giovedì 17 maggio 2012

I giorni della Tempesta





Ieri è uscito il nuovo libro di Antonio Socci, “I giorni della tempesta”, un romanzo edito da Rizzoli. A tal proposito è uscito un pezzo nelle pagine culturali di "Avvenire", a firma di Andrea Galli. Inoltre “Il Foglio” ha dedicato un’intera pagina al libro con un’anticipazione e con un articolo di Maurizio Crippa.   Di seguito riporto i testi. Conoscendo l'autore, è un libro che si può comprare a scatola chiusa...ù
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 La vicenda è contenuta nei Quadernetti di Maria Valtorta, degli inediti della mistica di Viareggio pubblicati nel 2006 ma passati inosservati. Antonio Socci l’ha ripresa e ne ha fatto il perno del suo ultimo libro, I giorni della tempesta (Rizzoli), un giallo metafisico ambientato nel 2015 tra un conclave, orditi criminali e persecuzioni contro la Chiesa, con temi e personaggi che prendono spunto dall’attualità e faranno discutere. Si tratta di una relazione che la Valtorta scrisse per Pio XII tra il febbraio e l’ottobre del 1949, indirizzandogliela – non sappiamo se però giunse a destinazione – tramite monsignor Alfonso Carinci, l’allora segretario della Sacra congregazione dei riti. Era la risposta a una richiesta fattale da personalità di curia a nome del Pontefice, dopo che in Vaticano si era saputo di sue visioni riguardanti la morte e la sepoltura di Pietro. Da dieci anni, infatti, erano in corso con grande riservatezza gli scavi archeologici sotto l’altare della Confessione della basilica di San Pietro: iniziati in concomitanza con il tentativo di allestire una sistemazione per la sepoltura di Pio XI e continuati per cercare le tracce del sepolcro dell’apostolo, se possibile anche i resti del suo corpo. La Valtorta obbedì a quel sollecito vaticano e in una serie di scritti molto articolati riportò quel che Gesù le aveva concesso di "vedere": Pietro non era mai stato sepolto sul colle Vaticano, luogo del martirio, ma le sue spoglie erano state deposte e custodite dai cristiani in quelle che oggi sono conosciute come le catacombe dei santi Marcellino e Pietro, sulla via Casilina.

Le ricerche sotto la basilica portarono al solenne annuncio del ritrovamento della tomba dell’apostolo da parte di Pio XII, nel radiomessaggio del 23 dicembre 1950, alla fine dell’Anno Santo. Ma il dibattito fra gli specialisti andò avanti, sotto traccia. Non solo quindi la disputa sulle ossa rinvenute in un loculo del "muro G" a nord dello spazio sepolcrale e che vide scontrarsi per decenni – tutt’altro che sotto traccia – l’archeologo gesuita Antonio Ferrua e l’epigrafista Margherita Guarducci. Con il primo che aveva partecipato agli scavi e sempre negò che i frammenti ossei potessero essere attribuiti a Pietro e la seconda che, pur entrando in scena a scavi finiti, difese con tutta la passione e la determinazione di cui era capace l’identità petrina di quei resti, fino a convincere o comunque a orientare a suo favore il giudizio di Paolo VI.

Rilanciando le misteriose pagine della Valtorta, Socci le mette in parallelo alla posizione di quegli studiosi che pensano sia giunto il momento di riparlare con serenità della questione della tomba di Pietro, ora che il tema si è in qualche modo sedimentato e sono venute meno certe urgenze apologetiche del dopoguerra (nessuno storico serio contesta più la presenza e la morte del capo degli apostoli a Roma). Uno di questi è per esempio Carlo Carletti, docente di Epigrafia e Antichità cristiane all’Università di Bari e membro della Pontificia commissione di archeologia sacra, che in un lungo articolo uscito sull’Osservatore Romano il 23 ottobre 2008 ha sostenuto che il riferimento cronologico più alto individuabile nell’area degli scavi risale all’epoca di Marco Aurelio (161-180), non prima; e molti dati lasciano intendere che il famoso "trofeo di Gaio" ritrovato nel sottosuolo in corrispondenza con l’altare del Bernini, più che la tomba doveva essere un monumento per ricordare il luogo del supplizio di Pietro. Giudizio molto distante da quello di Danilo Mazzoleni, docente di Archeologia cristiana all’Università di Roma Tre e decano del Pontificio istituto di archeologia cristiana, che ritiene invece «incontrovertibile» l’individuazione della tomba di Pietro. E richiama l’attenzione almeno su un fatto: «Costantino non avrebbe compiuto lavori spaventosi per costruire la basilica, livellando un colle e annientando la vita di una necropoli ancora in uso, se non si fosse reso conto che una delle condizioni essenziali della comunità cristiana era quella di non toccare l’ubicazione dei sepolcri dei martiri e in prima istanza di quello di Pietro». Una cosa sembra comunque, se non certa, probabile: tra la riscoperta del carteggio valtortiano, il romanzo di Socci e il convegno su padre Ferrua che si terrà l’anno prossimo a Cuneo, a dieci anni dalla sua scomparsa, della sepoltura del principe degli apostoli e primo vescovo di Roma si tornerà a parlare.    (A. Galli)
Fonte: Avvenire

