domenica 18 marzo 2012

Un padre come Dio comanda


San Giuseppe 

Oggi è la festa più politicamente scorretta dell'anno.
È la festa di san Giuseppe, padre di Gesù, sposo di Maria.

È una festa politicamente scorretta, perché celebra un padre proprio quando si è finalmente realizzata la «società senza padri» di sessantottina memoria; quando per allevare i figli serve il posto fisso, ma non il papà fisso; quando vanno bene anche due mamme e anzi, i figli sono più felici; quando il welfare ha ormai reso inutile la presenza del padre in casa; quando le mamme restano incinte senza conoscere uomo (e senza alcun intervento divino di sorta).

È una festa politicamente scorretta perché san Giuseppe non era un «mammo»: non ha mollato il lavoro per occuparsi di pannolini e poppate, ma ha continuato a lavorare per mantenere la famiglia. Volendo dirla tutta, doveva essere proprio un padre all'antica, perché ha educato Gesù secondo il motto «Impara l'arte e mettila da parte»: tu impara un mestiere, poi magari diventi il Messia e non ti serve, però intanto...

È una festa politicamente scorretta perché Giuseppe tace. Non conosciamo un discorso, una frase, nemmeno una parola di san Giuseppe, nemmeno un «Bah...». Anni e anni di lamentele muliebri («Mio marito non spiccica una parola nemmeno a martellate...»), di psicologia spicciola sulle riviste femminili («Gli uomini devono imparare a esprimere i loro sentimenti... le loro emozioni...») e si festeggia un uomo che è l'apoteosi del silenzio maschile. Bah.
È una festa politicamente scorretta perché il padre di Gesù è un uomo «giusto» (Mt 1,19). Significa che se ne impippa del legalismo, del politicamente corretto, del rispetto umano, dei sentimenti degli altri eccetera eccetera. Come un ispettore Callaghan qualsiasi, fa ciò che è giusto a dispetto delle regole e delle opinioni altrui.

È una festa politicamente scorretta perché san Giuseppe non solo non ha mai pensato di liberarsi di una gravidanza «scomoda»; non solo ha rifiutato l'adulterio; non solo non è scappato con una ventenne mollando moglie e Figlio; ma ha vissuto castamente tutta la vita, alla faccia della classica scusa (utilizzata indifferentemente sia dagli uomini che dalle donne) delle famose, leggendarie «esigenze maschili».

È una festa politicamente scorretta perché Giuseppe ha protetto la Sacra Famiglia dai malvagi (e non ha tentato di dialogare con loro, cercando ciò che unisce invece di ciò che divide).
É una festa politicamente scorretta perché Giuseppe era un uomo pio. Non solo si è fidato ciecamente di Dio, ma ha imposto al Figlio tutti i riti dell'iniziazione religiosa (circoncisione, imposizione del nome, presentazione al tempio...) e non si è sognato nemmeno una volta di dire «Quando sarà grande deciderà lui...».

In conclusione, per tutti questi motivi politicamente scorretti buona festa del papà.
Con l'augurio a tutti i papà di imitare san Giuseppe; a tutte le mogli di avere un marito come l'ebbe Maria; a tutti i figli un padre terreno come il padre putativo di Gesù. (R. Marchesini)

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Ogni paternità viene da Dio,
di Angelo Busetto

Lo chiamava papà. Papà Giuseppe. Nella casa di Nazaret, dalla quale si allungava il pancone di lavoro davanti alla porta, il bambino Gesù giocava, guardava, imparava. Papà Giuseppe lavorava, e Maria lavava, puliva, rassettava, tesseva, cucinava.  Quello di Giuseppe era un lavoro riconosciuto e apprezzato, come accade ad ogni buon artigiano di paese che si presta a tanti lavori nelle case e nelle piccole aziende. Era lui il falegname della contrada, e Gesù aveva imparato così bene il mestiere, che in seguito, essendo venuto a mancare Giuseppe, la gente aveva cominciato a chiamare pure lui ‘il falegname’.

