domenica 20 maggio 2012

Comunità, quando la correzione è fraterna


Riporto da "Avvenire" di oggi 20 maggio, a firma di Enzo Bianchi.

Avvenire, 20 maggio 2012
di ENZO BIANCHI
Siamo nel tempo pasquale, nel quale la Chiesa ci invita a proclamare la buona notizia per eccellenza: “Cristo è risorto, è veramente risorto!”. Immersi in questa gioia possiamo volgerci indietro, al cammino quaresimale percorso, per verificare se è stato un cammino di conversione e di crescita spirituale, oppure se non abbiamo mosso un passo per fare ritorno al Signore, o addirittura abbiamo finito per cedere ancora di più agli idoli mondani che sempre ci tentano. Nel fare questo esame di coscienza non possiamo dimenticare che all’inizio della Quaresima Benedetto XVI ha indirizzato alla chiesa un messaggio volto a farla riflettere sul fine della sequela: l’amore, la carità. Per questo il papa di Roma ci ha fornito la traccia di una ricerca, di una riflessione, di un impegno quotidiano da assumere, quello riguardante la correzione fraterna.
Ammorbati come siamo da una vera e propria patologia quale è l’indifferenza gli uni verso gli altri, la mancanza di prossimità, non sappiamo neppure più che la correzione fraterna è uno degli atteggiamenti cristiani più decisivi per la salvezza del singolo e per la stessa comunità cristiana, la chiesa. Se non ci si sente custodi, responsabili del fratello, della sorella, dell’altro (cf. Gen 4,9: «Sono forse io il custode di mio fratello?»), allora si vive nel proprio autismo, senza guardare agli altri, senza avvicinarsi all’altro, senza praticare il volto contro volto. In questo modo non nasce mai l’occasione per la correzione reciproca, e di fatto si incoraggia la crescita del male, che sarà sempre più dilagante in quanto non viene mai giudicato: e così, lo si voglia o no, si autorizza chi compie il male a commetterlo senza essere frenato, richiamato. Tra le opere di misericordia che avevamo imparato al catechismo vi era anche «Ammonire i peccatori», espressione forse poco felice, perché sembra presupporre che il cristiano non peccatore debba ammonire chi lo è. Anche per questo, probabilmente, tale opera è andata dimenticata, e così si è persa memoria del fatto che l’istanza sottesa a questa espressione è in verità quella della correzione fraterna, una correzione sempre reciproca.

Il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima non mi sembra abbia ricevuto una ricezione pari a quella riservata ai precedenti, e anche questo la dice lunga sulla difficoltà che ormai i cristiani hanno verso la prassi della correzione fraterna. Assumendo uno stile mondano, i cristiani stessi oscillano tra l’indifferenza e un immediato intervento violento, caratterizzato da insulti e da parole che mirano a delegittimare l’altra parte. Nel tessuto della vita ecclesiale questo appare gravemente contraddittorio rispetto al Vangelo, allo stile di Gesù, a una volontà di comunione che non si perde occasione di dichiarare pubblicamente a parole, ma che in realtà si smentisce in modo persistente con il comportamento quotidiano. L’attuale polarizzazione presente nella chiesa tra gruppi sempre più tentati dallo spirito della setta, spinge a una mormorazione sorda gli uni verso gli altri all’interno dei palazzi. Tale atteggiamento fomenta vere e proprie guerre verso figure ecclesiali combattute dai giornalisti, mediante un pullulare di blog che certo non sono un mezzo per il dialogo, il confronto, l’ascolto reciproco, la franchezza.
Eppure la correzione fraterna è al cuore della vita ecclesiale, è addirittura indicata come necessaria e normata dalle parole di Gesù contenute nei vangeli. Come dunque la si può praticare? Innanzitutto «prestando attenzione gli uni agli altri» (cf. Eb 10,24, versetto che dà il titolo al messaggio di Benedetto XVI). Il cristiano è per sua natura un vigilante, uno che presta attenzione, che tiene fisso lo sguardo sul Signore (cf. Eb 12,2). A partire da questo esercizio a guardare con attenzione il Signore si diventa capaci di guardare i fratelli, le sorelle e gli eventi della storia quotidiana facendo su di essi discernimento, cioè leggendoli nella loro verità profonda e cercando di guardare l’altro con lo sguardo che a lui avrebbe rivolto Cristo stesso. Solo chi ha assunto lo sguardo, i sentimenti, il pensiero di Gesù, può anche vedere l’altro nella verità, può discernere il suo male, la sua colpa – che non coincide mai con l’altro – e quindi può giudicarla nella sua oggettiva gravità. Ciò però – lo ripeto – va fatto guardando a chi ha commesso il male, un uomo o una donna che è molto di più del peccato commesso: l’altro resta sempre una persona, e nessuna azione malvagia da lui compiuta può farci dimenticare questo! Normalmente guardiamo l’altro e subito vediamo un ladro, un delinquente, una prostituta…, finendo per identificarlo con l’azione commessa: ma l’uomo è sempre molto di più del suo agire, eventualmente giudicato come negativo.

