lunedì 2 luglio 2012

3 Luglio: San Tommaso, apostolo







I credenti, attesta sant’Agostino, “si fortificano credendo”...
Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; 
non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita 
se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, 
nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande 
perché ha la sua origine in Dio.

Benedetto XVI, Porta fidei






Gv 20,24-29

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».



Il Commento


Una fede oltre la carne. Come quella di San Pietro, come quella imparata da San Paolo. E' questa la parola del vangelo di oggi. Gesù oltrepassa la porta sprangata delle paure e dei dubbi, il velo ostinato che copre occhi e mente e cuore ed impedisce di riconoscere, oltre le apparenze, nelle pieghe della carne e della storia, la presenza certa e amorevole del Signore. 

Dio è. Dio è oltre la morte, oltre il peccato, oltre la contingenza che ci atterrisce.
Occorre un supplemento d'anima, uno sguardo diverso, una testimonianza piantata nel cuore. Occorre una rivelazione celeste, lo Spirito Santo. Ecco quel che è mancato a Tommaso, ciò di cui, la sua povera carne piena di esigenza, ha bisogno: la fede.
Ma la fede si impara. Per questo Gesù non rimprovera Tommaso, ma lo invita a porsi in cammino, a diventare un "credente", ad imparare la fede, quella che oltrepassa la carne. 


I segni che Gesù stesso ha mostrato agli altri apostoli una settimana prima, i sacramenti della sua risurrezione, sono ora davanti a Tommaso. Ma, soli, non bastano. E' necessario, come lo è stato per i suoi fratelli, ricevere lo Spirito Santo, la Rivelazione del Padre che ha fatto beato Pietro, quel supplemento d'anima che libera lo sguardo oltre le ferite nella carne e induce ad oltrepassare le porte della sola ragione, della propria carne esigente di prove e conferme. 


E' l'amore di Dio, l'amore di Cristo sigillato dallo Spirito Santo, lo stesso che ha fatto conoscere a San Paolo Cristo non più secondo la carne. E' lo Spirito Santo che, nel cammino della storia, condurrà san Tommaso, e ciascuno di noi, a riconoscere il nostro Signore e il nostro Dio, nelle nostre stesse piaghe, nelle ferite della nostra vita. La Croce gloriosa, la vita oltre la morte.


E' questo il senso più profondo del Vangelo di oggi, della stessa figura di Tommaso, g
emello del Signore (questo significa Didimo), stava cercando, come tutti i gemelli, la parte di sé che gli era venuta meno! Cercava un segno nelle piaghe di Gesù, perchè cercava un senso alle sue ferite, al dolore della sua vita: infatti, "colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all'assemblea canterò le tue lodi... Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che dalla morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (cfr. Eb. 2, 11-14). Tommaso, mosso dalla carne, dal bisogno di toccare e vedere, era andato a cercare il suo gemello, l'unica parte di sé che poteva dare compimento e completezza alla sua vita, ma lo era andato a cercare lontano dalla verità, dallo stesso corpo di Cristo che è la comunione, la comunità dei suoi fratelli. Forse voleva un rapporto diverso ed esclusivo, forse vleva seguire il suo istinto, gli schemi mondani, forse, semplicemente, era andato alla tomba, ancora incredulo. Di certo, come ciascuno di noi, Tommaso era andato a cercare il Signore, l'unico che poteva dare Pace alla sua vita, laddove la carne lo aveva guidato. E, come noi, aveva dimenticato che l'unico luogo dove ricevere la virtù soprannaturale della fede, dove toccare e vedere Cristo risorto, dove sperimentare il suo amore più forte della morte, è la Chiesa, la comunità. Perchè un cristiano è un gemello nel cui cuore risuona sempre l'eco della presenza del proprio fratello,  gemello di Cristo, come ciascuno di noi. Per questo le sue ferite sono le nostre, e la fede non si ferma ad un evento registrato dai sensi, ma va al di là, alla presenza misteriosa eppure concreta e reale, della sua vittoria, della sua vita dentro la nostra vita. 
Credente, ovvero in cammino nella notte oscura dei santi, senza consolazioni, senza prove carnali, con la sola certezza sigillata istante dopo istante, quella della fede, di un amore che mai ci abbandona, mai.
Il Signore ama Tomaso, e ama noi. E ci attende con pazienza, e viene a cercarci ancora. Tommaso torna nella comunità, ascolta l'annuncio, non crede, ma è lì, con i suoi fratelli. E tanto basta, e questo è tutto. Perchè Gesù torna dai suoi, e si fa presente, come il giorno di Pasqua, in questo giorno che, per il suo apparire, diviene un unico giorno, il grande giorno della vittoria sul peccato e la morte! 


