lunedì 2 luglio 2012

La trasmissione della fede: la testimonianza dei Padri

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Di monsignor Enrico Dal Covolo,Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense
ROMA, lunedì, 2 luglio 2012 .- Prima di entrare nell'argomento specifico che mi è stato assegnato, conviene affrontare una questione di fondo: ma… la fede può essere «trasmessa»?
Se la fede, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), è un atto personale («è la libera risposta dell'uomo all'iniziativa di Dio, che si rivela», n. 166), questa decisione non può essere «trasmessa». La fede di Abramo – tanto per fare un esempio illustre – è il suo personaleatto di obbedienza alla Parola di Dio, e questo atto è solo suo. Può essere indicato come esempio, ma per essere trasmesso deve essere ripetuto da altri, che facciano propria la medesima obbedienza a Dio.
Tuttavia – come sappiamo bene – non c'è solo questo aspetto soggettivoe personale della fede: c'è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti (enunciati, riti, comportamenti), che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi possono essere trasmessi. Tutto questo ci permette «di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla, e di viverne sempre più intensamente» (CCC, n. 170).
In questo senso, già nella Lettera di Giuda troviamo l'esortazione «a combattere per la fede, che fu trasmessa ai santi», cioè a tutti i credenti, «una volta per sempre» (3).
È importante tenere presenti questi due aspetti dell'esperienza di fede. Essi articolano, in qualche modo, le nostre riflessioni.
Le distribuiamo in tre parti.
La prima parte sarà guidata da Ireneo (+ 202). Nato in Asia Minore, discepolo del vescovo Policarpo di Smirne, egli rappresenta in qualche modo i Padri della Chiesa d'Oriente; la secondae la terza parte, invece, saranno dominate da altre due grandi figure di vescovi, Ambrogio (+ 397) e Agostino (+ 430), alfieri della tradizione occidentale.
Più in particolare, nella prima parte, attenta soprattutto agli aspetti dottrinali, vedremo con quali criteri Ireneo ha creato il più antico «catechismo della dottrina cristiana». Qui parleremo soprattutto della trasmissione della fede in senso oggettivo, cioè dei contenutiin cui crediamo.
Nella seconda parte, invece, parlando di Ambrogio e di Agostino, vedremo in che modo i nostri Padri testimoniavano la fede come scelta personale di vita: perché, se è vero che l'atto di fede personale non può essere «trasmesso», esso può e deve essere efficacemente «testimoniato».
Nella terza parte, infine, vedremo come questi due formidabili pastori, Ambrogio e Agostino, educavano il loro popolo nella fede.
A mano a mano che procederemo nelle nostre riflessioni, ci accorgeremo che, in realtà, trasmettere la fede, testimoniare la fede, educare nella fedesono distinzioni che valgono fino a un certo punto nella mentalità e nella prassi pastorale dei nostri Padri.
Piuttosto, essi rimangono sempre consapevoli che l'integrità della dottrina e la testimonianza della vita devono procedere di pari passo, e sono entrambe indispensabili nella trasmissione e nel cammino della fede.
1. Ireneo di Lione: quale fede trasmettere? Quali sono i contenuti oggettivi della fede?
Ireneo non è un cattedratico, ma un uomo di fede e un pastore. Del buon pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l'ardore missionario.
Come scrittore, il suo scopo è duplice: quello di difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici (gli gnostici, in particolare), e quello di esporre con chiarezza le verità della fede.
A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: lo Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (ovvero Contro le eresie, come citeremo noi; l'originale greco è andato perduto, ma ne possediamo una traduzione latina, verosimilmente assai letterale), e l'Esposizione della predicazione apostolica (il più antico «catechismo della dottrina cristiana»; neppure di quest'opera possediamo l'originale, ma all'inizio del secolo scorso ne è stata scoperta una traduzione armena).
In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro lo gnosticismo. Ma la sua opera va ben oltre la semplice confutazione dell'eresia. Si potrebbe dire – con un po' di enfasi – che Ireneo è il primo «teologo sistematico» della Chiesa. Tra i punti più importanti della sua dottrina c'è proprio la questione della regola della fedee della sua trasmissione.
