venerdì 6 aprile 2012

Io ero morto ma ora vivo per sempre (Apocalisse 1, 18)


 Di seguito il testo della predica del Venerdi Santo tenuta dal padre Raniero Cantalamessa ofmcapp nella Basilica di San Pietro.

Intro


“IO ERO MORTO, MA ORA VIVO PER SEMPRE”
(Apocalisse 1,18)
Alcuni Padri della Chiesa hanno racchiuso in una immagine l’intero mistero della redenzione. Immagina, dicono, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno che teneva schiava la città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà!1
Così, dicono questi Padri, avviene tra Cristo e noi. Egli, sulla croce, ha sconfitto l’antico avversario”. “Le nostre spade - esclama san Giovanni Crisostomo - non sono insanguinate, non siamo stati nell’agone, non abbiamo riportato ferite, la battaglia non l’abbiamo neppure vista, ed ecco che otteniamo la vittoria. Sua è stata la lotta, nostra la corona. E poiché siamo stati anche noi a vincere, imitiamo quello che fanno i soldati in questi casi: con voci di gioia esaltiamo la vittoria, intoniamo inni di lode al Signore”2. Non si potrebbe spiegare in modo migliore il senso della liturgia che stiamo celebrando.
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Ma ciò che stiamo facendo è, esso stesso, una immagine, la rappresentazione di una realtà del passato, o è la realtà stessa? Tutte e due le cose! “Noi –diceva sant’Agostino al popolo- sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi[…]. Sapete perfettamente che tutto ciò è avvenuto una sola volta e tuttavia la solennità periodicamente lo rinnova […].Verità storica e solennità liturgica non sono tra loro in contrasto, quasi che la seconda sia fallace e la prima soltanto corrisponda al vero. Di ciò infatti che la storia afferma essere avvenuto, nella realtà, una sola volta, di questo la solennità rinnova spesso la celebrazione nei cuori dei fedeli”3.
La liturgia “rinnova” l’evento: quante discussioni, da cinque secoli a questa parte, sul senso di questa parola, specialmente quando è applicata al sacrificio della croce e alla Messa ! Paolo VI ha usato un verbo che potrebbe spianare la strada a una intesa ecumenica su tale argomento: il verbo ”rappresentare”, inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente e operante l’accaduto4.
C’è una differenza sostanziale tra la rappresentazione della morte di Cristo e quella, per esempio, della morte di Giulio Cesare nella tragedia omonima di Shakespeare. Nessuno assiste da vivo all’anniversario della propria morte; Cristo sì, perché è risorto. Egli solo può dire, come fa nell’Apocalisse: “Io ero morto, ma ora vivo per sempre” (Ap 1,18). Dobbiamo stare attenti in questo giorno, visitando i cosiddetti “sepolcri” o partecipando alle processioni del Cristo morto, di non meritare il rimprovero che il Risorto rivolse alle pie donne il mattino di Pasqua: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5).
È una affermazione ardita, ma vera quella di certi autori ortodossi. “La anamnesi, cioè il memoriale liturgico, rende l’evento più vero di quando avvenne storicamente la prima volta”. In altre parole, più vero e reale per noi che lo riviviamo “secondo lo Spirito”, di quanto lo fosse per coloro che lo vivevano “secondo la carne”, prima che lo Spirito Santo ne rivelasse alla Chiesa il pieno significato.
Noi non stiamo celebrando solo un anniversario, ma un mistero. È ancora sant’Agostino che spiega la differenza tra le due cose. Nella celebrazione “a modo di anniversario”, non si richiede altro – dice – se non di “indicare con una solennità religiosa il giorno dell’anno in cui ricorre il ricordo dell’avvenimento stesso”; nella celebrazione a modo di mistero (“in sacramento”), “non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato e lo si accolga santamente”5.
