domenica 29 aprile 2012

Tante pecore, un solo Pastore, qualche lupo e tantissime capre...

Di seguito il Vangelo di oggi, 30 aprile, lunedi della IV settimana di Pasqua, con un commento e due testi spirituali.




Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri,
perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra,
ma il tuo Spirito buono mi indizzi sulla retta via
perché le mie azioni siano secondo la tua volontà
e lo siano veramente fino all'ultimo.

San Giovanni Damasceno



Dal Vangelo secondo Giovanni 10,11-18.

Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».

IL COMMENTO


Apparteniamo a Cristo, e a Lui soltanto. Ma viviamo come ostaggi di mercenari, ed è questa la radice di tante nostre sofferenze. Siamo stati creati in Lui, per questo nel nostro cuore risuona come adeguata, perfettamente rispondente all'aspirazione profonda e autentica, solo la voce di Cristo. Non conosciamo nessun altro, eppure viviamo consegnati a degli estranei. Per questo spesso le relazioni si fanno difficili, non ci ritroviamo, perchè ci diamo alle persone e le afferriamo in relazioni esclusive, che pretendono esaurire i nostri desideri. Ma sperimentiamo che, quando le cose si fanno difficili, nei momenti in cui ci prendono le tensioni e i nervi, quando la stanchezza e le disillusioni ci sottraggono allegria ed entusiasmo, quando siamo a terra, non riconosciamo chi ci è intorno, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la nostra vita e la nostra speranza. 

Spesso anche il marito, l'amico, il confidente si trasformano in mercenari. Spesso noi stessi ci convertiamo in mercenari per gli altri. Rubiamo, ci appropriamo, leghiamo le persone sperando ed esigendo guadagni affettivi, compensi per l'esserci donati. E le relazioni appaiono per quello che purtroppo sono, mercimoni di affetti, mercati dove non esiste gratuità. Il mercenario scappa davanti al lupo, al male, alla sofferenza, ai peccati. Quando il prodotto si rivela diverso da quello pubblicizzato si rispedisce al negozio; quando la moglie, il fidanzato, l'amico si rivelano diversi da quello che avevano lasciato intuire di essere, quando appaiono i lati oscuri del carattere, quando emergono i limiti, le debolezze, i peccati, quelli che proprio non si adeguano alle nostre capacità di accoglienza e accettazione, rifiutamo e scappiamo. Merce avarita venduta da mercenari, questo è, spesso, l'amore. E il lupo, il demonio che muove le fila delle nostre relazioni, rapisce e disperde; è la nostra esperienza quotidiana: quante volte assistiamo al naufragio di un fidanzamento, di un'amicizia, di un matrimonio, inciampati tutti nella debolezza e nei peccati! Ogni giorno sperimentiamo la precarietà dei nostri rapporti, cerchiamo di blindarli con una serie di compromessi, ma alla fine, all'apparire della verità, scopriamo quanto effimeri siano i nostri maldestri tentativi di rabberciare le cose. E tutto si disperde, come si disperde il seme quando usiamo della sessualità chiudendoci alla vita, sia con la masturbazione, sia con i rapporti prematrimoniali, sia con i rapporti matrimoniali ingabbiati nei metodi anticoncezionali; come quando si disperdono le parole, le azioni, i progetti faticosamente legati insieme da un laccio carnale, che è sempre egoistico, il laccio del mercenario.

Il lupo è sempre in agguato, per questo occorre riconoscere a chi apparteniamo, e a chi appartiene chi ci è vicino, le persone che ci sono care. Siamo di Cristo, perchè Lui è l'unico che ci ama sino in fondo, che conoscendo perfettamente tutto di noi ci ama senza riserve, senza esigere nulla, senza aspettarsi cambiamenti, non cerca neppure la nostra gratitudine. E noi apparteniamo a questo amore, per esso siamo nati, per esserne saziati ci siamo svegliati oggi. In fondo, a noi non importa di nessuno. Quando le cose si mettono davvero male, quando appare l'assoluta incompatibilità, abbandoniamo anche colui per il quale abbiamo fatto di tutto, persino follie mascherate d'amore. Cristo no. Lui ama e non abbandona mai. Lui ci conosce e non si scandalizza, mai. Lui offre la sua vita per noi, esattamente così come siamo.

Solo riconoscendo la sua voce, sperimentando la nostra appartenenza a Lui possiamo conoscere l'amore autentico, e con esso la libertà e la gioia. Appartenendo a Lui possiamo appartenere alla moglie, al marito, ai figli, al fidanzato, all'amico. Ogni appartenenza umana è inscritta in un'appartenenza più grande, che non si esaurisce, che non scappa e sfilaccia di fronte alla prova. Perchè anche le persone più intime prima di appartenerci appartengono a Cristo, ed ogni rapporto vive solo in questa comune appartenenza a Cristo. Dimenticare questo è trasformarsi in mercenari, non si scappa.

In Cristo possiamo però svestire i panni del mercenario, che sviliscono e deturpano la nostra vita, distruggendo ogni relazione. In Cristo possiamo imparare a donarci senza riserve, ad amare davvero. In Lui possiamo essere deboli, incapaci, peccatori, e non vedere le speranze infrante, le amicizie dissolversi, i matrimoni spezzarsi. In Lui impariamo la pazienza, a non esigere nulla da nessuno, a non esaltare ed assolutizzare nessuna relazione. In Cristo possiamo ritrovare e riconoscere sempre l'altro, anche quando la ragione, il sentimento, e l'esperienza ci spingono a chiuderci e a lasciar perdere. Perchè nell'altro vive Cristo, perchè l'altro è sua proprietà acquistata con il suo sangue, per Lui è santo, da Lui è amato, e nulla si può disprezzare. Perchè l'altro è un dono da Lui ricevuto, non un oggetto che abbiamo comprato con i nostri sforzi e le nostre astuzie, e non abbiamo alcun diritto e alcun credito. Nel Signore possiamo rialzarci e ricominciare sempre, perchè Lui ha offerto la sua vita, è morto per amore, ma è risorto, ha ripreso la sua vita e ce la dona gratuitamente. In Lui possiamo amare perchè possiamo donare la nostra vita, senza posa, senza timore di perdere irrimediabilmente l'altro, liberi e autentici. In Cristo abbiamo il potere di donare tutto perchè tutto è già, per l'eternità, nel forziere del Cielo, il cuore misericordioso di Dio.


San Giovanni Damasceno (circa 675-749), monaco, teologo, dottore della Chiesa Dalla « Dichiarazione di fede », cap. I (trad. dal breviario)



Preghiera di un pastore al Buon Pastore

O Cristo mio Dio, tu hai umiliato te stesso per prendere sulle tue spalle me, pecorella smarrita (Lc 15,5), e farmi pascolare in pascolo verdeggiante e nutrirmi con le acque della retta dottrina (Sal 22,2) per mezzo dei tuoi pastori, i quali, nutriti da te, han poi potuto pascere il tuo gregge... Ora, Signore, tu mi hai chiamato... a servire i tuoi discepoli. No so con quale disegno tu abbia fatto questo; tu solo lo sai. Tuttavia, Signore, alleggerisci il pesante fardello dei miei peccati, con i quali ho gravemente mancato; monda la mia mente e il mio cuore; guidami per la retta via (Sal 22,3) come una lampada luminosa; dammi una parola franca quando apro la bocca; donami una lingua chiara e spedita per mezzo della lingua di fuoco del tuo Spirito(At 2,3) e la tua presenza sempre mi assista. Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri, perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra, ma il tuo Spirito buono mi indizzi sulla retta via perché le mie azioni siano secondo la tua volontà e lo siano veramente fino all'ultimo.


