua umiltà è la sua gloria, sorgente di ogni vera bellezza, perfezione e bontà. Chiunque si avvicina a Dio e lo conosce, partecipa immediatamente della sua umiltà ed è rivestito della sua bellezza. Questo è avvenuto per Maria, la Madre di Dio: la sua umiltà ha fatto di lei la gloria di tutta la creazione e la più grande rivelazione della bellezza sulla terra. Questo vale per ciascun santo, e quindi anche per ciascuno di noi nei rari momenti dei nostri contatti con Dio. Si diventa umili contemplando Cristo, l'umiltà divina incarnata, colui nel quale Dio ha rivelato una volta per tutte la sua gloria come umiltà e la sua umiltà come gloria. L'umiltà si impara contemplando Cristo che dice: "imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt. 11, 29), si impara valutando ogni cosa secondo Cristo, riferendo tutto a lui. Perché senza Cristo la vera umiltà è impossibile: così per il fariseo persino la religione diventa orgoglio delle realizzazioni umane. Questo continuo riferimento a Gesù umile, come vedremo, è ampiamente sviluppato nell'ufficiatura, affinché il fedele possa radicare il proprio essere sul fondamento che è Cristo, e non su un falso moralismo.
Il senso della parabola non è solo una lezione di morale: come Dostojevskij ha raccontato nel suo "I fratelli Karamazov", si tratta del grande conflitto che Dio e il diavolo combattono nel e peril cuore dell'uomo, senso di tutta la storia dell'umanità. Si tratta di due tipi di peccatori, opposti secondo l'intimità del loro cuore, di due tipi di atteggiamenti e di comportamenti spirituali, sia nei riguardi di Dio che degli altri uomini.
Innanzitutto entrambi salgono al tempio, si separano cioè dal mondo, entrano in uno spazio e in un tempo nel quale possono fermarsi, guardarsi dentro, e rivolgersi al loro Signore.
Il fariseo si presenta "in piedi", che si potrebbe anche intendere "a testa alta", pregando come qualsiasi altro pio israelita, e tra le righe possiamo intravedere anche una componente di orgoglio nel fatto che questo suo stare ritto lo poneva in qualche modo in posizione di essere notato da altri. Pregava per essere visto, lodato, celebrato, riconosciuto, quasi che la sua preghiera fosse più rivolta a se stesso che a Dio, congratulandosi a se stesso per le sue pratiche devozionali. Usava il ringraziamento a Dio per esaltare se stesso. Ringraziava Dio per non essere come gli altri uomini, che con ogni probabilità disprezza e condanna, per essere onesto, per non aver mai fatto male a nessuno, per essere andato in chiesa a tutte le feste comandate, e così via.
Anche il pubblicano sceglie la solitudine, si ferma in fondo, col capo chino, in un atteggiamento di contrizione che è ben diverso dalla superbia arrogante del fariseo. Anch'egli si rivolge a Dio: non per vantarsi, ma per implorare misericordia: confessa la sua indegnità interiore. Sia stato un buon padre di famiglia o un buon amico, non ci è dato sapere: sappiamo solo che si sentiva davanti allo sguardo di Dio, e che Dio lo vedeva. Questi due tipi fondamentali dello spirito umano, l'umile e il superbo, dimostrano il loro vero valore: lo spogliamento, la povertà di spirito che introduce alle ricchezze del regno opposto all'arroganza egoista, manifestata con il complesso della superiorità morale. L'orgoglio autosufficiente è un luogo privilegiato per il principe di questo mondo. Il testo greco ci suggerisce che il pubblicano non si sentiva un peccatore, mailpeccatore, il peccatore per eccellenza. Non ha null'altro in cui confidare se non la misericordia di Dio. Non cerca aiuto da nessun altro, se non da Dio. Sa benissimo che gli altri uomini, farisei di ogni genere in testa, non lo degnano nemmeno di uno sguardo, ma crede fermamente nella misericordia di Dio. Il cuore umiliato ha il sopravvento sul trionfo del diritto: la contrizione sarà esaltata, mentre la soddisfazione canonica sarà condannata.
L'ufficiatura, per la verità, non è molto lunga, ma l'essenzialità nella liturgia è segno di una intensità spirituale impressionante: i temi della parabola evangelica diventano una opportunità che ci viene offerta per un arricchimento spirituale in grado di farci amare il cammino della nostra conversione. È caratteristico per la maggior parte degli inni propri della Quaresima il rimandare a me, a noi che abbiamo peccato, al soggetto liturgico.
Così al Lucernario l'invocazione alla misericordia di Dio viene da subito accostata al digiuno, anche se questa inizierà qualche settimana dopo: "Fratelli, non preghiamo come il fariseo, perché chi si esalta sarà umiliato, (ma) umiliamoci dinanzi a Dio come il pubblicano, invocando con il digiuno: "O Dio, abbi pietà di noi, peccatori". "Il fariseo, dominato dalla vanagloria, e il pubblicano, piegato dal pentimento, si accostarono a te, unico Sovrano: ma l'uno, per essersi vantato, fu privato di ciò che aveva di bene; mentre all'altro, che neppure aveva aperto bocca, furono elargiti i doni (carismi)".". Il peccato di superbia porta ad una umiliazione che colpisce la mancanza di carità e di discernimento; la superiorità morale, oggi così sbandierata, è una colpa spirituale ed intellettuale, diviene un peso opprimente. Invece l'umiliazione come riconoscimento di povertà e quindi di insufficienza, alleggerisce l'anima e la illumina. Una tale indigenza consente allo Spirito Santo di operare nell'uomo senza costringerlo. È la arricchente "mendicità" spirituale delle beatitudini: il povero di spirito non è il semplice, il limitato, lo stupido di turno, quanto piuttosto lo spirito dell'uomo che va elemosinando lo Spirito, e che si arricchisce al di là di ogni misura umana dell'energia pneumatica, i carismi appunto richiamati dalla strofa appena cantata. "Rendi degni della tua beatitudine coloro che per te si trovano mendicanti di spirito", dice un tropario della nona ode del canone.