Lo incontriamo tra gli Apostoli, senza nulla sapere della sua storia precedente. Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: "Andiamo anche noi a morire con lui". E’ sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: "E del luogo dove io vado voi conoscete la via". Obietta subito Tommaso, candido e confuso: "Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?". Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: "Io sono la via, la verità e la vita". Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. E’ a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”... Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: "Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno".
Tommaso è ancora citato da Giovanni al capitolo 21 durante l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade. Gli Atti (capitolo 1) lo nominano dopo l’Ascensione. Poi più nulla: ignoriamo quando e dove sia morto. Alcuni testi attribuiti a lui (anche un “Vangelo”) non sono ritenuti attendibili. A metà del VI secolo, il mercante egiziano Cosma Indicopleuste scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani; e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. Sono i “Tommaso-cristiani”, comunità sempre vive nel XX secolo, ma di differenti appartenenze: al cattolicesimo, a Chiese protestanti e a riti cristiano-orientali.

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Ignace de la Potterie. Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”.




Due aspetti ci preme mettere in rilievo: anche in questa versione riveduta, le parole di Gesù vengono tradotte con un’imprecisione, rispetto all’originale greco. E tale imprecisione viene di fatto utilizzata per confermare con l’autorità del Vangelo un’impostazione che sembra prevalente nella Chiesa di oggi: l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. L’errore di traduzione a cui pensa di poter appoggiarsi tale interpretazione, che di fatto travisa il passo evangelico, consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù: “Beati coloro che credono, pur senza aver visto”. In questo modo le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro che vivono nei tempi successivi alla morte e risurrezione di Gesù. E infatti la nota [1] spiega che solo per i contemporanei di Gesù “visione e fede erano abbinate”, mentre per tutti coloro che vengono dopo, “la normalità della fede poggia sull’ascolto, non sul vedere”. Secondo questa interpretazione sembra quasi che Gesù si opponga al naturale desiderio di vedere, chiedendo a noi una fede fondata solo sull’ascolto della Parola. In realtà, qui il verbo non è al presente, come viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες), anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). “Tu hai creduto perché hai visto” - dice Gesù a Tommaso - “beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto” rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’ passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente (“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre è esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un altro ricorrente errore di traduzione, ripetuto anche dalla nuova versione CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla “prova empirica” richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: “E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente”. Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: “E non essere incredulo, ma credente”. Ora, nel testo originale, il verbo “diventare” suggerisce l’idea di dinamismo, di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento, e sembra quasi sottintendere che la fede consiste in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. E’ un totale rovesciamento. Tommaso, anche lui, vede Gesù e allora, sulla base di questa esperienza, è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di “vedere” Gesù e accostarsi alle sue piaghe. Come vuole l’idealismo per cui è la fede a creare la realtà da credere. Le spiegazioni della nota, basate su queste traduzioni inesatte, e che per fortuna, come ha premesso monsignor Antonelli, non possiedono “alcun carattere di ufficialità”, sembrano comunque piegare le parole di Gesù alla nuova tendenza che vige oggi nella Chiesa, secondo cui una fede pura è quella che prescinde dal “vedere”, ossia dall’appoggio e dallo stimolo dei segni sensibili. E’ vero, come spiega la nota, che nel tempo attuale “la visione non può essere pretesa”. Niente nell’esperienza cristiana può mai essere oggetto di “pretesa”. Ma mettere in alternativa il vedere e l’ascoltare e sostenere che “la normalità della fede poggia sull’ascolto, e non sul vedere” ossia che basta ascoltare il “racconto” del cristianesimo per diventare cristiani, sembra essere in contraddizione con tutto ciò che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il “vedere” può essere una via d’accesso al “credere”. Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo: per rifare l’esperienza di coloro che dal “vedere” sono passati al “credere” (si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale). Il Vangelo di Marco si conclude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: “Allora essi partirono e annunciarono il vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all'orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione e che non sono un di meno, una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie: “In manibus nostris codices, in oculis facta”, dice Agostino: “nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti”. Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nell’Incarnazione del Verbo: “Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa – solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini - veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede”. Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 156, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «“Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione”. Così i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza”, sono “motivi di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede non è “affatto un cieco moto dello spirito”».
In particolare, sono i santi che attualizzano per i loro contemporanei i racconti del Vangelo. Quando san Francesco parlava, per chi era lì presente era chiarissimo che i Vangeli non erano un racconto del passato, solo da leggere e ascoltare: in quel momento era evidente che in quell’uomo era presente e agiva Gesù stesso.
Non per niente anche Giovanni Paolo II ha proposto in chiave positiva proprio la figura dell’apostolo Tommaso, quando, in un suo discorso ai giovani di Roma, il 24 marzo del ’94, li ha invitati a prendere sul serio, rispettare e accogliere questa sete di prove esteriori, visibili, così viva tra i loro coetanei: «Noi li conosciamo [questi giovani empirici], sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza della realtà. E questi sono pronti, se un giorno Gesù viene e si presenta loro, se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: Mio Signore e mio Dio!».