Benedetto XVI. Io sono il Buon Pastore
Omelia del 29 aprile 2012


Il brano evangelico è quello centrale del capitolo 10 di Giovanni e inizia proprio con l’affermazione di Gesù: «Io sono il buon pastore», a cui subito segue la prima caratteristica fondamentale: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Ecco: qui noi siamo immediatamente condotti al centro, al culmine della rivelazione di Dio come pastore del suo popolo; questo centro e culmine è Gesù, precisamente Gesù che muore sulla croce e risorge dal sepolcro il terzo giorno, risorge con tutta la sua umanità, e in questo modo coinvolge noi, ogni uomo, nel suo passaggio dalla morte alla vita. Questo avvenimento – la Pasqua di Cristo – in cui si realizza pienamente e definitivamente l’opera pastorale di Dio, è un avvenimento sacrificale: perciò il Buon Pastore e il Sommo Sacerdote coincidono nella persona di Gesù che ha dato la vita per noi.... «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Gesù insiste su questa caratteristica essenziale del vero pastore che è Lui stesso: quella del «dare la propria vita». Lo ripete tre volte, e alla fine conclude dicendo: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18). E’ questo chiaramente il tratto qualificante del pastore così come Gesù lo interpreta in prima persona, secondo la volontà del Padre che lo ha mandato. La figura biblica del re-pastore, che comprende principalmente il compito di reggere il popolo di Dio, di tenerlo unito e guidarlo, tutta questa funzione regale si realizza pienamente in Gesù Cristo nella dimensione sacrificale, nell’offerta della vita. Si realizza, in una parola, nel mistero della Croce, cioè nel supremo atto di umiltà e di amore oblativo. Dice l’abate Teodoro Studita: «Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore» (Discorso sull’adorazione della croce: PG 99, 699).

In questa prospettiva orientano le formule del Rito dell’Ordinazione dei Presbiteri, che stiamo celebrando. Ad esempio, tra le domande che riguardano gli «impegni degli eletti», l’ultima, che ha un carattere culminante e in qualche modo sintetico, dice così: «Volete essere sempre più strettamente uniti a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando voi stessi a Dio insieme con lui per la salvezza di tutti gli uomini?». Il sacerdote è infatti colui che viene inserito in un modo singolare nel mistero del Sacrificio di Cristo, con una unione personale a Lui, per prolungare la sua missione salvifica. Questa unione, che avviene grazie al Sacramento dell’Ordine, chiede di diventare “sempre più stretta” per la generosa corrispondenza del sacerdote stesso. Per questo, cari Ordinandi, tra poco voi risponderete a questa domanda dicendo: «Sì, con l’aiuto di Dio, lo voglio». Successivamente, nei Riti esplicativi, al momento dell’unzione crismale, il celebrante dice: «Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio». E poi, alla consegna del pane e del vino: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Risalta con forza che, per il sacerdote, celebrare ogni giorno la Santa Messa non significa svolgere una funzione rituale, ma compiere una missione che coinvolge interamente e profondamente l’esistenza, in comunione con Cristo risorto che, nella sua Chiesa, continua ad attuare il Sacrificio redentore.

Questa dimensione eucaristica-sacrificale è inseparabile da quella pastorale e ne costituisce il nucleo di verità e di forza salvifica, da cui dipende l’efficacia di ogni attività. Naturalmente non parliamo della efficacia soltanto sul piano psicologico o sociale, ma della fecondità vitale della presenza di Dio al livello umano profondo. La stessa predicazione, le opere, i gesti di vario genere che la Chiesa compie con le sue molteplici iniziative, perderebbero la loro fecondità salvifica se venisse meno la celebrazione del Sacrificio di Cristo. E questa è affidata ai sacerdoti ordinati. In effetti, il presbitero è chiamato a vivere in se stesso ciò che ha sperimentato Gesù in prima persona, cioè a darsi pienamente alla predicazione e alla guarigione dell’uomo da ogni male del corpo e dello spirito, e poi, alla fine, riassumere tutto nel gesto supremo del «dare la vita» per gli uomini, gesto che trova la sua espressione sacramentale nell’Eucaristia, memoriale perpetuo della Pasqua di Gesù. E’ solo attraverso questa «porta» del Sacrificio pasquale che gli uomini e le donne di tutti i tempi e luoghi possono entrare nella vita eterna; è attraverso questa «via santa» che possono compiere l’esodo che li conduce alla «terra promessa» della vera libertà, ai «pascoli erbosi» della pace e della gioia senza fine (cfr Gv 10,7.9; Sal 77,14.20-21; Sal 23,2).

Senza Domenica non possiamo.




Riporto da "La Stampa" di oggi, 29 aprile 2012
a firma di Enzo Bianchi
Le recenti polemiche sull’apertura di negozi e centri commerciali alla domenica e nelle festività civili come il 25 aprile o il 1° maggio ci porta a riflettere su una delle grandi conquiste registratesi in occidente, grazie soprattutto all’ebraismo e al cristianesimo: l’affermazione di un giorno settimanale – il sabato per gli ebrei, il giorno dopo, la domenica, per i cristiani – come giorno di riposo per tutti, tempo di festa condivisa e anche di assemblea per i credenti, che insieme confessano la loro fede e celebrano il culto al Signore nel quale mettono la loro speranza. Un giorno di tregua al neg-otium, al tempo che “nega l’ozio”, per dedicarsi appunto all’ otium che non è il “far niente” della pigrizia, ma una presa di distanza dalla propria opera, un antidoto all’alienazione possibile anche nel lavoro.    
Per secoli la domenica, nei paesi segnati dalla cristianità, era quasi per tutti il giorno dell’astensione dal lavoro, giorno di festa in cui era possibile incontrarsi, rinnovare e approfondire le relazioni, permettersi un po’ di svago e di divertimento. Sappiamo bene come, soprattutto nella cultura contadina ma anche in quella di tanti quartieri cittadini, fino a pochi decenni or sono la domenica era la domenica, un giorno diverso atteso da tutti. Da parecchi anni invece – oltre al moltiplicarsi di attività che richiedono la presenza al lavoro di quanti si dedicano a mansioni che permettono la vita sociale e fronteggiano le emergenze (trasporti, spettacoli, giornali, ospedali e presidi medici, servizi sociali...) – è emersa sempre più la tendenza a lavorare anche di domenica, dapprima per non diminuire la produttività degli impianti e, ultimamente, per garantire l’apertura generalizzata di negozi e grandi magazzini.   
  
Sentiamo ripetere con enfasi le ragioni economiche di tali scelte: occorre dinamizzare l’economia, incentivare i consumi, ottimizzare l’utilizzo delle strutture... Né possiamo ignorare che nell’economia odierna si sono instaurate condizioni di lavoro diverse, che richiedono risparmio del tempo necessario alla produzione, orari flessibili, differenziati e intermittenti... Così il lavoro non è più sentito come uno dei valori fondanti nella vita di un individuo o della società – ricordate la “repubblica fondata sul lavoro” della nostra Costituzione? – e quindi può e deve sottostare alla mobilità, alla precarietà, inducendo nuovi assetti della vita umana e innescando nuovi comportamenti antropologici. Infatti, se il lavoro è precario, perché non dovrebbe essere precaria anche la forma, lo stile di vita di una persona? Perché non dovrebbero essere precarie le storie d’amore e le convivenze, incapaci perciò di assumere il volto della famiglia? Esito di questa tendenza è una società liquida, frammentaria, in cui è difficile instaurare relazioni e coltivarle con legami duraturi.    
I centri commerciali dovrebbero essere i nuovi spazi sociali, grazie ai servizi che offrono, ma quanto sperimentiamo ogni giorno contraddice questa attesa: essi sono piuttosto non-luoghi in cui animazione, ristorazione, divertimento sono supporto del consumo individuale, in una vertigine della smania di consumare che nutre diverse derive. Così il denaro e il lusso appaiono come uniche e vere condizioni di felicità, il divertissement l’unico antidoto allo stress e alla fatica, mentre invidia e rancore crescono di fronte all’ostentazione di chi ha di più.     
Avere un giorno di festa condiviso non risponde solo al bisogno di riposo (tra l’altro funzionale alla stessa produttività del lavoratore...), ma alla necessità umana di riconoscere e sottolineare motivi comuni per fare festa insieme: ricorrenze religiose, certo, ma anche festività civili, memorie di eventi che hanno segnato la storia di una società. Se viene a mancare il giorno di festa per tutti, la stessa coesione civile ne è intaccata, le leggi commerciali diventano più forti delle dimensioni conviviali e relazionali, delle famiglie, delle amicizie, delle esigenze spirituali non solo dei credenti, ma di quanti pensano e cercano vie di umanizzazione: la società è sempre più atomizzata. Certo, ognuno può scegliere di non partecipare al “negozio domenicale”, ma se manca un elemento oggettivo, inscritto nel tempo come la domenica, allora la dimensione sociale della vita di ciascuno è in balia dell’instabilità delle motivazioni private.      Anche le tante iniziative che ancora ci ricordano come l’uomo non abbia perso il senso della festa – “notti bianche”, eventi spettacolari, raduni musicali, festival culturali, manifestazioni sportive... – necessitano di un ritmo comunitario del tempo libero.    