La strofa cantata dopo il Gloria, sempre al Lucernario, fa emergere un altro elemento in relazione al pentimento e alla contrizione, anch'esso riccamente sviluppato nel corso del cammino quaresimale: le lacrime. "Signore onnipotente, so quanto possono le lacrime: hanno fatto risalire Ezechia dalle porte della morte, hanno liberato la peccatrice dalle sue colpe inveterate; hanno reso il pubblicano più giusto del fariseo".
"Anima mia, comprendi la differenza tra il fariseo e il pubblicano", dice la strofa alla processione rogazionale. "Infatti lo stato di peccato rende i miei occhi accasciati sotto il peso delle mie iniquità. Non posso volgermi a guardare la volta del cielo: ma tu accoglimi nel pentimento come il pubblicano", dice la strofa degli aposticha finali del Vespero.
Nel mattutino domenicale, dopo la proclamazione dell'Evangelo risurrezionale, si canta il consueto inno "Avendo contemplato la risurrezione di Cristo", seguita dall'altrettanto consueto salmo 50, espressione del pentimento di Davide dopo l'accusa di peccato rivoltagli dal profeta Natan. Subito dopo cantiamo i tropari che ci accompagneranno fino alla Domenica delle Palme e che sono stati oggetto di bellissime e commoventi composizioni musicali che portano molto spesso alle lacrime i fedeli che le ascoltano in ginocchio, o, là dove c'è più spazio, prostrati completamente con la fronte a terra: "Aprimi le porte del pentimento, Datore di vita, perché fin dall'alba si leva il mio spirito, si volge in preghiera al tuo santo tempio, portando con sé il tempio contaminato del mio corpo. Ma nella tua compassione purificami, per la tenera benevolenza della tua misericordia". Subito, consapevoli delle difficoltà del cammino, si chiede l'intercessione della Vergine: "Guidami sulla via della salvezza, o Madre di Dio, perché ho profanato la mia anima con peccati vergognosi e ho dissipato la mia vita nella negligenza. Ma per la tua intercessione liberami da ogni impurità". Consapevoli del giudizio che ci attende, si fà ricorso all'unico rimedio possibile, l'amore di Dio: "Quando penso, me miserabile, a tutto il male che ho commesso, tremo per il terribile giorno del giudizio. Ma confidando nella tua tenera benevolenza, come Davide ti grido: abbi pietà di me o Dio, secondo la tua grande misericordia".
È interessante la relazione tra il "tuo tempio santo" e "il tempio contaminato del mio corpo". L'uomo è uno spirito incarnato; se il primo tropario parla dell'impurità del corpo, il secondo, con l'intercessione alla Madre di Dio, parla dell'impurità dell'anima: è l'uomo tutto intero a peccare, anzi, come dicono i Padri, il corpo pecca solo perché lo spirito è debole e gli consente di peccare.
Nella prima ode del canone, opera di Giorgio (figura che può indicare un vescovo di Nicomedia del IX secolo o un monaco dell'XI), si ritorna al tema dell'umiltà e della superbia, dando subito la tonalità tropologica: "Cristo induce con le sue parabole a correggere la propria vita". "Emula quanto ha di bello il pubblicano, e detesta la malizia farisaica". "A te affido, o Sovrana, mente, volontà, speranze, corpo, anima e spirito".
Nella terza ode siamo messi di fronte, senza giri di parole, alla nostra reale situazione: "L'umile è sollevato dal letame delle passioni, chiunque sia invece altero di cuore cade invece paurosamente dalla vetta delle virtù". "La vanagloria devasta tesori di giustizia, mentre l'umiltà disperde il cumulo delle passioni". Mitezza, umiltà, pianto e preghiera vengono indicati come via verso il perdono in un incoraggiamento fraterno: "Diamoci allo zelo, fedeli, agendo con mitezza, vivendo insieme con umiltà, nel gemito del cuore, nel pianto e nella preghiera, per ottenere il perdono da Dio".
La quarta ode ci mette di fonte a Cristo: "Il Verbo ha reso l'umiltà una perfetta via di elevazione, umiliando se stesso sino ad assumere forma di servo. E chiunque imita questa umiltà, umiliandosi viene innalzato". "L'umiltà guadagna la giustizia proprio con l'estrema indigenza di questa: anche noi possiamo acquisirla!" "Il Salvatore e Sovrano, come mezzo per elevarci, ci ha indicato l'umiltà: egli infatti ha lavato con le proprie mani i piedi dei discepoli".
La quinta ode ci può forse mettere a disagio: non dobbiamo credere che nel pubblicano tutto sia buono a priori e che nel fariseo tutto sia cattivo: "Sforziamoci di imitare le virtù del fariseo, e di emulare l'umiltà del pubblicano, ma detestando in entrambi ciò che è male: tanto la folle arroganza che la sozzura delle colpe". La parabola non parla di perdizione o di salvezza, quanto piuttosto della posizione dell'uomo di fronte alla giustizia di Dio, che guarda più al cuore umano che non alla osservanza di una legge che preveda delle sanzioni automatiche. Per contro, esiste il rischio di una falsa umiltà, il piacere malsano dell'umiliazione che, per quanto poco frequente nella nostra società, è comunque un fenomeno molto noto agli asceti e, forse, anche a qualche psicologo. Per questo siamo invitati a essere ragionevoli, anche nell'esercizio delle virtù, per non pervertirle mediante l'esagerazione, e ci ricorda che, al di là di tutto, osservare la legge è cosa buona: del resto il pubblicano si riconosce peccatore per la propria colpa nei riguardi di una legge che ha comunque trasgredito. "La corsa della giustizia si è dimostrata vana per il fariseo, che l'ha compiuta unendovi la presunzione; il pubblicano, al contrario, si è preso l'umiltà come compagna della virtù che innalza".