[1] Il padre de la Potterie si riferisce qui alla nota al testo preparata a margine della nuova traduzione CEI. L’intero apparato di note critiche ed esplicative non è ancora stato approvato definitivamente. Già allora – l’articolo è del 1997 – mons. Antonelli, a nome della CEI, esprimeva cautela su tali note
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IGNACE DE LA POTTERIE Gesù e Tommaso



Se la fede pasquale dei discepoli ha veramente raggiunto questo punto culminante nell'episodio precedente, la descrizione della genesi della fede sembra essere arrivata a termine. Ma in questo caso, cosa può ancora significare l'apparizione di Gesù in presenza di Tommaso? Il problema che pone quest'ulti-ma pericope è stato presentato in termini eccellenti dagli autori dell'articolo di « Biblica »: « Ci si potrebbe in un certo senso domandare cosa aggiunge di nuovo l'episodio di Tommaso. Maria ha visto il Cristo salito e glorificato. I discepoli hanno visto Cristo salito al cielo e glorificato. Qui è raggiunto il punto più alto: l'equilibrio è perfetto, l'unione del Cristo storico e del Verbo eterno è pienamente manifestata. Cosa aggiungere di più? ».
Tuttavia, è certo che l'apparizione a Tommaso deve avere un senso teologico preciso, diverso da quello degli episodi precedenti, tanto più che, per i critici, la sua redazione è da attribuirsi prima di tutto all'evangelista stesso. Bultmann fa ricadere tutto il peso dell'episodio sul versetto di conclusione, la beatitudine di quelli che credono senza aver visto; essa sarebbe da interpretare « come una critica radicale dei "segni" e della apparizioni pasquali e come una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore ». Ma è arbitrario interpretare la scena a partire dal solo v. 29. Si impone un'analisi dettagliata di tutto il passo. Lo stesso Bultmann ha visto molto bene il carattere paradossale di questi versetti: la beatitudine finale (credere senza avere visto) è rivolta a Tommaso, uno dei primi discepoli, uno di quelli che hanno pur visto il Signore; sembra dunque, pensa Bultmann, che il rimprovero che gli è rivolto debba estendersi agli altri discepoli e a Maria Maddalena, poiché essi, certamente, hanno creduto dopo aver visto. Ma come ammettere una conclusione del genere, che riduce praticamente a niente l'importanza di tutto il capitolo? 

1. Attiriamo dunque l'attenzione su alcuni elementi importanti della strut-tura letteraria di tutta la sezione. Da un lato, ricordiamolo, questo episodio (A') è parallelo a quello dei due discepoli nel giardino (A); dall'altro, è innegabile che l'apparizione a Tommaso è come una ripetizione dell'apparizione ai discepoli (B'). Questo doppio parallelismo deve essere esaminato attentamente. E denso di insegnamento. La pericope dei due discepoli al sepolcro e quella di Tommaso sono costruite in maniera simile; esse si compongono l'una e l'altra di due movimenti:

a) (20, 1-10) I discepoli al sepolcro: « Egli vide e credette » (20,3-8).
b) Rimprovero ai discepoli (20,9-10).
a') Tommaso davanti a Gesù « ... tu vedi, tu credi » (20, 26-29a).
b') Rimprovero a Tommaso (20, 29b).