Per correggere l’altro occorre dunque spogliarsi del pregiudizio, di quel pensiero che ci abita e ci induce a giudicare una persona soprattutto dal fatto che ha ripetuto qualche volta il suo peccato. No, occorre sforzarsi di vedere l’altro come lo vedrebbe Gesù. Allora, di fronte a una donna adultera non terremo pietre in mano per lapidarla ma, come Gesù ha insegnato, ci chiederemo se abbiamo il diritto di condannare chi ha commesso il peccato, noi che siamo peccatori come lei: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Se uno è esercitato ad «avere in sé gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (cf. Fil 2,5), ad «avere il pensiero di Cristo» (cf. 1Cor 2,16), allora deve e può praticare l’esortazione e la correzione con sincerità e con parresía, franchezza, senza durezza, senza mettersi in posizione di superiorità rispetto all’altro. Ognuno di noi è tentato, nel proprio soggettivismo, di perdere il senso oggettivo delle cose, di non saperle più valutare con la giusta distanza. Abbiamo dunque bisogno di altri che ci aiutino a ritornare all’oggettività, che ci ispirino riserve, domande alle quali dobbiamo rispondere, se vogliamo essere autentici e restare nella verità. Da soli, isolati, senza l’aiuto di altri e il confronto con loro facciamo poca strada e cadiamo facilmente.
Correggere – ricorda il papa – «è una dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male». Gesù stesso molte volte ha praticato la correzione verso quanti lo ascoltavano o lo seguivano: in tal modo voleva appunto esercitare la correzione del peccatore, non dargli la condanna o la morte (cf. Ez 18,23.32; 33,11). Gesù ha usato parole di rimprovero, ma sempre finalizzate a dare la salvezza; lo ha fatto a volte anche con parole forti, di collera, che raccontano il suo pathos, comportandosi cioè da vero erede del pathos dei profeti, della loro passione per l’uomo e la sua salvezza, per la vita. Non è un caso che nel discorso di Gesù sulla chiesa riportato nel capitolo 18 del vangelo secondo Matteo si dia tanto spazio alla correzione fraterna. In questo testo si registra un indicazione di tipo quasi processuale sullo svolgimento della correzione fraterna:
Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché «ogni cosasia risolta sulla parola di due o tre testimoni» (Dt 19,15). Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano (Mt 18,15-17).

