Il lembo del mantello
[1] La folla si accalca attorno a Gesù e lo preme da ogni
parte. D'improvviso Gesù domanda: "Chi mi ha toccato?". Pietro gli dice:
"Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia. Come puoi fare una
domanda simile?". Ma Gesù insiste: "Ho sentito che una forza è uscita da me!".
Allora si fa avanti una donna, malata da molti anni, confessando che gli si è
avvicinata furtivamente alle spalle pensando tra sé: "Se riuscirò a toccare
anche solo il lembo del suo mantello, sarò guarita" (Cf Mc 5, 25-34; Lc 8,
42-48).
Carissimi lettori di questa Lettera pastorale, lo scorso anno
ho intitolato la Lettera programmatica 1990 - 1991 Effatà, Apriti riferendomi
alla guarigione di un sordomuto (Cf. Mc 7, 31-37). Leggevo in essa l'icona di
una società che ha bisogno di essere guarita dai propri blocchi comunicativi.
Quest'anno, continuando lo stesso discorso, prendo come miracolo emblematico di
Gesù quello di una guarigione avvenuta al semplice contatto del lembo del suo
mantello. Perché?
Il tema di quest'anno sono i mezzi di comunicazione di massa
(stampa, radio, televisione). Ho pensato molto a come mettere in rapporto tali
strumenti tecnici della nostra epoca con il messaggio di Gesù. E' così che la
mia immaginazione è stata attratta da questa pagina evangelica. Leggo infatti in
essa tre realtà che caratterizzano la nostra civiltà, tanto condizionata dai
mass media: la massa, la persona e la comunicazione.
Anzitutto la massa: è la folla anonima che si accalca attorno
a Gesù. Molti lo toccano anche fisicamente, ma non succede nulla; nessuno si
distingue, nessuno assume un particolare rilievo, nessuno appare con un volto o
un desiderio proprio. E l'immagine delle masse che si qualificano come fruitori
passivi dei mezzi chiamati, appunto, "di massa".
Tra la massa però una persona comincia a emergere. Ha un
progetto, una volontà precisa e soprattutto una grande fede. Gesù le dirà:
"Figlia, la tua fede ti ha salvato!". Ha una tale fiducia in Gesù da pensare che
anche solo il contatto con il lembo del suo mantello la possa guarire. Per
questo, pur restando nascosta tra la folla, essa vive un processo di forte
"personalizzazione", entra in un contatto autentico con Gesù, contatto di cui
egli stesso si accorge e che proclama pubblicamente. Dalla massa è emersa una
persona.
Questo emergere della persona è avvenuto attraverso una
comunicazione di forza risanatrice da parte di Gesù alla donna. Ma, a differenza
di altre volte in cui la comunicazione è diretta (Gesù parla, comanda, tocca),
qui è sufficiente un lembo del mantello, sfrangiato e impolverato, per stabilire
la possibilità di un incontro.
[2] Ed è a questo punto che ho intravisto la grande scommessa
sottesa al secondo anno del programma pastorale "comunicare". Anche mediante i
mass media - che pure sono qualcosa di molto marginale rispetto alla profonda e
originaria corrente del comunicare di Dio con l'uomo e degli uomini tra loro -,
anche mediante gli strumenti della massificazione dei messaggi è possibile una
vera comunicazione umanizzante e addirittura salvifica. E' necessario favorire
il processo di "uscita dalla massa", perché le persone, dallo stato di fruitori
anonimi dei messaggi e delle immagini massificate, entrino in un rapporto
personale come recettori dialoganti, vigilanti e attivi.
Ecco dunque la domanda a cui la presente Lettera vuole
aiutare a rispondere: come è possibile che, anche in presenza di strumenti che
mandano messaggi in una sola direzione e a una massa anonima, non si ottunda la
coscienza individuale, ma si aprano veri canali comunicativi nell'ambito della
comunicazione interumana, della comunicazione tra Chiesa e società, della
comunicazione tra le persone umane e il Mistero divino? come è possibile che,
mediante il mio televisore (inteso qui come simbolo di tutti gli altri mass
media), io entri in contatto addirittura con la forza salvifica di Gesù?
[3] Sono conscio del fatto che l'impostazione della Lettera è
molto ardita. Essa parrà anzi temeraria a coloro che sono giustamente
preoccupati del guasto morale operato dai mezzi di comunicazione sociale. Mi
diceva qualcuno: "Se lei ha intenzione di scrivere una lettera sui mass media,
gridi ad alta voce contro il danno causato dalla televisione nelle coscienze!".
Certamente ne parlerò. Siamo infatti tutti convinti che i
mass media, e in particolare la televisione, il più forte di tutti, detengono un
potenziale che può essere distruttivo, nefasto e subdolo, che non è facile
cogliere subito nella sua pervasività e gravità. Tuttavia mi sono sentito spinto
a iniziare la Lettera con un'immagine positiva e riconoscente per questi doni di
Dio, come è quella del lembo del mantello di Gesù.
Ma non mi accontento di un generico riconoscimento dei beni
che ci vengono dai media. L'immagine evangelica a cui ho fatto riferimento mira
più in alto. Essa porta addirittura a stabilire un qualche rapporto tra il mio
televisore e il lembo del mantello di Gesù. Perché tale accostamento non è
blasfemo? in forza di quali ragioni posso guardare i mass media non solo
genericamente come un dono di Dio, così come guardo le montagne o i grattacieli,
bensì come strumenti che hanno un rapporto più stretto che non altre realtà
create con il piano comunicativo di Dio?
Per rispondere alla domanda devo abbozzare un piccolo
discorso teologico. Chi ne avesse timore può passare oltre, almeno per ora. Ho
fiducia che, al termine della Lettera, tornerà indietro per leggere le tre o
quattro paginette che seguono, e le riterrà illuminanti.
Tra l'altro la risposta all'interrogativo sul valore
"teologico" del mio televisore mi dà l'occasione di esplicitare il rapporto tra
questa Lettera pastorale e la precedente Effatà, Apriti dedicata ai fondamenti
teologici e agli aspetti spiritual ed esistenziali del comunicare. Procederò con
ordine, a) richiamando dapprima il fondamento trinitario della comunicazione,
sviluppato in Effatà, per coglierne le implicanze sul possibile valore teologico
dei mass media; b) considerando, quindi, il significato del linguaggio umano in
quanto è stato voluto proprio da Dio nella varietà delle sue forme.
[4] In Effatà coglievo il modello supremo della comunicazione
nell'atto col quale il Dio vivente si è sommamente comunicato agli uomini: il
mistero pasquale della croce e risurrezione di Gesù.
La Trinitas in Cruce è stata l'icona concreta, cui ho voluto
ispirarmi per sondare le profondità della comunicazione interpersonale suscitata
e consentita dal comunicarsi di Dio: come il Padre consegna suo Figlio alla
morte in un gesto di suprema gratuità, e il Figlio si lascia consegnare in
obbedienza d'amore per noi, così la comunicazione tra gli uomini, per essere
vera, esige gratuità e accoglienza e deve svolgersi in quel clima di reciprocità
e libertà di cui è testimone lo Spirito santo nel rapporto tra le Persone
divine. La Trinità intera è coinvolta nell'atto della comunicazione della vita
divina al mondo e fonda ogni autentica comunicazione interumana.