La cura di conservare e spiegare rettamente la regola della fede – espressa nel Credo degli apostoli, e da loro trasmessa ai vescovi (il Credo dell'apostolo Giovanni è lo stesso del suo discepolo Policarpo, vescovo di Smirne, ed è il Credodi Ireneo, vescovo di Lione, discepolo di Policarpo) – spetta solo alla Chiesa, che proprio per questo ha ricevuto lo Spirito Santo.
Perciò il vero insegnamento è quello impartito dai vescovi, che possono provare di averlo ricevuto per mezzo di una tradizione ininterrotta dagli apostoli, in quanto Cristo lo ha affidato a loro. Occorre considerare in modo speciale l'insegnamento della Chiesa di Roma, massima e antichissima, che ha «maggiore apostolicità», perché trae origine dalle colonne del collegio apostolico, Pietro e Paolo: con lei devono accordarsi tutte le Chiese.
Proprio con questi argomenti Ireneo confuta dalle fondamenta le pretese degli eretici: anzitutto essi non posseggono la verità, perché non sono di origine apostolica; in secondo luogo la verità, e quindi la salvezza, non sono privilegio o monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli apostoli e soprattutto del vescovo di Roma.
In particolare – sempre polemizzando con il carattere segreto ed elitario della tradizione gnostica, e notandone l'esito multiplo e contraddittorio –, Ireneo si preoccupa di illustrare il genuino concetto di tradizione apostolica, che possiamo riassumere in tre punti:
a) la tradizione apostolica è pubblica, non privata né segreta. Per Ireneo non c'è alcun dubbio che la fede insegnata dalla Chiesa è quella ricevuta dagli apostoli e da Gesù. Non c'è altro insegnamento che questo. Pertanto chi vuole conoscere la vera dottrina basta che conosca «la tradizione che viene dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini», tradizione e fede che «sono giunte fino a noi per successione di vescovi» (Contro le eresie3,3,3-4). Al punto che, «anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, si dovrebbe seguire l'ordine della tradizione, che hanno trasmesso coloro a cui [gli apostoli stessi] affidavano le Chiese» (3,4,1).
Di qui l'importanza della «successione apostolica» rappresentata dai vescovi, i quali godono del «carisma certo della verità» (4,26,2).
Secondo Ireneo, parte integrante di questo carisma episcopale non è soltanto la purezza della dottrina, ma anche una vita esemplare e irreprensibile (qui ritorna la questione dei rapporti inseparabili fra trasmettere la fede, testimoniare la fede, educare nella fede);
b) la tradizione apostolica è unica. Mentre infatti lo gnosticismo si suddivide in molteplici sètte, la tradizione ecclesiale è unica, grazie al suo contenuto, che Ireneo – come già abbiamo accennato – chiama regula fidei o veritatis: un contenuto sempre identico, nonostante la diversità delle lingue e delle culture.
Così si esprime al riguardo il vescovo di Lione: «Ricevuto questo messaggio e questa fede, la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, lo custodisce con cura, come se abitasse una casa sola; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e un solo cuore; in pieno accordo con queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo» (1,10,2).
In questo modo Ireneo, guardando alla diffusione della Chiesa nell'ecumene, estende lo sguardo da Roma, «centro del mondo», verso i quattro punti cardinali, descrivendo un'Europa «allargata», ormai invasa dal Vangelo e dalla sua potenza unificatrice.
Diciamo tra parentesi che – grazie a questo atteggiamento, con cui la Chiesa dei Padri «in pieno accordo proclama, insegna e trasmette le verità ricevute, come se avesse una sola bocca» – l'insegnamento dei Padri diventa un fondamento ineludibile per l'identità culturale dell'Europa, oggi rinnegata di fatto da molte riletture cosiddette storiche;
c) la tradizione apostolica è pneumatica. Non si tratta di una trasmissione affidata all'abilità degli uomini, più o meno dotti, ma allo Spirito di Dio, che fa della tradizione una realtà divina. È questa la «vita» della Chiesa, ciò che rende la Chiesa sempre fresca e giovane, cioè feconda con i suoi molteplici carismi. Chiesa e Spirito, per Ireneo, sono inseparabili: «Questa (fede)», leggiamo ancora nel suo terzo libro Contro le eresie, «l'abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa, per opera dello Spirito di Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene.