Questo cambia tutto. Non si tratta solo di assistere a una rappresentazione, ma di “accoglierne” il significato, di passare da spettatori a attori. Sta a noi perciò scegliere quale parte vogliamo rappresentare nel dramma, chi vogliamo essere: se Pietro, se Giuda, se Pilato, se la folla, se il Cireneo, se Giovanni, se Maria… Nessuno può rimanere neutrale; non prendere posizione, è prenderne una ben precisa: quella di Pilato che si lava le mani o della folla che da lontano ”stava a vedere” (Lc 23,35).
Se tornando a casa, questa sera, qualcuno ci chiede: “Da dove vieni? “Dove sei stato?”, rispondiamo pure, almeno nel nostro cuore: “Sul Calvario!”
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Ma tutto questo non avviene automaticamente, solo perché abbiamo partecipato a questa liturgia. Si tratta, diceva Agostino, di “accogliere” il significato del mistero. Questo avviene con la fede. Non c’è musica, là dove non c’è un orecchio che l’ascolta, per quanto suoni forte l’orchestra; non c’è grazia, là dove non c’è una fede che l’accolga.
In una omelia pasquale del IV secolo, il vescovo pronunciava queste parole straordinariamente moderne e, si direbbe, esistenziali: “Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione”6.
Questo è avvenuto sacramentalmente nel battesimo, ma deve avvenire consapevolmente sempre di nuovo nella vita. Dobbiamo, prima di morire, avere il coraggio di fare un colpo di audacia, quasi un colpo di mano: appropriarci della vittoria di Cristo. L’appropriazione indebita! Una cosa comune purtroppo nella società in cui viviamo, ma con Gesù essa non solo non è vietata, ma è sommamente raccomandata. “Indebita” qui significa che non ci è dovuta, che non l’abbiamo meritata noi, ma ci è data gratuitamente, per fede.
Ma andiamo sul sicuro; ascoltiamo un dottore della Chiesa. “Io –scrive san Bernardo -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (alla lettera, lo usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio” (cf. 1 Cor 1, 30)7.
Forse che questo modo di concepire la santità rese san Bernardo meno zelante delle buone opere, meno impegnato nell’acquisto delle virtù? Forse trascurava di mortificare il suo corpo e ridurlo in schiavitù (cf. 1 Cor 9,27), colui che, prima di tutti e più di tutti, aveva fatto di questa appropriazione della giustizia di Cristo lo scopo della sua vita e della sua predicazione (cf. Fil 3, 7-9)?
A Roma, come purtroppo in ogni grande città, ci sono tanti senza tetto. Esiste un nome per essi in tutte le lingue: homeless, clochards, barboni: persone umane che non posseggono che i pochi stracci che portano addosso e qualche oggetto che si portano dietro in borse in plastica. Immaginiamo che un giorno si diffonde questa voce: in Via Condotti (tutti sanno cosa rappresenta a Roma Via Condotti!) c’è la proprietaria di una boutique di lusso che, per qualche sconosciuta ragione, di interesse o di generosità, invita tutti i barboni della Stazione Termini a venire nel suo negozio; li invita a deporre i loro stracci sudici, a farsi una bella doccia e poi scegliere il vestito che desiderano tra quelli esposti e portarselo via, così, gratuitamente.
Tutti dicono in cuor loro: “Questa è una favola, non succede mai!”. Verissimo, ma quello che non succede mai tra gli uomini tra di loro è quello che può succedere ogni giorno tra gli uomini e Dio, perché, davanti a Lui, quei barboni siamo noi! È quello che avviene in una bella confessione: deponi i tuoi stracci sporchi, i peccati, ricevi il bagno della misericordia e ti alzi che sei “rivestitodelle vesti della salvezza, avvolto nel mantello della giustizia” (Is 61, 10).