Questo impegno del Dio trinitario nella sua comunicazione
all'uomo rivela già di per se il valore intrinsecamente buono di ogni atto
comunicativo e, di riflesso, il valore di ogni strumento di comunicazione
tendente a mediare o a moltiplicare tale atto. E se nel suo comunicarsi Dio si
rivela come agape, cioè come amore gratuito che non resta chiuso in se, ma esige
di donarsi senza condizioni e riserve, la bontà ultima di ogni atto comunicativo
tra gli uomini risiede nella sua partecipazione a questa carità divina. Il
comunicare stabilisce tra gli esseri umani relazioni di solidarietà, che
esprimono l'immagine di Dio impressa nella creatura.
Se è vero che il disegno di salvezza del Padre abbraccia
tutto ciò che esiste, e la missione del Figlio e dello Spirito raggiungono
l'intera realtà creata, ogni mezzo comunicativo possibile tra gli uomini può
dunque essere adottato dal Dio trinitario per raggiungere il cuore dell'uomo.
Perciò anche un televisore può evocare l'immagine del lembo della veste di Gesù
salvatore dell'uomo.
Infatti tutto quanto è creato è avvolto dal disegno salvifico
divino e orientato alla gloria di Dio Padre, che alla fine sarà tutto in tutti (cf
1Cor 15, 28). Tutto ciò che esiste è stato creato in vista di Cristo e per mezzo
di lui (cf Col 1, 19) ed è stato da lui assunto per essere salvato. Dappertutto,
infine, opera lo Spirito, che soffia dove vuole e che di tutto può servirsi per
compiere la sua opera. Ogni mezzo creato di comunicazione può quindi essere
scelto e utilizzato da Dio come sua via per giungere al cuore dell'uomo. Una
visione pessimistica, che in partenza giudichi negativamente gli strumenti della
comunicazione, in particolare quelli di massa, si oppone a questa visione di
fede, che motiva invece una speranza di fondo anche rispetto al pianeta dei mass
media.
Tale lettura non va però confusa con un ingenuo ottimismo: al
centro del disegno divino di salvezza sta la croce di Cristo, che è giudizio del
peccato del mondo. Benché tutto possa essere scelto da Dio per raggiungere la
persona nella sua coscienza e nella sua libertà, tutto ciò che è sotto il sole
può essere falsato dall'uso che ne fa la libertà dell'uomo, segnata dal peccato.
E' il carattere ambivalente di ogni realtà umana, anche di
quella che si esprime nelle forme della comunicazione di massa: se esse possono
rispondere al disegno divino, e avvicinare Cristo al cuore dell'uomo e il cuore
dell'uomo a Cristo, sotto l'azione dello Spirito accolto in una coscienza retta,
parimenti possono essere strumentalizzate dai poteri di questo mondo e divenire
funzionali a interessi gravemente contrari alla volontà di Dio.
I mass media possono così diventare il lembo non solo
impolverato, ma strappato della veste di Cristo. Possono utilizzare il loro
potere fino a far cadere la persona in una sorta di schiavizzante dipendenza dal
dominio di chi li gestisce. Si pensi soltanto alle possibili manipolazioni
dell'informazione e ai condizionamenti che si possono esercitare sull'opinione
pubblica e sulle sue scelte etiche e politiche. Per questo, un ottimismo di
fondo verso i mass media suscita e promuove una vigilanza attenta e l'esercizio
del discernimento critico.
[5] La seconda considerazione, cui accenno brevemente,
riguarda il fatto che Dio ha parlato con parole umane e si è rivelato con gesti
ed eventi che fanno parte della storia di questo mondo. Già questo dato di fatto
dimostra come il Signore non abbia disdegnato le forme della comunicazione
umana, anzi le abbia in un certo senso rivelate pienamente a se stesse. Si
potrebbe dire che, da quando Dio ha parlato in parole ed eventi umani, noi siamo
assicurati che le parole e gli eventi di questo mondo sono atti a fare da
veicolo alla sua comunicazione, capaci di dire il suo amore, la sua verità e la
sua vita nei poveri termini e nei gesti limitati della nostra esperienza. I mass
media, nella varietà dei linguaggi da essi usati (verbale, per immagini, sonoro,
gestuale, per vibrazioni ed emozioni, ecc. ), sono "tende" potenziali in cui il
Verbo non disdegna di abitare, lembi del suo mantello, attraverso cui può
passare la sua potenza salvifica.
Anche qui, tuttavia, non dobbiamo nascondere le possibili
ambiguità: il linguaggio umano, per quanto veicoli il messaggio e il dono
divini, non li esaurisce. Dio resta sempre più grande delle parole e dei gesti
dell'uomo; i mass media - pur nella loro migliore utilizzazione - hanno comunque
una capacità relativa e limitata.
C'è un'eccedenza del Mistero divino, che non va mai
dimenticata, e, che deve rendere perennemente vigilanti e attenti a quanto
trascende ciò che la "notizia" comunica. Il lembo resta cioè un pezzo del
mantello, e il mantello rimanda alla Persona che lo indossa e che potrebbe
dismettere il mantello quando non volesse servirsene più. I mass media sono
mezzi e non fini, realtà strumentali, penultime e non ultime, che potrebbero
nascondere e ostacolare la via del vero, ma, quand'anche fossero a essa aperti,
non la esaurirebbero del tutto.
Questa premessa teologica, un po’ lunga, mi consente ora di
parlare con maggior scioltezza e libertà dell'incontro possibile tra Dio e
l'uomo attraverso i media e, conseguentemente, dell'incontro possibile tra la
Chiesa e il pianeta dei mezzi di comunicazione sociale. Lo farò anzitutto
immaginando me e ciascuno di voi in dialogo col televisore spento (prima parte).
Dopo esserci un po’ intrattenuti nella stanza, saliremo le scale della casa per
andare sul tetto (seconda parte); quindi partiremo, sempre insieme, per
raggiungere un satellite, da cui osserveremo il nostro piccolo mondo (terza
parte). Ma - non preoccupatevi! - alla fine torneremo a casa sani e salvi e,
spero, anche arricchiti nel cuore!
[6] Una volta tanto, caro mio televisore, sarai costretto ad
ascoltarmi. Sei sempre solo tu a parlare, a farti guardare, a tenermi zitto, a
impedirci di discorrere tra noi in casa. Quando sono seduto in poltrona di
fronte a te mi sento un po’ intimidito, anzi zittisco i miei bambini che
disturbano il mio ascolto. Ma stavolta voglio prendere io l'iniziativa; ti
spengo e tu mi ascolti. Era tanto tempo che sentivo questa voglia matta di dirti
qualcosa, di intendermi con te. Perché tu per me sei importante, sei diventato
parte della mia vita; io non voglio neanche troppo confessarlo, ma se tu non ci
sei mi manca qualcosa. Anzi, il Vescovo deve averne detta una grossa a tuo
proposito. Dice che tu potresti essere addirittura paragonato al lembo del
mantello di Gesù. Ma allora c'è in te quasi una forza divina! Non sei solo uno
dei tanti elettrodomestici che popolano la casa, un utensile di cui mi servo o,
peggio, un pericoloso mezzo di diseducazione. Posso tentare di dialogare con te
e tu devi ascoltarmi.
Sai, si dice che tu parli troppo. Un rapporto predisposto per
l'UNESCO rileva che il tempo medio passato davanti a te da una persona adulta
supera quotidianamente negli Stati Uniti le cinque ore, e che per i bambini si
raggiungono le sette ore. Nel nostro Paese, appare che quasi la età dei ragazzi
trascorre davanti al video più di quattro ore al giorno, gli altri dalle due
alle quattro ore. Circa un quarto dei ragazzi tra i 6 e i 13 anni affermano di
seguire i programmi televisivi serali oltre le ventidue.
