domenica 10 giugno 2012

Darwin, lo scientismo e l'utilitarismo: la posizione della Chiesa

Progetto di Dio: la creazione

Nel 1985 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger tenne 6 lezioni alla Fondazione Sankt Georgen in Carinzia, 4 delle quali dedicate al tema della creazione tra Bibbia e scienza. Quei testi finora inediti in italiano vengono oggi raccolti (insieme a un altro scritto del Papa sulla comprensione della fede nella creazione, già pubblicato nel 1969) nel volume «Progetto di Dio. La creazione» per la Marcianum Press (pp. 208, euro 19). Propongo di seguito stralci dell’introduzione di Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università Santa Croce.
In merito al confronto fra teolo­gia della creazione e pensiero scientifico, le pagine delle lezio­ni tenute in Carinzia nel 1986 tra­smettono alcune intuizioni, o co­munque contengono alcune linee­guida su come Joseph Ratzinger sembra volersi accostare a questa delicata tematica. Esaminiamole brevemente. Un primo elemento è l’intento dell’autore, comune anche ad altri suoi scritti, di proporre una pro­spettiva unitaria della Sacra Scrit­tura, proponendo al contempo u­na visione dinamica della sua sto­ria redazionale, riflesso del pro­gresso dell’esperienza religiosa di Israele. La verità di un testo non va cercata solo ricostruendo il più precisamente possibile le sue origi­ni storico-filologiche, muovendosi all’indietro, ma bisogna anche guardare avanti: la verità del testo è nel suo compimento, in Cristo, in accordo con quanto l’esegesi patri­stica aveva suggerito. Un secondo elemento che caratte­rizza la teologia biblica di Ratzin­ger in relazione alla rivelazione delle verità sulla creazione è sotto­lineare il valore positivo di tutto ciò che accomuna, nelle stesse pagine della Scrittura, l’esperienza religio­sa di Israele con l’esperienza au­tenticamente religiosa vissuta dagli altri popoli. Se le differenze specifi­che parlano del modo in cui la Pa­rola di Jahvé si erge sul mito, quan­do quest’ultimo viene inteso come ‘favola’, le comunanze, altrettanto importanti, parlano invece della ri­velazione e del compimento del mito, quando questo viene inteso come un contenuto veritativo ar­caico dalle forti basi antro­pologiche. Tale impostazio­ne conduce Ratzinger a prendere le distanze da Karl Barth. L a correzione di rotta è, in proposito, esplicita: «Sono cresciuto teolo­gicamente nell’era di Karl Barth – egli afferma ricor­dando i suoi anni universitari – ed anche i miei insegnanti erano tutti profondamente segnati da lui, in modo tale che la distinzione di ciò che è cristiano, il differire dalle al­tre culture e religioni era come la prima parola del nostro pensiero teologico. Ora, quanto più vado a­vanti con la teologia, tanto più mi si fa chiaro, nell’esperienza e nella conoscenza, che egli aveva torto. La cognizione dell’unità delle cul­ture nelle più profonde questioni dell’esistenza umana è una cosa assolutamente decisiva, perché le culture comunicano e dunque re­stano aperte anche su quel tema [il creato], per l’appunto, decisivo». Un terzo aspetto di estremo inte­resse è l’insistenza con cui il già ar­civescovo di Monaco e Frisinga vuole evitare una separazione net­ta fra lettura spirituale e lettura scientifica del mondo creato. Egli non ritiene corretta l’idea che la verità della Scrittura si difenda me­glio relegando il discorso biblico in un ambito spirituale, vale a dire privandolo della sua capacità di formulare giudizi sulle verità natu­rali, dimenticando così che la Paro­la di Dio getta luce anche sul modo di guardare la natura, di conoscerla e di comprenderne l’intima intelli­gibilità. Chiaro l’intento di Ratzin­ger di proporre una dottrina della creazione capace di mantenere la duplice prospettiva di una creatio ex nihilo e di una creatio ex amore, tenendo così insieme il versante metafisico e quello esistenziale, il fondamento ontologico e il Dio personale, la Dei Filius e la Gau­dium et spes . Ambedue gli approcci sono oggi necessari e dimenticare anche uno