La sesta ode segnala il capovolgimento dei valori: né il peccato, né la sua remissione sono in funzione di fattori esterni, tanto meno dipendono dall'opinione pubblica: "Il fariseo viveva tra le virtù e il pubblicano tra le colpe. Ma il primo si sobbarcò quella folle umiliazione che viene dall'orgoglio, mentre l'altro fu esaltato mostrandosi di umile sentire". Per non essere indotti in errore, siamo rimessi di fronte al Cristo umile: "Cerchiamo con zelo le vie del Salvatore Gesù e la sua umiltà, noi che desideriamo trovare la dimora infinita della gioia venendo ad abitare la terra dei viventi".
A differenza dell'usuali, ci vengono offerti due kontàkia: se nel primo c'è la semplice riproposizione del tema dominante: "Fuggiamo il superbo parlare del fariseo, e impariamo l'elevatezza delle parole umili del pubblicano", nel secondo ci viene mostrato il carattere sacramentale del pentimento: "Come il pubblicano, offriamo gemiti al Signore, e gettiamoci ai suoi piedi come peccatori davanti al Sovrano: egli vuole la salvezza di tutti gli uomini e concede la remissione a tutti quelli che si pentono, perché per noi si è incarnato, lui che è Dio, costerno al Padre". Il fondamento cristologico è garanzia contro ogni sentimentalismo emotivo.
La chiave di lettura della settima ode può essere considerata la scala di Giacobbe, figura sia della scala ascetica di Giovanni Climaco (gr: della scala) sulla quale i monaci salgono verso il regno mentre i diavoli cercano di farli piombare a terra, così come di Maria, scala "dalla quale è disceso il Dio incarnato per portare in alto a loro volta i mortali". "Il pubblicano, sollevato agilmente dall'ala dell'umiltà, giunse vicino a Dio". "Servendosi di umili modi come di una scala, il pubblicano fu sollevato alle altezze del cielo". "L'ingannatore, quando insidia i giusti, li depreda con sentimenti di vanagloria, mentre lega i peccatori con i lacci della disperazione".
L'ottava ode, quasi a rincuorarci, ci invita a riporre la nostra speranza in Dio e nella sua misericordi: "Dio ascoltò il gemito del pubblicano e, giustificandolo, mostrò a tutti che egli si lascia sempre piegare se gli chiediamo il perdono delle colpe con gemiti e lacrime".
Nella nona ode, l'invito alla nostra conversione si fa, se possibile, più esplicito, ponendo il testo in prima persona, in modo da coinvolgere direttamente colui che prega: "Oppresso da un nugolo di colpe, ho superato il pubblicano per eccesso di malizia, e ho assunto per giunta la boria millantatrice del fariseo, rendendomi da ogni parte privo di qualsiasi bene. Signore, usami indulgenza".
Nelle strofe delle Lodi, gli stessi innografi conducono il fedele a una sintesi personale: "Poiché hai appreso anima, la differenza tra il pubblicano e il fariseo, detesta dell'uno le parole superbe, dell'altro emula la preghiera compunta".
Non possiamo lasciare che questo invito alla sintesi personale rimanga inascoltato.
Sotto un certo punto di vista, questa è una parabola pericolosa: è facile condannare il fariseo per il suo atteggiamento, ponendoci così al suo stesso livello, come se avessimo il diritto di considerarci più giusti, come se, considerato le opere compiute, avessimo fatto quanto dovevamo fare. È tuttavia ancor più pericoloso porci sullo stesso piano del pubblicano: siamo capaci della stessa umiltà e dello stesso pentimento?
È un processo senza fine, perché l'uomo non può mai raggiungere la perfetta umiltà di Cristo, che spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, che si è abbassato fino alla tomba caricando su di sé tutti i peccati del mondo. Non per niente i santi sono sempre maggiormente consapevoli della loro indegnità e del loro peccato: essi sono convinti di essere i più grandi peccatori!
Noi dipendiamo sempre dalla misericordia di Dio. Non potremmo avvicinarlo nemmeno senza chiedere la sua misericordia. Chiunque la chiede non sarà mai respinto, è una preghiera di sicuro effetto. Per questo il Kyrie elèison è così insistentemente ripetuto nella Divina Liturgia e in qualsiasi ufficio della tradizione bizantina.
La famosissima preghiera di Gesù (Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore) altro non è se non un adattamento di questa preghiera: detta con un briciolo di fede, ci aprirà la via verso il perdono di Dio e per la venuta del suo regno nel nostro cuore. Se stessimo di fronte al trono di Dio chiedendo che ci sia dato quanto meritiamo, saremmo perduti irrimediabilmente. Solo la misericordia di Dio ci può salvare.
Una volta un peccatore disse al proprio padre spirituale: "Se fossi Dio, non perdonerei mai un uomo che ha peccato come ho peccato io". L'altro rispose: "Per fortuna non sei Dio: la sua misericordia è più grande di qualsiasi cosa possiamo immaginare".
Isacco il Siro scrisse nel sesto secolo: "Non dire mai che Dio è giusto. Se lo fosse, saresti all'inferno. Confida solo nella sua ingiustizia, che è misericordia, amore, perdono".
Signore, abbi pietà di me, il peccatore. Amen.