Io vorrei avere con te un rapporto giusto. Non vorrei né
chiuderti a chiave in un armadio, e nemmeno essere "teledipendente"; non vorrei
avere con te un rapporto di assuefazione come può avvenire per il fumo, il
gioco, l'alcool, ma nemmeno ignorarti.
Vorrei evitare questi due estremi. Ci sono famiglie di miei
amici che possiedono due o tre televisori: uno in cucina, uno in salotto, uno in
camera da letto, magari in ogni camera da letto. . . Ci sono case dove il
televisore è in funzione dal primo mattino e viene spento, salvo qualche
interruzione, solo a tarda sera. E' curioso e anche un po’ triste che alcuni
parroci, in occasione della visita alle famiglie per Natale o per Pasqua, si
facciano precedere da un messaggio nel quale si raccomanda di spegnere il
televisore quando si accoglie il sacerdote.
A tal punto sei diventato parte della casa che neppure ci si
accorge della tua presenza attiva. Anzi qualcuno arriva a dire che sei un
"membro della famiglia", la cui perdita può determinare crisi e "lutti" nei
rapporti tra le persone. Un'indagine condotta negli Stati Uniti descrive così
gli effetti "traumatizzanti" dell'astinenza televisiva forzata: solo l'8% delle
famiglie ha accusato un disorientamento lieve, mentre tutti gli altri hanno
provato una sensazione più o meno grave, fino a una quota del 25% che ha
accusato disorientamento e frustrazione simile al lutto per il decesso di una
persona cara (questa è così grossa che stento a crederla!). Io non vorrei essere
di questi "teledipendenti", ma nemmeno finire tra coloro che ti considerano
un'invenzione diabolica.
Anche la Chiesa ha mostrato una crescente attenzione verso di
te arrivando a dire che i media sono "una versione moderna ed efficace del
pulpito. Grazie a essi si riesce a parlare alle moltitudini" (Evangelii
nuntiandi, 45). Che fare di fronte ad atteggiamenti tanto diversi: schierarsi
tra gli ammiratori incondizionati o tra i detrattori a oltranza?
Vorrei poter assumere di fronte ai media, di fronte alla
televisione, lo stile evangelico che chiede di saper vedere nei solchi del
mondo, e quindi anche nei media, il germinare del buon grano e insieme della
zizzania.
Ma adesso perché non mi parli anche un po’ tu?
[7] TV. Sono lusingato dal paragone col lembo del mantello di
Gesù. Io so benissimo di non essere che un 'mezzo" e come ogni mezzo dipendo
dall'uso che si fa di me. Non sei d’accordo?
Credo che ora stai diventando troppo modesto. E' vero, per
molta gente tu sei solo una scatola, un contenitore dal quale si possono cavare
cose buone e cose dannose. Parliamo infatti di media, cioè di mezzi, di
strumenti, di veicoli. Dicono queste persone: facciamo in modo che questi mezzi
portino a noi messaggi positivi, edificanti - possibilmente non noiosi -, ed
escludano messaggi negativi; così i media realizzano il contatto con la verità,
con il bene. Vengono alla mente le critiche feroci che Pier Paolo Pasolini
scagliò contro la televisione: "Se i modelli di vita proposti ai giovani sono
quelli della televisione, come si può pretendere che la gioventù più esposta e
indifesa non sia criminaloide? E stata la televisione che ha concluso l'era
della pietà e ha iniziato l'era del piacere". E' diffusa la persuasione secondo
la quale basterebbe riempire di contenuti positivi e interessanti i media,
ritenuti scatole sostanzialmente indifferenti ai contenuti. Ma tu, caro
televisore, non sei semplice mente un contenitore. Il fatto che tu esista cambia
in qualche modo il nostro rapporto con la realtà.
[8] TV. Sono una scatola, ma una scatola aperta, spalancata
sul mondo. Senza di me tu saresti chiuso nel tuo piccolo guscio, estraneo alle
vicende del mondo che io ti porto in casa.
Quello che dici è esatto. Quando, a metà degli anni '50, hai
fatto il tuo ingresso nelle nostre case e nella nostra vita, uno slogan ti
accompagnava e ci invitava ad acquistarti: "La TV è una finestra aperta sul
mondo". E c'è del vero in questo slogan. Nei mesi scorsi ci hai portato in casa
la guerra del Golfo (magari gabellando immagini "di repertorio" per immagini
reali) e ci hai permesso di toccare con mano i traguardi straordinari raggiunti
dalla ricerca scientifica e tecnologica in fatto di armamenti e al tempo stesso
l'assurdità di mettere questa intelligenza al servizio della distruzione. Ci hai
portato in casa anche l'instancabile appello del Papa alla pace.
Ogni giorno ci fai partecipare del respiro stesso del mondo.
Non di rado ci tieni col fiato sospeso, come quando abbiamo seguito in diretta i
vani tentativi di salvare dal pozzo il piccolo Alfredo. Sono passati tanti anni,
eppure chi ha seguito quella diretta non la potrà dimenticare.
Si dice che grazie ai media e soprattutto alla TV il mondo è
ormai diventato come un villaggio dove tutti sanno tutto di tutti, un "villaggio
globale". Liberati dall'ignoranza e sempre più informati dovremmo ritrovarci in
un universo sempre più comprensivo.
Ma l'immagine del "villaggio" creato dai media è ingannevole:
essi, pur creando un'informazione sempre più vasta, non hanno favorito la
comunicazione.
Osserva uno studioso dei media che dovremmo teoricamente
trovarci in un universo molto comprensivo perché informato, molto aperto
all'interazione, e disponibile perché liberato dai legami dell'ignoranza o della
conoscenza imperfetta; in realtà viviamo una progressiva chiusura difensivistica
nella nostra "grotta", nel nostro habitat psico-affettivo.
Lo slogan della TV "finestra aperta sul mondo", in presa
diretta con la realtà, è solo in parte vero. Il mondo che il piccolo schermo ci
porta in casa è un’immagine elettronica che solo parzialmente corrisponde alla
complessità della realtà inquadrata dalla telecamera. Si è soliti ripetere: "il
bello della diretta", e pensiamo che la diretta televisiva ci porti in casa, in
tempo reale, la realtà nel suo dispiegarsi. Ma le cose non stanno esattamente
così. Tra la telecamera che riprende un fatto e me seduto davanti al mio
televisore, c'è un complicato e artificioso processo di selezione e costruzione
delle immagini. La regia decide quali delle molte immagini devono essere
trasmesse. Io non ricevo la realtà immediata e diretta, ma solo quelle immagini,
quei punti di vista sulla realtà, che la regia ha deciso di selezionare e
trasmettere.
Io vedo sempre una realtà "montata", ricostruita secondo il
punto di vista di chi cura la trasmissione.
A maggior ragione quando non si tratta di "diretta", bensì di
programmi registrati su nastro e poi ricostruiti con il montaggio. E' dunque un
mondo artificiale, prodotto, quello che tu mi porti in casa. E di questo mondo,
per quanto reale mi possa apparire, rimango comunque uno spettatore estraneo,
incapace di intervenire nella realtà in cui ho l'impressione di essere immerso.
[9] TV. Ma io, malgrado tutto, sono un mezzo di informazione
e sono così importante che tutti cercano di avermi dalla loro parte. In questo,
non faccio che moltiplicare il servizio reso, ormai da qualche secolo, dalla
stampa periodica e quotidiana.
Sì, lo riconosco: tu sei importante. E infatti le forze
politiche e i grandi gruppi economici cercano di averti al proprio servizio.
