venerdì 6 luglio 2012

Il più grande spettacolo del mondo

Di seguito il Vangelo di oggi, 6 luglio, venerdi della XIII settimana del T.O., con un commento e qualche testo per la meditazione.



Il nostro Signore ha scelto Matteo, 
il riscossore delle imposte, 
per incoraggiare i suoi colleghi a venire con lui. 
Ha visto dei peccatori, 
li ha chiamati e li ha fatti sedere presso di lui. 
Quale spettacolo mirabile: 
gli angeli stanno in piedi e tremano, 
mentre i pubblicani, seduti, si rallegrano. 
Satana l'ha visto e è andato in bestia; 
la morte l'ha visto ed ha perso vigore; 
gli scribi l'hanno visto e sono stati molto turbati. 
C'era gioia nei cieli ed esultanza dagli angeli 
perché i ribelli erano stati convinti, 
i recalcitranti si erano rinsaviti 
e i peccatori si erano emendati, 
e perché questi pubblicani erano stati giustificati.

S. Efrem il Siro




Mt 9, 9-13


In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Séguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».

Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

IL COMMENTO



Scriveva Santa Teresa di Lisieux nella sua Storia di un’anima. “... Il Re della Patria luminosa è venuto a vivere trentatrè anni nel paese delle tenebre. Ahimè! Le tenebre non hanno capito che quel Re divino era la luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola colma di amarezza dove mangiano i poveri peccatori prima del giorno che voi avete segnato.
Ma anche lei osa dire, a nome proprio e dei suoi fratelli: Abbiate pietà di noi Signore perchè siamo poveri peccatori. Oh Signore, rimandateci giustificati.... che tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede, la vedano finalmente. ... Gesù, se è necessario che la tavola insozzata da essi sia purificata da un’anima la quale vi ama, voglio ben mangiare sola il pane della prova fino a quando vi piaccia introdurmi nel vostro Regno luminoso. La sola grazia che vi chiedo è di non offendervi mai” ( Manoscritti autobiografici, n. 277).



Teresina aveva imparato che cosa significhi la misericordia. Le viscere appassionate di Dio. Il sacrificio nella misericordia. Teresa chiamata come noi, come Matteo. Amati esattamente dove eravamo, come eravamo. La certezza di non essere migliori di nessuno, la santa umiltà. Con Teresa impariamo anche noi a ripetere al Signore, a nome nostro e dei nostri fratelli, di avere pietà di tutti noi poveri peccatori. É’ questo il cuore di una madre, di un padre, di un figlio, di un amico, di un collega di lavoro.



Insieme a chi vive con noi, a chi ci fa del male, a chi sta gettando la vita nella tomba dei peccati. In ogni prova che ci attende sul cammino, in ogni sofferenza, brilla la luce della fede, occhi limpidi che che vi intuiscano l’occasione propizia di tendere una mano di salvezza. Le nostre angosce, le sofferenze di oggi, e di domani, sono la mano di Gesù che cerca peccatori da salvare. Le Sue ferite nelle nostre ferite. La nostra vita insanguinata offerta per chi ci è caro, chè tutti ci son cari, anche i nemici, schiavi come lo eravamo noi. Il loro male, il male di un figlio o di un marito nel dolore di una malattia, nella prova qualunque essa sia, diviene un balsamo di salvezza. E' questo il modo di amare, vero, gratuito, divino. Crocifisso. Con Teresa nell’ora della prova sapere d’essere, proprio in quel momento, seduti alla mensa dei peccatori. Con Teresa, con Gesù. Ogni spada che ci trapassa il cuore è una sorgente di salvezza per infinite persone. La nostra com-passione per chi non ha fede, per chi soffre la vera atrocità, che è non conoscere l’amore di Cristo. Ogni momento di sofferenza è dunque un momento di Grazia, un tesoro che ci accumuliamo in cielo, per noi, e per molti altri. Il Signore si è seduto alla nostra mensa, quando eravamo malvagi e con il cuore lontano da Lui.