  Il tempo libero, infatti, è la pausa che permette di respirare, ma anche di realizzarsi, di salvare la propria vita, trovando un senso e un fine al proprio vivere. Se non c’è un giorno in cui “insieme” tralasciamo il lavoro, gli obblighi che ci competono come membri della società, e quindi non abbiamo più tempo per quello che decidiamo noi, “tempo libero” o, meglio, tempo per sperimentare la libertà, come possiamo consolidare i nostri cammini di umanizzazione? Costruire se stessi, aver cura di se stessi e di quanti ci sono cari, vivere la propria storia d’amore facendo cose insieme, vedendo cose insieme, scrutando insieme orizzonti nuovi e antichi è assolutamente necessario: ne va della qualità della vita. E se non ci fosse questo simultaneo prendere le distanze dal lavoro e dedicarsi ai legami, come si potrebbe combattere l’isolamento, l’abbandono, la solitudine disperata delle persone più fragili, a cominciare dai vecchi e dai malati? Pensiamo forse che gli intrattenimenti massmediatici e virtuali possano sostituire le relazioni personali e proteggerle dall’impoverimento umano?   
Davvero la festività condivisa è strumento per l’umanizzazione di ciascuno, credente o no. E qui i cristiani dovrebbero farsi capire meglio: la difesa del giorno della domenica non è motivata solo dal fatto che questo è il giorno della loro assemblea e della celebrazione della loro fede, ma anche dal servizio che può rendere a ogni essere umano. I cristiani potrebbero trovare sostegno e convergenza in quanti combattono idolatrie e alienazioni, indipendentemente dalla fede professata. È in gioco, infatti, l’uomo, la cultura, la qualità della convivenza. Se i cristiani ripetono le parole degli antichi martiri: “Senza domenica non possiamo vivere!”, assieme agli altri uomini possono affermare: “senza riposo e senza un giorno di festa per tutti non possiamo vivere!”.

40 anni di "Rinnovamento"...





 La seconda giornata della Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito è stata aperta dall’arrivo del reliquiario di Giovanni Paolo II. Sulle note di Jesus Christ, You Are My Life, inno del Grande Giubileo del 2000, è stata portata sul palco principale l’ampolla contenente il sangue del beato papa polacco.
“Tra noi, un grande privilegio – ha commentato il presidente nazionale del RnS, Salvatore Martinez – entra un bene preziosissimo della Chiesa. Chiediamo allo Spirito Santo di aiutarci a “mentalizzare”, a comprendere, la larghezza, la lunghezza, la profondità di questo amore che Giovanni Paolo II ha riversato in ogni angolo della terra”.
Anche la preghiera comunitaria carismatica di oggi è stata nel segno di papa Wojtyla. È stata infatti eseguita l’invocazione allo Spirito Santo, composta da Giovanni Paolo II in occasione dell’Incontro con i Movimenti Ecclesiali e le Nuove Comunità, avvenuto in piazza San Pietro nella Pentecoste del 1998.

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 Una vera e propria mostra multimediale, con cimeli di tutti i tipi: dalla prima chitarra di Salvatore Martinez alle Bibbie di padre Matteo La Grua. E poi filmati e ritagli dalla stampa specializzata, brochure di vecchie Convocazioni, messaggi speciali dei papi. Persino la prima sedia del primo raduno a Rimini.
L’esposizione Tempo di Rinnovamento ripercorre a ritroso i quattro decenni di attività del Rinnovamento nello Spirito in Italia, attraverso quattro padiglioni, che ne sintetizzano altrettante epoche fondamentali: 1972-1987; 1988-1995; 1996-2004; 2005-oggi.
La mostra, visitabile in questi giorni presso i padiglioni della Fiera di Rimini, che ospitano la 35° Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito, diventerà itinerante dopo la conclusione dell’evento, per toccare tutti i centri italiani del movimento.
Curata dal giornalista Salvatore Mazza, la mostra sul quarantennale del RnS in Italia gode dell’ideazione tecnica di Antonio Cristaldi e degli allestimenti tecnici di Filippo Oriolo ed è stata realizzata con la collaborazione, tra gli altri, di Bruna Pernice, Luciana Lorandi, Olimpia Cimeli, Rosanna e Dario Sacchini, Antonella Spaltro e Martina D’Onofrio e Franco Santise.
“Questa mostra – ha spiegato Salvatore Mazza - può essere un ottimo strumento a futura memoria, per illustrare quanto ha fatto di buono il Rinnovamento nello Spirito in questi quarant’anni, fino a diventare una delle più importanti e diffuse realtà cattoliche italiane”.
Tempo di Rinnovamento – ha aggiunto il curatore della mostra – è un progetto molto essenziale ed efficace: didascalie brevi ma incisive, adattabile anche a spazi ridotti. Il mio auspicio è che possa raggiungere ogni località italiana, in tutti i contesti idonei”.
Il titolo Tempo di Rinnovamento, ha spiegato ieri all’inaugurazione della mostra, il presidente nazionale di RnS, Salvatore Martinez, “si riferisce non solo al fatto che questo è tempo di rinnovamento della società, della Chiesa (come ha gridato ai giovani Benedetto XVI, Sydney 2008), ma anche perché questa Mostra si rappresenta in quattro periodi storici segnati da alcuni spartiacque”.
Tra gli oggetti esposti: ritagli e copertine dalle riviste Alleluia e Rinnovamento nello Spirito, stole, casule e paramenti liturgici appartenuti ai vari sacerdoti, a vario titolo vicini al movimento – don Dino Foglio, padre Mario Pancera, padre Tommaso Beck, padre Salvatore Cultrera - locandine di raduni e, naturalmente tantissime fotografie.
Significativo è lo spazio audiovisivo e fotografico dedicato alle udienze che i pontefici hanno concesso ai membri di RnS nel corso di questi quarant’anni: Paolo VI (1975); Giovanni Paolo II (1980, 1986, 1991, 1998, 2002); Benedetto XVI (2006, 2007).
Emblematicamente l’ultimo padiglione si chiude con la gigantografia del papa regnante il cui fumetto dice: “Vi aspetto il 26 maggio”, giorno dell’udienza in cui il Santo Padre riceverà i membri di RnS.