Il pubblicano della parabola salì al tempio a pregare; disse semplicemente, ma dal profondo del cuore: “O Dio, abbi pietà di me peccatore!”, e “tornò a casa giustificato” (Lc 18,14), riconciliato, fatto nuovo, innocente. Lo stesso, se abbiamo la sua fede e il suo pentimento, si potrà dire di noi tornando a casa dopo questa liturgia.
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Tra i personaggi della passione con i quali possiamo identificarci mi accorgo che ho tralasciato di nominarne uno che più di tutti aspetta chi ne segua l’esempio: il buon ladrone.
Il buon ladrone fa una completa confessione di peccato; dice al suo compagno che insulta Gesù: “Neanche tu hai timore di Dio che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23, 40 s.). Il buon ladrone si mostra qui un eccellente teologo. Solo Dio infatti, se soffre, soffre assolutamente da innocente; ogni altro essere che soffre deve dire: “Io soffro giustamente”, perché, anche se non è responsabile dell’azione che gli viene imputata, non è mai del tutto senza colpa. Solo il dolore dei bambini innocenti somiglia a quello di Dio e per questo esso è così misterioso e così sacro.
Quanti delitti atroci rimasti, negli ultimi tempi, senza colpevole, quanti casi irrisolti! Il buon ladrone lancia un appello ai responsabili: fate come me, venite allo scoperto, confessate la vostra colpa; sperimenterete anche voi la gioia che provai io quando sentii la parola di Gesù: “Oggi sarai con me in paradiso!” (Lc 23,43). Quanti rei confessi possono confermare che è stato così anche per loro: che sono passati dall’inferno al paradiso il giorno che hanno avuto il coraggio di pentirsi e confessare la loro colpa. Ne ho conosciuto qualcuno anch’io. Il paradiso promesso è la pace della coscienza, la possibilità di guardarsi nello specchio o guardare i propri figli senza doversi disprezzare.
Non portate con voi nella tomba il vostro segreto; vi procurerebbe una condanna ben più temibile di quella umana. Il nostro popolo non è spietato con chi ha sbagliato ma riconosce il male fatto, sinceramente, non solo per qualche calcolo. Al contrario! È pronto a impietosirsi e ad accompagnare il pentito nel suo cammino di redenzione (che in ogni caso diventa più breve). “Dio perdona molte cose, per un’opera buona”, dice Lucia all’Innominato nei “Promessi sposi”. Ancor più, dobbiamo dire, egli perdona molte cose per un atto di pentimento. ha promesso solennemente: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana” (Is 1, 18).
Riprendiamo ora a fare quello che, abbiamo sentito all’inizio, è il nostro compito in questo giorno: con voci di gioia esaltiamo la vittoria della croce, intoniamo inni di lode al Signore. “O Redemptor, sume carmen temet concinentium”8: E tu, o nostro Redentore, accogli il canto che eleviamo a te.
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1 Nicola Cabasilas, Vita in Christo, I, 9 (PG 150, 517).
2 S. Giovanni Crisostomo, De coemeterio et de cruce (PG, 49, 596).
3 S. Agostino, Sermone 220 (PL 38, 1089)
4 Cf Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57, 1965, p. 753 ss).
5 Agostino, Epistola 55, 1, 2 (CSEL 34, 1, p. 170).
Omelia pasquale dell’anno 387 (SCh 36, p. 59 s.).
7 S. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
8 Inno della Domenica delle Palme e della Messa crismale del Giovedì Santo