Deve fare i conti con te sia chi vuole mantenere il suo potere sia chi vuole
rovesciare il potere altrui. I difensori dell'ordine costituito, come i
promotori del cambiamento, cercano i tuoi servizi.
Riconosco la tua funzione di informazione, intendendo con
questo termine i dati, le notizie, le informazioni che ci trasmetti. Tale ruolo
informativo e formativo è stato particolarmente accentuato nei tuoi primi anni
di vita. Le persone di una certa età ricorderanno bene una trasmissione che si
intitolava "Non è mai troppo tardi", per il recupero degli analfabeti.
C'era anche la cosiddetta TV dei ragazzi con programmi
appositamente confezionati per loro. Questa funzione "scolastica" della radio,
della TV e dei giornali non va affatto sottovalutata. Si può dire che
l'unificazione linguistica del nostro Paese è avvenuta solo con la televisione,
a cent'anni di distanza dall'unità politica.
E' vero che Pasolini accusò la televisione d'aver cancellato
i dialetti e quindi le differenze umane, culturali del nostro Paese per produrre
una "omogeneizzazione" piatta e banale. Anche in questo però è difficile
attribuirti solo colpe, dimenticando il tuo ruolo informativo.
Ma il termine "informare" vuol dire, alla lettera, dare
forma, plasmare un data realtà. E' la nostra coscienza che i media "informano",
cioè modificano, segnano, plasmano. Avviene, per la nostra coscienza esposta ai
media, come nei giochi dei bambini sulla spiaggia. La sabbia umida, pigiata
nella formina, nello stampo, assume la forma dello stampo, è informata.
In questo senso i media "informano" soprattutto perché danno
una certa forma alla realtà, reinterpretandola secondo ben precisi e interessati
criteri. 'Informazione televisiva non sfugge ai limiti propri dell'informazione
a mezzo stampa. Sappiamo che la scelta delle notizie da dare e il modo di dare
tali notizie corrispondono all'interesse proprio della testata.
Ogni giorno la redazione di un quotidiano si trova di fronte
a un'enorme quantità di dati, di eventi. Quali scegliere, quali evidenziare,
quali "censurare" o mettere ai margini? Questa scelta è già gravida di
significato, comporta una presa di posizione su ciò che è ritenuto importante.
La scelta poi è guidata dalla cosiddetta "notiziabilità" o "vendibilità" (ciò
per cui un avvenimento può diventare una notizia capace di attirare l'attenzione
del pubblico e di far vendere il giornale). Tale criterio tende a produrre una
selezione negativa delle informazioni e delle notizie. La preferenza va alla
notizia shocking disturbante, generalmente di segno negativo. "La nera vende più
della bianca" è la regola di ogni redattore di cronaca, ma vale per tutti i
media. Se il filtro prevalente di tutte le notizie sulla società è negativo -
sia che si parli di politica che di economia che di insicurezza sociale, ecc. -
non dobbiamo stupirci dell'aumento di sfiducia generalizzata dei cittadini nei
confronti della società e delle sue istituzioni. Non è infondato supporre un
legame tra la caduta progressiva di fiducia in tutte le istituzioni pubbliche e
private, osservato a partire dagli anni '60 in numerosi Paesi compreso il
nostro, e questo stile della comunicazione mediale.
Inoltre, sempre più spesso la redazione di un giornale e i
suoi giornalisti lavorano su materiali già elaborati dalle Agenzie e forniti da
grandi reti di banche-dati. Attraverso le cinque più grandi Agenzie di stampa
passa almeno l'80% delle notizie diffuse nel mondo. Tali agenzie ripongono, di
fatto, un loro almeno implicito giudizio di valore e un loro modello culturale.
Il pericolo è reale: l'allontanamento dalle fonti, e quindi dal mestiere proprio
del giornalista, aumenterà il distacco tra chi scrive e la realtà. Il
giornalista diventerà sempre più una sorta di tecnico specializzato: da
giornalista-informatore a giornalista adibito al trattamento dell'informazione,
giornalista-tipografo.
Per quanto riguarda le banche-dati, la più ricca ed
efficiente è quella del New York Times. Superfluo sottolineare che essa
memorizza solo materiale apparso in lingua inglese. Il che significa che se
nessun quotidiano o periodico in lingua inglese parla di un determinato
avvenimento, per chi attinge a quella banca-dati esso è come se non fosse mai
accaduto. E' un esempio di ciò che si chiama "colonizzazione culturale", che si
realizza anche attraverso le produzioni televisive - pensiamo soprattutto ai
racconti a puntate come Dallas, Dynasty, Beautiful, ecc. -, venduti o ceduti
gratuitamente ai Paesi più poveri, In molte scuole è stata introdotta la lettura
del giornale come forma di educazione dei ragazzi a capire le logiche con le
quali si costruisce l'informazione. Don Lorenzo Milani e la sua scuola di
Barbiana ci hanno insegnato a fare questa lettura, così da lacerare quel muro di
carta stampata che invece di avvicinarci ci tiene lontani dalla realtà. E' una
educazione che bisognerebbe fare anche per il mondo delle immagini.
[10] TV. Ma allora pure tu sei convinto che io sia, come si
dice, un "persuasore occulto", una voce e un messaggio che si insinua
subdolamente?
Certamente tu hai grandi risorse di persuasione e riesci a
far immaginare come vere cose che non esistono. E non è forse il tuo potere
persuasivo quello che convince uomini e donne dell'est d'Europa e del
Mediterraneo ad affrontare viaggi assurdi per andare verso quei Paesi delle
meraviglie e del benessere che hanno visto in televisione, senza pensare che
anche in quei Paesi c'è fatica, ingiustizia e povertà?
La coscienza esposta al messaggio televisivo rischia di dare
consistenza di realtà alla finzione dello spettacolo e, alla fine, può
confondere l'uno con l'altra; tale rischio investe maggiormente la coscienza
incerta e fragile dei più giovani e quella non formata da chiari orientamenti di
valore. Potremmo dire che la nostra coscienza, se immatura o indifesa, è una
sorta di spugna che assorbe dall'ambiente in cui è situata.
Le opinioni pronunciate dal tuo piccolo schermo o dalle
colonne dei giornali godono, per lo più, di grande autorevolezza. Si sente
spesso ripetere: "L'ha detto la televisione, l'ho letto sul giornale". Colui che
si affaccia al piccolo schermo per dare il suo parere, colui che parla alla
radio o scrive sui giornali, acquisisce una patente di autorevolezza e, dunque,
di credibilità spesso prescindendo dalla solidità dei suoi argomenti. Nei
confronti dei media scatta una diffusa e solida fiducia che non si fonda su
prove ben argomentate, ma sul potere persuasivo di tali mezzi. Solo in
situazioni politiche nelle quali il sistema dei media sia saldamente nelle mani
del potere pubblico, potere nel quale la base non si riconosce, si possono
verificare incrinature in tale fiducia istintiva. I tentativi di informazione
alternativa o di contro-informazione -sia nel campo della radio che della stampa
-, non sono riusciti a scalfire seriamente la credibilità dei media più diffusi
e di quelli egemoni.
[11] TV. E' vero che noi mass-media siamo tendenzialmente
autoritari, a senso unico. Abbiamo di fronte a noi persone che come spugne
possono assorbire tutto o quasi. Ma in questi anni qualcosa sta cambiando. Dalla
metà degli anni '70 cominciarono ad arrivare sui nostri teleschermi i programmi
di alcune TV estere; subito dopo arrivarono le emittenti locali o private,
sottratte al monopolio delle reti RAI. La presenza di molteplici reti ha messo
movimento, ha contribuito a svecchiare l'informazione. E' arrivato anche il
telecomando che consente di "saltare" da un programma all' altro con grande
facilità.