Un "tecnico" diventa Beato



“La vocazione alla santità” è il “traguardo di ogni altra vocazione nella Chiesa, dono della carità di Dio”. E dono dell'amore di Dio all'Italia è stato “Giuseppe Toniolo”. Lo ha detto nell’omelia il card. Salvatore De Giorgi, rappresentante del Santo Padre nella beatificazione di Toniolo, avvenuta stamattina nella basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Dopo la proclamazione del nuovo beato Francesco Bortolini, il ragazzo che ha ricevuto la guarigione per intercessione di Toniolo, ha deposto le reliquie di Toniolo accanto all’altare. 

Vocazione alla santità. Toniolo, ha sottolineato il porporato, era convinto che “tutti indistintamente siamo chiamati alla santità” e che “i laici si santificano nel mondo”, attraverso “l'esercizio del loro compito proprio”. Secondo il nuovo beato, “chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi”. Da qui la sua ferma decisione: “Voglio farmi santo”. E, ha ricordato il cardinale, “si dette un regolamento di vita spirituale e professionale, valorizzando i mezzi sempre attuali dell'ascetica cristiana”, diventando “un vero contemplativo dell'azione”. In realtà, “il radicarsi in Dio fu l'anima del suo impegno cristiano nella famiglia, sulla cattedra e nella società”. Innanzitutto, “considerò la famiglia il luogo primario della sua santificazione e della sua missione”, offrendo “un'affascinante testimonianza della dignità e della bellezza della famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile e fedele di un uomo con una donna per una comunione di vita e di amore secondo il disegno di Dio, che non si può stravolgere senza sconvolgere la vita stessa della società”. 

Per il bene del Paese. “Insigne professore universitario, sulle cattedre di Padova, di Modena e di Pisa, seppe essere - ha precisato il card. De Giorgi - non solo il maestro qualificato dei giovani studenti, ma soprattutto il loro amico ed educatore nella ricerca della verità”. Infatti, “avvertiva già allora l'emergenza educativa per il clima universitario indifferente o ostile alle fondamentali istanze religiose e morali, come anche l'urgenza di una solida formazione culturale cristiana che preparasse le nuove generazioni ad affrontare le sfide del futuro”. E sulla promozione della cultura impegnò “i doni di una intelligenza non comune e di una lungimiranza quasi profetica, soprattutto circa la necessità, per il bene nel nostro Paese, di una presenza dei cattolici, nel sociale e nel politico, limpida, coerente, coraggiosa e unitaria, fondata sull'inscindibile rapporto tra fede e ragione, tra scienza e fede”. 

Fedele ai Papi. “Convinto che la comunione, segreto della credibilità e dell'efficacia dell'apostolato, si costruisce con l'obbedienza, fu sempre fedele ai quattro Papi del suo tempo: li guardava con occhi di fede e li difendeva con amore di figlio”, ha precisato il porporato, che ha poi ricordato l’impegno di Toniolo per il Movimento Cattolico, la Società della Gioventù Cattolica, primo nucleo dell'Azione cattolica italiana, la Fuci, l'Opera dei congressi, l'Unione cattolica per gli studi sociali, l'Unione popolare, le Settimane Sociali e l'Università del Sacro Cuore. Toniolo, pertanto, “si presenta a noi, come un italiano che ha amato e servito la Chiesa e l'Italia, da cristiano e cittadino esemplare: è questa la vera laicità. Si presenta a noi come uno di quei ‘cristiani con le braccia alzate verso Dio’, dei quali ha bisogno lo sviluppo integrale dell'uomo e della società, come il Papa ha auspicato nella enciclica Caritas in Veritate”, nella quale “hanno trovato conferma e sviluppo non poche intuizioni innovative del beato, come la centralità della persona nel mondo del lavoro, l'insopprimibile fondamento etico dell'economia, la rilevanza antropologica della questione sociale, l'importanza del Vangelo nella costruzione della società, le istanze della giustizia distributiva, l’impegno per la pace”. Alla vigilia dell'Anno della fede, “è certamente uno dei testimoni che il Santo Padre ha indicato come coloro che ‘per fede, nel corso dei secoli, hanno confessato la bellezza di seguire il Signore Gesù là dove venivano chiamati a dare testimonianza del loro essere cristiani: nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica’”. 

Testimonianza coerente. Con “l'entusiasmo” di una “fede mai stanca”, con “l'intenso rapporto con Gesù Risorto”, con “la splendida testimonianza della vita interiore incarnata nella storia”, con “l'amore sincero alla Chiesa”, con “il prestigio morale della condotta privata e pubblica trasparente e irreprensibile”, con “l'indomito coraggio di essere e di dirsi cristiano in un contesto di aggressivo laicismo”, il nuovo beato “ci esorta a riscoprire il fascino di appartenere al gregge del Buon Pastore, l'ansia di conoscerlo ascoltando la sua parola garantita dal Magistero da lui voluto, la gioia di rimanere in lui con la grazia dei sacramenti, la felicità di amarlo osservando i suoi comandamenti, garanzie sicure del vivere sociale”. “Ci esorta – ha concluso il card. De Giorgi - in particolare a impegnarci con entusiasmo nella nuova evangelizzazione”.




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Il giovane miracolato tra i partecipanti al rito della beatificazione


“In famiglia abbiamo sempre respirato i valori del cristianesimo sociale”: Gianni Toniolo, economista alla Luiss (Roma) e alla Duke University (North Carolina), ricorda per Sir il prozio Giuseppe Toniolo, beatificato oggi nel corso della celebrazione eucaristica nella Basilica di San Paolo fuori le mura a Roma. “Un segnale forte di questa beatificazione – afferma – credo sia riconducibile all’idea tonioliana della necessità dell’etica anche nella vita economica”. Produzione di beni e servizi, commerci, ricchezze “non sono un fine, ma un mezzo per elevare l’umanità; in questa chiave Giuseppe Toniolo studiava e insegnava le materie economiche”. “A maggior ragione oggi, in piena crisi, siamo rimandati anche ai principi dell’eguaglianza e della equa distribuzione del reddito” con “una visione universale della giustizia sociale”.
Emozionato Francesco Bortolini il giovane “miracolato” per intercessione di Toniolo. Caduto accidentalmente alcuni anni or sono da una recinzione e rimasto gravemente ferito, tornerà in salute dopo una lunga veglia di preghiera elevata al Servo di Dio dalla comunità parrocchiale di S. Maria Assunta di Pieve di Soligo, paese in cui è sepolto Giuseppe Toniolo. “Lo sento molto vicino – confida al Sir – e se sono qui oggi è grazie al suo intervento. Lo ringrazio ogni giorno. In questa giornata provo un’emozione indescrivibile e una gioia incontenibile”.
La messa, celebrata dal cardinale Salvatore De Giorgi assieme ad altri dieci cardinali e 25 vescovi, ha visto la presenza di oltre cinquemila persone – la gran parte delle quali soci di Ac provenienti da tutta Italia, guidati dal presidente nazionale Franco Miano e dall’assistente ecclesiastico mons. Domenico Sigalini - che hanno gremito la Basilica papale. 
Presenti anche le autorità politiche, esponenti del mondo dell’economia, delle imprese e dell’università, della cultura e dello sport, e i rappresentanti di numerose associazioni laicali. “L’attualità di Toniolo si può misurare in diversi campi – afferma Giancarlo Abete, imprenditore, presidente della Federazione italiana gioco calcio -, ma credo che anzitutto vada sottolineato il suo impegno di laico cristiano al servizio della società e della Chiesa”. Toniolo “è stato anche un fedele e originale interprete della Dottrina sociale della Chiesa e ha affrontato temi validi per l’oggi, come la solidarietà e l’integrazione fra i popoli a livello internazionale”.

"Sì, con l'aiuto di Dio lo voglio".



