venerdì 6 aprile 2012

Perchè credo nel valore della sofferenza





Prima di proseguire con le riflessioni tratte dall'ultimo libro di mons. Girolamo Grillo ("Perchè credo. I miei interrogativi sulla fede"), Marietti, pp. 300 euro 28, con prefazione di mons. Luigi Negri), vorrei iniziare questo post con un contributo di don Antonello Japicca che ha per titolo: "Antidolorifici nel mondo e disobbedienza nella Chiesa". Mi sembra importante rifletterci oggi, Venerdi Santo 2012. Anche a commento delle parole del Papa durante la Messa Crismale di ieri.


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In alcuni stati dell’America le vendita degli antidolorifici si sono moltiplicate di 16 volte. ”Secondo gli esperti, il tentativo dei medici di alleviare le sofferenze dei pazienti sta generando una vera e propria dipendenza epidemica” (Ansa). Non sappiamo né possiamo più soffrire. Il dolore e la morte non solo ci spaventano; ci annientano e spingono i medici a drogarci. Il mondo ha dimenticato il Medico delle nostre anime, ed è precipitato in una medicalizzazione continua dell’esistenza. Anche quando essa assume i connotati dei rimedi naturali, della prevenzione, dei divieti e delle diete. La vita è divenuta una lotta titanica contro il dolore e la morte, il cui esito è un’apnea esistenziale dove ci muoviamo terrorizzati di tutto. “Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me” (Benedetto XVI,Omelia durante la Messa in “coena Domini”, 5 aprile 2012). E’ Lui il medico autentico che non si ferma dinanzi al dolore, ma non lo elude con le droghe; sulla croce ha rifiutato l’aceto inebriante. Gesù lotta con il Padre e con se stesso, lotta per me e per te. Gesù ci vede e prega anche per me, e la sua preghiera si fa carne che scende nella mia sofferenza, quella che mi atterrisce e paralizza.
“Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa in “coena Domini”). Gli antidolorifici e gli psicofarmaci che ingoiano la vita di questa generazione non sono altro che l’esito del peccato di Adamo, la superbia ferita dallo svelamento della menzogna che la sostiene. Non siamo dio, non lo saremo mai. Siamo creature, e l’unico atteggiamento adeguato e autenticamente libero che si addice alle creature è quello dell’obbedienza. Cristo ha ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà dal peccato che snatura la nostra vita.
Esattamente come una vita in stato di permanente ospedalizzazione e sotto scacco dei farmaci e dell’attenzione idolatrica alla sua “qualità” è una vita snaturata, così lo è una vita dove non vi è più posto per l’obbedienza, madre di ogni snaturamento dell’uomo, breccia aperta a rapporti contro natura, ad ogni abominio. Essa infatti accompagna sempre per il cammino angusto dell’amore che ci spoglia del nostro io per abbandonarsi all’io dell’altro. Ma se questo è profezia di dolore e morte, la paura ci afferra e ci rende impotenti. E si ricorre all’indignazione, alla protesta, ai pride dei diritti che sembrano esserci sottratti, foggia adulterata di ogni istinto e bisogno. Abbandonato il Creatore, l’Io infinito cui consegnare il proprio io infinitesimale in un’obbedienza che è amore e libertà, ci ritroviamo sperduti nell’oceano del dolore, senza risposte, obbligati ad anestetizzarci per non morire. La Chiesa non è immune da questa marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che sorge dalla disobbedienza primordiale. L’ha sofferta Cristo, la soffre il suo Corpo. E’ una realtà “nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi” … Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? … Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttostosoltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?”. ( Benedetto XVI, Omelia durante la Messa del Crisma, 5 aprile 2012). La Chiesa come la famiglia, come ogni altro ambito, come il nostro corpo e la nostra anima, tutto preda della spinta orgogliosa, e per questo disperata, a far qualcosa, a trasformare il dolore che suppone l’amore secondo i nostri desideri e le nostre idee, le concupiscenze della carne e del mondo, la superbia della vita. Disobbedire all’amore, alla somiglianza che ci fa creature belle e vere di Dio, gettandoci nella solitudine dell’alienazione: la disobbedienza, antidolorifico dell’anima che i falsi medici come i falsi profeti, sotto le cui spoglie si nascondono i mercenari, somministrano stoltamente creando nella Chiesa e nei cristiani una vera e propria dipendenza epidemica.