Il Cristianesimo non è una serie di sacrifici per scalare il cielo, e tantomeno semplice filantropia. E’ misericordia, persone che hanno sperimentato la misericordia e in essa incontrano tutti gli altri uomini. Spendere la vita che ci è stata donata e riscattata alla mensa dei peccatori, le macchie della storia, le grandi e le piccole, purificate dalle nostre anime amate infinitamente dal Signore. Seduti, sino all’ultimo giorno, accanto a chi non Lo conosce. Per donare, con gioia, la misericordia che salva.





Sant'Efrem Siro (circa 306-373), diacono in Siria, dottore della Chiesa
Commento sul Diatèssaron, 5, 17 ; SC 121, 115


« Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori? »

Il nostro Signore ha scelto Matteo, il riscossore delle imposte, per incoraggiare i suoi colleghi a venire con lui. Ha visto dei peccatori, li ha chiamati e li ha fatti sedere presso di lui. Quale spettacolo mirabile: gli angeli stanno in piedi e tremano, mentre i pubblicani, seduti, si rallegrano. Gli angeli sono colti dal timore per la grandezza del Signore, e i peccatori mangiano e bevono con lui. Gli scribi si rodono per l'odio e il dispetto, e i pubblicani esultano per la sua misericordia. I cieli hanno visto questo spettacolo e ne sono stati ammirati; gli inferi l'hanno visto e sono impazziti. Satana l'ha visto e è andato in bestia; la morte l'ha visto ed ha perso vigore; gli scribi l'hanno visto e sono stati molto turbati. C'era gioia nei cieli ed esultanza dagli angeli perché i ribelli erano stati convinti, i recalcitranti si erano rinsaviti e i peccatori si erano emendati, e perché questi pubblicani erano stati giustificati. Così come le esortazioni dei suoi amici (Mt 16,22) non hanno fatto rinunciare il nostro Signore all'ignominia della croce, neanche gli scherni dei suoi nemici non lo hanno fatto rinunciare alla compagnia dei pubblicani. Ha disprezzato le beffe e disdegnato la lode, facendo tutto quello che di meglio poteva fare per gli uomini.



Benedetto XVI presenta l’Apostolo Matteo

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perch? le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo. Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa "dono di Dio". Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: "il pubblicano" (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: "Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì" (Mt 9,9).
Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano "Levi". Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto "presso il mare" (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro. Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di "pubblicani e peccatori" (Mt 9,10; Lc 15,1), di "pubblicani e prostitute" (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come "capo dei pubblicani e ricco" (Lc 19,2), mentre l'opinione popolare li associava a "ladri, ingiusti, adulteri" (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l'importante dichiarazione: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori" (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, "il pubblicano ... non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»". E Gesù commenta: "Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perch? chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo - "poich? non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca" (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all'istante: "egli si alzò e lo seguì". La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi" (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l'adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: "Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva" (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: "Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza" (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, s?guita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.


Sant’Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire
Contro le eresie, III, 11,8-9 ; SC 210