L'espressione « vedere e credere » appare nei due casi (a, a'). Ciò che viene rimproverato a Tommaso, non è di aver visto Gesù, poiché Gesù stesso ha voluto manifestarsi a lui. Il rimprovero cade sul fatto che Tommaso ha rifiutato, all'inizio, di credere, quando ha sentito l'annuncio dei discepoli. Ma bisogna anche tener conto delle somiglianze evidenti fra la nostra pericope e precedente, ovvero fra l'apparizione a Tommaso e quella ai disce-poli: nei due casi, si tratta di una visione sensibile, (20, 20; , 20, 25) che si dischiude in una visione di fede ( 20, 25; 20, 29). Il rimprovero di Gesù, qui ancora, non è legato dunque al fatto che lui, «uno dei Dodici » (20, 24) fa la stessa esperienza degli altri; al contrario questa esperienza l'ha portato a fare la più bella confessione di fede di tutto il quarto vangelo: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28). Gesù lascia invece intendere che egli avrebbe già dovuto « credere senza vederlo » : la testimonianza di tutti gli altri del gruppo dei Dodici avrebbe dovuto bastargli. 

2. Si coglie ora ciò che ha di specifico e polivalente il caso di Tommaso. Appartiene contemporaneamente, se così si può dire, a due gruppi: è uno dei Dodici, è stato gratificato come gli altri dalla visione del Signore (cfr. ciò che Paolo dirà più tardi, per rivendicare il suo titolo di Apostolo: « Io ho visto Gesù, nostro Signore », 1 Cor 9, 1); ma poiché era assente alla prima apparizione di Gesù ai discepoli, egli è per così dire il primo di tutti quelli che, in seguito, dovranno credere senza vedere. Questo doppio orientamento dell'episodio, all'indietro e in avanti, rende la sua analisi particolarmente delicata. Tenendo nel dovuto conto questi due aspetti, si può descrivere come segue il senso teologico dell'apparizione a Tommaso: essa ci fa comprendere innanzi tutto (è l'orientamento in avanti) l'importanza che prenderà d'ora in poi il «credere senza avere visto » (20, 29); è ciò che avrebbe già dovuto fare Tommaso, sulla base della testimonianza degli altri discepoli. Ma questa testimonianza dei disce-poli era essa stessa basata sulla vista sensibile e sulla visione di fede che avevano avuto del Cristo risuscitato (ecco l'orientamento del nostro episodio all'indietro); e Tommaso, anche lui, può rifare per suo conto la stessa esperienza dell'incontro con Gesù. La lezione teologica che scaturisce da questa scena è dunque doppia: ormai i credenti nella Chiesa dovranno credere senza aver visto; di ciò, Tommaso avrebbe già dovuto dare l'esempio; d'altra parte, resta il fatto che questa fede cristiana si collega sempre all'esperienza fondante dei primi testimoni, che ave-vano avuto la visione di fede del Cristo glorioso; la loro testimonianza avrebbe dovuto bastare a Tommaso; viene tuttavia concesso a Tommaso di rifare la stessa esperienza, poiché era « uno dei Dodici » (20, 24). 

3. Cerchiamo di mettere ancora meglio in luce questi due aspetti dell'episodio. 

a) Il parallelismo fra l'apparizione a Tommaso e l'apparizione ai discepoli mostra molto chiaramente in che senso è importante «vedere » Gesù. I discepoli avevano raccontato a Tommaso: « Abbiamo visto il Signore » (20, 25). Era, ricordiamo, una visione di fede, il frutto del dono dello Spirito. Il rifiuto di Tommaso è tuttavia categorico. Vuole verificare di persona: « Vuole sperimenta-re; vuole vedere; vuole toccare Gesù nella sua realtà fisica (...) . In altri termini, egli pone e definisce le condizioni della fede (...) . La risurrezione del Cristo non è conosciuto in tal modo da nessuno dei testimoni del vangelo ». Nondimeno, Gesù si manifesta di nuovo, questa volta in presenza di Tommaso: accede al suo desiderio e si lascia toccare. Ma l'invita formalmente a superare lo stadio equivoco e pericoloso in cui si è posto: « Smetti di essere incredulo e diventa un uomo di fede ». Nessun altro testo di questo capitolo esprime così chiaramente l'esigenza fondamentale della progressione nella fede. Il tema sarà ripreso nella conclusione generale del vangelo (20, 31). Per Tommaso, questa parola è un invito a un cambiamento radicale: il passaggio dalla vista (unicamente) sensibile di Gesù e delle piaghe della Passione alla visione di fede del Signore glorificato; è questa che ispirerà la sua confessione di fede: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28). 