Come dunque guarire da questa dipendenza epidemica che soffoca la nostra vita e quella della Chiesa, impedendole di annunciare il vangelo opponendovi strategie mondane che guardano all’uomo sottraendolo al suo orizzonte celeste? Come rinnovare la Chiesa perchè possa compiere la missione scaturita dalla Pasqua? “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone,dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa del Crisma). Occorre guardare al Concilio, e questo anche per tutti quanti, nella Chiesa, fanno professione di assoluta fedeltà alla tradizione disobbedendo de facto all’irruzione dello Spirito. Il Papa guarda al Concilio, ai suoi frutti che vibrano della gioia dello Spirito Santoai movimenti pieni di vita dove si sperimenta l’obbedienza radicale ad un amore che ha salvato la vita e che apre alla grande obbedienza alla Chiesa, al Vicario di Cristo e ai suoi Pastori, ai fratelli, alla volontà di Dio. I movimenti che generano un fiume di persone che “traducono Cristo” per gli uomini di questa generazione. Cristiani fecondi nella pienezza della gioia della fede riscoperta e vissuta in famiglia, al lavoro, nel fidanzamento e nell’amicizia, nella vecchiaia e nella malattia. Uomini liberati dall’alienazione degli antidolorifici che avevano distrutto la loro vita, giovani aperti alla vita nuova donata da Cristo, incamminati nella dinamica della speranza e la forza dell’amore. “Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche… E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa del Crisma).
Il granello di senape che salverà il mondo, la piccola comunità cristiana dove si diano i segni di una fede autentica e adulta. “Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa del Crisma). Di nuovo il Concilio e di nuovo la fede, sintesi del pontificato di Benedetto XVI, stella polare per la Chiesa. Dal Concilio i frutti perchè di nuovo la fede possa essere imparata e gestata, per sapere che cosa Dio ci ha detto, per non cadere nella disobbedienza di chi “non può ascoltare” le parole del Signore per finire con il sostituirle con le proprie, umanissime come i ritrovati chimici che leniscono un po’ il dolore senza sanare la radice del male.
A Cristo ”stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa in “coena Domini”). Dall’obbedienza nasce lo zelo per l’annuncio del Vangelo, per aprire la Chiesa ai gentili: la predicazione e l’iniziazione cristiana, le uniche che colgono l’uomo nella sua unità di corpo e anima, che salva l’uomo intero. la disobbedienza divide l’uomo, altera la visione antropologica che determina la missione della Chiesa.  La disobbedienza rivela una divisione interna, una frattura non sanata con Dio stesso frutto del peccato originale di orgoglio. E riverbera nelle attitudini e nella forma nella quale si intende la missione: la disobbedienza esprime un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo; non a caso chi si ribella e pretende rinnovare la chiesa disobbedendo ha già diviso l’uomo, reclamando diritti mondani per il suo corpo, relegando l’anima, la trascendenza, il destino eterno dell’uomo, ad un ambito personale e inaccessibile. Chi disobbedisce ha una visione mondana, si allinea sulle posizioni liberal-massoniche e a quelle vetero comuniste ridipinte di ambientalismo e cultura dei diritti, che stanno distruggendo la persona umana, dal suo essere embrione alla sua ultima tappa di vita, nel suo essere uomo e donna ad immagine del Creatore, e poi famiglia, e vita donata perchè essa si moltiplichi sino a colmare il Cielo di tutti quanti Dio ha pensato. I campioni della disobbedienza mirano a  carnalizzare la Chiesa, dotandola degli strumenti mondani già fallimentari nella società. ”L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena.  Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo” (Benedetto XVI, Omelia durante la Messa del Crisma).
Antonello Iapicca Pbro
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Di seguito il testo di Mons. Grillo.
È difficile certamente sostenere che la sofferenza, come il dolore, le delusioni, gli affanni, gli acciacchi della vita siano un bene. Si è di fronte al mistero del male, cioè di fronte al mistero di un Dio infinitamente buono e onnipotente che permette tanti peccati, tante ribellioni, tante lotte e soprattutto tante guerre fratricide nel nostro mondo. L’interrogativo è veramente terribile: perché mai Dio ha creato il mondo, sapendo che in esso tante creature anche innocenti avrebbero sofferto? Si parte, quindi, da un dato di fatto: è difficile negare l’esistenza del male nel mondo in cui viviamo. 