solo dei due farebbe perdere un contenuto essenziale. Il fondamento ontologico è indi­spensabile al dialogo con le scienze naturali ed è in grado di raccordar­si con le aperture dell’analisi empi­rica verso l’esistenza di un fonda­mento dell’essere e l’intelligibilità di tutte le cose. All’epoca in cui Ratzinger teneva le sue meditazio­ni in Carinzia, era ancora viva l’eco suscitata dal libro di Jacques Mo­nod Il caso e la necessità (1970), pubblicato 15 anni prima. C on l’opera del biologo fran­cese egli entra spesso in dia­logo ideale, rileggendo l’al­ternativa monodiana fra caso e ne­cessità in termini di un’alternativa fra gratuità della contingenza e ne­cessità delle leggi di natura, propo­nendo di collegare la prima all’in­tenzionalità dell’amore che si erge sui fenomeni empirici o comun­que conoscibili solo empiricamen­te. Ratzinger accoglie e valorizza le differenze esistenti fra un organi­smo e una macchina elencate da Monod e attribuisce la specificità del primo a un supplemento di informazione che esso contiene e trasmette, di cui non teme di se­gnalare la risonanza platonica, se­condo una forma che l’organismo è in grado di riprodurre. Riveste senza dubbio interesse il modo con cui il teologo tedesco affronta la questione dei meccanismi darwiniani dell’evoluzione biologi­ca, che al sottolineare l’aleatorietà delle mutazioni genetiche sembre­rebbero mettere in crisi la visione, in maggior sintonia con la fede, di una vita che ascende in modo ordi­nato e finalistico da forme inferiori e sem­plici ver­so forme superiori e sempre più organizzate, fino all’uomo. Come potrebbero degli errori casuali nella trascrizio­ne del patrimonio genetico essere alla base del meccanismo evoluti­vo della vita, divenendo così inte­ramente responsabili della specifi­cità dell’essere umano, di quella medesima creatura che la fede cri­stiana confessa essere a immagine e somiglianza di Dio? Ratzinger è consapevole della sfida che i mec­canismi darwiniani sembrano por­re alla fede: «Siamo un prodotto di errori casuali accumulati. Anche questa, credo, è una diagnosi mol­to profonda e un’immagine del­l’uomo ». La contro-risposta che e­gli fornisce è prudente, ed in certo modo interlocutoria. Si lascia alla scienza il compito di fare il suo cor­so, di esaminare se non esistano al­tri fattori, altrettanto importanti, nell’evoluzione biologica, fattori (che oggi sappiamo operativi) che favoriscano piuttosto la stabilità delle proprietà della natura, delle regole alle quali la stessa evoluzio­ne debba in definitiva conformarsi, il suo ‘platonismo’ se ci si consen­te l’espressione… La fede sembra dirci, osserva Ratzinger, che tali fattori deb­bano esistere; tuttavia, egli non precisa a quale livello cercarli, ma si limita ad indicare che se gli elementi che privilegerebbero la stabilità dell’informazione o il suo ordinato dispiegarsi venissero ne­gati sul piano empirico, essi emer­gerebbero prima o poi sul piano delle descrizioni globali e globaliz­zanti, come dimostra il fatto che nelle descrizioni dei biologi la Na­tura venga spesso impersonificata, indicando in essa un ‘soggetto’ a­stratto capace di unificare in modo fittizio (e dunque surrettiziamente progettuale) l’intero processo evo­lutivo. È questo genere di ‘sostitu­zioni’ che, secondo Ratzinger, non dovrebbero essere accettate, la­sciando invece che le categorie spi­rituali siano riconosciute come tali, e dunque impiegate per esprimere lo spirito, non la materia. Di fronte a questo stato di cose, ed indipen­dentemente dal modo in cui com­porre l’apparente alternativa, egli ribadisce la convinzione ferma, as­sunta dalla fede nella Rivelazione, che l’essere dell’essere umano (val­ga la ridondanza) è il risultato di un progetto di Dio e non una som­ma di errori di trascrizione. Porre la casualità a livello ontologico equi­varrebbe ad elevare il darwinismo a rango di filosofia globale, ed è questa prospettiva, non l’aleato­rietà degli errori di trascrizione nel Dna, a non essere più compatibile con il messaggio della Rivelazione.