b) Un'altra dimensione dell'episodio ci porta ancora indietro (la testimonianza ricevuta), certo, ma ci orienta soprattutto verso l'avvenire: è l'importanza di « credere senza vedere ». Qui scatta il parallelismo di 20, 24-25 con 20, 1-2. I due discepoli avevano ricevuto da Maria Maddalena la notizia della rimozione della pietra del sepolcro, e corsero subito là; anche senza vedere Gesù, il discepo-lo prediletto « cominciò a credere » (20, 8). Tommaso, anche lui, ricevette una testimonianza formale da parte dei discepoli; essi avevano « visto il Signore » (20, 25). Senza vedere lui stesso Gesù, Tommaso avrebbe già dovuto credere. Nei due casi, il testo sottolinea l'importanza della trasmissione del messaggio, e dunque dell'attestazione dei primi testimoni (è il punto di partenza della Tradi-zione). E in questo senso che si deve comprendere la beatitudine finale, che proclama beati coloro che credono nel Signore senza averlo visto coi loro occhi. Quest'ultima frase del vangelo prepara la conclusione generale (20, 30-31) e apre una larga prospettiva sulla vita della Chiesa. Ma questa necessità di credere senza vedere non significa che le apparizioni pasquali e la visione di fede dei primi testimoni non abbiano più alcun peso per i credenti che seguiranno. Esse avevano avuto un'importanza decisiva per i discepoli: quelli che ormai crederanno nel Signore senza averlo conosciuto, dice molto bene il P. Mollat, lo faranno « sull'attestazione di coloro che l'hanno visto. C'è alla fine del vangelo, un appello tacito dell'evangelista al lettore. Lo invita a rimettersi (...) alla testimonianza contenuta nello scritto ». È ciò che sarà detto esplicitamente nella conclusione generale del vangelo. E si comprende ancora meglio ora perché Giovanni, nel prologo del vangelo (1, 14) e in quello della prima lettera (1 Gv 1, 1a), insista sul fatto che i discepoli e testimoni hanno visto e contemplato il Verbo incarnato: questa vista del Signore, questa esperienza fondante dei testimoni, è il punto di partenza (1 Gv 1, 1) per la fede di tutti i credenti nella Tradizione cristiana.

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Madre Teresa di Calcutta. EDUCARCI ALLA FEDE




Ma la leggenda teologica dell’apparizione a Tommaso ci può anche educare alla “misericordia”, nel senso che ci evidenzia quanto Gesù abbia insieme capito e contrastato il bisogno dei segni, il bisogno di toccare. Gesù spesso si é trovato a dover educare l’interlocutore, tentato di fermarsi al dato materiale, evidente. Gesù, in questo brano di costruzione teologica, é colui che capisce la debolezza di Tommaso, la corregge e addita una strada diversa. Anche quando i discepoli si sono dimostrati sordi e ciechi al suo insegnamento, Gesù non si é stancato di loro. Li ha corretti, amati, aiutati a crescere.La comunità cristiana anche oggi, alle prese con mille difficoltà e mille deviazioni, può leggere questo brano anche per imparare quel dialogo interno, franco e coraggioso, che offre a ogni persona la possibilità e il tempo di crescere e di riorientare la propria vita. Anche quando tutte le porte sono chiuse (come ripete Giovanni ai versetti 19 e 27), anche quando le possibilità di cambiamento sembrano sbarrate e impossibili, la parola di Gesù può fare breccia nei nostri cuori. La partita non é mai chiusa e può riaprirsi ad ogni istante della nostra vita.La strada nella fede-fiducia in Dio si riapre… L’immagine di Gesù che, come dicevamo da bambini, passa attraverso il buco della serratura, è la testimonianza di quell’amore con cui Dio, attraverso Gesù e in mille modi, cerca i nostri cuori e vuole riaprire un dialogo con noi.Noi purtroppo ci troviamo spesso a vivere in una chiesa in cui ci sono troppe porte chiuse, con troppi “guardiani” che usano le chiavi quasi solo per chiudere. In questo contesto molti pastori della nostra chiesa farebbero bene a riascoltare l’ammonizione evangelica:” Guai a voi … perchè avete portato via la chiave della conoscenza: voi non ci siete entrati e l’avete impedito a quelli che avrebbero voluto entrare” (Luca 11,52 e Matteo 23, 13-14).Ma l’espressione fa esplodere la speranza: se anche un ministro della chiesa sbarra le porte ad un gay, ad una lesbica, ad un separato, ad una divorziata, ad un prete sposato… l’azione di Dio non si ferma e il messaggio di Gesù può penetrare anche ” a porte chiuse”.
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Card. Caffarra. Omelia su San Tommaso