Alla Chiesa infatti è stato affidato il dono di Dio (...), affinché tutte le sue membra, partecipandone, siano vivificate (...). Infatti nella Chiesa, dice (Paolo), Dio ha posto apostoli, profeti e maestri e tutta la rimanente operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della vita a causa delle loro false dottrine e azioni perverse. Perché dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa e ogni grazia» (3,24,1).
Come si vede dalle citazioni riportate (e molte altre se ne potrebbero aggiungere, anche in riferimento all'Esposizione della predicazione apostolica), Ireneo non si limita a definire il concetto di trasmissione della fede, ma lo illustra in modo vitale. La fede va trasmessa quale deve realmente essere: cioè pubblica, unica, pneumatica. A partire da ciascuna di queste caratteristiche si può avviare un fecondo discernimento per una corretta trasmissione della fede, nell'oggi della Chiesa.

2. Ambrogio e Agostino: come testimoniare la scelta della fede?
Parliamo anzitutto dell'incontro tra i due, Ambrogio e Agostino, e da questo incontro ricaveremo alcuni tratti significativi circa la «testimonianza della fede» secondo i nostri Padri.
Dobbiamo ricomporre, con un po' di pazienza, le circostanze di questo celebre incontro, certamente uno dei fatti più notevoli della storia della Chiesa.1
Tormentato da un'inquieta ricerca della verità, deluso dalle dottrine manichee, frustrato nell'insegnamento dall'indisciplina degli allievi, Agostino nel 383 lascia Cartagine e si reca a Roma.
Ha ventinove anni, e si potrebbe dire che ha ormai raggiunto una piena maturità di vita. In realtà, nel suo intimo egli è più perplesso e angosciato che mai: nulla sembra offrirgli salde garanzie per il conseguimento di quella verità, a cui aspira con tutte le forze, come il senso ultimo della sua esistenza. Per di più nell'insegnamento incontra diverse difficoltà, perché – come egli stesso confessa – «a Cartagine la libertà è del tutto sfrenata, e gli studenti come delle furie turbano la disciplina» (Confessioni 5,8).
Così la partenza di Agostino da Cartagine in quella notte del 383 sa molto di una fuga. Monica si rende conto della fase critica che sta attraversando suo figlio, e non vorrebbe assolutamente lasciarlo partire in quello stato. Agostino deve ricorrere a uno stra­tagemma. Mia madre – racconta egli stesso – «pianse dirottamente, seguen­domi fino al mare. Allora io l'ingannai, fingendo di voler stare lì, per non lasciare solo un amico ad aspettare che si alzasse il vento per levare l'ancora. Riuscii a convincerla che, se non voleva tornare indietro senza di me, si ritirasse almeno a passare la notte in una chiesetta, vicino al luogo dov'era la nave; e in quella notte io partii di nascosto, ed ella rimase a piangere e a pregare» (ibidem).
In verità né Monica né Agostino se ne rendono conto, ma la fuga da Cartagine costituisce l'inizio di quell'episodio assoluta­mente centrale della vita di Agostino, che è l'incontro con Ambrogio, culminato nella conversione e nel battesimo.
Ma in un primo momento la destinazione di Agostino, esule da Cartagine, fu Roma. Se non che l'impatto con l'ambiente romano fu un'altra terribile delusione. Agostino si era illuso che gli studenti romani fossero più disciplinati di quelli africani: e invece si accorge che a Roma gli allievi sono solo più imbroglioni, e che non pagano neppure i loro insegnanti.