Non ti pare che in tutto questo vi sia un possibile valore da
cogliere? Lo zapping, cioè il salto continuo con il telecomando, può essere lo
strumento di un controllo da parte del pubblico nei confronti dei media.
Noi media siamo ormai gli "ostaggi" del nostro pubblico che
ci può annientare con il suo telecomando. Se un programma televisivo non
raggiunge una certa quota di telespettatori sarà soppresso. E' la legge
inesorabile del mercato: se il tuo prodotto non trova acquirenti non vale nulla.
Paradossalmente, proprio il moltiplicarsi dei mass-media, produce una sorta di
rivincita dell' utente, del singolo individuo che non è più solo destinatario
passivo di una comunicazione a senso unico. E credo che nel prossimo futuro, un
futuro che è già iniziato, si moltiplicheranno le opportunità di scelte libere,
di utilizzo personalizzato dei media. Basti pensare alla diffusione dei
videoregistratori, con la possibilità di selezionare e conservare programmi
liberamente scelti.
Lasciami dire che la tua difesa dei media come mezzi per far
crescere la libertà di scelta non mi persuade del tutto. E mi spiego. Con il
telecomando in mano abbiamo l'impressione di dominare noi il mezzo televisivo.
Ma tale uso finisce per produrre un utilizzo frammentato del mezzo,
un'incessante ricerca di immagini gradevoli, creando quello che gli studiosi
chiamano "flusso" televisivo, cioè un diluvio di immagini senza capo né
coda.
Le decisioni sui programmi e sui loro contenuti vengono così
sottoposte a una legge ferrea: quella dell'audience, degli indici di ascolto. Le
emittenti sono preoccupate di non perdere spettatori perché un calo dell'indice
di ascolto vuol dire minor valore dei propri spazi pubblicitari. Questa cura
spasmodica per non perdere spettatori si traduce, però, per lo più, in un
pericoloso abbassamento del livello dei programmi, in una corsa allo spettacolo,
alla facilità e alla banalità.
La spettacolarizzazione è certo la deriva più facile e più
pericolosa per i media. E' una logica che impone di raccontare ogni cosa
restando solo alla superficie, con procedure di semplificazione della
complessità e con la ricerca di tutto ciò che può "far colpo". L'uso dei
videoregistratori può diventare l'occasione per selezionare e conservare i
prodotti meno validi.
La molteplicità delle emittenti rischia di non favorire
l'autentico pluralismo. E ultima, ma non meno importante considerazione che
investe l'intero ambito dei media, c'è il preoccupante fenomeno della
concentrazione delle testate giornalistiche e delle emittenti, che turba gli
equilibri di questo delicato settore dell'informazione.
TV. Ma fare spettacolo vuol dire anche catturare l'
attenzione, interessare. Senza spettacolarità i media non raggiungerebbero il
vasto pubblico.
Certo, vi è nei media una dimensione "popolare" che non va
sottovalutata. Essi consentono a vasti strati, e non solo all'elite, di essere
informati, di essere partecipi; però tale logica degli spettacoli ha i suoi
pericoli. Facciamo qualche esempio: la morte per fame, per miseria endemica e
quotidiana, non fa spettacolo e quindi se ne parlerà poco; la morte per
catastrofe può eventualmente interessare. Il dibattito politico, certo
difficile da far passare nei media, sta sempre più diventando spettacolo con la
ricerca di effetti sensazionali e scandalistici.
[12] Sono passati appena trent'anni dai primi programmi
televisivi e i media, soprattutto la TV non sono più quelli di ieri.
Ti osservo e mi accorgo di quanto sei cambiato. Vorrei
provare a esprimere questo mutamento. Alle origini avevi una funzione autorevole
di informazione e formazione, di mezzo e veicolo di conoscenze. Oggi sei un
paesaggio, determini una cultura, un modo di pensare e di vivere. Radio, TV,
computer, videoregistratori, ecc. fanno parte dell'arredo della nostra casa, ci
accompagnano in ogni momento. Nelle grandi stazioni delle metropolitane europee,
mentre si aspetta il treno, diversi schermi televisivi riempiono l'attesa con
spot pubblicitari o videoclip. La stessa cosa avviene in certi supermercati. Più
che guardare siamo costantemente guardati da tanti piccoli o grandi schermi.
Tale paesaggio che da ogni parte ci avvolge ha una
caratteristica: è eccitazione, stimolazione sensoriale. Il luogo dove questa
caratteristica è maggiormente evidente - e non a caso è tra i luoghi più amati e
frequentati dai giovani - è la discoteca con il suo mix di musica, effetti
luminosi, video. Il linguaggio elettronico dei media non si rivolge anzitutto
all'intelligenza bensì ai sensi e all'emotività, è eccitazione ben prima di
essere concetto.
I media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che
si ascolta. Sono un'atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci
avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi stiamo in questo mondo di suoni, di
immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un primitivo era immerso
nella foresta, come un pesce nell'acqua. E' il nostro ambiente, i media sono un
nuovo modo di essere vivi. Ma vivi come? Di recente è stata sviluppata la
seguente tesi: come l'ideologia dispensa dal pensare, come la burocrazia
dispensa dall'agire, così i media dispensano dal sentire (cf M. PERNIOLA, Del
sentire, Einaudi, Torino 1991 ). I sentimenti superficiali scacceranno quelli
più profondi?
Qualche anno fa, quando anche da noi comparvero i primi
walkman, molti si stupirono e si indignarono. Questi ragazzi che con la cuffia
incollata agli orecchi ascoltano musica mentre vanno per la strada o in
bicicletta, magari assumendo nell'andatura e nella positura del corpo il ritmo
della musica, questi ragazzi non ascoltano musica, ma diventano musica.
Il linguaggio eccitante, stimolante che ci avvolge, che cosa
produce in noi, soprattutto nei nostri ragazzi?
TV. Ma non puoi negare che dai media vengono parole,
contenuti, messaggi che si rivolgono anche all'intelligenza.
Sì, ma dietro le parole e le immagini c'è la modulazione che,
per lo più, sfugge al controllo della nostra coscienza. Dicono gli esperti che
tale modulazione, nei media, rappresenta il 70% del messaggio.
Più che le idee, più che i contenuti conoscitivi, conta la
modulazione.
La comunicazione mediale non è allora anzitutto trasmissione
di conoscenze da un emittente a un ricettore. Comunicare è sempre più
trasmettere stimolazioni, condividere intense vibrazioni. E questa cultura,
fatta di vibrazione emotiva e, perciò, fortemente coinvolgente, comporta seri
interrogativi soprattutto per le giovani generazioni. Il pericolo è quello di
appiattire la verità sulle mie sensazioni, sul mio vissuto emotivo.
Spesso capita di sentir dire: "E' vero, perché io lo sento
vero". Quante persone legano le loro scelte, anche religiose, a uno stato
d'animo, al fatto di "sentirsi. . . ". Così si finisce per considerare vero solo
ciò che è filtrato attraverso il proprio vissuto soggettivo ed emotivo. Non
poche esperienze religiose più recenti si affidano più al "contagio" emotivo di
gruppo, alla vibrazione sensibile, che alla forza obiettiva e persuasiva della
Parola. Perciò in questi anni è stato chiesto a tutti, particolarmente ai
giovani, di mettersi alla Scuola della Parola. Guai a chi trascura la forza
creativa e formativa della Parola.