Visita Pastorale Focomorto-Baura 30 aprile 2000

Di che cosa ci parla il Signore oggi? Ci insegna quale è la fede vera (1) [nella seconda lettura soprattutto] quale è il cammino dall’incredulità alla fede (2) [nel Vangelo], ed infine ci insegna che cosa produce la fede in chi crede e nel mondo (3) [nella prima e nella seconda lettura]. Vedete come il Signore ci ama: ancora all’inizio del tempo pasquale Egli ci dona un’istruzione completa sulla vita cristiana.

1. "Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio – Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?"

Ecco questa è la fede cristiana: credere che Gesù è il Cristo; credere che Gesù è il Figlio di Dio. Alla domanda dunque: "chi è il cristiano?", oggi la Parola di Dio ci insegna a rispondere: "è colui che crede che Gesù è il Cristo, è il Figlio di Dio". Fermiamoci un momento a riflettere su questa definizione.

Essere cristiani significa entrare in rapporto [fra poco spiegherò di che rapporto si tratta] con una persona: Gesù. Con una persona che ha vissuto come noi una vita umana impastata colle nostre stesse esperienze quotidiane: ha vissuto dentro una famiglia, ha lavorato, ha gioito e pianto, è morto. Essere cristiani non significa in primo luogo imparare una dottrina cercando poi di praticarla nella vita. Significa fare spazio dentro alla nostra esistenza ad una presenza: la presenza della persona di Gesù.

Ma di che rapporto di tratta? La parola di Dio ci risponde che è un rapporto di fede: "chi crede che Gesù è …". La fede, carissimi fratelli e sorelle, è riconoscere con incrollabile certezza che quell’uomo, Gesù, "è il Figlio di Dio". E’ questo il nucleo centrale della fede cristiana: quella persona che vive in tutto umanamente è Dio stesso-Figlio unigenito; quell’uomo della storia, Gesù, è veramente il Figlio di Dio venuto da presso il Padre. E’ per questo che Egli ha potuto dire: "Io sono la via, la verità e la vita": Egli, la sua persona, è la piena rivelazione in linguaggio umano del Mistero stesso di Dio. L’esperienza di Tommaso, nel Vangelo, è stata esattamente questa: ha toccato colle sue mani un corpo umano ed ha riconosciuto che quella persona incarnata era Dio.

2. Ed ora chiediamoci: "come giungiamo a questo riconoscimento?". La parola di Dio, attraverso l’episodio di Tommaso, ci insegna quale cammino dobbiamo percorrere per giungere alla fede in Cristo.

La storia di Tommaso inizia con un’assenza: "Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù". Egli cioè non ha avuto la possibilità, già concessa ai suoi amici, di "vedere" il Risorto. E’ esattamente la nostra situazione attuale: a noi oggi non è dato di "vedere" il Risorto. E qui si pone la possibilità concreta di unadivaricazione fondamentale: quella che separa i credenti dai non credenti.

A Tommaso è offerta una testimonianza precisa: "Gli dissero allora gli altri discepoli: abbiamo visto il Signore". Egli, Tommaso, è posto di fronte a due possibilità: o accettare la testimonianza apostolica o esigere una verifica diretta del fatto. Ed è ciò che Tommaso vuole: "se non vedo…"