Agostino sta giusto facendo questa triste esperienza, quando al prefetto di Roma, Simmaco, giunge una richiesta dalla corte imperiale (che in quel momento aveva la sua sede a Milano): si è resa vacante la cattedra di eloquenza allo Studio Pubblico, e si vuole coprirla con un retore di sicuro prestigio. Il titolare della cattedra di eloquenza a Milano, infatti, è in qualche modo l'oratore ufficiale della corte imperiale. Simmaco pensa subito ad Agostino, e questi accetta. Portato dal cursus publicus (una sorta di vettura ufficiale, di rappresentanza), Agostino giunge a Milano.
Siamo ormai nell'autunno del 384.
Subito il gio­vane cattedratico dello Studio Pubblico inizia – come di consuetudine – la sua visita di cortesia alle varie autorità cittadine, e così incontra pure il vescovo Ambrogio.
La nostra fonte è ancora il libro quinto delle Confessioni.
Qui Agostino narra che Ambrogio lo accolse satis episcopaliter. È un avverbio un po' misterioso: che cosa intendeva dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco.
È certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui problemi fondamentali della fede, veniva di giorno in giorno differito, tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione.
Eppure Ambrogio e Agostino s'incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il discorso sulle generali, facendo per esempio ad Agostino gli elogi di Monica, e congratulandosi con lui per avere una simile madre. Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava regolarmente impegnato con caterve di per­sone, piene di problemi per le cui necessità egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o ali­mentava lo spirito con letture.
E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della pro­clamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di conoscenza e di comprensione delle Scritture.
Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osser­vare Ambrogio; poi, non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. «Così», conclude Agostino, «non mi era mai possibile interpellare, su ciò che mi interessava, l'animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibile a lungo per potersi riversare su di lui; ma questo non succedeva mai» (ibidem 6,3).
Sono parole molto gravi: tanto che ci verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone.
Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di Agostino fosse un'autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di Ambrogio nel suo modo di trasmettere e di testimoniare la fede.
Ambrogio è informato della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Con questo precedente, è credibile che Ambrogio non s'ac­corgesse di Agostino, quando questi entrava da lui, e pieno di sog­gezione si sedeva in disparte, mentre egli leggeva? No, non è credi­bile. Ma il vescovo non riteneva opportuno impegnarsi in un con­traddittorio dialettico con Agostino, dal quale lui, Ambrogio, avrebbe potuto anche uscire perdente...
Così Ambrogio sospende le parole, lascia parlare i fatti, e con la sua prassi afferma che la trasmissione della fede non si realizza attraverso le parole soltanto, ma deve passare soprattutto attraverso la testimonianza della vita.
Quali sono questi fatti?
Anzitutto, la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato dal fatto che Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei fratelli, soprattutto dei più poveri. La preghiera e la carità, testimo­niate da questo formidabile pastore, subentrano alle parole e ai ragionamenti umani.
L'altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui Ambrogio è l'animatore e il maestro (grazie anche ai celebri Inni da lui composti e musicati); una Chiesa capace di resistere alle pretese dell'imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chiesa per le cerimonie degli ariani.
Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, «il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. Anche noi», e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell'intimo di Agostino, «pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell'eccitazione di tutto il popolo» (ibidem 9,7).
Agostino insomma, pur non riuscendo ad affrontare in un dia­logo a quattr'occhi il vescovo Ambrogio, resta positivamente conta­giato dalla sua vita, dal suo spirito di preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell'animazione delle liturgie, ne coglie il progetto coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura.
In questo modo Agostino diviene la buona terra per il seme della fede.
L'attualizzazione di questa storia non è difficile. Propongo solo qualche spunto di riflessione.
Molte volte si incontrano pastori o catechisti scoraggiati, che constatano con amarezza la scarsa incisività del loro messaggio: in effetti, più che a conversioni come quella di Agostino, oggi assi­stiamo a un allarmante cedimento in ciò che riguarda l'impegno per i valori. Ma vorrei chiedere al pastore o al catechista scoraggiato:
Tu preghi? coloro che educhi alla fede ti vedono pregare? colgono il fatto che sei uomo di Dio, uomo della Parola? in altri termini, come è la dimensione contemplativa della tua vita?