[13] TV. Parli così perché tu sei stato educato sui libri e
mediante la scrittura. Oggi il libro cede il passo alla cultura delle immagini.
Ma non credo si possa dire che la cultura delle immagini, la TV in particolare,
abbia disabituato alla lettura. E' vero il contrario. Basterà un dato: nel 1982
gli otto quotidiani più diffusi in Italia vendevano circa 2. 484. 000 copie, nel
1990 si arrivò a 3. 350. 000 copie. La lettura, almeno di quotidiani, ha avuto
un balzo considerevole.
Io e, come me, le persone della mia generazione, siamo stati
educati sui libri e con una cultura della parola. Oggi i ragazzi nati e
cresciuti nella cultura audiovisiva hanno maggiore familiarità con il mondo
delle immagini che con quello della parola.
Vorrei provare a indicare i limiti di una cultura
prevalentemente affidata alle immagini. Una bella pagina dell'Evangelii
nuntiandi di Paolo VI rivela il valore della parola: "Sappiamo bene che l'uomo
moderno, sazio di discorsi, si mostra spesso stanco di ascoltare e, peggio
ancora, è immunizzato contro la parola. Conosciamo anche le idee di numerosi
psicologi e sociologi, i quali affermano che l'uomo moderno ha superato la
civiltà della parola, ormai inefficace e inutile, e vive oggi nella civiltà
dell'immagine (. . . ). La fatica che provocano al giorno d'oggi tanti discorsi
vuoti, e l'attualità di molte altre forme di comunicazione non debbono tuttavia
diminuire la forza permanente della parola, né far perdere fiducia in essa. La
parola resta sempre attuale, soprattutto quando è portatrice della potenza di
Dio" (n. 42).
Quando una data realtà mi è messa sotto gli occhi grazie alle
immagini, tende ad assumere immediatamente forza di verità. La vedo, e quindi
dico che è vera. Assai diverso il procedimento mediante la parola. Un'educazione
attraverso il libro e la parola è prevalentemente critica e discorsiva; abitua a
compiere i diversi passaggi, ad approssimarsi gradualmente alla realtà mediante
la costante verifica delle proprie affermazioni, l'esibizione delle prove, la
confutazione delle argomentazioni contrarie.
Un'educazione affidata alla sola immagine è tendenzialmente
incapace di condurre all'esibizione delle prove, alla valutazione delle ragioni
e al giudizio dei nostri discorsi, sempre parziali se commisurati alla verità.
La sintesi più bella è quella operata dalla Bibbia: parole dense e taglienti che
esprimono immagini, racconti e simboli capaci di coinvolgere emotivamente e di
far pensare.
All'opposto sta l'estrema semplificazione propria della
comunicazione con i media, la riduzione della complessità a formule, slogan e
stereotipi.
[14] TV. Quello che dici delle immagini è vero, ma parziale.
Io vorrei sottolineare l'influsso che i media, soprattutto la TV, hanno avuto
sulla comunicazione a mezzo stampa. Potremmo dire che tra informazione video e
informazione scritta si è ormai stabilito un rapporto complesso, positivo e
negativo.
L'informazione attraverso la televisione ha accelerato i
ritmi dell'informazione scritta: le notizie date dalla TV sono ormai vecchie per
il giornale. La TV ha imposto anche ai giornali il suo criterio spettacolare
emarginando quanto non si presta a tale criterio di spettacolarità. Anche per i
giornali fa notizia solo ciò che è spettacolare. Ma siccome il campo
dell'informazione è ormai coperto dalla TV, i giornali si vedono obbligati a
trasformarsi, a non accontentarsi della notizia, ma a fare sempre più lavoro di
scavo, di approfondimento. Io vedo in questo un positivo influsso del mezzo
televisivo sul mondo della carta stampata.
Sì, l'osservazione mi sembra valida e ancora una volta ci
obbliga a discernere con cura, nei media, effetti francamente negativi da quelli
problematici o positivi. Ma tieni conto anche del fatto che non sempre i servizi
più ampi, offerti dai quotidiani, rappresentano davvero un approfondimento.
TV. Vorrei continuare a prendere le difese del mondo delle
immagini. Siamo soliti attribuire al mondo delle immagini ogni colpa. Ma non
bisogna dimenticare che pure la parola può essere usata come mezzo di seduzione,
di occulta persuasione. Quante volte, soprattutto l' uso pubblico della parola,
è asservito a scopi di propaganda, per catturare consenso. La storia di questo
secolo ci ha mostrato come i dittatori non ricorrano soltanto alla repressione
violenta, ma sempre più alla persuasione retorica, appunto alla parola non come
strumento di comunicazione autentica, ma come mezzo di seduzione e di menzogna.
Il Papa, nella sua Enciclica Centesimus annus, decifrando gli avvenimenti del
1989, che hanno profondamente cambiato i Paesi dell'est, sottolinea il ruolo
negativo dell'ideologia, cioè di una parola senza verità.
La tua denuncia del carattere ingannevole dell'ideologia mi
trova perfettamente d'accordo. Anche la cultura della parola e del libro, e non
solo quella dell'immagine, può essere al servizio della manipolazione delle
coscienze. Per questo non dobbiamo contrapporre una cultura della parola e del
libro, che sarebbe buona ed educativa, a una cultura dell'immagine e
dell'audiovisivo, che sarebbe cattiva e diseducativa.
Vorrei, in proposito, citare il vangelo di Giovanni, che
comincia così: "In principio era il Logos (il Verbo, la Parola)" (Gv 1, 1);
quindi, primato della Parola.
Eppure proprio l'evangelista Giovanni, che pone al principio
del suo vangelo il Verbo, la Parola, conclude così: "Molti altri segni fece Gesù
in presenza dei suoi discepoli, ma questi non sono stati scritti in questo
libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio
di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Gv 20, 30-31). La
Parola incarnata si è espressa con parole e con segni. Anche la Costituzione
dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Divina Rivelazione afferma che la
comunicazione di Dio all'uomo, in Gesù, si è compiuta "gestis verbisque", con
gesta, con eventi e con parole.
Dobbiamo riconoscere che la nostra cultura occidentale si è
costruita sul primato della comunicazione verbale, lasciando in ombra altri
registri comunicativi non verbali. Eppure è esperienza di ognuno di noi: talora
la comunicazione verbale si rivela inadeguata a comunicare davvero un'esperienza
che non può essere costretta nel rigore dei concetti. Penso a esperienze così
coinvolgenti o radicali da essere al limite delle risorse umane.
Per questo, Gesù stesso, prima di parlare ha agito e quando
ha voluto svelare i misteri del Regno, e quindi una realtà che è al di là delle
nostre verifiche, ha raccontato parabole, ha fatto ricorso al linguaggio delle
immagini. L'intero linguaggio religioso è intessuto di simboli, metafore,
immagini; quasi a dire che le risorse della parola non bastano quando tentiamo
di comunicare il mistero di Dio e del suo Regno.
TV. Mi sembra, allora, che stai scoprendo in me qualche
positività, stai scoprendo che anche il semplice contatto con l' orlo del
mantello di Gesù può generare una comunicazione autentica con lui.
Sì, credo che questo dialogo con te mi abbia aiutato a non
demonizzarti, ma a prenderti sul serio.
[15] TV. Fin qui hai preso tu l'iniziativa del dialogo. Ora
vorrei farti io una domanda: perché ti "accanisci" tanto contro di me? Tu mi
attribuisci un ruolo sproporzionato alle mie risorse.