La ‘dolce immagine paterna’ di Giuseppe si è fissata in modo così profondo nel cuore di Cristo, che a un certo punto gli è diventato naturale chiamare Dio, il Padre che sta nei cieli, con lo stesso appellativo con il quale da bambino chiamava Giuseppe: Abbà, Papà. Il nome gli è affiorato sulle labbra in modo denso e chiaro nel drammatico silenzio della notte lunare dell’Orto degli Ulivi: l’hanno chiaramente udito Pietro, Giacomo e Giovanni. Gesù aveva vissuto un’esperienza di figliolanza così intensa e vera da poterla applicare con uno slancio immediato al suo rapporto di Figlio con il Padre.

E’ il miracolo del linguaggio umano, ma più ancora è il contenuto di ogni esperienza umana vera: proprio perché umana, proprio perché vera, è segno di Dio, rimanda a Lui e in qualche modo già lo manifesta. Comprendiamo perché Gesù dice nel Vangelo: “E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo”. Ogni paternità viene da Dio, ne è un riflesso e un’immagine, costituisce un tentativo di traduzione, un rimando.

E dunque, che cosa perdiamo quando perdiamo il padre, quando la sua figura svanisce nell’equivoco delle deformazioni del ‘genere’ o nei futuribili delle famiglie private dell’identità di padre e madre? Perdiamo la nostra identità di figli, perdiamo l’aggancio con l’origine, la capacità di relazione, la sicurezza del presente, la speranza del futuro. Alla fine, perdiamo Dio e rimaniamo privi della strada che conduce al compimento del nostro destino. Navighiamo smarriti senza protezione, senza appartenenza, senza modello. Non abbiamo più nessuno da guardare, perché non abbiamo mai guardato nessuno oltre noi stessi.

Senza Padre, non abbiamo nemmeno fratelli, e rimaniamo completamente soli. Ecco perché Gesù ha avuto bisogno di sperimentare un padre umano, un uomo giusto, fedele al Dio che gli indicava la strada umanamente impossibile del matrimonio verginale con Maria, totalmente disposto a sostenere e difendere ‘il bambino e sua madre’, un giovane padre robusto, capace di affrontare le fatiche del lavoro e dell’esilio, le pesantezze del viaggio e la fuga da Erode. A un certo momento Giuseppe, padre terreno, sparisce, e lascia tutto lo spazio al Padre celeste. Ma ormai l’esperienza è acquisita, l’uomo Gesù è maturato, può dedicarsi completamente a operare come Dio opera, fino al momento in cui consegna tutto il suo spirito nelle braccia del Padre celeste.

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Letture dal libro di Franco Nembrini, Di Padre in Figlio. Conversazioni sul rischio di educare (prefazione del card. Camillo Ruini, Ares, Milano 2001)

 

IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONESe è vero quel che ho cercato di dire, che i figli vengono al mondo come Dio comanda, vengono al mondo con ciò che è davvero necessario, tutto il problema dell’educazione è spostato su di noi. Il  problema dell’educazione sono gli adulti, non i ragazzi, non i bambini. Il mestiere del bambino è guardare.
Non lo sanno, non lo sanno quando hanno un anno, quando sono nel grembo materno; ma credo che fin dal grembo materno i nostri figli ci guardino, sempre, con la coda dell’occhio.
Ci guardano sempre. Sembra che facciano altro, sembra che giochino fra loro, che facciano i capricci, sembra che mangino, che dormano, che siano all’asilo, che vadano a scuola; ma l’attività vera che fanno è guardare: guardano sempre l’adulto che hanno di fronte, prima il genitore e poi mano a mano le altre figure di adulti che incontrano - cioè la maestra, gli insegnanti - e poi l’ambiente circostante. Allora capite in che senso tutto il problema è spostato su di noi: parlare di educazione è parlare di adulti, non è parlare dei bambini.
Certo, non sono così ingenuo da pensare che non abbia valore la conoscenza di una serie di dinamiche psicologiche, capisco bene che c’è da parlare anche del bambino, del suo percorso; ma l’educazione ha come protagonista, ha come soggetto attivo l’adulto, perché è lì che è puntato lo sguardo del bambino, è lì che è puntato lo sguardo dell’alunno.
Seconda premessa, dunque: la realtà non è mai veramente affermata se non è affermato il suo significato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la responsabilità dell’adulto è rispondere in qualche modo a quella domanda di bene, a quella domanda di senso, di felicità. Cioè vuol dire che l’educazione è una testimonianza; e questo ha alcune conseguenze importanti. Se è così l’educazione non è questione di discorsi, le parole in educazione sono assolutamente secondarie. Noi ci fidiamo molto dei nostri discorsi, delle nostre prediche, delle nostre raccomandazioni, e invece le parole in educazione contano pochissimo; a volte servono - raramente - per descrivere un’esperienza che si fa, ma mai la possono sostituire. L’educazione è la testimonianza di un bene che si vive.