Tu pratichi la carità? sai accogliere il «povero», il più bisognoso, il meno simpatico, quella persona che tutti mettono da parte perché dà fastidio? sai farti prossimo? sai stare insieme, dando la tua vita (non soltanto alcune parole) ai destinatari del Vangelo? solidarizzi con loro, anche quando ti sembra di perdere tempo?
Tu ami la Chiesa? ti impegni a contribuire con ogni forza alla sua edificazione sia nella liturgia sia nella pratica della vita quotidiana?
La figura del pastore, quale emerge dalla storia che abbiamo rievocato, è una figura compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti.
Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli si accostò, chiedendogli di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: «Io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio...».
Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente.
Noi l'abbiamo la Parola: noi abbiamo il lieto messaggio di Cristo, noi abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo – stando all'in­segnamento dei nostri Padri – non può passare senza la testimo­nianza della vita...
Così nella trasmissione della fede non si potrà mai prescin­dere dai due elementi fondamentali che entrano in gioco: il conte­nuto oggettivo e la testimonianza personale (quale fede trasmettere, e come trasmetterla), che devono raccordarsi tra loro in una sintesi vitale.

3. Ancora Ambrogio e Agostino: come educare alla fede?
Occorre aggiungere, a questo punto, che – nel trasmettere la fede della Chiesa – Ambrogio e Agostino si servivano di un itinerario peculiare di edu­cazione alla fede.
3.1. La teoria catechetica di Ambrogio2
Nel ministero pastorale di Ambrogio l'educazione alla fede conosce tre tappe fondamentali. Oggi possiamo discutere sulla prio­rità dell'una rispetto all'altra: è certo però che esse rappresentano tre istanze irrinunciabili per ogni itinerario di fede.
a) La catechesi di Ambrogio è una catechesi molto concreta, che pretende di informare le scelte e i comportamenti pratici della vita. Egli partiva, appunto, dall'istruzione morale, e questa era la prima cosa che ricavava dalla lettura della Bibbia: «Abbiamo trat­tato ogni giorno di morale», diceva ai destinatari della sua cate­chesi, quando leggeva a loro le storie dei patriarchi e le massime dei Proverbi, «affinché, così formati e istruiti, voi vi abituaste ad entrare nella via dei padri e a seguire il cammino dell'obbedienza ai precetti divini, e – rinnovati dal battesimo – conduceste il genere di vita che conviene a coloro che sono stati purificati» (I misteri 1,1).
Da parte nostra, dobbiamo riconoscere che la fede cresce attraverso le esperienze della vita. Perciò chi educa alla fede è uno che promuove esperienze positive, atteggiamenti concreti, fatti..., che consentano questa circolarità feconda tra fede e vita.
b) In secondo luogo, la catechesi ambrosiana ha una robusta dimensione dogmatico-dottrinale. Al fedele – già «purificato» nella prima tappa – viene consegnato il Simbolo romano nei suoi dodici arti­coli fondamentali, e questo «breviario della fede» gli viene spiegato, in modo che egli lo assimili e possa restituirlo, trasmettendolo a sua volta e testimoniandolo con le parole e con la vita (Spiegazione del Simbolo 2).
Così chi educa nella fede deve essere provvisto di una precisa competenza teologica. Questa non potrà essere improvvisata, anzi­tutto per un'esigenza di rispetto nei confronti del depositum fidei: infatti chi educa nella fede non consegna un messaggio che gli appartiene in proprio; il messaggio che egli consegna lo supera, e va trasmesso ancora, dopo di lui.
c) Infine, la catechesi ambrosiana conduce ai sacramenti: il pastore accompagna per mano i fedeli nell'universo dello spirito, alzando il velo e comunicando una nuova capacità visiva, che gli consente di fare l'esperienza della salvezza nell'oggi della celebra­zione liturgica (i sacramenti, appunto).
«Sei andato», recita un celebre testo ambrosiano, «ti sei lavato, sei venuto all'altare, hai cominciato a vedere ciò che prima non eri riuscito a vedere. Cioè, mediante il fonte del Signore e l'annuncio della sua passione, i tuoi occhi si sono aperti in quel momento. Tu, che prima sembravi acce­cato nel cuore, hai cominciato a vedere la luce dei sacramenti» (I sacramenti 3,15).