Sia il cosiddetto male cosmico che il male interiore o morale sono sotto gli occhi di tutti noi. Non è difficile comprendere cosa si intenda per male cosmico: tifoni, uragani, maremoti, eruzioni vulcaniche, terremoti, incendi catastrofici ecc. Così pure per quanto concerne il male interiore, cioè il male che esce dal cuore dell’uomo: amarezze, miseria, insicurezza, solitudine, durezze, ipocrisie, conflitti interiori insolubili, delusioni, fratture interiori insanabili e profonde. Come ha reagito l’uomo nel corso dei secoli di fronte a questo stato di cose? È ovvio che l’uomo, a prescindere a quanto si trova scritto nella Bibbia, abbia cercato di risolvere questo enigma, dando purtroppo risposte poco convincenti. 

Si è avuto così il tentativo della filosofia occidentale, fin dai tempi di Eraclito (VI secolo a.C.). Questi affermava che la vita dell’uomo va avanti tra mille contrasti che, in qualche modo si compensano a vicenda, nel senso, ad esempio, che il male cosmico viene compensato dalle successive riparazioni migliori del passato; che ogni guerra prepara la pace, facendo rifiorire il desiderio di quest’ultima. Tutti gli altri filosofi greci, comunque, non danno una spiegazione razionale del problema del male e del dolore. Successivamente verranno i manichei, i quali daranno delle motivazioni alquanto ingenue, con la loro dottrina dei due principi: quello buono sarebbe responsabile del bene esistente nel mondo e quello cattivo responsabile del male e quindi anche del dolore. Abbiamo poi lo stoicismo sia in Occidente che in Oriente. Secondo gli stoici tutto ciò che accade nel mondo è comandato da una ragione trascendente, la quale consente all’uomo di cogliere sempre l’armonia suprema del cosmo. La chiave della felicità, secondo questi filosofi, andrebbe trovata nel reprimere questi desideri. 

Qualcosa del genere diceva anche Buddha, secondo il quale l’origine della sofferenza e del dolore è la sete di esistenza individuale che si trova nel cuore dell’uomo. Secondo Buddha tutto nella vita è dolore; esso trae origine dal nostro attaccamento alla vita; per cui, se si vuole eliminare il dolore bisogna eliminare la vita. Come si può notare, tutte queste motivazioni non riescono a convincere minimamente l’uomo veramente religioso, soprattutto perché ci riportano a una specie di nichilismo metafisico che può condurre anche alla disperazione. Ciò significa che, dal punto di vista razionale, non si riesce a dare risposte convincenti al problema dell’esistenza del male e, quindi, della sofferenza e del dolore nel mondo. 

Essendo partiti dalla convinzione che Dio, essendo infinitamente buono, non può aver creato il male, né può volere il male, non resta altro che pensare a un castigo di Dio, per una eventuale colpa, della quale l’uomo si sarebbe macchiato. Un’idea del genere, prima di far ricorso alla storia del peccato originale, di cui si parla nella Bibbia, è ben conosciuta dagli studiosi di etnologia religiosa, che quasi sempre parlano di un Essere Supremo, il quale, se gli uomini disprezzano i suoi comandi, diventa punitore tremendo, mandando sulla terra i suoi castighi con tempeste, inondazioni, turbolenze e altre catastrofi, pandemie di ogni genere. Tanto sostengono gli indigeni del continente australiano, quelli della Terra del Fuoco e in genere quelli delle religioni più diffuse nei vari continenti. Anche presso gli antichi romani era molto diffusa l’idea che la mancata osservanza dei doveri religiosi avrebbe suscitato l’ira degli dèi, che si vendicavano provocando carestie e altri mali. 

Si perviene così all’idea del peccato originale, di cui si parla nella Bibbia, che per noi cristiani è di fondamentale importanza. La questione, però, come subito possiamo vedere, non è certamente di facile soluzione, anche perché ad essa sono intimamente connesse quella del peccato originale e quella della libertà dell’uomo. 

Una delle domande fondamentali dalla quale non si può prescindere è la seguente: se Dio è onnisciente, sapendo che l’uomo avrebbe peccato, perché mai lo avrebbe creato? In altri termini, perché mai Dio avrebbe creato l’uomo, pur sapendo che questi si sarebbe ribellato e, quindi avrebbe provocato tutto lo sconvolgimento della natura, che noi ben conosciamo, oltre che la conseguente ira di Dio? 

La Chiesa ha sempre insegnato l’esistenza storica di una coppia originale: Adamo ed Eva, nostri progenitori che, avendo trasgredito un divieto divino, furono all’origine della sventura di tutta la loro discendenza, fino alla venuta di Cristo, Salvatore dell’uomo e liberatore dalla colpa originale. Questa dottrina ha occupato un posto importante fin dai tempi di Ireneo, Tertulliano, Origene, fino a Pelagio, che contestò questa interpretazione, asserendo che la caduta dei nostri progenitori aveva avuto conseguenze soltanto su di essi, ma non sui loro discendenti. Per costoro, secondo lui, era stato solo un cattivo esempio. Contro Pelagio scese in campo sant’Agostino, il quale difese l’esistenza del peccato originale con tre argomenti: l’insegnamento della Scrittura (Genesi e san Paolo in particolare), la prassi liturgica del battesimo dei bambini, basata sulla convinzione che essi vengono al mondo con il peccato originale, l’esistenza universale della sofferenza, del dolore e del male, la qualcosa suppone una colpa comune, di cui l’uomo è corresponsabile. Sant’Agostino, però, non ha dato una spiegazione di tutto questo, limitandosi a sottolineare il lato oscuro di tutta la vicenda e affermando che ci si troverebbe di fronte a un mistero difficile da comprendere. Ma la dottrina di Agostino divenne uno dei cardini fondamentali della teologia cattolica e fu accolta sostanzialmente anche dallo stesso san Tommaso, il quale si limitò soltanto a qualche ritocco. 

