martedì 10 aprile 2012

La luce di Cristo dissipa le tenebre del male


Pasqua Benedetto

Come ho sottolineato già più volte, le omelie pasquali sono quelle più importanti dell'anno
e vanno perciò opportunamente valorizzate: questo significa in primo luogo che devono
essere lette, poi meditate alla luce di ciò che lo Spirito dice alle Chiese. 
Di seguito propongo due commenti autorevoli alle parole che Benedetto XVI ha pronunciato nei giorni scorsi, il primo di Massimo Introvigne e l'altro di Giacomo Samek Lodovici.

* * *

Dopo avere lanciato nella Messa crismale del giovedì santo un ammonimento ai sacerdoti che disubbidiscono al Magistero, Benedetto XVI nei riti della Settimana Santa ha ripercorso – in ideale continuità con i suoi due volumi Gesù di Nazaret – gli eventi essenziali della Passione e della Resurrezione del Signore, insistendo sull’immagine della Luce: la luce di Cristo, che dissipa le tenebre del male, di cui a vario titolo oggi facciamo particolare e drammatica esperienza.
Il Papa è partito con la Messa in coena Domini dal Giovedì Santo, che  «non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé». «Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato». 
Gesù, anzitutto, «esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità». Già qui emerge la dialettica fra le tenebre e la luce.
In questa drammatica esperienza della notte, Gesù vuole tenere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. «Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme». Questa parola di Gesù sull’esodo è, invero, «misteriosa». «L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente?». I discepoli non lo capiscono appieno. Eppure, di fronte a Gesù che i rivolge al Padre con l’espressione dei bambini, «Abbà», essi comprendono come «l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli» è il suo rapporto con Dio. «Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente». Dio è buono: è un padre, anzi un papà. «Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere».
È anche importante notare l’atteggiamento di Gesù nella preghiera- Matteo e Marco ci riferiscono che Egli «cadde faccia a terra» (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), in un «atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo». Luca, invece, ci dice che Gesù «pregava in ginocchio». Lo stesso Luca è l’autore degli Atti degli Apostoli, in cui ripetutamente «parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca».