Questo è precisamente il punto d'arrivo dell'itinerario di fede. Pertanto chi educa nella fede è uno che – segnando la strada – attua e vive in prima persona la «dimensione sacramentale», e si studia di testimoniarne efficacemente l'irrinunciabile valore.
In generale, riscontriamo nell'educazione ambrosiana alla fede il primato della vita sui concetti. E’ questo il realismo della fede, che, del resto, avevamo già registrato nella prassi pastorale di Ambrogio, ricordando la storia del suo incontro con Agostino. Il fatto è che per Ambrogio la Cosa (Res) più importante di tutte non è la dottrina: è una Persona vivente, Gesù Cristo. Cristo, esclama con entusiasmo il vescovo di Milano, «Cristo è tutto per noi: Omnia Christus est nobis!» (La verginità 16,99).
3.2. La teoria catechetica di Agostino3
Mi limito qui a richiamare una breve opera di Agostino, La catechesi ai semplici, indirizzata a Deogratias, diacono di Cartagine – un «catechista scoraggiato» –, verso il 400. Si tratta, come dice il titolo, di un piccolo manuale di catechesi, unico nel suo genere nella letteratura patristica.
Anche qui si possono rintracciare tre istanze fondamentali per una corretta trasmissione della fede.
a) Anzitutto il racconto della storia salvifica. Secondo Agostino, chi educa alla fede deve presentare un racconto completo della storia della salvezza, da «in principio Dio fece il cielo e la terra» (Genesi ,1), fino ai tempi della Chiesa. Naturalmente, si fermerà in partico­lare sui fatti essenziali, mentre tratterà quelli secondari attraverso rapidi cenni. Emergeranno i nodi centrali della storia della salvezza, soprattutto l'evento centrale, che è Cristo, sintesi di tutti gli altri. Di qui la continuità tra Antico e Nuovo Testamento: «L'Antico Testamento», scrive Agostino, «è il velo del Nuovo Testamento, e nel Nuovo si manifesta l'Antico». Così l'intera Scrittura «narra Cristo, e spinge ad amare» (La catechesi ai semplici 4,8).
Pare qui di sentire alcuni passi del «documento di base» per il Rinnovamento della Catechesi (= RdC), Roma 1970 («riconse­gnato» nel 1988 alla Chiesa italiana), testo che si è effettivamente ispirato in modo esplicito al libretto di Agostino. Si vedano soprat­tutto i paragrafi 105-108 di RdC, i quali riportano anche una cele­berrima citazione di san Gerolamo, contemporaneo di Agostino: «Ignorare la Scrittura sarebbe ignorare Cristo».
Proprio nel riferimento ad Agostino e a Gerolamo si possono individuare le più importanti fonti patristiche del cosiddetto biblio­centrismo della catechesi, sancito dai catechismi italiani postconci­liari (il catechista è uomo della Parola, perché per lui «la Scrittura è "il Libro": non un sussidio, fosse pure il primo»: RdC 107). Un bibliocentrismoche (in Agostino, discepolo di Ambrogio, e in generale nella corretta trasmissione della fede) equivale a un cristocentrismo: infatti il catechista «sceglie nella Scrittura, specialmente nei vangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento, i testi e i fatti, i personaggi, i temi e i simboli che maggiormente convergono in Cristo... Nei per­sonaggi, si deve vedere la scelta che Dio ha fatto perché divenissero collaboratori, sia nel preparare la venuta del Salvatore, sia nel pro­lungarne la missione. Va messa in risalto la loro corrispondenza alla chiamata, l'orientamento verso Cristo» (RdC 108).