La correzione deve dunque avvenire in tre tappe: la correzione personale, discreta, « fra te e lui solo», affinché il fratello si ravveda e il suo peccato non sia conosciuto da altri; poi, se necessario, la correzione fatta in due o tre, in modo che chi ha commesso una colpa sia indotto a ravvedersi dalla presenza di più fratelli; se neanche questo è sufficiente, come misura estrema si faccia ricorso alla correzione in mezzo all’assemblea, di fronte a tutti. Ma se anche questa forma di correzione non ha successo, Gesù chiede di adottare verso chi ha sbagliato l’atteggiamento che egli ha vissuto verso i pagani e i peccatori. Sulle labbra di Gesù ciò equivale a dire: «Vallo a trovare, alloggia presso di lui, mangia con lui e convertilo con il tuo amore e la tua attenzione, come ho fatto io con Levi il pubblicano (cf. Mc 2,13-17 e par.) e con tanti peccatori che sono alla mia sequela». Poco oltre nello stesso vangelo, a Pietro che gli chiede: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?», Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,21-22).
«Certo, sul momento ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza» (Eb 12,1), perché chi è ripreso si sente umiliato e conosciuto nel proprio peccato; poi però resta vero che dalla correzione possono nascere «frutti di pace e di giustizia» (cf. ibid.), e dunque ci si può sentire amati da chi ci corregge. Nelle parenesi apostoliche del Nuovo Testamento si chiede più volte di praticare la correzione fraterna (cf. Rm 15,14; 2Cor 2,6-8; Gal 6,1; Ef 5,11; Col 3,16; 1Ts 5,12.14; 2Ts 3,15; Tt 3,10-11), ma questi insegnamenti già manifestano quanto la correzione sia difficile e faticosa anche per chi la fa; indicano che per correggere occorrono umiltà e amore sincero; che non bisogna mai sentirsi estranei al peccato dell’altro, mai giudicarlo o ritenersi a lui superiore. Infine, non si deve mai praticare la correzione come un ispettore che svolge freddamente il suo compito: la correzione cristiana, infatti, non è una vigilanza di tipo aziendale!
Nella storia – lo sappiamo bene – la correzione fraterna è attestata soprattutto nei primi secoli cristiani, poi è quasi scomparsa; o meglio, è stata relegata nei monasteri o delegata alla prassi del sacramento della penitenza amministrato individualmente. Nei monasteri che conducono una vita cenobitica la correzione avviene ogni mattina durante il capitolo, ovvero l’assemblea quotidiana dei fratelli. Qui colui che presiede corregge gli errori e i peccati comunitari, ma a volte corregge anche un singolo fratello. Ma anche chi presiede, l’abate o il priore, può essere corretto e ammonito dagli altri fratelli. Scriveva al riguardo Basilio di Cesarea: «Chi presiede la comunità non deve essere il solo a non beneficiare del sostegno fraterno della correzione reciproca, lui che esercita la funzione più pesante» (Regole diffuse 27). E l’autore dellaDidaché non chiedeva forse: «Correggetevi a vicenda, non nell’ira, ma nella pace» (15,3)?