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Che cosa c’entra la tomba del Principe degli apostoli con il potere del mondo e l’apostasia del cristianesimo moderno? Un bel mistero

Che ci fa un giovane prete metà americano e metà toscano dalle parti di Tor Pignattara, Anno Domini 2015, alla ricerca del Principe degli Apostoli? Che c’entra il dedalo delle catacombe vicine al mausoleo di Elena, la madre di Costantino, con l’imminente Conclave? E che cosa ha da spartire una mistica inchiodata per quarant’anni in un letto di malattia a Viareggio, e morta cinquant’anni fa, con la tumultuosa elezione del nuovo Papa? Che c’entra l’archeologia con le campagne mediatiche di denigrazione dei pastori della chiesa, addirittura le accuse devastanti di genocidio per aver contribuito a diffondere l’Aids? Che c’entrano le ingiuste leggi di un’Europa sempre più anticattolica con il misterioso contenuto di un carteggio privato di Pio XII? E perché qualcuno ha trafugato quei fogli dagli archivi del Vaticano? E perché per compiere quel furto è stato necesario ricorrere al ricatto e all’omicidio? E che cosa c’entra, alla fin fine, tutto questo complicato plot da vatican thriller con il primato petrino, cioè con il senso stesso dell’esistenza della chiesa di Roma e del vicario di Cristo (“non praevalebunt”) e con la salvezza del cristianesimo tutto dentro a un mondo sempre più ostile, ma allo stesso tempo impaurito e alla deriva? E, si parva licet, con la salvezza del mondo stesso?
Il dubbio che Antonio Socci, scrittore e giornalista già autore di molti saggi sulla chiesa, la sua storia, la sua secolare (nonché mistica) “lotta” con il “Mondo”, si sia preso una vacanza per provare l’avventura nel mondo facilone della letteratura pop dura appena lo spazio  di poche pagine del suo “I giorni della tempesta” (Rizzoli), ufficialmente il suo primo romanzo.
In realtà, dentro la trama comunque ben oliata della fiction da noir vaticano – un omicidio, paurosi complotti, un Papa che muore, un giovane prete alle prese con misteri teologici e archeologici – Socci se ne va, sicuro e appassionato come sempre, per una sua strada tutt’altro che banale (come capita di solito nel genere) ma anzi  carica di un’urgenza storica, culturale, religiosa decisiva per le sorti della chiesa in questa apertura di millennio, nonché per i destini collettivi delle nostre società ormai platealmente post cristiane. I temi che Socci mette in scena nel suo romanzo sono anzi, e addirittura, argomenti della cronaca.
 Sulla chiesa, soprattutto europea, soffiano i venti della contestazione interna (c’è chi parla ormai di un neocristianesimo diffuso e “orizzontale”), mentre le società secolarizzate tentano di imporle le loro logiche, persino giuridiche (il caso mondiale della definizione dei reati di pedofilia). La sopravvivenza della chiesa verrà dall’adeguamento sempre più esplicito della dottrina e della pastorale ai criteri mondani? Il cristianesimo ritroverà la forza del suo messaggio in una nuova forma laicizzata, protestantizzata, senza più  autorità riconosciute? O – nei giorni del possibile rientro dei lefebvriani nella comunione di Roma – dovrà iniziare una dolorosa marcia indietro di alcuni decenni? E allora ecco che sorprendentemente – e al di fuori dalla fiction romanzesca e della semplice curiosità storica – la domanda su dove sia davvero la tomba di san Pietro, diventa interessante, cruciale.