E' vero che io in- formo, plasmo la mentalità e il costume,
ma è altrettanto vero che io rifletto i valori, le attese, gli umori del
pubblico, cioè del costume dominante. Io e tutti gli altri media siamo interni a
questa società. Si potrebbe dire che la società ha i media che vuole e che si
merita.
Ti ringrazio perché mi inviti a collocare i media nel più
vasto universo civile che essi riproducono e certamente amplificano, ma di cui
restano un aspetto. Vuol dire, allora, che non basterà neppure una più
"cristiana" gestione dei media; occorre battere la via lunga della formazione di
un costume etico-civile e la via dell'impegno educativo alla partecipazione
politica.
Per concludere: ho dialogato con te scegliendoti tra tutti
gli altri media perché ti considero un po’ il simbolo di questa babelica città
dei media dove viviamo e dove vogliamo, comunque, incontrarci.
A partire da te ho dialogato con stampa e radio; ho capito
che, in fondo, se di questi mezzi usiamo male la colpa è nostra, ma se vogliamo
possiamo usarli anche bene.
E usarli bene vuol dire anzitutto acquisire una coscienza
critica, cioè la capacità di distinguere il vero dal falso, la zizzania dal buon
grano, la capacità di essere obiettivi, di non demonizzare i media nè di
idolatrarli. Bisogna crescere nella libertà interiore, nel distacco dalle
sensazioni troppo immediate e coinvolgenti, bisogna imporsi una certa ascesi,
essere capaci anche di fare dei sacrifici e delle rinunce. Sono cioè emerse le
responsabilità di quello che si chiama in gergo il "recettore", il consumatore,
l'utente dei media. Ma questo non è che la prima metà della storia. Facciamo un
passo ulteriore nel nostro dialogo.
[16] Finora ho dialogato con te, mio caro televisore,
evidenziando i problemi dell'ascoltatore, del "recettore". Ho parlato di
televisione, ma ho tenuto presenti in generale i problemi di tutti coloro che
leggono i quotidiani e ascoltano la radio, di tutti gli "utenti" dei media, di
tutti noi gente che ascolta, legge, guarda.
Ora vorrei provare a "bucare" il televisore, ad andare dietro
il giornale, ad arrivare alla fonte della trasmissione radio per dire qualcosa
sui "comunicatori", su coloro che fanno le notizie, che preparano i programmi
televisivi, che parlano alla radio, che scrivono o dirigono i giornali. Vorrei
anzi poter parlare loro direttamente, con sincerità e affetto. Infatti,
l'educazione critica degli utenti, di cui è apparsa la necessità nelle pagine
precedenti, non sarebbe sufficiente a migliorare la situazione senza una forte
presa di coscienza della responsabilità primaria di coloro che sono a monte
delle notizie e delle trasmissioni. E' chiaro dunque che le parole che dirò in
questa parte interesseranno soprattutto i "fabbricatori" di notizie e di
immagini. Ma vorrei che anche il semplice ascoltatore o lettore si considerasse
coinvolto nel discorso.
Tocca solo a me, destinatario di tanti messaggi, essere più
responsabile, esercitare delle scelte, operare delle rinunce? oppure posso, a
mia volta, tentare di comunicare con te, comunicatore che mi bombardi di
immagini e di parole?
Vorrei esprimerti un certo mio disagio, imbarazzo e, talora,
anche rifiuto per quanto quotidianamente mi piove addosso. Qualche volta ho
l'impressione di essere come sommerso dalle notizie, dalle rassegne stampa, dai
comunicati. Mi pare di annegarci dentro. Ma desidero pure sottoporti degli
interrogativi, formularti delle richieste, valutare con te la possibilità di
cercare strade sempre più efficaci e costruttive di comunicazione.
Tu che comunichi, di solito ti servi principalmente degli
indici di gradimento e della tiratura per avere un riscontro rispetto a me che
ricevo il messaggio. Però i criteri di tipo soltanto quantitativo non mi
convincono molto, anche perché, spesso, con l'informazione c'entrano sino a un
certo punto.
Quando all'edicola compro un quotidiano e mi consegnano in
aggiunta l'inserto specializzato, il supplemento, magari un regalo, ho un moto
di sorpresa e mi chiedo se vuoi darmi delle notizie, dei commenti, o catturarmi
come "consumatore", quasi che quanto scrivi, racconti, riferisci, rappresenti un
fattore secondario, una specie di optional rispetto alla necessità di vendere il
prodotto.
Proprio perché credo molto alla funzione dell'informazione, e
ho fiducia nel lavoro che fai, nella funzione che svolgi, mi permetto segnalarti
alcuni effetti che hanno su di me le notizie e i messaggi che mi arrivano.
[17] Tu lavori sull'attualità, sulla cronaca: sei la mia
finestra sul mondo. Ma su dove si apre questa finestra? dappertutto? Tu vuoi
dare la sensazione di saper trasmettere "tutte" le notizie, fai passare l'idea
di offrire un panorama esauriente. Io però so che non è così. Questa pretesa
totalizzante non mi convince. I confini troppo ampi mi danno un leggero senso di
vertigine. Piacerebbe avere una guida, specialmente quando ci si avventura in
territori molto lontani e impervi.
Invece: sempre un tono da "toccata e fuga". La fretta,
l'urgenza, lo scoop. Basta arrivare primi con l'immagine, la notizia; non
importa come, non importa quanto valutata, meditata, rielaborata. Così si
assiste a una specie di martellamento o bombardamento per stupire e passare
oltre. All'indomani non si sa più nulla dei problemi gravissimi presentati ieri.
Si riparte da capo, come se nulla fosse. Il presente sembra
non avere radici, memoria, origine, ma nemmeno ha la possibilità di aprirti a un
futuro.
Devo dire, però, che nonostante tutto le tragedie mi toccano,
quelle vicine e pure quelle lontane, soprattutto quando me le butti lì, con
crudezza, dentro casa mia, magari nei momenti di maggior intimità e di
raccoglimento della famiglia, quando ci sono anche i bambini.
Io mi aspetto che si ritorni sui fatti. Mi aspetto che, come
talora avviene, la TV o il giornale propongano iniziative che incanalino la
spinta naturale della gente alla solidarietà che le stesse immagini e le notizie
drammatiche fanno nascere. Mi aspetto che si dia conto anche dello sviluppo
delle vicende.
Talvolta pure il bene, o una conclusione positiva possono
fare notizia.
Un altro aspetto della cronaca e dell'attualità che mi
sconcerta e mi mette a disagio riguarda le immagini che violano la privacy. Non
posso accettare la leggerezza e la mancanza di tatto con cui la telecamera o il
registratore entrano talvolta nelle case, frugano nei sentimenti delle persone.
Com'è possibile chiedere a una madre cui è appena morto un figlio: "Come sta,
signora? che cosa prova in questo momento?". Il mio disagio cresce quando vedo
che si tratta per lo più di persone semplici, incapaci di difendersi. Avverto
che esiste qualcosa di invalicabile e sacro, che non è dicibile e va rispettato.
Non fermarsi è commettere violenza, anche se lo scoop è assicurato. E che dire
del rispetto della persona, quando sui giornali vengono dati in pasto ai lettori
nomi e cognomi di vittime vere e insieme di falsi colpevoli? chi risarcirà mai
coloro il cui nome è stato fatto con leggerezza per episodi gravissimi, anche se
più tardi si riconoscerà che non c'entravano col fatto in questione? chi
toglierà l'odiosa etichetta ormai entrata nel discorso comune?
E poi: non è vero che tutto va detto, urlato, mostrato. Deve
pur esistere la capacità di alludere, di far intendere, di adombrare.