Il problema, dal quale siamo partiti, è però di altro genere e cioè ci siamo domandati se il male esistente nel mondo sia o meno un castigo di Dio. Ed è proprio a questo quesito fondamentale che siamo chiamati a dare una risposta. Per impostare bene il problema, occorre partire, come già precedentemente accennato, dalla libertà dell’uomo. A tale riguardo Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis splendor, al n. 35, afferma quanto segue: «La rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all’uomo, ma a Dio solo. L’uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere e accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso di una libertà quanto mai ampia, poiché “può mangiare di tutti gli alberi del giardino”. Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte “all’albero della conoscenza del bene e del male”, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo. In realtà proprio in questa accettazione, la libertà dell’uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l’uomo, e in forza del suo stesso amore, glielo propone con i comandamenti». 

L’uomo, però, non sempre fa un uso corretto della libertà e molte sciagure non esisterebbero, se ne facesse veramente un uso corretto. Ad esempio, se ci impegnassimo seriamente a sconfiggere certe malattie e anche ad evitare le guerre. È anche vero, peraltro, che tante sciagure si abbattono sull’umanità a causa del peccato dell’uomo, cioè del suo egoismo. Il fatto è questo: la Bibbia è piena di minacce di castighi divini, ma allo stesso tempo la Bibbia ci dice che Dio, conoscendo l’umana fragilità, dopo il peccato, invita continuamente l’uomo alla conversione, cioè a pentirsi e a far ritorno a lui. I castighi ci sono, ma rappresentano soltanto un aspetto dell’amore di Dio, che vuole sempre il vero bene dell’uomo. Tutti i profeti denunciano le ingiustizie causate dal male, ma, allo stesso tempo, essi invitano alla conversione. 

I primi libri della Bibbia presentano un Dio che punisce, ma che salva e ricompensa coloro che osservano la sua legge; la qualcosa sta a dimostrare che Dio è più disposto a perdonare che a punire. Gli stessi Ebrei, ben presto si rendono conto che la giustizia di Dio è qualcosa di misterioso, anche perché, nella loro storia, si verificheranno delle catastrofi in epoche certamente non peggiori di quelle precedenti. Si pensi, ad esempio, la morte prematura in battaglia del buon re Giosia, alla deportazione in Babilonia ecc. Il libro di Giobbe è emblematico di tutto questo; egli grida ad alta voce la sua innocenza, ma alla fine riconosce di trovarsi di fronte a un mistero incomprensibile, che adora in silenzio. 

La Buona Novella, se la si osserva con estrema attenzione, dà una risposta globale al problema del male nelle sue molteplici manifestazioni: una risposta che, come sappiamo, si conclude con l’assunzione in prima persona, come estrema testimonianza, della passione e della morte in croce dello stesso Gesù, che concentra in se stessa non solo il male umano, ma anche quello cosmico. Come si comporta Gesù di fronte al male? Non vanno enucleate nello stesso concetto di male tutte le malattie, dalle quali egli libera operando tante guarigioni? E che cosa dire dei peccati? Egli non condanna mai il peccatore, ma libera il peccatore dal peccato che costituisce il più grave male morale e cioè come una consapevole violazione della volontà di Dio e come fonte di mali ulteriori. Ma che Cristo, abbia voluto dare una risposta adeguata ai molteplici aspetti del male (fisico, morale, cosmico), lo si vede quando egli si lascia liberamente inchiodare sulla croce, dimostrando così il valore immenso della sofferenza. Da quel momento, il cristiano, messo di fronte allo scandalo del male non può limitarsi più ad adorare in silenzio il mistero che gli sta davanti, ma comincia a guardare a lungo l’immagine del crocifisso. 

Il cristiano lascia che quell’immagine cambi a poco a poco l’idea che egli si era fatta di un Dio infinitamente buono, ma che permette il male. Dio non è un assoluto di potenza che desidera lasciare imperturbata la sua tranquillità. No! Dio è l’Amore. «Guarda in faccia Gesù», scriveva Teresa di Lisieux a sua sorella Céline, «e vedrai quanto ci ama!». Da quel momento, il cristiano, prima di cercare di capire il male, cerca di capire Dio, come si è rivelato sulla collina del Calvario.