San Matteo, uno dei quattro evangelisti

Il numero dei vangeli non può essere diverso, n? più grande n? più piccolo. Infatti, poich? ci sono quattro regioni del mondo nelle quali abitiamo e quattro sono i venti dominanti, e poich?, d’altra parte, la Chiesa è sparsa su tutta la terra e ha come ‘colonna e sostegno” (1 Tm 3,15) il Vangelo e lo Spirito di vita, è naturale che essa abbia quattro colonne che soffino l’immortalità in ogni parte e rendano la vita agli uomini. Il Verbo, artigiano dell’universo, che siede sui Cherubini e sostiene ogni cosa (Sal 79,2: Eb 1,3), quando si è manifestato agli uomini, ci ha dato un Vangelo in quattro forme, mantenuto tuttavia da un unico Spirito. Davide, implorando la sua venuta, diceva: “Assiso sui Cherubini rifulgi” (Sal 79,2). Infatti i Cheribini hanno quattro facce (Ez 1,6), e le loro facce sono le immagini dell’attività del Figlio di Dio.
“Il primo vivente era simile a un leone” sta scritto (Ap 4,7), il che caratterizza la potenza, la preminenza e la regalità del Figlio di Dio; “il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello”, il che manifesta la sua funzione di sacrificatore e di sacerdote; “il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo”, il che evoca chiaramente la sua venuta umana; “il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola”, il che indica il dono dello Spirito volando sulla Chiesa. I vangeli secondo Giovanni, secondo Luca, secondo Matteo e secondo Marco saranno dunque anch’essi in accordo con questi viventi sui quali siede Cristo.
Gli stessi tratti si ritrovano anche nello stesso Verbo di Dio: ai patriarchi che vissero prima di Mosè, egli parlava secondo la sua divinità e la sua gloria; agli uomini che hanno vissuto sotto la Legge assegnava una funzione sacerdotale e ministeriale; in seguito, per noi, si è fatto uomo; in fine, ha mandato il dono dello Spirito su tutta la terra mettendoci al riparo all’ombra delle sue ali (Sal 16,8)... Sono dunque futili, ignoranti e presuntuosi coloro che rigettano la forma sotto la quale si presenta il Vangelo e che ne introducono un numero di figure più grande o più piccolo rispetto a quelle di cui abbiamo appena parlato.


San Beda il Venerabile, sacerdote. Dalle «Omelie» (Om. 21; CCL 122, 149-151)


Gesù lo guardò con sentimento di pietà e lo scelse


Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi» (Mt 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: «Seguimi». Gli disse «Seguimi», cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti «chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2, 6).
«Ed egli si alzò, prosegue, e lo seguì» (Mt 9, 9). Non c'è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all'interno con un'invisibile spinta a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui potesse comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili.
«Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli» (9, 10). Ecco dunque che la conversione di un solo pubblicano servì di stimolo a quella di molti pubblicani e peccatori, e la remissione dei suoi peccati fu modello a quella di tutti costoro. Fu un autentico e magnifico segno premonitore di realtà future. Colui che sarebbe stato apostolo e maestro della fede attirò a s? una folla di peccatori già fin dal primo momento della sua conversione. Egli cominciò, subito all'inizio, appena apprese le prime nozioni della fede, quella evangelizzazione che avrebbe portato avanti di pari passo col progredire della sua santità. Se desideriamo penetrare più a fondo nel significato di ciò che è accaduto, capiremo che egli non si limitò a offrire al Signore un banchetto per il suo corpo nella propria abitazione materiale ma, con la fede e l'amore, gli preparò un convito molto più gradito nell'intimo del suo cuore. Lo afferma colui che dice: «Ecco, sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20).
Gli apriamo la porta per accoglierlo, quando, udita la sua voce, diamo volentieri il nostro assenso ai suoi segreti o palesi inviti e ci applichiamo con impegno nel compito da lui affidatoci. Entra quindi per cenare con noi e noi con lui, perch? con la grazia del suo amore viene ad abitare nei cuori degli eletti, per ristorarli con la luce della sua presenza. Essi così sono in grado di avanzare sempre più nei desideri del cielo. A sua volta, riceve anche lui ristoro mediante il loro amore per le cose celesti, come se gli offrissero vivande gustosissime.


S.Matteo apostolo ed evangelista nei dipinti del Caravaggio per la Cappella Contarelli a S.Luigi dei Francesi in Roma