Giuseppe Tanzella-Nitti

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ROMA, sabato, 9 giugno 2012.- Nel libro Senza radici, scritto in collaborazione con l'allora cardinale Joseph Ratzinger ed ora papa con il nome di Benedetto XVI, Marcello Pera si chiede: «C'è forse una guerra? La mia risposta è: sì, c'è una guerra, e credo che sia responsabile riconoscerlo e dirlo, anche se sembra politicamente corretto tacerlo. Dall'Afghanistan al Kashmir alla Cecenia al Dagestan all'Ossezia alle Filippine all'Arabia Saudita al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina all'Egitto all'Algeria al Marocco, in gran parte del mondo islamico e arabo, gruppi consistenti di fondamentalisti, radicali, estremisti (…) hanno dichiarato una guerra santa all'Occidente, la jihad. Lo hanno detto, scritto. comunicato, predicato, diffuso a chiare lettere»1.
Noi concordiamo in toto con le parole del filosofo e uomo politico, soprattutto, concordiamo con quanto scrive papa Ratzinger: «[lo] sgretolarsi del cristianesimo sta - a mio parere - nel fatto che sembra essere superato dalla "scienza" e non essere più in armonia con la razionalità dell'età moderna. Ciò vale soprattutto da due punti di vista. La critica storica ha scompaginato la Bibbia rendendo non credibile la sua origine divina. La scienza e l'immagine moderna del mondo creata dalla scienza sembrano escludere dalla realtà la visione di fondo della fede cristiana, relegandola nell'ambito del mito»2.
Dalle parole dei due insigni personaggi, ci sembra di poter trarre la seguente conclusione: l'Europa è, sì, in guerra, ma la prima guerra da combattere è contro se stessa e il primo nemico da battere si chiama scientismo.
Come abbiamo scritto altrove3, l'uomo contemporaneo si dibatte in una profonda crisi umanistica. le cause? Gli studiosi sono pressoché unanimi nell'indicare la scienza moderna (quella che nasce con Galilei, per intenderci) come l'artefice principale della crisi. Ad essa è da imputare quella malattia del secolo che il sociologo americano Alvin Toffler definì, negli Anni Settanta del secolo scorso, future shock, per la cui terapia «'individuo deve diventare infinitamente più adattabile e capace di quanto sia mai stato prima. Deve scoprire modi totalmente nuovi di ancorare sé stesso, poiché tutte le radici di un tempo - religione, nazione, comunità, famiglia o professione - stanno ora vacillando sotto l'impeto da uragano della spinta acceleratrice»4.
Individuata nella scienza la causa principale della crisi umanistica contemporanea, resta da vedere in che modo essa la determini. Partiamo da una constatazione molto semplice.
La scienza, pur esistendo ormai da diversi secoli, non cessa tuttavia di entusiasmarci, o almeno di scuoterci, una volta con la scoperta dell'energia nucleare, un'altra con la conquista dello spazio, poi con l'avvento dell'informatica e dell'ingegneria genetica e, negli anni a venire, chissà con quante altre mirabilia! La scienza, in sostanza, ci rivela continuamente aspetti del mondo osservabile mai notati prima, e ciò perché il suo modo di conoscere la realtà è dinamico, mentre quello prescientifico era statico, ancorato, cioè, ad una visione delle cose fissa e immutabile.