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Di seguito la meditazione del cardinale Caffarra, arcivescovo di Bologna, sulla Via Crucis

BOLOGNA, venerdì, 6 aprile 2012.- Il nostro itinerario compiuto nella memoria della strada percorsa da Gesù dalla condanna alla sepoltura, è stato di stazione in stazione un itinerario della nostra mente, e del nostro cuore dentro al mistero di Dio e dentro al mistero dell’uomo.
Dentro al mistero di Dio. Quale Dio abbiamo conosciuto percorrendo la via Crucis? Un Dio che ha voluto conoscere per esperienza diretta la via Crucis dell’uomo, di ogni uomo: il suo soffrire, la durezza del suo mestiere di vivere. Un Dio che, percorrendo la via Crucis, ha imparato per esperienza la compassione per ogni uomo: un prendere parte dal di dentro alla vicenda umana. La compassione di Dio è una compassione onnipotente, non impotente come la compassione dell’uomo. L’onnipotenza della compassione divina la celebreremo la notte prossima, la santa Veglia pasquale.
Quale Dio abbiamo conosciuto percorrendo la via Crucis? Un Dio che in Gesù si è fatto uno di noi senza cessare di essere nella sua onnipotenza, e così ha mostrato il suo amore per l’uomo e la sua decisione di non abbandonarlo al potere della morte. Un amore tanto grande da non ritrarsi neppure di fronte alla umiliazione della morte in croce. È questo il Dio che in Gesù si rivela. Se lo pensi dimenticando tutto questo, non pensi più il Dio dei cristiani, il Dio che Gesù ci ha rivelato.
La via Crucis è stata anche e di conseguenza un itinerario della mente e del cuore dentro al mistero dell’uomo.
E lo abbiamo visto come un mistero di iniquità, l’iniquità di un potere religioso che ama più la consuetudine che la verità. L’iniquità di un potere politico che giunge perfino a condannare consapevolmente un innocente. L’iniquità della menzogna di testimonianze false. E la triste galleria potrebbe continuare.
Ebbene è questo groviglio che è l’uomo, che è amato da Dio fino al punto estremo: «non c’è un amore più grande che dare la vita» aveva detto Gesù.
«Guardo il tuo cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne curi?», prega un Salmo. Dal confronto fra l’immensità dell’universo e la misera piccolezza dell’uomo, questi esce sconfitto e come turbato.
La via Crucis ci ha introdotto in un altro confronto: la miseria e la morte dell’uomo di fronte al mistero di Dio che è giustizia. Come ne esce l’uomo? Condannato? No.
Ne esce giustificato perché perdonato. Ed allora nel suo cuore si producono frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore devo avere agli occhi di Dio, quale preziosità deve possedere la mia persona, se Dio si è preso così a cuore il mio destino!
Via Crucis: via al mistero di Dio; via al mistero dell’uomo. Non perdiamo mai la memoria di questa via: costruiremmo la nostra dimora in un deserto di morte e di non senso.

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Di seguito riporto anche l'omelia tenuta oggi da Enzo Bianchi nel monastero di Bose.
 
Cari fratelli e sorelle, care sorelle di Cumiana, amici e ospiti,

abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù, una passione gloriosa secondo il vangelo di Giovanni (Gv 18,1-19,37), perché in essa, a differenza di quella narrata dai sinottici, riusciamo a vedere al di là di ciò che è avvenuto mondanamente, riusciamo a vedere ciò che Dio ha operato, la sua gloria quale kavod, peso, splendore, potenza che si impone. È una gloria non analogica a quella che noi uomini immaginiamo, progettiamo o proiettiamo su Dio e su Gesù Cristo.

Nel racconto della passione secondo Giovanni – lo sappiamo bene – Gesù manifesta più ancora che nella sua vita e nelle sue azioni, più ancora che nei segni da lui operati, l’«egó eimí», l’«io sono» (Gv 18,5.6.8) proprio del Signore vivente. Sicché, quando Pilato lo flagella, Gesù appare come l’uomo per eccellenza («Ecce homo!»: Gv 19,5), l’uomo «coronato di gloria e splendore» del Salmo 8 (v. 6); quando i soldati lo disprezzano e lo deridono, appare come colui che li attira e li fa inginocchiare davanti a sé; quando sta di fronte a Pilato per essere condannato, appare come il giudice escatologico che siede sul trono del giudizio nel Litòstroto-Gabbatà (cf. Gv 19,13); quando sta in croce, appare come collocato su un trono da cui regna; quando viene scritta la sua condanna, in verità è confessato con un titolo, «Gesù il Nazareno, il re dei giudei» (Gv 19,19), che esprime la sua identità messianica autentica. E al vertice di tutto questo, quando Gesù spira, muore, secondo il quarto vangelo «consegna lo Spirito» (Gv 19,30), effonde cioè lo Spirito santo sull’intera creazione. La passione di sofferenza e di morte diventa gloria della passione, gloria dell’amare, dell’amore di Gesù «fino alla fine» (eis télos: Gv 13,1).