* * *

Paolo VI. Il Fariseo e il pubblicano

Il primo pensiero è questo: l’uomo ha bisogno di redenzione. Dire questo e dire la somma della filosofia dell’uomo e della teologia della vita è la stessa cosa. L’uomo ha bisogno di redenzione; il che significa non solo che manca di un complemento alla sua perfezione e alla sua felicità, ma che egli ha bisogno d’una riparazione, d’una liberazione, d’una rigenerazione. Ha bisogno d’una guarigione, d’un ricupero, d’una riabilitazione. Ha bisogno d’un perdono. Ha bisogno di ritornare uomo; di riacquistare la sua dignità, la sua vera personalità. E poi riavrà pace, gioia, voglia sana di vivere, speranza. Poi riacquisterà la visione chiara sul mondo, sugli uomini, sulla storia, sulla morte, su l’al di là. Ma ora, di per sé, la sorte umana si trova in una condizione imperfetta, infelice. Gli stessi sforzi, che l’uomo fa per dare normalità, forma, progresso, coscienza alla sua vita, finiscono per denunciare ancora più palesemente lo stato di insufficienza e di degradazione, in cui egli si trova. E se non bastasse la complicata esperienza umana a dimostrare che nel complesso delle nostre sorti v’è qualche cosa che radicalmente non va, la parola del Signore, enucleata dall’insegnamento della Chiesa, ci persuade che noi ci troviamo nella necessità di una redenzione, d’una salvezza.

Se noi abbiamo la sapienza, umile e penetrante, di riconoscere questa necessità, noi siamo sulle soglie del tempio, come il Pubblicano del Vangelo (Cfr. Lc 18,10 ss.), dove la prima, la fondamentale, l’indispensabile riparazione della nostra miseria si compie.

L’altro pensiero, complementare del primo, ci fa riflettere sulla impossibilità delle forze umane a procurarsi la redenzione di cui l’uomo ha bisogno. Bisogno e autonoma impossibilità di redenzione, è la duplice persuasione, con la quale noi ci dobbiamo accostare alla celebrazione dei riti liturgici, i quali rievocano e interiormente rinnovano il mistero pasquale. Questo senso d’impossibilità è anch’esso indispensabile nella economia della nostra pedagogia religiosa, della nostra mentalità cristiana. (Ricordiamo, fra le tante, la voce del Manzoni nel celebre inno sacro: «qual masso che dal vertice», ecc.). Si connette questa dottrina alla natura del peccato e delle sue conseguenze: la rottura delle relazioni con Dio, ch’è appunto il peccato, paragonabile alla rottura del cavo d’una teleferica, o alla rottura d’un cristallo, chi la può da sé riparare? Ad un morto (perché rispetto al rapporto con la vita di Dio tale è un uomo nello stato di peccato mortale), chi può mai dire le inverosimili parole: «verrò io, e lo guarirò»? (Mt 8,7 cfr. He 10,6-7)

Eppure queste sono le parole di Gesù. Questo è il messaggio, e, ancor più che messaggio, la impensabile realtà portata da Cristo all’umanità. Egli è venuto, ed ha riparato l’irreparabile. Questa è la Redenzione; questo è il mistero pasquale compiuto da nostro Signor Gesù Cristo, «il quale, come scrive S. Paolo, fu immolato per i nostri falli, e fu risuscitato per motivo della nostra giustificazione» (Rom. 4, 25), cioè della nostra salvezza.

Capito questo, vogliamo dire, creduto questo, noi comprendiamo qualche cosa del sacrificio di Gesù, vittima per ciascuno di noi (Ga 2,20), e qualche cosa del disegno di misericordia e di amore, che governa tutta la nostra religione cristiana (Cfr. L. BOUYER,Le rite et l’homme, c. 8).

E comprendiamo parimente qualche cosa, quanto forse ci basta per la nostra fortuna e la nostra felicità, che cosa valga, prima di assiderci alla cena pasquale, accostarci al sacramento della Penitenza, ch’è il sacramento per le anime morte, o comunque bisognose di vita divina, l’applicazione cioè della virtù della passione e della risurrezione di Cristo alle singole nostre persone; è la nostra Pasqua, che trova poi nella santa comunione con Lui la sua pienezza nel nostro pellegrinaggio terreno, la sua promessa per l’eternità (Jn 6,51).