Il dinamismo della scienza ci spiega in che modo essa influenzi l'attuale crisi umanistica. La ricerca scientifica, poiché, a causa del suo progressivo espansionismo (mutabilità estrinseca), mette necessariamente in discussione molte delle convinzioni che in passato erano ritenute evidenti, genera nell'uomo un senso di scoraggiamento che lo porta a considerare come illusoria ogni visione umanistica della realtà. Ma ben più profondo è l'effetto della mutabilità intrinsecadella scienza sulla crisi dell'uomo contemporaneo. Come si sa, i risultati della ricerca scientifica non sono fissi e immutabili, ma sempre esposti a cambiamenti e a novità impreviste. Ora, se la scienza stessa non arriva mai a risultati certi e definitivi, è possibile parlare di vera certezza della conoscenza umana? E se non si ha certezza, come si può avere un umanesimo? Ed ecco la tentazione diffusa discetticismorelativismo, radice ultima della crisi umanistica contemporanea.
Tuttavia, se la scienza è all'origine della crisi umanistica contemporanea crisi di identità), essa può essere - se ben compresa - fattore di umanizzazione. Vediamo in che modo. Bisogna, anzitutto, dire che, se è la scienza a provocare la crisi umanistica, essa non ne è la causa ultima, la quale invece è da addossarsi all'uomo. L'unica colpa della scienza semmai è di rivelare l'uomo a sé stesso (autoscoperta); ma questi ha poi paura di affrontarsi e di intraprendere lo sforzo richiesto dalla sua umanizzazione (autoaffrontamento), e facilmente si lascia tentare dallo scientismo, dalla scelta cioè della scienza come la principale e l'unica sorgente di valori. Il grande valore della scienza è sì la ricerca della verità come fine a sé stessa, ma tale verità è di tipo intellettuale-oggettivo e il suo valore morale è necessariamente unilaterale. Lo scientismo non è, dunque, una conseguenza necessaria della scienza, ma un'indebita esagerazione del suo valore morale.
Pur essendo un'espressione degenere della scienza, è proprio lo scientismo che ci dà un primo segno rivelatore della dimensione umanizzante della scienza, poiché esso presuppone non la mancanza o l'eclisse bensì l'esistenza di ideali etici in chi si dedica alla ricerca scientifica. La scienza è umanistica perché è essenzialmente ricerca di un ideale. La conferma ci viene dall'indagine socio-psicologica della mentalità scientifica: il vero scienziato si sentirebbe umiliato se la sua ricerca fosse motivata soltanto da esigenze finanziarie od opportunistiche. Un altro elemento rivelatore della dimensione umanizzante della scienza è costituito dal senso di accentuata sensibilità morale dello scienziato.
Una volta scoperta la verità, il ricercatore si sente in obbligo di intervenire sui problemi di ordine etico che la scoperta implica. Chi non ricorda i tentativi fatti da Einstein e Bohr, alla fine della seconda guerra mondiale, per l'uso pacifico dell'energia nucleare? La coerenza, infine, con lo spirito della scienza porta il vero scienziato a non arrestarsi, nella sua ricerca, ai dati osservabili, ma a chiedersi qual è la sorgente ultima dell'intelligibilità del reale.
La scienza, in sostanza, non è nemica, secondo una diffusa opinione, della metafisica e della religione. Tale atteggiamento è solo di chi riduce la scienza, tradendone lo spirito, a pura attività tecnica. Lo scienziato autentico, invece, spinge la sua ricerca di comprensione al di là del mero dato empirico, disvelandoci così ulteriormente l'influsso umanizzante della scienza. E la fantascienza quale ruolo potrebbe avere nell'affrontare l'attuale crisi umanistica? Anzitutto, è doveroso rilevare che, come shock culturalecausato dalla scienza moderna trova ampio rispecchiamento in molte opere di fantascienza, altrettanto avviene per gli aspetti umanistici della scienza che fin qui abbiamo evidenziato. L'introduzione della fantascienza nelle scuole andrebbe dunque favorita e non osteggiata, come avviene attualmente.(A. Scacco)
Fonte: Zenit
N O T E
1 JOSEPH RATZINGER-MARCELLO PERA, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori "Speciale Panorama", Milano 20056, pp.41-2.