Il primato del Papa, la sua autorità su tutti cristiani è legato fin dai primi secoli proprio alla continuità che lega la chiesa di Roma all’autorità dell’apostolo. E fin dal medioevo tutti i tentativi di contestare l’autorità del Papa hanno tentato di negare l’esistenza della tomba di Pietro, o addirittura la sua stessa presenza a Roma. Lutero, nel suo “Contro il papato in Roma fondato dal diavolo”, scriveva: “Questo posso allegramente dire, per quanto ho visto e udito a Roma, che cioè a Roma non si sa dove siano i corpi dei santi Pietro e Paolo, o addirittura se vi siano. Papa e cardinali sanno benissimo che non lo sanno”.  Non è un caso che l’annuncio solenne del ritrovamento delle ossa di san Pietro sotto la Basilica vaticana fu dato da Paolo VI, pur con qualche cautela, nel 1968: nell’annus horribilis della peggior contestazione alla chiesa e nel momento in cui il vento impetuoso del post Concilio (la querelle sulla collegialità, la pillola…) soffiava più forte.
Perché l’annuncio non fu fatto prima? Perché per secoli i cattolici furono così timorosi, o dimentichi, della propria storia? Cosa sapeva Pio XII, e cosa lo frenò dal farlo sapere al mondo, a proposito della tomba di Pietro? E perché la gerarchia vaticana del secolo scorso è stata a lungo sospettosa di fronte a fenomeni di santità e misticismo che invece la spronavano con parole forti e profetiche a “non adeguarsi alla mentalità del mondo”?
Qui c’è l’altro aspetto, altrettanto attuale e interessante, che guida il racconto di Socci. Di fronte alla progressiva scristianizzazione dell’occidente, di fronte a quello che è stato definito come un grande fenomeno di apostasia collettiva, la chiesa che ha più resistito non è né quella istituzionale, né quella festosamente votata al progressismo dei decenni scorsi. No, è per molti aspetti la chiesa “non istituzionale” dei fedeli attratti da Padre Pio, dalla spiritualità mariana, da esperienze di misticismo come quella di Maria Valtorta, la mistica italiana del secolo scorso – quasi ignota al grande pubblico ma autrice “sotto ispirazione” di un’opera soprendente come “L’Evangelo come mi è stato rivelato” – che Socci rende vera misteriosa protagonsita, con le sue indicazioni, del romanzo.
Postilla. Dovrebbe fare impressione che oggi, per provare a comunicare contenuti di questo tipo al pubblico largo e non specialista, si debba pagare una sorta di tributo narrativo al nuovo canone occidentale: quello del vatican thriller à la Dan Brown, l’unico modo in cui sembra possibile raccontare una storia che abbia ad argomento la chiesa. Con una differenza sostanziale. Mentre ormai milioni di persone nel mondo sono convinte come di un fatto storico che François Mitterrand fosse il gran maestro del priorato di Sion, e abbia costruito la piramide del Louvre per i suoi oscurissimi disegni relativi al santo Graal, mentre si tratta solo di panzane, il racconto di Antonio Socci dovrà scontrarsi con un’incredulità preconcetta e diffusa: come fidarsi di quel che ci tramandano le catacombe? Come predere sul serio parole scritte decenni fa da una mistica non autorizzata?
E invece, nella fiction non-fiction – ma si potrebbe forse chiamarla “info-novel”, un genere informativo sotto forma di romanzo – di Socci, ciò che è raccontato è vero.  Vera l’archeologia, vere le citazioni, persino di articoli di giornale, veramente accaduti i fatti relativi a Maria Valtorta e ai suoi rapporti epistolari col Vaticano. Dove sia esattamente la tomba di San Pietro, e se il suo miracoloso ritrovamento potrà bastare a una chiesa e a un mondo che stanno vivendo giorni di tempesta per trovare un porto sicuro, non sappiamo dire. Ma senz’altro, non sono argomenti da fiction. (M. Crippa)
Fonte: “Il Foglio” 16 maggio 2012