di Paola Grassi e Andrea Lonardo

I tre dipinti sulla vita di S. Matteo sono tra le opere più significative del Caravaggio (Michelangelo Merisi da Caravaggio, Caravaggio, 1573 - Porto Ercole 1610) a Roma.
Giunto da poco a Roma, ma già conosciuto soprattutto in ambito ecclesiastico, il Caravaggio, nel 1599, venne segnalato dal cardinal Del Monte per completare una cappella in San Luigi dei Francesi, che doveva essere decorata - secondo un programma iconografico già stabilito dal porporato francese Matteo Contarelli (Mathieu Cointrel), gran datario di papa Gregorio XIII, morto nel 1585 e proprietario della cappella - con storie di San Matteo, eponimo del committente.
Il Cavalier d'Arpino, fra i pittori più famosi in Roma all'epoca, era stato chiamato nel 1591 per questa impresa decorativa, ma otto anni dopo, anche a causa delle discordie testamentarie seguite alla morte del Cointrel, aveva terminato solamente l'affresco della volta. L'incarico fu allora affidato al Merisi che dipinse la Vocazione di San Matteo per la parete di sinistra ed ilMartirio di San Matteo per quella destra . Nel 1602, quando venne protestata la statua per l'altare maggiore realizzata dallo scultore Cobaert, il Caravaggio ricette l'incarico anche per la pala d'altare centrale, il San Matteo e l'Angelo.



Vocazione di San Matteo

Vocazione di San Matteo

Questa tela rappresenta il momento culminante della chiamata del peccatore (come La caduta di Saulo che il Caravaggio dipingerà per Santa Maria del Popolo in Roma) disposto a pentirsi ed a cambiare nome e vita. Qui il protagonista è l'avido esattore delle tasse Levi seduto al tavolo con quattro uomini della sua specie nel chiuso di una buia stanza dalla cui finestra ben in vista non filtra un solo raggio di sole.
Sulla destra il Cristo lo chiama con un gesto della mano ma soprattutto lo colpisce con la luce della grazia salvifica.
Questa fonte spirituale che colpisce tutti e cinque i gabellieri è la trasposizione pittorica della tesi cattolica del libero arbitrio secondo cui l'uomo, una volta che gli è stata manifestata la luce del Cristo, può scegliere se seguire o meno la via della salvezza. Due dei compagni di Levi, infatti, si voltano verso il Cristo mentre gli altri due non distolgono nemmeno per un secondo lo sguardo dai soldi appena intascati.
Il Cristo è come filtrato da Pietro (la Chiesa). Dall'analisi radiografica la presenza di Pietro risulta essere un ripensamento dell'opera, non essendo presente nel primo abbozzo.
La risposta subitanea di Levi, il cui gesto della mano rivela tutto lo stupore di chi comprende di essere stato chiamato, lo porterà a seguire Gesù con il nome di Matteo (nome che in ebraico ricorda la radice del verbo “donare”).
Dopo ciò egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì. Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C'era una folla di pubblicani e d'altra gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». Gesù rispose: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi».
(Lc. 5, 27-32)

Particolare dalla Vocazione di S.Matteo

Particolare dalla Vocazione di S.Matteo


In questa, come in ogni sua opera, il Caravaggio sostituisce ad una visione agiografica delle storie bibliche una visione attuale e per ciò stessa viva. Mentre Gesù e Pietro sono vestiti con abiti che ricordano il passato, tutti e cinque i personaggi seduti alla tavola sono ritratti in abiti “moderni”. Questo permette di cogliere come la “storia” evangelica interpelli drammaticamente il presente, dove la parola “dramma”, nel suo significato etimologico, non vuol dire tanto “tragedia”, quanto “azione”, “scelta”, “decisione” (dal verbo greco drao).
In questo dettaglio dell'opera vediamo a destra la mano di Matteo ed a sinistra la mano del cambiavalute che gli è al fianco. Si toccano, intente a contare le stesse monete, ma diverso sarà l'esito esistenziale di mani così vicine.



La prima versione di San Matteo e l'Angelo
La prima versione di San Matteo e l'Angelo