Ma nel leggere la passione secondo Giovanni noi ci interroghiamo quest’anno – come abbiamo fatto ieri sera per la lavanda dei piedi – sulla presenza di Dio, su Dio quale protagonista dell’evento della passione. Perché proprio nel quarto vangelo si dice con chiarezza che la passione è la consegna da parte del Padre di suo Figlio Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’unigenito» (Gv 3,16). Anche Paolo proclama: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato (verbo paradídomi) per tutti noi» (Rm 8,32); e lo stesso Giovanni nella sua Prima lettera scrive: «Dio ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Sì, nelle Scritture del Nuovo Testamento e anche nel quarto canto del Servo di Isaia che abbiamo ascoltato (cf. Is 52,13-53,12) vi sono espressioni che dicono la consegna del Figlio da parte del Padre a noi uomini, nelle mani di noi peccatori. Dunque nella passione il Padre consegna il Figlio, Gesù è il consegnato e Gesù consegna poi a sua volta lo Spirito al Padre.
 
Eppure a me sembra che una tale lettura non sveli davvero Dio, non lo spieghi, non sia fedele all’exeghésato (Gv 1,18) che Giovanni proclama come azione di Gesù che narra Dio. Questo terreno non è facile, e dobbiamo avere molto timore nell’incamminarci su di esso per cercare di entrare nel mistero e poterlo ridire con parole nostre. Ciononostante è nostro dovere farlo, perché altrimenti si potrebbe essere indotti da tali espressioni a leggere un Dio che ha bisogno del sacrificio del Figlio e, di conseguenza, lo ordina. Anche Joseph Ratzinger ha scritto: «Ci si allontana con orrore da un Dio che reclama la morte del Figlio. Quanto questa immagine è diffusa, tanto è falsa». Ora, resta vero che nel secondo millennio così si è compresa la passione e la croce; che Lutero ha parlato dell’abbandono di Gesù da parte del Padre; che Calvino diceva che il Padre ha mandato Gesù all’inferno, dove c’è condanna e dannazione; che la predicazione della controriforma cattolica indugiava sul Padre il quale, vedendo Gesù patire e morire, si sentiva soddisfatto perché la giustizia era ristabilita. Sì, questi sono secoli in cui – lo dobbiamo dire senza giudicare – su Dio sono state riversate immagini terribili, che sono all’origine di tante negazioni di Dio da parte degli uomini.

Ebbene, senza fare finta che ciò non sia avvenuto, non fermiamoci solo sulla passione di Gesù di Nazaret ma poniamoci la domanda: «Qual è il protagonismo di Dio, la sua azione nella passione di Gesù?». Il Padre, infatti, è presente più che mai nella passione, anzi è narrato più che in altre ore della vita di Gesù. Gesù in croce è più che mai «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). È sulla croce che egli grida più che mai: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Origene ha potuto affermare: «È sulla croce che Gesù è stato rassomigliante in modo pieno al Padre che ci ama fino all’estremo, eis télos». L’origine dell’Amore, l’Amante, va adorato nudo sulla croce, per parafrasare le parole di Guigo I il Certosino. Il Padre non ha consegnato suo Figlio per essere soddisfatto, ma ha mostrato attraverso suo Figlio che lui voleva, vuole la comunione con gli uomini, che ama la sua vigna all’estremo, per ricorrere all’immagine usata da Gesù in una parabola (cf. Mc 12,1-12 e par.; Is 5,1-7). «Manderò mio Figlio: avranno rispetto almeno di lui?» (cf. Mc 12,6 e par.). Ecco l’amore del Padre per la vigna, per la sua comunità, per l’umanità. Dio è quel Padre che ama e aspetta sempre il figlio che si è allontanato ed è perduto (cf. Lc 15,11-32). Tante volte, come il padre della parabola, Dio è uscito per pregare noi di entrare nel banchetto di vita (cf. Lc 15,28.31-32): è lui che prega noi, mentre pensiamo sempre di essere noi a pregare lui… L’Amante, il Padre, è colui che dice: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ai nemici, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo brucia di compassione» (Os 11,8).
 