Ibidem, pp.114-115.
3 Cfr. il nostro intervento Il rinnovamento umanistico tra scienza, fantascienza e religione inFantascienza umanistica (cap.1.1., Boopen 2009, pp.13-22). A richiesta, si inviano copie-omaggio del libro, ma solo per i residenti nella zona euro.
4 ALVIN TOFFLER, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano, 19722, p.42.

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"DAI E TI SARÀ DATO"

La cultura del dono supera e risolve le contraddizioni dell'utilitarismo

ROMA, domenica, 10 giugno 2012.- La cultura del dono come terza alternativa fra altruismo ed egoismo. L’egoismo è un essere per sé, l’altruismo è un essere per l’altro. Il dono appartiene alla dimensione intermedia dell’essere per e con l’altro. La cultura del dono è tipica di Gesù Cristo e del cristianesimo, penso al capitolo 2 e 4 degli Atti degli Apostoli, all'Ora et Labora di Benedetto, a Chiara e Francesco, alla scuola economica francescana, alle reducciones dei gesuiti solo per fare alcuni nomi.
La cultura del dono è stata ripresa e sviluppata in questi termini, fra Ottocento e Novecento dall’antropologo e sociologo francese di origine ebraica Marcel Mauss. Dal suo pensiero ha preso vita l’associazione Mauss (acronimo di Movimento antiutilitarista in scienze sociali) che unisce studiosi che si rifanno al maestro transalpino.
In ambito cattolico chi ha ripreso questa cultura è stata Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. In maniera profetica vedeva come il modo per poter contribuire ad un mondo più giusto si trovava proprio nella cultura del dono, della reciprocità non strumentale.
La cultura dell'utilitarismo accusa la cultura del dono di perseguire sempre un atto egoistico perchè donando, l'uomo soddisfa la sua sete di fare del bene.
In realtà la riflessione sul dono è molto più complessa di quello che la cultura utilitaristica o del capitalismo compassionevole vorrebbe indicare come unica verità.
Il dono non parte solo da un atteggiamento di bontà, o di buonismo, ma da una forte apertura verso l’altro, dal desiderio di relazionarsi con l’altro. E’ agape con e per l’altro.
Nel dono c'è ontologicamente il desiderio di appartenenza, di legame per una più piena realizzazione del sé che si realizza se in relazione con l'altro.
Nel dono non vi è l’egoismo di chi pensa solo ai propri interessi, ma nemmeno il sacrificio o l'egoismo del sé tipico di qualche atteggiamento dell'altruismo.
Le persone che vivono della cultura del dono la declinano come un bisogno esistenziale per-con l’altro.
Attenzione non si tratta di uno scambio simmetrico. In altre parole chi dona non si attende un ritorno. Difatti la cultura del dono non funziona come avviene nello scambio economico con un dare e un avere.
Dono qualcosa di me perché sento il bisogno di legarmi con l'altro. Sento il legame come bene in sé, come il fine per costruire una società ricca in termini di rapporti umani, perché io mi considero solo in relazione con l’altro.
Il dramma della società postmoderna sta nell'avere perso il Dio-Trinità (che è koinonia perfetta e dono perfetto) e nell'avere perso l'uomo umanizzato; ha prevalso la tendenza a preferire l'uomo animale spinto da istinti darwinistici, (cioè soppressione del più debole ndr). La cultura del dono se esercitata fa crescere nella persona una diversa consapevolezza del sé, rispetto alla cultura dello scambio e della competizione individualista tipica della cultura predominante.