E si può citare anche il perentorio asserto della Catechesi Tradendae (= CT) di Giovanni Paolo II (1979): «Al centro stesso della catechesi noi tro­viamo essenzialmente una persona: quella di Gesù di Nazareth, unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità» (CT 5).
b) Un'altra istanza della trasmissione agostiniana della fede è quella di aprire alla speranza, la speranza che nasce dalla fede nella risurrezione. La speranza, infatti, ha un nome preciso: è Cristo risorto (La catechesi ai semplici 25,46). «E come è diventato la nostra speranza?» si chiede Agostino, in altro contesto. "Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra spe­ranza. In lui puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua ricompensa nella resurrezione. È così che è diventato la nostra speranza. Perché noi abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l'altra è quella in cui speriamo. Quella in cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta (...). Con le sue fatiche, le tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la resurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l'uomo nasce e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo è diventato la nostra speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la speranza» (Commento al Salmo 60,4).4
Si vede così che l'Agostino ventinovenne – «disperato» – ha ceduto il posto a uno dei più grandi cantori della speranza che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia bimillenaria. Decisivo per questo passaggio fu l'incontro con Ambrogio, e finalmente il battesimo che il vescovo di Milano gli amministrò nella notte di Pasqua del 387.
Ne possiamo desumere, da parte nostra, che chi trasmette la fede è uomo o donna della speranza, pronto egli stesso a rendere ragione della speranza che è in lui. Ne consegue inoltre che egli evi­terà toni distruttivi o ipercritici sul tempo presente. C'è in lui un sostanziale ottimismo, sostenuto dalla fede, e un'attenzione cor­diale a tutti i valori terreni, nella consapevolezza che la risurrezione è parola di fiducia e di speranza anche nei loro confronti.
c) Infine, chi trasmette la fede è uno che dona la gioia: anche quando parla, dice Agostino, si sforzi «di non essere pesante, di esprimersi in modo piacevole» (La catechesi ai semplici 2,3). Qui sembra di sentire qualcosa di don Bosco, quando Agostino afferma che, se c'è la gioia, i catechizzandi «pronunciano per bocca nostra le cose che ascoltano, e noi apprendiamo da essi le cose che inse­gniamo» (ibidem 12,17).
Chi educa alla fede, per dirla appunto con don Bosco, è uno che «studia di farsi amare», capisce e condivide gli interessi, gli affetti, le condizioni e le attese dei fedeli, per condurli nella gioia all'incontro con il Signore.
***
«A seconda della varia espressione del fedele», scriveva ancora Agostino, «il mio discorso prende avvio, procede e termina» (ibidem 15,23).
E noi terminiamo qui le nostre riflessioni.
Ma il messaggio dei Padri, che ci hanno preceduto, continua ad interpellare ciascuno di noi, e invita a ridisegnare non certo la regula fidei, bensì la figura e il metodo di chi intende trasmettere la fede nell'oggi della Chiesa.


*
NOTE
 1 Cfr. A. PINCHERLE, Ambrogio ed Agostino, «Augustinianum» 14 (1974), pp. 385-407; G. BIFFI, Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, in A. CAPRIOLI - L. VACCARO (curr.), Agostino e la conversione cristiana, Palermo 1987, pp. 23-34; E. DAL COVOLO, Il pastore, ministro della Parola e della carità. L’esempio del vescovo Ambrogio, in M. CARDINALI (cur.), Pastori dinanzi all’emergenza educativa. Per la formazione dei formatori, Città del Vaticano 2011, pp. 33-58.
2 Cfr. F. BERGAMELLI, Ambrogio di Milano, in J. GEVART (cur.), Dizionario di Catechetica, Leumann (Torino) 1986, pp. 29-30; AA. VV., S. Ambrogio di Milano, «Evangelizzare» 23 (1997), pp. 597-620. Si vedano anche il sussidio curato da E. MARROCCO – G. MONZIO COMPAGNONI, Ambrogio di Milano. L’amore generi la fede. La catechesi sul Credo, Milano 2007, e la catechesi del Papa su sant’Ambrogio, in BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa…, pp. 147-152.
3 Cfr. O. PASQUATO, Agostino, in J. GEVAERT (cur.), Dizionario di Catechetica..., pp. 23-25. Si vedano anche le cinque catechesi che il Papa ha dedicato a sant’Agostino, in BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa…, pp. 199-233.
4 Cfr. G. VISONA’, La speranza nei Padri, Milano 1993, pp. 245-246.

Fonte: Zenit