Fin dalle origini dell'arte cristiana ad ognuno dei quattro evangelisti era stato accostato uno dei quattro esseri presentati da Ezechiele (Ez. 1, 4-9) e richiamati dall'Apocalisse (Ap. 4, 7-8): S.Matteo e l'Angelo, S.Marco e il Leone, S.Luca e il Toro, S.Giovanni e l'Aquila. L'ispirazione divina del primo dei Vangeli è dunque esemplificata spesso, in arte, nella presenza dell'angelo che segue passo passo la stesura del libro.
Secondo la testimonianza del biografo del Caravaggio, la prima versione di questa tela fu rifiutata dai committenti, analogamente a quanto successe per le tavole della Cappella Cerasi in S.Maria del Popolo che ritraevano la Conversione di S.Paolo e la Crocifissione di S.Pietro. Ciò avvenne perché il santo era presentato come un contadino analfabeta materialmente guidato dall'angelo nello scrivere il testo sacro. Questa prima versione, dopo esser stata protestata, attraverso varie peripezie finì a Berlino, dove fu distrutta dagli eventi bellici nel 1945. Ne resta una copia fotografica che potete qui vedere.


L'attuale versione di S.Matteo e l'Angelo
L'attuale versione di S.Matteo e l'Angelo

La seconda versione, di grande bellezza, raffigura invece San Matteo vestito più dignitosamente che, penna in mano, fissa lo sguardo sull'angelo volteggiante sopra al suo capo intento a spiegargli cosa scrivere. La posizione delle dita dell'angelo sembra alludere ad una serie numerica. E' forse un'allusione al fatto che il vangelo di Matteo si caratterizza anche per una rigorosa simmetria compositiva, strutturata spesso dal numero “sette”, fin dalla genealogia di Gesù di Mt 1, che presenta tre serie di 14 (14=7+7), cioè 14 per 3 che è il massimo della perfezione. Sette sono anche le parabole e sette sono i “guai” contro i farisei del capitolo 23.
Di sicuro questa seconda versione è più rispettosa dell'idea cristiana di ispirazione che non fa tanto riferimento ad una pretesa dettatura o preesistenza divina del testo, quanto all'ispirazione divina dell'autore sacro che conserva integre le sue facoltà di vero autore del “testo sacro”, al punto che è possibile affermare che sia Dio sia l'uomo sono veri autori del testo biblico.



Martirio di San Matteo
Martirio di San Matteo

Caravaggio si trovò a dover dipingere un episodio assai raro nell'arte, la morte per martirio del santo evangelista. Egli, secondo la tradizione, evangelizzò la Giudea, e secondo alcuni, anche l'Etiopia. La tela caravaggesca raffigura il santo, vestito di candida veste bianca, riverso in terra in attesa di subire la condanna e con una mano protesa verso la palma (simbolo del martirio) offertagli dall'angelo, in arditissimo scorcio su di una nuvola, mandato da Dio. La gestualità non è quella dell'iconografia classica del martirio, ma quella di un “qualsiasi” omicidio vivo e, ancora una volta “drammatico”.
Matteo, che viene sorpreso dal sicario mentre sta celebrando la Messa su di un altare su cui è incisa la croce di Cristo, ripercorre così il sacrificio salvifico del Figlio di Dio - tanto da mostrare la stessa ferita al costato del suo Maestro - che ogni volta si ripete nel mistero dell'eucarestia. Il gruppo centrale del martire e del carnefice, inoltre, si iscrive perfettamente in un triangolo, simbolo della Trinità e tutta l'opera “nell'apparente casualità si risponde, retto come è il tumulto da rigorose armonie, da equilibrati incastri ad X, da sapienti compensi di volumi e di piani che si spingono e si richiamano” (A.Ottino Della Chiesa).
Tutto intorno a lui i personaggi, compreso il carnefice, sono colpiti dall'accecante luce della grazia divina che scaturisce dal corpo di Matteo (qui, forse, non solo colpito dalla luce della grazia divina, ma capace di irradiarla a sua volta). A differenza della Vocazione qui nessuno può rimane indifferente all'accaduto ed ogni volto mostra un diverso tipo di reazione all'evento: orrore, paura, stupore, incredulità o anche solamente curiosità (si veda il giovane con il cappello piumato sulla sinistra). Perfino il pittore stesso si ritrae sulla sinistra della tela, proprio dietro il carnefice, solo la testa emergente dall'oscurità, confuso tra gli spettatori, per contemplare con tristezza il risultato della malvagità umana.