Alle ore 9.00 di oggi - IV Domenica di Pasqua - nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto la Santa Messa nel corso della quale ha conferito l’Ordinazione presbiterale a 9 diaconi provenienti dai seminari diocesani romani. Otto diventano sacerdoti per la diocesi di Roma, uno, formatosi nell’Almo Collegio Capranica, è ordinato per la diocesi di Bui Chu (Viêt Nam).
Concelebranti con il Papa: l’Em.mo Card. Agostino Vallini, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, S.E. Mons. Filippo Iannone, Vicegerente, i Vescovi Ausiliari, i Superiori dei Seminari interessati (Pontifico Seminario Romano Maggiore, Almo Collegio Capranica e Collegio Diocesano Redemptoris Mater) e i Parroci degli Ordinandi.
Nel corso della Liturgia dell’Ordinazione, il Santo Padre ha pronuncia la seguente omelia:

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Venerati Fratelli, 
cari Ordinandi, 
cari fratelli e sorelle! 


La tradizione romana di celebrare le Ordinazioni sacerdotali in questa IV Domenica di Pasqua, la domenica «del Buon Pastore», contiene una grande ricchezza di significato, legata alla convergenza tra la Parola di Dio, il Rito liturgico e il Tempo pasquale in cui si colloca.
In particolare, la figura del pastore, così rilevante nella Sacra Scrittura e naturalmente molto importante per la definizione del sacerdote, acquista la sua piena verità e chiarezza sul volto di Cristo, nella luce del Mistero della sua morte e risurrezione. Da questa ricchezza anche voi, cari Ordinandi, potrete sempre attingere, ogni giorno della vostra vita, e così il vostro sacerdozio sarà continuamente rinnovato.


Quest’anno il brano evangelico è quello centrale del capitolo 10 di Giovanni e inizia proprio con l’affermazione di Gesù: «Io sono il buon pastore», a cui subito segue la prima caratteristica fondamentale: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11)


Ecco: qui noi siamo immediatamente condotti al centro, al culmine della rivelazione di Dio come pastore del suo popolo; questo centro e culmine è Gesù, precisamente Gesù che muore sulla croce e risorge dal sepolcro il terzo giorno, risorge con tutta la sua umanità, e in questo modo coinvolge noi, ogni uomo, nel suo passaggio dalla morte alla vita. Questo avvenimento – la Pasqua di Cristo – in cui si realizza pienamente e definitivamente l’opera pastorale di Dio, è un avvenimento sacrificale: perciò il Buon Pastore e il Sommo Sacerdote coincidono nella persona di Gesù che ha dato la vita per noi.


Ma osserviamo brevemente anche le prime due Letture e il Salmo responsoriale (Sal 118). Il brano degli Atti degli Apostoli (4,8-12) ci presenta la testimonianza di san Pietro davanti ai capi del popolo e agli anziani di Gerusalemme, dopo la prodigiosa guarigione dello storpio. Pietro afferma con grande franchezza che «Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, (costruttori), ma  che è diventata la pietra d’angolo»; e aggiunge: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (vv. 11-12). L’Apostolo interpreta poi alla luce del mistero pasquale di Cristo il Salmo 118, in cui l’orante rende grazie a Dio che ha risposto al suo grido d’aiuto e lo ha tratto in salvo. Dice questo Salmo: «La pietra scartata dai costruttori / è divenuta la pietra d’angolo. / Questo è stato fatto dal Signore: / una meraviglia ai nostri occhi» (Sal 118,22-23). Gesù ha vissuto proprio questa esperienza: di essere scartato dai capi del suo popolo e riabilitato da Dio, posto a fondamento di un nuovo tempio, di un nuovo popolo che darà lode al Signore con frutti di giustizia (cfr Mt 21,42-43). Dunque, la prima Lettura e il Salmo responsoriale, che è lo stesso Salmo 118, richiamano fortemente il contesto pasquale, e con questa immagine della pietra scartata e ristabilita attirano il nostro sguardo su Gesù morto e risorto.


La seconda Lettura, tratta dalla Prima Lettera di Giovanni (3,1-2), ci parla invece del frutto della Pasqua di Cristo: il nostro essere diventati figli di Dio. Nelle parole di Giovanni si sente ancora tutto lo stupore per questo dono: non soltanto siamo chiamati figli di Dio, ma «lo siamo realmente» (v. 1). In effetti, la condizione filiale dell’uomo è il frutto dell’opera salvifica di Gesù: con la sua incarnazione, con la sua morte e risurrezione e con il dono dello Spirito Santo Egli ha inserito l’uomo dentro una relazione nuova con Dio, la sua stessa relazione con il Padre. Per questo Gesù risorto dice: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). E’ una relazione già pienamente reale, ma che non è ancora pienamente manifestata: lo sarà alla fine, quando – se Dio vorrà – potremo vedere il suo volto senza veli (cfr v. 2). Cari Ordinandi, è là che ci vuole condurre il Buon Pastore! E’ là che il sacerdote è chiamato a condurre i fedeli a lui affidati: alla vita vera, la vita «in abbondanza» (Gv 10,10). Torniamo dunque al Vangelo, e alla parabola del pastore. «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Gesù insiste su questa caratteristica essenziale del vero pastore che è Lui stesso: quella del «dare la propria vita». Lo ripete tre volte, e alla fine conclude dicendo: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18). E’ questo chiaramente il tratto qualificante del pastore così come Gesù lo interpreta in prima persona, secondo la volontà del Padre che lo ha mandato. La figura biblica del re-pastore, che comprende principalmente il compito di reggere il popolo di Dio, di tenerlo unito e guidarlo, tutta questa funzione regale si realizza pienamente in Gesù Cristo nella dimensione sacrificale, nell’offerta della vita. Si realizza, in una parola, nel mistero della Croce, cioè nel supremo atto di umiltà e di amore oblativo. Dice l’abate Teodoro Studita: «Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore» (Discorso sull’adorazione della croce: PG 99, 699).


In questa prospettiva orientano le formule del Rito dell’Ordinazione dei Presbiteri, che stiamo celebrando. Ad esempio, tra le domande che riguardano gli «impegni degli eletti», l’ultima, che ha un carattere culminante e in qualche modo sintetico, dice così: «Volete essere sempre più strettamente uniti a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando voi stessi a Dio insieme con lui per la salvezza di tutti gli uomini?». 


Il sacerdote è infatti colui che viene inserito in un modo singolare nel mistero del Sacrificio di Cristo, con una unione personale a Lui, per prolungare la sua missione salvifica. Questa unione, che avviene grazie al Sacramento dell’Ordine, chiede di diventare “sempre più stretta” per la generosa corrispondenza del sacerdote stesso. Per questo, cari Ordinandi, tra poco voi risponderete a questa domanda dicendo: «Sì, con l’aiuto di Dio, lo voglio». Successivamente, nei Riti esplicativi, al momento dell’unzione crismale, il celebrante dice: «Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio». 


E poi, alla consegna del pane e del vino: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Risalta con forza che, per il sacerdote, celebrare ogni giorno la Santa Messa non significa svolgere una funzione rituale, ma compiere una missione che coinvolge interamente e profondamente l’esistenza, in comunione con Cristo risorto che, nella sua Chiesa, continua ad attuare il Sacrificio redentore. Questa dimensione eucaristica-sacrificale è inseparabile da quella pastorale e ne costituisce il nucleo di verità e di forza salvifica, da cui dipende l’efficacia di ogni attività. Naturalmente non parliamo della efficacia soltanto sul piano psicologico o sociale, ma della fecondità vitale della presenza di Dio al livello umano profondo. 