* * *

Gesù e i Farisei

Isabelle Chareire
docente presso la Facoltà di teologia dell'Università Cattolica di Lione.
Gesù opera un rovesciamento di prospettiva nel modo di intendere la legge da parte del suo universo religioso: egli non la disprezza, ma supera il dilemma sottomissione-trasgressione per far intervenire un terzo dato, la situazione e attaccandosi ad un'osservanza meticolosa e ossessiva della Legge e della tradizione, i Farisei ne perdono infatti di vista l'ispirazione profonda che è quella di promuovere la giustizia, la misericordia e la fedeltà e di essere al servizio di questi valori.
Il discorso sulla purezza si inscrive in questo quadro che vede nel dinamismo profondo del cuore, di ogni cuore, dove è di casa lo Spirito, il luogo in cui può essere vinta la doppiezza ed essere accolta la Grazia che apre alla visione di Dio.
La proclamazione della sesta beatitudine da parte di Gesù dovette apparire agli occhi dei Farisei paradossale e addirittura scandalosa: come poteva tessere l'elogio della purezza Colui che senza complessi trasgrediva le regole della purità legale?
Questa apparente contraddizione segna più in generale l'atteggiamento di Gesù nei confronti della Legge.
Il compimento della Legge da parte di Gesù sposta radicalmente gli abituali punti di riferimento della Legge stessa.
Dopo aver messo in evidenza questo rovesciamento di prospettiva, vedremo di cogliere il nuovo modo di intendere la purezza che esso comporta, per concludere la nostra analisi con gli ostacoli e le poste in gioco di tale comprensione della purezza.
1. Gesù e la legge
L'aperto conflitto tra Gesù ed i Farisei si sviluppa in relazione alla Legge ed alla tradizione. Secondo C. Duquoc, la predicazione di Gesù è sovversiva in quanto opera un triplice rovesciamento di prospettiva: nei confronti della giustizia, della Legge e della tradizione.
La parabola del Figlio prodigo (Luca 15) e quella degli Operai dell'undicesima ora (Matteo 20) relativizzano la giustizia. 
Matteo 
20, rompe quell'equilibrio sociale per cui il parassita non viene trattato alla pari del lavoratore; il fatto è che le leggi del Regno non obbediscono affatto a questo genere di evidenze.
In realtà, la giustizia sociale, applicata rigidamente, genera alla fine esclusione. In base alla giustizia - che avrebbe riservato un diverso trattamento al figlio minore rispetto a quello maggiore - il figlio prodigo, nonostante il suo pentimento, sarebbe stato vittima della memoria, e cioè della sua reputazione.
La festa organizzata dal padre, il quale non lo tratta in base al peccato commesso, cancella nel figlio la memoria della colpa.
Il Regno di Dio non ha niente a che vedere con la logica sociale che produce l'esclusione, in quanto esso è speranza per coloro che sono senza speranza.
Gesù non disprezza la Legge, ma esce dal dilemma sottomissione/trasgressione facendo intervenire un terzo dato: la situazione.
Qui tuttavia la situazione viene fatta intervenire non nel senso deteriore della casistica, la quale è disposta ad accantonare la legge solo per non farsi scomodare dal prossimo, ma al contrario proprio nella misura in cui essa richiede un coinvolgimento nei confronti dell'altro. Gesù non disprezza la Legge, ma si sente libero riguardo ad essa: la trasgredisce in ragione della disperazione che incontra (guarisce il giorno di Sabato) e rimprovera ai Farisei di dimenticare lo scopo della Legge, quello cioè di "rivelare che ogni essere umano è affidato all'altro". L'essenza della legge consiste nello svincolarsi dall'esclusiva attenzione verso se stessi per richiamare il fatto che l'altro, gli altri esistono; fuori da questa funzione, della quale è al servizio, essa risulta vana, non oggettiva.
Nell'universo religioso di Gesù, la tradizione (cf Mt 15) assolveva una duplice funzione:
- come principio critico, era il luogo di verifica delle decisioni da assumere in presenza di situazioni inedite; questa giurisprudenza, tuttavia, tendeva a diventare impositiva, ed è questo che Gesù rifiuta;
- di fatto la tradizione, in quanto principio globale capace di fare memoria delle esperienze in ragione della loro esemplarità, fosse questa positiva o negativa, giungeva al punto di escludere ogni possibile spazio per una pratica trasgressiva di queste regole: "Gesù non rifiuta l'esperienza del passato come cosa senza valore, ma non accetta che essa sia la misura di ogni possibile esperienza. L'inatteso della decisione presa nel momento presente non viene giustificato facendo ricorso alla coerenza con le norme imposte dal passato".
Tale rovesciamento di prospettiva nei confronti di questi tre punti di forza del Giudaismo porta all'elaborazione di un giudizio critico sui loro possibili effetti perversi e apre all'immagine di un Dio non più ostaggio della Legge e della tradizione, ma mostrato da Gesù nell'inedito del suo divenire. E' in questo orizzonte che dobbiamo intendere la purezza alla quale Gesù ci invita.
2. L'essenziale e l'accessorio
Le dispute di Gesù a proposito del puro e dell'impuro sono riportate daMatteo ai capitoli 15,10-20, e 23,25 ss. Il primo passaggio si colloca dopo un contrasto con gli scribi e i Farisei a proposito della tradizione; Gesù si rivolge allora alla folla: ciò che rende impuro è ciò che esce dalla bocca dell'essere umano, non quanto vi entra.
La seconda pericope è inserita nel quadro di una lunga serie di invettive contro i Farisei; qui Gesù si rivolge alla folla e ai discepoli. Il Signore raccomanda di fare ciò che dicono i Farisei, ma di non imitarli nelle loro azioni perché "tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini" (23,5); sono degli ipocriti che, pur senza entrarvi essi stessi, chiudono agli altri l'ingresso nel Regno di Dio. Dopo uno sviluppo del discorso sui voti4dal quale emerge lo stravolgimento dei valori - agli occhi dei Farisei l'oro del tempio pareva più sacro del tempio stesso, e la decima della menta, dell'anèto e del cumino più importante della giustizia, della misericordia e della fedeltà - Gesù affronta la questione del puro e dell'impuro.
La pratica farisaica, che dà maggior peso all'apparenza esteriore che alla carità dei cuori, è ipocrita; questo non avere cura dell'essenziale a beneficio dell'accessorio porta a sconfessare gravemente i veri profeti.
Da questi testi emergono tre critiche:
- l'atteggiamento dei Farisei è caratterizzato dall'incoerenza e dall'ipocrisia in quanto essi predicano, ma non fanno ciò che predicano;
- attaccandosi ad un'osservanza meticolosa della Legge e della tradizione, i Farisei ne perdono di vista l'ispirazione profonda; certo, ciò che è secondario non può essere omesso (Mt 23,23), ma esso, tuttavia, deve sempre essere collocato all'interno della dinamica profonda della Legge, senza mascherarla;
- la purità rituale non conta nulla, è quanto si agita all'interno dell'essere umano che lo rende puro o impuro.