Questo Padre avrebbe dunque abbandonato suo Figlio? L’avrebbe abbandonato sulla croce? Lui che ha seguito i deportati a Babilonia, accompagnandoli con la sua Shekinah (cf. Ez 10,18-22; 11,22-25), dov’era nella morte di Gesù? Era in lui, era accanto a lui, e Gesù lo raccontava fedelmente! Nel Credo diciamo di Gesù che «passus est sub Pontio Pilato» ma potremmo dire, con i Concili della chiesa antica: «Deus passus est». «Il Padre non è impassibile, ma soffre la passione dell’amore» («Pater ipse … patitur»: Omelie su Ezechiele 6,6; PG 13,714-715), scriveva ancora Origene. Dio ha sofferto, ha sofferto come si soffre nell’amore. Non c’è solo il dolore fisico o solo quello psicologico, ma c’è un dolore, una sofferenza più profonda che ognuno di noi conosce come ferita che brucia: soffrire per amore. Anzi, non c’è amore senza sofferenza, questo noi uomini lo sappiamo bene.

Ecco allora Dio, l’Amante nella passione di Gesù. Egli soffre per amore perché soffre per il male che noi ci facciamo: il male inflitto a Gesù vittima, infatti, è l’icona dei mali, delle sofferenze che infliggiamo agli altri, della mancanza di amore con cui li facciamo soffrire. E si faccia attenzione: «non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10); dalla croce di suo Figlio Dio ci chiede di «credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), ci attira tutti alla croce perché «vuole che tutti siamo salvati» (cf. 1Tm 2,4). Dio ci aspetta e ci ama mentre noi siamo suoi nemici, Dio ci perdona mentre noi crocifiggiamo suo Figlio e dunque rifiutiamo lui, uccidiamo lui, il Padre, l’Amante, l’origine dell’Amore (cf. Rm 5,6-11). Gesù narra così Dio, l’Amante, conformandosi in tutto al pensare di Dio, facendo sempre la sua volontà, fino all’estremo. Ecco dunque sulla croce non un Dio soddisfatto della morte del Figlio, non un Dio che vuole il sacrificio del Figlio, ma un Dio che mostra come il sacrificio, il dare la vita per gli altri è presente in sé come esito del suo essere l’Amante, colui che ama da se stesso e si offre all’altro, all’amato. Non c'è amante che non porti la croce inscritta nella sua carne, non posso non pensare qui alla porta di Mitoraj a Roma, dove quel Cristo amante ha la croce che gli attravera le carni. Dolore e sofferenza in sé non hanno nessuna capacità di redenzione: solo l’amore, che richiede sempre un «soffrire per amore», salva.

Nell’ultima cena Gesù inginocchiato che lava i piedi ai discepoli narra un Dio inginocchiato davanti a noi, che ci lava i piedi per togliere la nostra sporcizia. Sulla croce, quando Gesù vive la sua passione e morte, Dio ci racconta in Gesù il suo amore e la sua sofferenza per la nostra lontananza. Sempre Dio ci attira a sé, ci prega di rientrare nella sua comunione, perché egli ci ama e non può cessare di amarci.