Si può parlare qui di un’autentica e drammatica lotta spirituale. «Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte». In prima istanza, questi è «innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte». Ma c’è di più. Gesù «allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui». Ognuno di noi può dire: «Egli vede anche me e prega anche per me». Per noi e per tutti, Gesù «compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre».
Ma «dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi». Queste sono le sue parole: «Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Vediamo qui come «la volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane». Ma Gesù «depone questa volontà umana» - che pure è totalmente sua – «nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo». Questi brani del Vangelo ci svelano l’essenza del peccato di Adamo – e del nostro. «L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso». La verità che Gesù ci svela è che invece «siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà».
Arriviamo così alla Via Crucis, che il Papa ha presieduto come ogni anno al Colosseo il VenerdìSanto: «una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo». Le meditazioni della Via Crucis pontificia, quest’anno, hanno avuto al loro centro i problemi della famiglia. Infatti, ha detto il Pontefice, «l’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica». Ma in Cristo crocifisso si trova «la forza di andare oltre le difficoltà». 
«Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia». Nella Via Crucis perfino «la morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita». E così i singoli e le famiglie possono camminare «attraverso il vasto “mysterium passionis” verso il “mysterium paschale”, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte».
Ma qual è il significato profondo del «mysterium paschale»? Il Papa ha risposto nell’omelia della Veglia Pasquale: «Pasqua è la festa della nuova creazione. Gesù è risorto e non muore più. Ha sfondato la porta verso una nuova vita che non conosce più né malattia né morte. Ha assunto l’uomo in Dio stesso». Il Pontefice cita Tertulliano (ca. 155-230): «Abbiate fiducia, carne e sangue, grazie a Cristo avete acquistato un posto nel Cielo e nel regno di Dio». Pasqua – la liturgia ce lo ricorda – ha un duplice, speciale rapporto con la creazione del mondo. In primo luogo, «la creazione viene presentata come una totalità della quale fa parte il fenomeno del tempo. I sette giorni sono un’immagine di una totalità che si sviluppa nel tempo. Sono ordinati in vista del settimo giorno, il giorno della libertà di tutte le creature per Dio e delle une per le altre. La creazione è quindi orientata verso la comunione tra Dio e creatura; essa esiste affinché ci sia uno spazio di risposta alla grande gloria di Dio, un incontro di amore e di libertà». In secondo luogo, «del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: ‘Sia la luce!’” (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico, inizia con la creazione della luce. Il sole e la luna vengono creati solo nel quarto giorno. Il racconto della creazione li chiama fonti di luce, che Dio ha posto nel firmamento del cielo. Con ciò toglie consapevolmente ad esse il carattere divino che le grandi religioni avevano loro attribuito. No, non sono affatto dei. Sono corpi luminosi, creati dall’unico Dio. Sono però preceduti dalla luce, mediante la quale la gloria di Dio si riflette nella natura dell’essere che è creato».
Da una parte, sottolinea Benedetto XVI, occorre evitare la tentazione pagana – che oggi ritorna in tante forme di nuova religiosità – di considerare il sole, la luna, gli astri, la Terra come divinità. No: fanno parte della creazione. Ma dall’altra parte, nella nostra epoca disincantata, non dobbiamo neppure perdere il contatto con il grande significato simbolico della luce. «La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima  del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste solo in virtù della negazione».
A Pasqua, come nel giorno remoto della creazione del mondo, Dio ripete ancora una volta: «Sia la luce!». «Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio». Ma attenzione: tutto questo «non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi».
Si tratta di semplici metafore, di puri simboli? No. Con la sua Passione e Resurrezione Gesùveramente «ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione».
Oggi più che in altre epoche ci rendiamo conto che «il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo». Riprendendo implicitamente un pensiero dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), il Pontefice ha osservato che «oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili». Ma «non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare».
Nella Veglia pasquale, «la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolaree molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrificio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce». Il simbolo della luce ne richiama anche un altro molto antico, il fuoco: «la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo. Cristo, la luce, è fuoco, è fiamma che brucia il male trasformando così il mondo e noi stessi. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”, suona una parola di Gesù trasmessa a noi da Origene [185-254]. E questo fuoco è al tempo stesso calore, non una luce fredda, ma una luce in cui ci vengono incontro il calore e la bontà di Dio».
Inoltre «questo prodotto, il cero, è dovuto in primo luogo al lavoro delle api. Così entra in gioco l’intera creazione. Nel cero, la creazione diventa portatrice di luce. Ma, secondo il pensiero dei Padri, c’è anche un implicito accenno alla Chiesa. La cooperazione della comunità viva dei fedeli nella Chiesa è quasi come l’operare delle api».
Nel messaggio della domenica di Pasqua, Benedetto XVI ha ricordato che «ogni cristiano rivivel’esperienza di Maria di Magdala», la prima a vedere il Risorto. «È un incontro che cambia la vita: l’incontro con un Uomo unico, che ci fa sperimentare tutta la bontà e la verità di Dio, che ci libera dal male non in modo superficiale, momentaneo, ma ce ne libera radicalmente, ci guarisce del tutto e ci restituisce la nostra dignità». Quella stessa Maria Maddalena aveva visto il Signore «rifiutato dai capi del popolo, catturato, flagellato, condannato a morte e crocifisso. Dev’essere stato insopportabile vedere la Bontà in persona sottoposta alla cattiveria umana, la Verità derisa dalla menzogna, la Misericordia ingiuriata dalla vendetta. Con la morte di Gesù, sembrava fallire la speranza di quanti confidavano in Lui. Ma quella fede non venne mai meno del tutto: soprattutto nel cuore della Vergine Maria, la madre di Gesù, la fiammella è rimasta accesa in modo vivo anche nel buio della notte». SI tratta di un grande, inesauribile tema di meditazione anche per noi. «La speranza, in questo mondo, non può non fare i conti con la durezza del male. Non è soltanto il muro della morte a ostacolarla, ma più ancora sono le punte acuminate dell’invidia e dell’orgoglio, della menzogna e della violenza. Gesù è passato attraverso questo intreccio mortale, per aprirci il passaggio verso il Regno della vita. C’è stato un momento in cui Gesù appariva sconfitto: le tenebre avevano invaso la terra, il silenzio di Dio era totale, la speranza una parola che sembrava ormai vana».
Ma ecco la Resurrezione, «la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio, della misericordia sulla vendetta». «Se Gesù è risorto, allora – e solo allora – è avvenuto qualcosa di veramente nuovo, che cambia la condizione dell’uomo e del mondo. Allora Lui, Gesù, è qualcuno di cui ci possiamo fidare in modo assoluto, e non soltanto confidare nel suo messaggio, ma proprio in Lui, perché il Risorto non appartiene al passato, ma è presente oggi, vivo». «Cristo è speranza e conforto in modo particolare per le comunità cristiane che maggiormente sono provate a causa della fede da discriminazioni e persecuzioni», ha ricordato Benedetto XVI, che ha citato le difficili condizioni della Terrasanta, del Corno d’Africa, del Sudan e del Sud Sudan, del Mali, della Nigeria. Nel dramma dei cristiani perseguitati rivive il dramma della Passione. Ma i martiri sanno che Cristo, che ha vinto la morte, è la loro speranza. (M. Introvigne)


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La Trinità


Diventare "come Dio"

Nell’omelia, intensa e profondissima (da leggere e rileggere) pronunciata nella Messa del Giovedì Santo, Benedetto XVI ha concluso il suo discorso soffermandosi sulla preghiera di Gesù nel Getsemani: «Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).

Nell’imminenza dell’abisso di sofferenza che lo sta per travolgere, «la volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato». È la reazione naturale.