La Riforma Protestante, e l’epoca dei lumi, hanno favorito l’individualismo e l’autosufficienza, ci consideriamo Dio di noi stessi in nome dell’utile e del profitto. Abbiamo accettato di sacrificare i legami familiari, amicali creando una società e relazioni fondate sull’utilitarismo e le conseguenze pratiche e profonde che le nostre società stanno pagando sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo dato vita ad un mostro che qualcuno ha definito ‘aborto antropologico’.
Per parlare di dono è necessario che le persone siano state educate alle relazione non strumentali, cioè capaci di sentire e vivere il vincolo di relazioni fin dalla nascita: qualcuno (Dio, i nostri genitori, le persone che abbiamo incontrato nella nostra vita) ha reso possibile la nostra vita, la nostra crescita, rende possibile il nostro lavoro, il nostro matrimonio, la nostra vita di fede ecc. Quindi siamo in "debito" con l’altro in termini relazionali. Ma nella società dominata dall’utilitarismo si tende a negare, a rimuovere questo nostro essere in "debito", perché siamo impegnati a perseguire il nostro utile e il nostro narcisismo. Questa cultura narcisistica ha fatto a brandelli la coesione sociale, sta privatizzando i nuovi beni comuni (penso alla mappatura e utilizzazione utilitarista e strumentale del genoma umano), abbiamo indebolito ed in alcuni casi reciso i legami umani anche quelli più profondi la famiglia, che è ciò che caratterizza l’umano.
Eppure il dono - essere in-relazione-per-con-l'altro è una esperienza difficile ma che rende l'uomo più umano e felice.
È una cultura umanizzante alla portata di tutti, molto più della cultura dell' altruismo perché si radica nel bisogno di avere vincoli di reciprocità. E tutti se ne avvantaggiano perché nell’essere insieme è ognuno che si rafforza. Il paradosso è che in questa società individualista il "noi", cioè "l’essere con e per l’altro" assume, in alcuni casi, valenze negative fatte di comunità fondate sull’esclusione, sulla contrapposizione, sulla discriminazione degli altri.
In questo contesto l’altruismo non è l’unica alternativa all’egoismo. E’ solo il primo passo. C’è una terza dimensione che è quella del dono, che nasce dal riconoscere l’esistenza dell’altro e può assumere le forme di compassione, amore, gratuità, libertà, giustizia. Il dono nasce dalla consapevolezza di essere stati donati, di essere di origine creaturale. Nel dono non c’è pretesa di restituzione. Per questo dico che è asimmetrico. Il dono costruisce nella libertà le relazioni non strumentali che sono il cemento armato di qualsiasi società civile. Con il dono si alimenta un circolo virtuoso: non pretendo niente nell’immediato, ma so che nell’economia della salvezza tutto può essermi restituito.
“Dai e ti sarà dato” afferma il Vangelo.
In questo senso il dono presuppone la sua accettazione. Noi rimaniamo spiazzati, stupiti, dinanzi ad un dono responsabile, siamo abituati ad utilizzare, ad approfittarci della debolezza dell'altro. Ma una persona che ci dona in maniera libera e responsabile provoca in noi un terremoto, ci rende nudi, siamo refrattari alla gratitudine, resistenti alla gratuità, non vogliamo essere grati.
Concludendo dobbiamo riportare a scuola, nelle famiglie, in tutti i corpi intermedi la cultura del dono.
Ma la fonte principale rimane la famiglia, ed in particolare il rapporto con la madre e con il padre. È lì che si instaura il rapporto di cura e se ne capisce l’importanza. La cura è essenziale al dono. La cura è il dono.
Mi viene in mente don Milani e il suo "I care".
La cura a partire da chi mi è vicino per poi aprirsi al mondo per riconquistare una nuova dimensione antropologica e tutto cambierebbe radicalmente. 
Fonte: Carmine Tabarro (Comunità Cattolica Shalom)