Leggendo L’Osservatore Romano, sono rimasto colpito da un articolo scritto dal cardinale Kurt Koch e pubblicato lo scorso 27 gennaio con una titolazione piuttosto singolare. L’articolo si intitolava Ecclesiologia lunare. E recensiva il volume del cardinale Walter Kasper Chiesa cattolica. Essenza, realtà, missione, recentemente pubblicato in Italia dalla editrice Queriniana. Nei passi del libro valorizzati anche dalla recensione ho trovato spunti che mi sembrano preziosi, soprattutto in vista dell’Anno della fede e del prossimo sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione.
Il titolo della recensione del cardinale Koch rinvia a un’analogia tradizionale applicata alla Chiesa già dai Padri dei primi secoli, ripresa anche nel Medioevo: quella secondo cui la natura della Chiesa si può cogliere usando la figura della luna. La luna porta la luce nella notte, ma la luce non viene da lei, viene dal sole. Così è la Chiesa: essa porta la luce al mondo, ma questa luce che porta non è sua. È la luce di Cristo. «La Chiesa», commenta il cardinale Koch nella sua recensione, «non deve voler essere sole, ma deve rallegrarsi di essere luna, di ricevere tutta la sua luce dal sole e di farla risplendere dentro la notte». Nel ricevere la luce da Cristo la Chiesa vive tutta la sua pienezza di letizia, «giacché essa», come confessò Paolo VI nel Credo del popolo di Dio, «non possiede altra vita se non quella della grazia».
Alla vigilia dell’Anno della fede, l’immagine della luna aiuta a cogliere anche quali siano la natura della Chiesa e l’orizzonte proprio della sua missione.
Il paragone con la luna non va preso come una marginalizzazione della missione della Chiesa. La Chiesa è a suo modo responsabile della luce di Cristo che è chiamata a riflettere. Quella luce non va oscurata. La Chiesa deve riverberare, e non appannare o spegnere in sé quel riflesso. Come fa la luna durante la notte, essa deve diffondere la luce di Cristo nella notte del mondo che, lasciato a sé stesso, rimarrebbe nel peccato e nell’ombra della morte. Come annotava sempre Paolo VI nel suo discorso d’apertura della seconda sessione del Concilio ecumenico Vaticano II: «Quando il lavoro di santificazione interiore sarà stato compiuto, la Chiesa potrà mostrare il suo volto al mondo intero, dicendo queste parole: Chi vede me, vede Cristo, così come il divin Redentore aveva detto di sé: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9)».
L’immagine della luna aiuta anche a cogliere la dinamica propria della missione a cui la Chiesa è chiamata. Come lo stesso Paolo VI riconosceva già nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975): «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri», e se ascolta i maestri «lo fa perché sono dei testimoni». Nietzsche ha parlato di «diffidenza metodica». Per questo, soprattutto nei nostri tempi, la modalità più consona e più disarmante con cui la luce della parola di Dio si offre al mondo è quella della testimonianza. Anche a questo riguardo l’immagine della luna suggerisce spunti di riflessione e conforto.
Il testimone è per definizione un teste, uno che testifica qualcosa di altro da sé, senza aggiungere cose sue. Anche la testimonianza di fede cristiana non coincide con un proprio darsi da fare, un aggiungere impegni ulteriori alle cose della vita. Tanto meno significa fare propaganda o proselitismo per certe idee.
La deposizione dalla croce, formella del X secolo del portale della chiesa di San Zeno, a Verona
Ciò che vale per il singolo battezzato, vale anche per la Chiesa. La Chiesa non ha da inventarsi nulla. Come fa la luna col sole, essa mette solo a disposizione il proprio corpo perché la grazia possa riflettersi in esso. Quando la Chiesa pretende di attestare sé stessa, non appare né attraente né allietata e consolata dal Signore. E anche le vicende ecclesiali finiscono fatalmente per essere contrassegnate da quella «vanagloria che è contro di me e mi rende infelice» a cui ha accennato Benedetto XVI nel suo ultimo incontro coi parroci di Roma.
Per la Chiesa, come per ogni singolo cristiano, questa offerta del proprio corpo e della propria condizione perché in essi agisca e risplenda la grazia del Signore si esprime come domanda, cioè come preghiera. Proprio perché è semplice mettere a disposizione, tale offerta ha come forma propria la domanda cioè la preghiera. A questo proposito, vanno registrate le parole dal cardinale Kasper nel finale del suo libro, quando scrive che «la Chiesa del futuro sarà soprattutto una Chiesa di oranti». Nell’invocazione della preghiera che domanda, ma anche nella preghiera di lode, attestiamo la nostra dipendenza da Dio. In essa l’accento non è messo sulla sottomissione ma sul fatto che siamo graziati. Essendo delle creature libere, la nostra libertà si compie nella soddisfazione di accogliere il dono, così che portino frutto in noi le sue risorse di per sé da noi impensabili.
L’Ultima cena, particolare, formella del X secolo del portale della chiesa di San Zeno, a Verona
A tale riguardo, sono un conforto per tutti proprio le parole suggerite da Benedetto XVI negli ultimi tempi. Quando il Papa ripete che «la Chiesa non esiste per sé stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi», e quando aggiunge che «la Chiesa non si autoregola, non dà a sé stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere», tali espressioni usate proprio nell’omelia per la festa della Cattedra di San Pietro colgono con realismo di sguardo amoroso e appassionato il mistero stesso della Chiesa. E possono aiutare tutti a intuire i pericoli e le possibilità che nelle attuali circostanze segnano il cammino della Chiesa nel temp