Tuttavia Gesù, «in quanto Figlio [corsivo nostro; ci torneremo fra poco], depone questa volontà umana nella volontà del Padre». In questo modo, «Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo» (ed anche di quell’Angelo che, col non serviam, volle la ribellione, volle sovvertire la relazione tra sé e Dio): infatti, «l’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato».

È un aspetto fondamentale dell’atteggiamento gnostico. Lo gnosticismo, infatti, è una corrente che ha una collocazione storica precisa (specialmente II e III secolo d.C.), ma esprime un atteggiamento che risale al «non serviam», che prosegue con la ribellione di Adamo e poi percorre la storia dell’uomo: esso consiste nel rifiutare lo status di creature finite per voler essere divini.

Questo rifiuto avviene soprattutto perché, per ritornare alle parole del Papa, «Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui - questo è il nostro pensiero - solo allora saremmo liberi». E questa è «la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita», perché «Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio”»

Di primo acchito queste tesi possono suonare false. Tuttavia sono profondamente vere e si possono giustificare (qui in modo necessariamente breve) in almeno due modi.
In primo luogo, chi rifiuta Dio finisce spesso per adorare un altro dio: il potere, il denaro, il sesso, il Partito, la Razza, la Nazione, la Ragione, il Comunismo, il Nazismo, eccetera, e molti di questi dei lo rendono pressoché schiavo, lo soggiogano (parzialmente o totalmente), lo avvinghiano nelle loro spire.

In secondo luogo, per comprendere la libertà dell’uomo di fronte a Dio bisogna soffermarsi sull’espressione poco fa evidenziata: «in quanto Figlio». Infatti, è nell’essere figli di Dio che anche gli umani possono conseguire la libertà pur obbedendogli.
Ovviamente ci sono molti modi di «essere figli». Si può essere figli che hanno terrore del padre, che gli ubbidiscono per timore di una punizione, ecc.

Ma si può essere piuttosto figli che ascoltano e capiscono le ragioni del padre (come dice già Aristotele, parlando della virtù, in Etica Nicomachea, 1102 b 30-35), figli che amano i genitori e che fanno ciò che i genitori desiderano appunto perché comprendono le loro ragioni e perché li amano. La libertà dei figli di Dio è proprio conseguenza sia della comprensione della ragionevolezza delle richieste di Dio (soprattutto quando si comprende che esse sono benefiche per l’uomo), sia dell’amore verso il Padre, dato che tutto ciò che facciamo per amore ci pesa di meno, o ci risulta spesso gradito, o addirittura gioioso. È questo il significato autentico del travisatissimo «ama e fa’ ciò che vuoi» di Agostino: se amo qualcuno, quando faccio/ometto qualcosa per lui, faccio/ometto quello che voglio, perché l’amore mi fa agire volentieri.

A che cosa allude, però, il Papa dicendo che nella relazione con Dio «diventiamo veramente “come Dio”»? Probabilmente, l’implicito è il seguente. Intanto, «Dio è amore» (1 Gv, 4,8) e dunque chi vive continuamente animato dall’amore partecipa, in qualche modo, alla vita divina, anche in forza dell’elevazione della grazia. Ma il discorso si può ulteriormente approfondire.

Infatti, nella relazione con Dio (che tra l’altro è quella costitutiva, perché Dio non soltanto crea ogni entità, ma inoltre mantiene nell’essere e fa perdurare ogni cosa, compreso l’uomo, che viceversa scomparirebbe nel nulla: il rinvio è a Tommaso d’Aquino) si esprime in modo eminente la relazionalità umana, anche perché la relazione d’amore con Dio esige la relazione d’amore con coloro che Dio ama, cioè con ogni essere umano.

Ora, in che senso dispiegando questa relazionalità amorosa, «diventiamo veramente “come Dio”»?
Per rispondere, è decisamente perspicuo un testo dell’allora cardinal Ratzinger (Libertà e verità, ripubblicato in Idem, La via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente, Ares, Milano 1996, pp. 13-36). Il desiderio di molti movimenti di liberazione - dice questo scritto di Ratzinger - è spesso  quello «di essere finalmente come un Dio», e «L’errore originario di tali radicalizzate volontà di libertà sta nell’idea di una divinità concepita in modo puramente egoistico. Il Dio cosi inteso non è un Dio, ma un idolo, anzi l'immagine di colui che la tradizione cristiana chiamerebbe il diavolo - l’antidio -, poiché in esso si rinviene proprio l’opposto radicale del vero Dio: il vero Dio è per sua essenza totalmente “essere per” (Padre), “essere da” (Figlio) ed “essere con” (Spirito Santo)». Insomma, il Dio-Trinità è un Dio relazionale, in cui ogni Persona è amorosa relazione sussistente, è un Dio-Amore, la cui vita è relazione.

È così che si chiarisce ulteriormente perché, esercitando a nostra volta l’amore, esercitando beneficamente la relazionalità, «diventiamo veramente “come Dio”». (G. Samek Lodovici)


Fonte: La Bussola Quotidiana