La stessa predicazione, le opere, i gesti di vario genere che la Chiesa compie con le sue molteplici iniziative, perderebbero la loro fecondità salvifica se venisse meno la celebrazione del Sacrificio di Cristo. E questa è affidata ai sacerdoti ordinati. In effetti, il presbitero è chiamato a vivere in se stesso ciò che ha sperimentato Gesù in prima persona, cioè a darsi pienamente alla predicazione e alla guarigione dell’uomo da ogni male del corpo e dello spirito, e poi, alla fine, riassumere tutto nel gesto supremo del «dare la vita» per gli uomini, gesto che trova la sua espressione sacramentale nell’Eucaristia, memoriale perpetuo della Pasqua di Gesù. E’ solo attraverso questa «porta» del Sacrificio pasquale che gli uomini e le donne di tutti i tempi e luoghi possono entrare nella vita eterna; è attraverso questa «via santa» che possono compiere l’esodo che li conduce alla «terra promessa» della vera libertà, ai «pascoli erbosi» della pace e della gioia senza fine (cfr Gv 10,7.9; Sal 77,14.20-21; Sal 23,2).


Cari Ordinandi, questa Parola di Dio illumini tutta la vostra vita. E quando il peso della croce si farà più pesante, sappiate che quella è l’ora più preziosa, per voi e per le persone a voi affidate: rinnovando con fede e con amore il vostro «sì, con l’aiuto di Dio lo voglio», voi coopererete con Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore, a pascere le sue pecorelle – magari quella sola che si era smarrita, ma per la quale si fa grande festa in Cielo! La Vergine Maria, Salus Populi Romani, vegli sempre su ciascuno di voi e sul vostro cammino.
Amen.

* * *

 Di seguito il testo della preghiera mariana del "Regina Coeli" che il Papa ha pronunciato qualche minuto fa.


Cari fratelli e sorelle! - Si è da poco conclusa, nella Basilica di San Pietro, la celebrazione eucaristica nella quale ho ordinato nove nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. Rendiamo grazie a Dio per questo dono, segno del suo amore fedele e provvidente per la Chiesa! Stringiamoci spiritualmente intorno a questi sacerdoti novelli e preghiamo perché accolgano pienamente la grazia del Sacramento che li ha conformati a Gesù Cristo, Sacerdote e Pastore.
E preghiamo perché tutti i giovani siano attenti alla voce di Dio che interiormente parla al loro cuore e li chiama a distaccarsi da tutto per servire Lui. A questo scopo è dedicata l’odierna Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. In effetti, il Signore chiama sempre, ma tante volte noi non ascoltiamo. Siamo distratti da molte cose, da altre voci più superficiali; e poi abbiamo paura di ascoltare la voce del Signore, perché pensiamo che possa toglierci la nostra libertà. In realtà, ognuno di noi è frutto dell’amore: certamente, l’amore dei genitori, ma, più profondamente, l’amore di Dio. Dice la Bibbia: se anche tua madre non ti volesse, io ti voglio, perché ti conosco e ti amo (cfr Is 49,15). Nel momento in cui mi rendo conto di questo, la mia vita cambia: diventa una risposta a questo amore, più grande di ogni altro, e così si realizza pienamente la mia libertà. I giovani che oggi ho consacrato sacerdoti non sono differenti dagli altri giovani, ma sono stati toccati profondamente dalla bellezza dell’amore di Dio, e non hanno potuto fare a meno di rispondere con tutta la loro vita. Come hanno incontrato l’amore di Dio? L’hanno incontrato in Gesù Cristo: nel suo Vangelo, nell’Eucaristia e nella comunità della Chiesa. Nella Chiesa si scopre che la vita di ogni uomo è una storia d’amore. Ce lo mostra chiaramente la Sacra Scrittura, e ce lo conferma la testimonianza dei santi. Esemplare è l’espressione di sant’Agostino, che nelle sue Confessioni si rivolge a Dio dicendo: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Tu eri dentro di me, e io fuori … Eri con me, e io non ero con te … Ma mi hai chiamato, e il tuo grido ha vinto la mia sordità» (X, 27.38). Cari amici, preghiamo per la Chiesa, per ogni comunità locale, perché sia come un giardino irrigato in cui possano germogliare e maturare tutti i semi di vocazione che Dio sparge in abbondanza. Preghiamo perché dappertutto si coltivi questo giardino, nella gioia di sentirsi tutti chiamati, nella varietà dei doni. In particolare, le famiglie siano il primo ambiente in cui si “respira” l’amore di Dio, che dà forza interiore anche in mezzo alle difficoltà e le prove della vita. Chi vive in famiglia l’esperienza dell’amore di Dio, riceve un dono inestimabile, che porta frutto a suo tempo. Ci ottenga tutto questo la Beata Vergine Maria, modello di accoglienza libera e obbediente alla divina chiamata, Madre di ogni vocazione nella Chiesa.

Un frutto del Concilio




RIMINI, domenica, 29 aprile 2012 – Oltre 20mila persone hanno preso parte ieri pomeriggio alla festosa inaugurazione della 35° Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito.
Tra canti, danze e battimani, i membri del movimento si sono radunati presso il padiglione D5 della Fiera di Rimini, per la preghiera comunitaria carismatica che ha aperto l’evento. Molti dei presenti avevano indosso la maglietta ufficiale dell’evento, recante impressi tutti i numeri dal 1972 al 2012, ovvero i 40 anni del Movimento in Italia.
Al suono di tromba è stato proclamato il motto della Convocazione di quest’anno: «Con Maria, Madre del Rinnovamento, nello Spirito gridiamo: “Gesù è il Signore! Alleluia!”». Questo annuncio, “non è slogan, né un tema malinconico del passato, ma un voler tornare all’essenzialità dell’essere sotto l’azione dello Spirito Santo”, ha commentato il coordinatore nazionale di RnS, Mario Landi, durante la sua relazione introduttiva.
Non si tratta, ha proseguito Landi, di un “fatto verbale” ma “esistenziale”, perché “la nostra vita, se non è guidata dallo Spirito Santo non ha senso”. Il coordinatore nazionale di RnS ha aggiunto che il movimento “è un frutto del Concilio, come nuova Pentecoste nella Chiesa, e dopo il Concilio lo Spirito Santo non poteva non far nascere un movimento che riproponesse alla Chiesa e alla società il cuore fondamentale del kerigma dell’annuncio cristiano”.
La prima giornata di Convocazione è stata conclusa dalla Celebrazione Eucaristica, presieduta dal vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi. Poco prima della Santa Messa, monsignor Mariano De Nicolò, vescovo emerito della diocesi romagnola, ha espresso il suo saluto ai presenti sottolineando l’importanza della vita sacramentale.
L’eucaristia, in particolare, è “un alimento e un sostegno indispensabile per poter percorrere la via della vita, finché non giungiamo, dopo aver lasciato questo mondo, alla nostra vera meta, che è il Signore”, ha detto il presule. Ogni sacramento va quindi amministrato da tutti i sacerdoti del mondo, affinché i fedeli “conservino indelebile memoria della redenzione”.
Lo Spirito Santo, poi, “esercita sul Corpo mistico la stessa azione che esercita sul corpo fisico di Cristo”, ha aggiunto il vescovo emerito di Rimini.
L’omelia di monsignor Lambiasi, nei Vespri prefestivi della Domenica del Buon Pastore, si è soffermata sul concetto di “gregge” cristiano, che non ha nulla a che vedere con un “collettivismo massificante e spersonalizzante”. Gesù, il Buon Pastore, infatti, “chiama le sue pecore, ciascuna per nome” (Gv 10,3), mentre la comunità cristiana è “unità di distinti, non confusione di identici”, non una “massa di anonimi”, bensì una “comunità di chiamati”.
Con riferimento alla Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni sacerdotali, il presule si è poi rivolto in modo particolare ai giovani del Rinnovamento nello Spirito, invitandoli ad aprirsi allo sguardo di Gesù che li cerca e, “con la sua voce inconfondibile, dice: Seguimi”.
“Preghiamo perché molti giovani rispondano alla chiamata del bel Pastore con umile, grata e incondizionata generosità”, ha poi concluso il vescovo. (L. Marcolivio)