Chi conosce dall’interno la vita monastica sa come la correzione reciproca tra fratelli riuniti insieme appaia come una vera e propria grazia. Il monaco è richiamato a considerare una mancanza che gli era sfuggita, una colpa che non aveva giudicato nel suo vero peso; sente che gli altri guardano e pensano anche a lui; è consapevole di appartenere a una trama i cui fili sono l’uno necessario all’altro e tutti insieme formano un tessuto unico, in cui «un peccato di un membro contamina tutto il corpo della comunità» (Regola di Bose 20). Così l’esperienza di fragilità diventa esperienza evangelica e il peccato cede alla misericordia. Una vita comunitaria – dicono molti padri – si giudica innanzitutto dalla qualità e dalla frequenza della correzione fraterna, perché questa è la forma di carità più faticosa e difficile ma, nello stesso tempo, la più feconda: i suoi frutti non tardano a mostrarsi.
Nel suo messaggio Benedetto XVI chiede con forza l’esercizio della carità fraterna nella chiesa, nella vita ecclesiale. Qui la correzione fraterna si fa ancora più difficile; lo mostra il fatto che essa è ben poco attuata, come appare dal prevalere della disobbedienza, della rivolta, della divisione all’interno della chiesa. Anche in questo caso la storia è maestra. Nel primo millennio quella della correzione fraterna era una prassi ben attestata: vi sono numerosissimi esempi di correzione fraterna ecclesiale tra le chiese orientali e la chiesa latina romana (si pensi solo a quella di Basilio di Cesarea nei confronti di papa Damaso I), e molte tensioni si sono risolte grazie al dialogo, all’ascolto reciproco e alla correzione. Nel secondo millennio rari sono invece i casi di correzione fraterna praticata dal semplice fedele verso l’autorità, anche quella suprema. Chiediamoci con franchezza: se si fosse praticato di più l’ascolto, se si fosse accettata la correzione reciproca, avremmo subìto il grande scisma di occidente, quello in cui Lutero di fatto portò la divisione nella chiesa? Il grande rabbi Tarfon dopo la Shoah del 70 d.C. sostenne che il popolo di Dio aveva subito l’umiliante catastrofe perché non aveva saputo umilmente praticare la correzione fraterna…
Vi sono però alcune eccezioni, che vale la pena di elencare brevemente (chi volesse approfondire, può trovare ulteriori esempi in S. Xeres, Una chiesa da riformare , Qiqajon, Magnano 2009). Classica, conosciutissima e di perenne attualità è la correzione praticata dall’abate di Clairvaux Bernardo nei confronti di papa Eugenio III, nel suo De consideratione (1150 ca.). Bernardo si spinge con audacia fino a ricordare al papa che egli è successore di Pietro, non di Costantino, e si rivolge a lui dicendogli:
Anche se sei vestito di porpora e cammini coperto di oro, non c’è nessuna ragione perché tu, che sei erede del Pastore, abbia fastidio del ministero pastorale e provi vergogna del Vangelo (cf. Rm 1,16). Se, invece, ti dedicherai con decisa volontà all’evangelizzazione, avrai un posto glorioso tra gli apostoli. Evangelizzare, vuol dire pascere. Fa’ dunque l’evangelizzatore e sarai pastore (IV,3,6).

Circa un secolo prima va ricordato Pier Damiani; dopo Bernardo è la volta di Matilde di Magdeburgo; poi di Caterina da Siena, donna di fuoco, che verso la fine del XIV secolo, durante la cattività avignonese, rimproverava al papa Gregorio XI di non stare nella sua cattedra di Roma. Più tardi verranno Vincenzo Quirini e Paolo Giustiniani; nel XIX secolo non si può dimenticare don Antonio Rosmini e, nel secolo scorso, don Primo Mazzolari. Dalla parte delle autorità della chiesa vanno ricordati almeno Guglielmo Durand, vescovo francese degli inizi del XIV secolo, il quale sembra essere stato il primo ad aver utilizzato la formula «riforma (della chiesa) nel capo e nelle membra»; papa Adriano VI, che agli inizi del XVI secolo riconobbe coraggiosamente la decadenza della chiesa romana, individuandone la causa principale nei comportamenti e nelle scelte dei pontefici e della loro corte; e, soprattutto, papa Giovanni Paolo II il quale, in occasione del giubileo del 2000, confessò i peccati dei cristiani chiedendo perdono a Dio mediante una solenne liturgia pubblica.
Infine, vorrei sottolineare che, a proposito della correzione, due concetti sono inseparabili, anche se in una reciproca tensione non facile da risolvere: correzione fraterna, appunto, e obbedienza. Per esercitare la correzione fraterna occorre essere guidati e illuminati da qualcuno, da qualcosa, e per il cristiano questa luce che dà orientamento può essere solo il Vangelo che è Gesù Cristo e Gesù Cristo che è il Vangelo. E così ecco emergere il valore dell’obbedienza. Senza obbedienza al Vangelo e senza ascolto di chi ha ricevuto dal Signore il compito di essere testimone del Vangelo, regnano l’anarchia e l’anomia – dice ancora Basilio – e non ci possono essere né reciprocità (allélon) né comunione (koinonía). Oggi nella chiesa abbiamo più che mai bisogno di correzione fraterna, e i pastori della chiesa, che correggono la comunità cristiana, devono a loro volta essere corretti dalla comunità con rispetto e senza contestazione né, tanto meno, disobbedienza. Non è vero che l’obbedienza non è più una virtù: anzi, è la virtù cristiana per eccellenza, perché «Cristo Gesù … si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5.8).