La doppiezza farisaica nasce dalla rimozione di ciò che è essenziale: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. La giustizia è la nervatura della Legge, ne rappresenta la sua ragion d'essere; ma poiché questa giustizia è quella di Dio, essa va oltre una rigida applicazione che produrrebbe un'altra ingiustizia (cf Mt 20 e Lc 25) e viene esercitata col metro della misericordia. La misericordia non nega la giustizia, ma la libera: attraverso il perdono accordato a chi ha sbagliato, essa la rende continuamente possibile.
Mentre l'esclusione chiude ogni orizzonte, la misericordia persiste senza posa a prospettare un avvenire, oltre ogni tradimento, ogni diserzione. É all'interno di questa tensione tra giustizia e misericordia che può essere vissuta una fedeltà perseverante al Dio della vita, perché Lui è indettibilmente fedele.
Scegliere la reale posta in gioco della Legge significa farla gravitare al servizio della giustizia autentica.
Questa giustizia non è quella degli esseri umani perché non opera esclusioni, quale che sia la situazione, e permette a chiunque di rinnovare l'Alleanza che Dio propone senza stancarsi mai.
Dimenticare questi tre elementi fondamentali equivale a rendersi davvero impuri. Se la purezza è l'assenza di ambiguità, prendere cioè in considerazione la giustizia di Dio senza secondi fini, essa può realizzarsi proprio incontrandosi sull'essenziale.
Quando i mezzi fanno perdere di vista il fine, per forza siamo indotti ad un atteggiamento ambiguo, di doppiezza: in fondo, l'ipocrisia dei Farisei non è che la conseguenza di questa dimenticanza di base, quella della giustizia e della misericordia.
L'osservanza della Legge, sottratta alla sua dinamica profonda, funziona allora in modo ideologico. L'ideologia, secondo la formula di Regis Debray, elude la storia e "ci passa sul corpo senza passare attraverso la testa".
Tagliar fuori il reale equivale a votarsi alla doppiezza, stabilendo un ideale meramente formale senza presa dinamica sulle azioni umane.
L'osservanza della Legge non ha senso se non alla condizione d'essere orientata alla volontà di desiderare il bene; la purezza esige di passare dalla eteronomia all'autonomia, di essere cioè mossa da un dinamismo interno e non esterno. E'quanto esprime il Dottore Angelico:
"Colui che evita il male in virtù di un precetto del Signore non èlibero. All'opposto, chi evita il male perché è male, costui è libero. E'qui che opera lo Spirito Santo che perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un nuovo dinamismo, e così è per amore che egli non commette il male, e dunque è libero, non nel senso che egli non sia sottomesso alla legge divina, ma in quanto il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive".
3. La purezza: un dinamismo interiore
La trappola dell'atteggiamento farisaico consiste nello stabilire un ideale assoluto senza prendere in considerazione le condizioni concrete nelle quali gli uomini e le donne si trovano a vivere; siamo qui di fronte ad un meccanismo ideologico, vale a dire la teorizzazione di un comportamento a partire da un'unica chiave di lettura che nega la complessità del reale.
La doppiezza è conseguenza dell'atteggiamento ideologico che rifiuta le ombre e la fallibilità della condizione umana. Ma ciò che Gesù propone non è quell'autenticità un po' sfrontata spesso evidenziata dai comportamenti dei nostri tempi, e che tende ad identificare direttamente la moralità con la schiettezza e la spontaneità.
Il criterio della moralità si ridurrebbe in questo caso alla pura soggettività, alla trasparenza verso se stessi e gli altri; ora, anche in modo autentico, si può ben essere perversi o immorali! Rifiutare la doppiezza non vuol dire cadere nell'ideologia della spontaneità.
La purezza è, invece, un atteggiamento che deve essere costruito nell'incontro tra la verità personale e la legge.
L'autonomia, e cioè la coerenza interiore tra il desiderio profondo del soggetto e il fine ultimo della legge, non significa assenza di oggettivi punti di riferimento, ma trasformazione interiore che armonizza la legge ed il desiderio.
E' distintivo della Nuova Legge, secondo san Tommaso d'Aquino, il trovarsi all'interno dell'essere umano: "grazia dello Spirito Santo che si manifesta mediante la fede operante nella carità ".
Ciò che caratterizza la Nuova Legge è che essa antepone l'etica alla morale.
Mutuiamo questa distinzione da Paul Ricoeur: l'etica è il dinamismo interiore del soggetto, la moralità è l'insieme degli imperativi e dei divieti ai quali il soggetto deve ridare una sistemazione in rapporto al suo progetto etico primario. 
La legge non viene per prima, ma per ultima, dal momento che si pone come istanza di verifica del desiderio o del progetto etico; la legge è la realizzazione e non il requisito della filtrazione di senso della nostra azione.
Nel cristianesimo è proprio l'etica, ed il suo fondamento propriamente teologale, ad avere la priorità; come dice san Paolo "non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me".
La purezza nasce da questa disponibilità alla grazia che forma il desiderio interiore.
Questa trasformazione del desiderio non è alienazione, ma liberazione, in quanto rappresenta non la negazione dell'umanità ditale desiderio, ma il suo compimento.
Non esiste purezza possibile al di fuori di questo orientamento teologale del soggetto e della sua azione; solo il dinamismo profondo del cuore può produrre un'azione autenticamente morale e cioè frutto realmente della giustizia e della misericordia.
La tensione tra questi due poli, giustizia e misericordia, è in effetti un crinale che può essere percorso solo con la disponibilità del cuore.
Non è senza significato che questa esigenza di purezza ci venga trasmessa da Colui che ha frequentato i peccatori ed i lebbrosi.
All'orgogliosa purità dei Farisei, basata sul criterio di fondo della legalità, Gesù oppone una purezza densa d'umiltà. Se la peccatrice è perdonata (Lc7,36ss) è "poiché ha molto amato"; non è che Gesù non la inviti alla conversione, ma essa è perdonata perché, avendo amato molto, è capace, riconoscendosi debole e peccatrice (v. 38), di operare in modo effettivo e non ideologico, sul proprio desiderio.
Puro non è chi non commette peccato - ciò equivarrebbe a sottrarsi in modo illusorio alla propria condizione - ma colei o colui per i quali questi peccati rappresentano non l'occasione per un facile compiacimento né per una eccessiva colpevolizzazione, ma il luogo d'accoglienza della grazia in vista di una conversione che deve essere continuamente operata.
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio": se la purezza è proprio questa capacità dell'essere umano di lasciarsi rinnovate interiormente dall'azione dello Spirito, al punto che il suo desiderio si armonizza con la legge divina, questo atteggiamento non può che aprire alla visione di Dio.
Proiettandoci nella dinamica del divenire, voluta per noi dal nostro Creatore, essa ci orienta, nel cuore stesso della complessità della nostra condizione umana, verso l'Avvenire della visione definitiva diColui-che-viene.