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La convocazione si è aperta con il messaggio di auguri di papa Benedetto XVI, la 35° Convocazione Nazionale dei gruppi e delle comunità del Rinnovamento nello Spirito Santo, a 40 anni dalla fondazione del movimento in Italia.
Il messaggio, a firma del cardinale Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, è stato recapitato al presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito, Salvatore Martinez.
Il Santo Padre ha rivolto il suo “cordiale saluto” a tutti i “numerosi convenuti”, assicurando la sua “spirituale vicinanza”. Benedetto XVI ha auspicato che “in ciascuno risuoni forte e chiara la voce dello Spirito Santo che grida ‘Gesù è Signore’, così da poter offrire nelle rispettive comunità diocesane e parrocchiali e, negli ambienti di vita, il servizio di una presenza generosa, di una testimonianza coraggiosa e di un valido contributo alla Nuova Evangelizzazione”.
Nell’invocare la “celeste intercessione della Beata Vergine Maria”, il Papa ha inviato la propria “implorata benedizione apostolica” al Presidente nazionale di Rinnovamento nello Spirito, agli altri responsabili e a tutti i partecipanti alla Convocazione.
A tutti i fedeli che parteciperanno “devotamente” alla Convocazione nazionale giubilare, nel quarantesimo Anniversario della fondazione del Rinnovamento nello Spirito, Benedetto XVI ha concesso l’indulgenza plenaria, per la quale le condizioni sono la ricezione dei sacramenti della confessione e della comunione eucaristica e la preghiera rivolta al Sommo Pontefice.
A coloro che saranno “legittimamente impossibilitati” è concessa l’indulgenza parziale, se “almeno con animo contrito, si uniranno con ferventi preghiere”.
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Il motto Nello Spirito gridiamo: Gesù è il Signore! è una professione di fede che “continua, attraverso i secoli, a risuonare nel grembo della Chiesa, madre di tutti i credenti in Cristo”.
Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in un messaggio rivolto al Presidente Nazionale del Rinnovamento nello Spirito, Salvatore Martinez, in occasione della 35° Convocazione nazionale del movimento.
Proclamare Gesù è il Signore! è un’affermazione in perfetta simbiosi con la indizione, da parte di papa Benedetto XVI, dell’Anno della Fede, che inizierà il prossimo ottobre, affinché ogni credente “riscopra i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata e riflettere sullo stesso atto con cui si crede” (Porta Fidei, n°9).
“È davanti agli occhi di tutti – ha proseguito Bagnasco - quanto sia necessario questo impegno e, in modo particolare, quanto ciò sia urgente per quella sfida educativa rivolta alle giovani generazioni affinché possano costruirsi in una fede vissuta e pensata nella comunità cristiana”.
La ricorrenza del 40° anniversario del Rinnovamento nello Spirito in Italia “non può che essere motivo di gioia da parte mia e di tutti i vescovi italiani”, ha aggiunto il Presidente della CEI.
La “gioia” è motivata, secondo il cardinale Bagnasco, dai “frutti spirituali di conversione e di radicamento ecclesiale, vero sigillo di ogni autentica ispirazione divina”.
Il “ringraziamento” al Signore, invece, è “per il dono che sempre fa alla Sua Chiesa di nuovi carismi secondo le necessità di ogni tempo e a quanti poi, con fedeltà e dedizione, si sono spesi in questi anni per trasmettere ad altri il dono ricevuto”.



Sempre in occasione del 40° anniversario della fondazione in Italia, Benedetto XVI ha inoltre concesso udienza ai membri del Rinnovamento nello Spirito. L’appuntamento è per il prossimo 26 maggio in piazza San Pietro: poco prima dell’arrivo del Santo Padre, avrà luogo una Celebrazione Eucaristica, presieduta dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco.

sabato 28 aprile 2012

I cristiani e il potere prima di Costantino



CITTA' DEL VATICANO, sabato, 28 aprile 2012.- Di seguito il testo della relazione tenuta giovedì 19 aprile scorso al convegno internazionale di studio “Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa” dal professor Marco Rizzi, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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“L'atteggiamento dei cristiani verso il potere e l'impero prima di Costantino”