SIAMO TUTTI PADRI PUTATIVIL’educazione comincia quando io accolgo l’altro nel punto in cui si trova. Tutto il segreto dell’educazione, secondo me, sta in questo. Se tu hai il problema di dover cambiare i figli, i figli lo avvertono come una trappola, come una pretesa su di sé, si difendono. Quante volte ho detto: il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione; perché se è un problema per te diventa un problema per i figli. E da un problema, da una pretesa, dal sentire che l’altro gli dice: «Devi essere diverso», da questo il figlio si difende. Se invece il rapporto tra l’educatore e il figlio è: «Io ti amo così come sei, io ti affermo per quello che sei, però sto facendo questa strada, sappi che io sto andando in questa direzione, sto guardando queste cose che rendono felice me, se vuoi vieni», questo lo lascia libero; anzi, lo intriga, lo incuriosisce e magari gli viene voglia di venirti dietro.
Quando tu hai il problema di educare, psicologicamente diventa un problema insopportabile per il figlio. Tu devi avere il problema di educare te stesso e basta, ce n’è d’avanzo.
L’educazione non ha quasi bisogno di parole. O meglio, l’unica parola che ha senso nell’educazione è la risposta a una domanda che si pone, che i figli esplicitamente pongono; mai dare risposte a domande che non si pongono, che i ragazzi non avvertono come urgenti per sé.
Allora, solo la consapevolezza che siamo tutti padri putativi, solo la certezza che l’educazione è un altro nome della misericordia, stabilisce una gratuità, genera quella gratuità per cui la paternità è vera e per cui la maternità è vera. Senza questo punto di partenza la paternità e la maternità sono fonte di equivoci, di ricatti, diventano un luogo dove si riversano frustrazioni e desideri sbagliati. Solo se ci percepiamo come padri putativi, cioè come gente a cui un Altro ha affidato la vita di altri, tanto nella figliolanza naturale come in quella che nasce dall’accoglienza, solo così possiamo sperare di essere padri e madri.

NON È BENE CHE L'UOMO SIA SOLOQuando sto davanti a mio figlio, quando penso alle stelle e al significato del mondo, questo desiderio di verità diventa subito in me, come in ogni uomo, un desiderio di bontà, voglio che la vita sia buona per me e per tutti i miei fratelli uomini.
Siamo fatti di questa volontà di bene, di questo desiderio di bene e ci alziamo ogni mattina e lavoriamo per cercare questo bene, per fare in modo che il tempo non sia inutile! È la speranza con cui ci alziamo ogni mattina, anche quando non ce ne rendiamo conto, il desiderio che il tempo non sia inutile, che la giornata sia buona, che sia utile per costruire cose buone per noi e per i nostri fratelli uomini. Non c’è altra ragione per cui possiamo avere il coraggio di mettere al mondo dei figli se non per questa speranza di bene. Dobbiamo ricordare che la natura del nostro cuore è questo desiderio di conoscere la verità, di amare il bene e costruire cose buone.
Se siamo fatti così, se siamo costituiti da questo desiderio di bene, di bontà, di bellezza, allora ci muoviamo per cercare di vivere così. Ogni azione che l’uomo realizza, il lavoro che fa, sta dentro questo solco. Questa è l’idea di «opera»: sempre l’uomo opera. Gesù ha chiamato Dio «l’eterno lavoratore», e se l’uomo partecipa della natura di Dio lavora sempre. Realizza un’opera anche la mamma che, a casa sua, si occupa umilmente dei suoi figli, e di fronte a Dio e di fronte alla storia ha la stessa dignità di un capitano d’industria. Così l’opera del politico, del prete, del lavoratore o del maestro è esattamente questo. Per questo gli uomini si uniscono: nel momento in cui cominciano un’opera sentono la necessità di essere in compagnia, una compagnia di uomini in azione che rischiano il desiderio del proprio cuore nel paragonarsi con la realtà, nel tentativo di modificarla rendendola migliore, più vicina all’immagine con cui Dio l’ha fatta. 

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Fonte: La Bussola Quotidiana