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Questi torno' a casa sua giustificato. don Romeo Maggioni

Anche oggi Gesù ci spiazza e ci sconcerta, su un tema di cui si parla tanto, quello della "moralità": chi è veramente giusto davanti a Dio? cioè davanti al giudizio imparziale e definitivo? "Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenze di persone; non è parziale con nessuno" (I lett.).

Uno dice: la mia coscienza non mi rimprovera nulla. Si, qualche sbaglio o errore, ma non cattiverie, né con Dio né con gli uomini. Non ho bisogno di confessarmi, non ho niente di cui chiedere perdono a Dio. E' il concetto di "moralità laica".
Un altro dice: vado a messa, prego, faccio il mio dovere, anche qualche carità..., cosa si vuole di più? non posso neanche! Del resto è quello che mi si chiede, mi pare di essere un buon cristiano praticante! E' il concetto di "moralità religiosa".
"Il pubblicano invece si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro".
Ma allora, cosa è essere giusti? Cosa è "moralità", secondo Gesù? Cosa è la "moralità cristiana"? L'unica ormai che salva davanti a Dio.

1) "ALLONTANATI DA ME CHE SONO PECCATORE"
Un giorno Pietro era a pescare; quella notte non prese nulla. Poi al comando di Gesù gettò le reti e fece grande pescagione. Allora si gettò ai suoi piedi e disse: "Allontanati da me, Signore, perché sono un uomo peccatore" (Lc 5,8). Percepì una grande distanza, intuì di essere davanti alla grandezza di Dio. Ecco: solo mettendoci davanti a Dio si può misurare la sua grandezza e la nostra pochezza. Solo in riferimento a Lui, intuendo il rapporto che ci lega, di creazione e d'amore, si può parlare di peccato in quanto atteggiamento che ci svelle dalla nostra radice e dal nostro destino. Il peccato come rifiuto della nostra verità, e quindi - direbbe sant'Agostino - menomazione di noi stessi, insufficienza e incapacità ad essere uomini.
Di una cosa si dice riuscita o meno, giusta o non giusta, quando è conforme al progetto per il quale è stata fatta. La misura dell'uomo è il suo destino di essere fatto a immagine di Dio, di essere stato "predestinato ad essere conforme all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29): quella è la sua identità più profonda, il modello cui deve identificarsi. Ogni dissomiglianza dal "Primogenito" che è Gesù di Nazaret, è dissomiglianza dalla propria autentica verità, è "ingiustizia" e "peccato" per usare il linguaggio di Paolo, è l'essere fuori posto nei confronti di Dio e del suo sogno su di noi.

Non c'è allora da misurarsi sugli altri, di fronte ai quali troviamo sempre qualcosa di meglio da registrare in noi; da qui la facile tentazione del fariseo di sempre che dice: "Io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano"; la tentazione odiosa del disprezzo! Non c'è da misurarsi neanche con un ipotetico nostro progetto di noi, che non esiste, che non può esistere, perché non ci siamo fatti noi. Ben più grande di noi, del nostro cuore e del nostro sogno, è il progetto iscritto in noi da Dio, solo attuando il quale l'uomo si trova riuscito e soddisfatto. Solo puntando su questo si danno le dimensioni giuste entro le quali misurare giustizia o meno dell'uomo. Dimensioni che ci sembrano certo sproporzionate al nostro breve orizzonte, quando ci viene detto: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48).

2) "TORNO' A CASA GIUSTIFICATO"
Ma chi ce la fa a vivere una tale giustizia? A realizzare un tale progetto? Nessuno, appunto! Il primo Adamo - che siamo ognuno di noi tentati di fare a meno di Dio - non ce la fa', necessariamente pecca, inesorabilmente è incapace - nonostante lo voglia - di realizzare quel bene cui il suo cuore aspira con nostalgia. E' scritto nella Lettera ai Romani: "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3, 23). E in una pagina drammatica, molto personale, Paolo scrive: "Io sento che in me, cioè, nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rm 7,17-19). Tutti siamo peccatori, e non è da noi la capacità di una salvezza di fronte al proprio destino ultimo. Non c'è opera che ci possa giustificare.

L'unica "opera" che salva è stata compiuta da un uomo - il secondo Adamo - Cristo - Dio stesso cioè che si fa uomo per essere - come uomo - uno che ha finalmente la capacità di rimettersi nella posizione giusta davanti a Dio: il Giusto sofferente che si abbandona con estrema fiducia al Padre è l'atto di un uomo che finalmente riesce nella vita perché si fida totalmente di Dio, e ottiene una VITA non più come conquista propria ma come esclusivo dono gratuito da Dio. La "giustizia" dell'uomo è stata fatta da Dio, coll'assumersi Lui l'espiazione del peccato e ponendosi Lui come il Primogenito d'una nuova umanità di salvati, di uomini cioè capaci di realizzare in pieno quel progetto di umanità sognato da Dio per ognuno di noi.
La nostra personale giustizia allora non sarà che il trovarci, per mezzo della fede, partecipi di quell'atteggiamento interiore di Cristo, di lasciarci giustificare da Lui, riconciliare da Lui, per avere la forza poi di vivere come Lui da figli di Dio. Prosegue san Paolo: "Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia" (Rm 3,24-25). La nostra fede, cioè il nostro legame con Cristo nei sacramenti, ci rende prima riconciliati e giusti davanti a Dio, e poi capaci finalmente di compiere le opere di bene che sono secondo il suo disegno. Le opere allora non sono causa di giustizia, ma frutto ed effetto della grazia che ci rende giusti. Nessuno ha quindi da vantarsi di una sua giustizia, perché tutto è regalo di Dio.