Le complesse motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e sostenere poi il cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi, come abbiamo sentito ieri nell'intervento di apertura del Convegno e nella relazione che mi ha preceduto. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di indagare l'evoluzione dell'atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del potere politico - e specificamente verso quello di Roma - nell'arco di tempo che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.
Anticipando le conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in occidente, una più puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell'impero romano; una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in parallelo allo strutturarsi dell'organizzazione ecclesiastica nella forma del monoepiscopato cittadino e, nella pars occidentis dell'impero, della sua gravitazione su Roma.
Al cuore della prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della tassazione.
Nella formulazione paolina del tredicesimo capitolo della lettera ai romani ("rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore il timore; a chi l'onore, l'onore"), che nel corso dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del sistema fiscale romano: l'imposta capitaria sulle persone e i patrimoni (phoros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche(telos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta l'obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega dell'autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine (phobos/timor), dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale (time/honor).
Così, pur indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti geografici e sociali, in accordo con le forme dell'articolazione gerarchica e personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati preposti all'ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.
La riflessione di Paolo, pur ancora nell'orizzonte di un'escatologia imminente, si sforza così di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una parziale modifica del sistema daziario.
Le affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto assoluto - come peraltro l'esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in ciò assai più avveduta di molta esegesi "scientifica" moderna; erano tuttavia destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.
Scrivendo qualche decennio più tardi, l'autore della prima lettera di Pietro riprende letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei cristiani nei confronti dell'autorità, sforzandosi però di collocarle in termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo il basileus dai "governatori inviati da lui", e senza menzionare direttamente le tasse.
Il timore (phobos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come l'onore (time) vada tributato al basileus; fattore unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell'atteggiamento dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti, che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo, andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto della tassazione - ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla prassi cristiana dei primi secoli.
Questa linea di pensiero, che imposta l'atteggiamento cristiano verso il potere attorno all'idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si snoda senza soluzione di continuità dalla fine del primo secolo sino alla metà del terzo, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai corinzi, che ribadisce il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare ogni implicazione politica del concetto di "regno di Dio" dichiarandone la natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e avvertito.
Questi, nel contesto del dibattito che travagliava le chiese sull'atteggiamento da assumere nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del giudizio; del resto, per Origene il potere politico viene esercitato nell'ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.
Se, nella prospettiva cristiana, l'esercizio dell'autorità secolare acquisiva in questo modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all'idea di legge naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l'azione, una tale posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei confini dell'impero (e in questo senso è significativo il protettorato che Costantino proclamerà nei confronti del cristiani residenti al di fuori dei suoi diretti dominii all'indomani dell'accesso al potere anche nella pars orientisdell'impero).
Soprattutto, a distanza di settant'anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e nella gestione politica dell'impero (specie delle concrete vicende dell'autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l'estensione universale della cittadinanza avvenuta con la constitutio antoniniana e lo stesso avvicinamento delle élitescristiane al potere imperiale nel periodo della ben disposta dinastia severiana.
Sarà solo con l'editto di Serdica del 311, che l'autorità romana, nella persona di Galerio, accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax deorum: "poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dei celesti e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (...) in conformità a quanto da noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della respublica e di loro stessi, affinché in ogni modo la respublica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro case".
Che per di più tra i cristiani dei primi secoli l'ermeneutica delle parole di Paolo non fosse solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo "un uomo giusto" e per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa, perché "conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore(imperator) di tutte le genti", anche se "non conosco l'impero (imperium) di questo mondo".
Dal canto suo, Donata, una sua compagna, non esita a proclamare "onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio" (honorem caesari quasi caesari; timor autem Deo); la precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice svolgimento ordinato della vita quotidiana: l'assenza di ogni menzione del tributum, la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di riconoscere l'impero e l'imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.
Proprio nel drammatico contesto dell'ondata persecutoria accesasi intorno all'ultimo quarto del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza, la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai romani, avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì dominanti.
Nel celebre frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente successivi. La più celebre è legata al cosiddetto "sincronismo augusteo", ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell'impero da parte di Augusto e la diffusione al suo interno del cristianesimo.
Nonostante la storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere un antecedente esplicito di questa posizione nell'opera lucana, sino a spostare molto in avanti - addirittura in epoca adrianea - la redazione degli atti degli apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene formulata con nettezza.
Tuttavia, Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente allotria del cristianesimo rispetto all'orizzonte propriamente romano, affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò tutta l'area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di pace e stabilità garantite dall'impero sino a Nerone e Domiziano, i quali furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e stabilità.
E' questa la seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l'associazione tra persecuzione, crisi dell'impero, morte infamante dei persecutori, che si tradurrà di lì a poco nel topos storico- letterario de mortibus persecutorum, e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per il superamento dell'originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è però il terzo fattore, ovvero la presentazione del cristianesimo come "filosofia", sulle orme di una tradizione che si era avviata Aristide e si prolunga nella seconda generazione degli apologisti cristiani.
Questa identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano, che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto d'importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura repressione antifilosofica.
In questo modo Melitone, pur riconoscendo l'origine non romana e "barbarica" del cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un imperatore "filosofo" quale Marco Aurelio diceva - o millantava - di essere.
In termini meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla condizione di sottomissione dell'ecumene all'impero romano emerge anche da una cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l'encomio di Roma di Elio Aristide, afferma che "il mondo è in pace grazie ai Romani, così che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo" e - implicitamente - proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall'Asia a Roma, alle Gallie.
Più rilevante e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell'originaria idea ellenistica della traslatio imperii.
Non ci è purtroppo giunto il trattato di Melitone sull'Apocalisse di Giovanni e il diavolo, che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo, anzi con ogni probabilità iltesto, che era alla base delle frenesie escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione apostolica.
In Ireneo è evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l'elaborazione di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l'accenno alla provenienza dell'Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito svilupperò in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso oriente - e non verso Roma - lo sguardo di chi attende con la persecuzione finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.
Le posizioni di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell'inizio del III secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al libro di Daniele, con un approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.
La riflessione di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano, laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui vengono cooptati "i più nobili da tutte le nazioni" in vista dell'approntamento dell'esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le altre popolazioni l'impero romano risulta del tutto in linea con i tre precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di associare a sé i migliori tra i non romani.
Il massiccio ricorso ad una siffatta forma di reclutamento - ancora una volta - si era avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato l'attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra secondo e terzo secolo.
In quanto espressione della medesima libido dominandi, l'impero romano non risulta né migliore né peggiore di quelli che l'hanno preceduto, solo più militarmente più potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l'inevitabile dissoluzione di esso, l'ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio del regnum Dei, l'impero dell'Anticristo, ne riassumerà le specifiche fattezze, a partire dall'esaltazione della propria forza militare. Così, partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico l'ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.
Soprattutto, Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la conseguente frantumazione dell'impero romano in una poliarchia, l'apparizione finale dell'Anticristo tra gli ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.
Le fila delle riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana, cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente filoromana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo potrà accadere solo dopo la svolta "universalistica" della constitutio antoniniana e l'atteggiamento filocristiano di Alessandro Severo.
In Ippolito, invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se non estraneo, rispetto all'impero, considerato un dato storico di fatto dalla prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra secondo e terzo secolo, la cui strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l'originale rideclinazione dell'opposizione tra monarchia e democrazia nei termini dell'opposizione tra un solo potere romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell'acquisizione e nel mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza) e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione all'eschaton).
In quegli stessi anni, nell'Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni provenienti dall'oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la costruzione di un'escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall' Apologeticum, infatti, Tertulliano lega l'ormai tradizionale tema della preghiera pro imperatoribus, apertamente ricondotto all'insegnamento della prima lettera di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall'impero romano nell'allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente, ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.
Sono tre gli aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano. Anzittutto, l'abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica della translatio imperii, che vedeva nel potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con ilcommeatus romani imperii, pregano per il suo differimento e con ciò stesso contribuiscono alladiuturnitas Romana.
In secondo luogo, l'oggetto delle preghiere e dell'interesse teologico-politico di Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status romanus; sempre più, nelle opere successive, esso viene ad assumere un ruolo di "trattenimento" della fine modellato a contrario sulla funzione assegnata nella seconda lettera ai tessalonicesi alla misteriosa figura del katechon, che fino ad allora aveva avuto un significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousia di Cristo.
Indubbiamente, persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di ambiguità, dato che, in ogni caso, l'aeternitas di Roma non trascende la dimensione del saeculum presente; ma viene meno - ed è la terza novità introdotta da Tertulliano - quell'estraneità radicale affermata ad esempio negli atti dei martiri scillitani, sostituita da un atteggiamento di piena condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi, quanto soprattutto negativi: "quando l'impero è scosso (concutitur), sono scossi anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche modo ne siamo coinvolti." Questa prima inserzione dei cristiani nell'orizzonte politico dell'impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre più marcata romanizzazione dell'escatologia occidentale.
Così, il vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati, a suo dire, dall'Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva però una valenza deescatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso procedimento esegetico, all'identificazione del persecutore dei tempi finali con il Nero redivivus proveniente dall'oriente.
La minacciosa rappresentazione di un re devastatore ex oriente affonda le radici addirittura nell'epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane - o almeno così ci dice Giustino.
Nel quadro della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica di Vittorino assegna all'impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il persecutore per antonomasia, ma proprio dall'impero nella sua forma attuale partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l'intera vicenda cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la cronologia apocalittica alle vicende dell'impero susseguenti all'invasione persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell'Anticristo per meglio riuscire nel proprio intento.
Scrivendo proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e ultimo libro delle Divinae institutiones, Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità cristiana all'impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo significativa. Proveniente dall'Africa cristiana, la sua piena adesione al cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l'aveva chiamato Diocleziano e dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il cristianesimo d'impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono l'epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:
"Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di anni passati dall'inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme complessive risultino un po' diverse, non sembra che l'attesa sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di Roma è sana e salva.
Quando invero quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà".
Difficile dire se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della svolta di Costantino all'indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientisdell'impero e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.
E' però lo stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo la vittoria su Massenzio: "Considerava l'intero assetto del mondo come un grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (...); dichiarò quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città regale così vessata".
Una simile immagine organica per caratterizzare la respublica non costituisce di per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire della retorica antitirannica qui utilizzata. Tuttavia Eusebio colloca proprio a ridosso di questa decisione l'avvicinamento di Costantino al cristianesimo che culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo, che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e vescovi.
Accenni indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la "conversione" di Costantino e il suo incontro con un cristianesimo più disponibile a una possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).
Certo è però che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione, provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest'ultima città, per chiudere il conflitto "anche se tardi" e ristabilire la necessaria concordia. Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell'incontro precedente.
Quantomeno il gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con l'analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum solis poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi officianti, tra imperatore e vescovi nell'esercizio dell'autorità. Sulla scia delle cosiddette lettere pastorali, l'immagine del governo di questi ultimi sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.
Ma nella Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del terzo secolo, la funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli, l'autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea costruirà l'ideologia dell'imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in oriente, l'immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del IV secolo.
Bisognerà attendere Agostino e la sua Città di Dio perché si sciolga, almeno in occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il cristianesimo e Roma, mentre l'impero secolare di quest'ultima viene derubricato a semplice tappa, forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.
Fonte: Zenit