Se Dio ha una preferenza, evidentemente è per chi riconosce questi dati di fatto e si fa umile, senza presunzioni davanti a Lui o disprezzo di fronte agli uomini. Dio è giusto, cioè fedele alle sue promesse di salvezza, quindi Dio è misericordioso. E quando trova un uomo che sente tutto il bisogno di questa misericordia, non può non avere preferenze. "Il Signore - ci fa pregare oggi il Salmo responsoriale - è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti. Il Signore riscatta la vita dei suoi servi, chi in lui si rifugia non sarà condannato". Per questo Luca conclude, proprio in riferimento al giudizio finale: "Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato".
Facciamo nostra allora la preghiera del pubblicano: "Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo" (Salmo 50).

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I nuovi farisei e pubblicani. padre Raniero Cantalamessa

Il Vangelo di questa Domenica è la parabola del fariseo e del pubblicano. Chi in questa domenica va in chiesa sentirà fare un commento più o meno di questo tipo. Il fariseo rappresenta il benpensante che si sente a posto con Dio e con gli uomini e guarda con disprezzo il prossimo. Il pubblicano è la persona che ha sbagliato, però lo riconosce e ne chiede umilmente perdono a Dio; non pensa di salvarsi per i meriti propri ma per la misericordia di Dio. La scelta di Gesù tra queste due persone non lascia dubbi, come indica il finale della parabola: quest'ultimo va a casa giustificato, cioè perdonato, riconciliato con Dio; il fariseo torna a casa come ne era uscito: tenendosi stretta la sua giustizia, ma perdendo quella di Dio.

A forza di sentirla, e di ripeterla io stesso, questa spiegazione però ha cominciato a lasciarmi insoddisfatto. Non che essa sia errata, ma non risponde più ai tempi. Gesù diceva le sue parabole per la gente che l'ascoltava in quel momento. In una cultura satura di fede e religiosità come quella della Galilea e Giudea del tempo, l'ipocrisia consisteva nell'ostentare osservanza della legge e santità, perché queste erano le cose che attiravano il plauso.

Nella nostra cultura secolarizzata e permissiva, i valori sono cambiati. Ciò che si ammira e apre la strada al successo è piuttosto il contrario di una volta: è il rifiuto delle norme morali tradizionali, l'indipendenza, la libertà dell'individuo. Per i farisei la parola d'ordine era "osservanza" delle norme; per molti oggi la parola d'ordine è "trasgressione". Dire di un autore, di un libro o di uno spettacolo che è "trasgressivo" è fargli uno dei complimenti più ambiti.

In altre parole, oggi dobbiamo rovesciare i termini della parabola, per salvaguardarne l'intento originale. I pubblicani di ieri sono i nuovi farisei di oggi! Oggi è il pubblicano, il trasgressore, che dice a Dio: "Ti ringrazio, Signore, che non sono come quei farisei dei credenti, ipocriti e intolleranti, che si preoccupano del digiuno, ma nella vita sono peggiori di noi". Pare che ci sia anche chi prega paradossalmente così: "Ti ringrazio, o Dio, che sono un ateo!"

La Rochefoucauld diceva che l'ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù. Oggi essa è spesso il tributo che la virtù paga al vizio. Si tende infatti, specie da parte dei giovani, a mostrarsi peggiori e più spregiudicati di quello che si è, per non sembrare da meno degli altri.

Una conclusione pratica, valida sia nell'interpretazione tradizionale accennata all'inizio che in quella sviluppata qui, è questa. Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po' dell'uno e un po' dell'altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.

Se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po' l'uno e un po' l'altro, allora che sia almeno il rovescio: farisei nella vita e pubblicani nel tempio! Come il fariseo, cerchiamo di non essere nella vita ladri e ingiusti, di osservare i comandamenti e pagare le tasse; come il pubblicano, riconosciamo, quando siamo al cospetto di Dio, che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo ed imploriamo, per noi e per tutti, la sua misericordia.

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Sull'esempio del pubblicano l'uomo sa di aver sempre bisogno del perdono di Dio. don Bruno Maggioni

La parabola parla della preghiera ma, in realtà, è in gioco il modo di concepire l'esistenza in rapporto con Dio: la preghiera è rivelatrice di qualcosa che va oltre la preghiera stessa. Di conseguenza, ciò che va raddrizzato non è anzitutto la preghiera (essa è semplicemente frutto di qualcosa che la precede), bensì il modo di concepire Dio e la sua salvezza, se stessi e il prossimo. La parabola del fariseo e del pubblicano (18,9-11) presenta due protagonisti, ciascuno dei quali incarna un modo diverso di porsi di fronte a Dio e al prossimo. Il fariseo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione, e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due. È vero, dunque, che egli osserva tutte le prescrizioni della legge, il suo torto non sta nell'ipocrisia. Il suo torto sta nella fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non attende la salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio doveroso per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio"», facendo in tal modo risaltare a Dio la propria giustizia, ma questa consapevolezza di una originaria dipendenza da Dio viene persa lungo la strada. Tanto è vero che egli " a parte quel «ti ringrazio» detto all'inizio " non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c'è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla. Anche un pubblicano sale al tempio a pregare, e il suo atteggiamento è esattamente l'opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Dice la verità: è al soldo dei romani invasori ed è esoso nell'esigere i tributi: è certamente un peccatore. La sua umiltà non consiste nell'abbassarsi: la sua posizione è, infatti, certamente quella che egli descrive, come anche l'osservanza del fariseo era reale. Ma è consapevole di essere peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. La conclusione è chiara e semplice: l'unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio " nella preghiera e, ancor prima, nella vita " è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.