[18] Che paradossi, che stridenti contrasti! Capita a un
telegiornale che, dopo la voce spezzata della madre cui è morto un figlio, mi
proponi il linguaggio ufficiale e stereotipo dei politici. Questo salto di
registro colpisce e, nel tentativo di seguirti, di starti al passo, sento il
fiato corto. Le parole dei politici, il più delle volte mi sconcertano, come
accade per tutti i linguaggi specializzati, un po’ chiusi, per addetti ai
lavori. Quando voglio capire mi accorgo che devo compiere uno sforzo. E tu non
mi dai un grande aiuto. Troppo spesso ti limiti a essere il megafono di messaggi
che non mi arrivano, "espressioni in codice", interni come sono al sistema di
potere e lontani dalla gente. Sembri non accorgerti che le parole che trasmetti
non sono pronunciate per comunicare, per far capire, ma per lanciare dei
messaggi a un altro politico o a un altro partito. E tu sembri incapace di
prendere le distanze, di fare da filtro, di commentare, di obiettare, di essere
tramite tra le molte attese.
Siamo contrariati quando, nella vita politica e
amministrativa, non vediamo chiarezza, trasparenza, assunzione di
responsabilità, ma siamo anche delusi e desolati quando ci accorgiamo che tale
sistema viene accettato da chi, per esempio, intervista o interpella uomini di
governo e amministratori senza in realtà porre domande, chiedere conto, aiutare
la verità a emergere: si limita cioè a comportarsi come una sorta di buttafuori.
Troppo spesso mi insospettiscono alcuni toni un po’
ossequiosi, quasi che tu svolgessi funzione di portavoce e non, invece, di
interlocutore a nome della gente che non ha possibilità di rivolgere domande, ma
che pure vorrebbe vedere qualcuno che sappia farlo. E le cose da chiedere
sarebbero moltissime.
Perché non usi il tuo potere di contraddittorio? perché hai
timore di esercitare la tua libertà e la tua discrezionalità di professionista
in grado di discernere le parole che hanno sostanza da quelle che suonano vuota
apparenza? chi può farlo se non tu?
Lo sai che in democrazia la tua funzione è importantissima;
se la svolgi adeguatamente aiuti la vita democratica a crescere; diversamente tu
perdi un'occasione professionale, ma la perdiamo insieme tutti noi, e
contribuisci al progressivo restringimento degli spazi collettivi di libertà.
[19] La gente si aspetta dall'operatore dell'informazione che
svolga un lavoro di mediazione, di mediazione professionale. Mediare non
significa svolgere un'attività asettica. E' impossibile porsi esattamente nel
mezzo, tra fonte dell'informazione e destinatario.
Mediatore è colui che porta le ragioni dell'uno e dell'altro,
e viceversa. E' colui che si fa carico dell'uno e dell'altro, che sa accogliere
il senso del loro dire. Soprattutto, mediatore è colui che traduce; ciò vuol
dire che non può essere un passacarte, né un megafono, né uno che letteralmente
trasporta ogni parola da un codice all'altro. Mediatore è colui che si assume i
rischi di ogni traduzione; tradurre, concretamente, significa andare
all'essenziale, cercare il senso di una vicenda in sé e nel contesto, e riferire
con parole vive.
Mi potresti obiettare che esistono dei condizionamenti. Hai
ragione. Ci sono un editore e i suoi interessi di imprenditore (che talvolta non
si limitano a vendere giornali o a produrre programmi TV, ma si intrecciano in
complicati e sfuggenti legami finanziari e anche politici); ci sono un direttore
e una gerarchia all'interno della redazione. E' tutto vero.
Eppure io resto convinto che la vera sfida a ciascuno di noi
è proprio questa: individuare spazi di libertà, di discrezionalità, di
creatività dentro i ruoli che ci hanno assegnato, nello svolgimento dei compiti
che ci sono stati affidati. A volte può essere più facile, in altri casi è
complicato. In certi momenti scrivere ha rappresentato grossi sacrifici per la
stessa libertà personale. Può capitare che i nemici delle nostre potenzialità
espressive non siano il "sistema", le "controparti", i "superiori" e i mezzi di
cui questi spesso dispongono (duri o persuasivi o subdoli), ma che i nemici più
forti e duri da battere siano dentro di noi. E si chiamano autocensura,
conformismo, desiderio di quieto vivere e di non avere grane.
[20] Un famoso maestro di teatro del nostro secolo, il russo
Stanislawskij, diceva che non esistono piccole o grandi parti, ma piccoli o
grandi attori. L'affermazione può assurgere a massima e valere per l'intero
settore delle comunicazioni sociali. Si può essere piccoli (raggiungendo cioè un
risultato modesto dal punto di vista informativo) nel produrre un ampio servizio
televisivo o nello scrivere una corrispondenza da "inviato speciale". Per
converso, si può essere grandi nello scrivere una notizia o un semplice
resoconto.
La differenza sta nel rispetto degli altri, nel rispetto
delle leggi legate all'uso degli specifici linguaggi comunicativi.
La gente, soprattutto la gente comune che legge, quando va
bene, un quotidiano (non un professionista come te che sfoglia più giornali e
può fare raffronti) o guarda soltanto la TV, ripone una fiducia quasi illimitata
in quanto tu scrivi o dici dal teleschermo o fai vedere.
Consentimi un'impertinenza: hai presente davanti a te queste
persone quando scrivi? oppure ti viene più naturale pensare al giudizio dei
colleghi che ti leggeranno? ovvero accarezzi in anticipo l'apprezzamento (o temi
la critica) del politico, dell'amministratore, del personaggio influente nel
settore di cui ti occupi? o, ancora, paventi che qualcuno di quelli che contano
telefoneranno al direttore per protestare? oppure pensi a omologarti alla linea
del tuo giornale o della tua TV e quindi alla "carriera" che ti si potrà
facilitare?
Non sta scritto che si debba essere degli eroi, ma uomini sì:
a questo siamo chiamati.
Mi rendo conto: saper tenere in mano la penna o riuscire a
rendere la realtà con un'inquadratura è un dono. E' un dono splendido saper fare
uso appropriato e tempestivo della parola o ell'immagine. Io resto spesso
sorpreso e ammirato, qualche volta provo invidia di fronte alla velocità con cui
riesci a sintetizzare in poche righe un discorso complicato, una situazione, i
tratti di un personaggio. Ma, vedi, più i doni sono grandi, ricchi, abbondanti,
meno sono nostri e meno ci appartengono. Riceviamo per dare e, quindi,
restituire a maggior onore di chi ci ha elargito tanti talenti. Se crediamo,
invece, che quanto ci è affidato è soltanto nostro, da impiegare solo al nostro
servizio, finiamo per rendere sterile quel dono, trasformiamo la ricchezza in
potere, in voglia di dominio sulla realtà e sugli altri. Quanti scrivono per
indottrinare, per convincere, per conculcare e finiscono così con piegare fatti,
circostanze, comportamenti a una tesi lucidamente argomentata! Quante polemiche
giornalistiche tra "addetti ai lavori" e che mortificante difficoltà, invece,
nella ricerca di occasioni di vera informazione e di dialogo!
[21] Lasciami dire che vedo un altro rischio in chi sa
comunicare usando parole e immagini. Ti scandalizzerai, perché molti hanno fatto
di quanto sto per dire una sorta di mito. Mi riferisco a quella che solitamente
viene chiamata la completezza dell'informazione.
Non vorrei essere frainteso, ma secondo me essere completi
significa dare al lettore le informazioni necessarie su un fatto, permettendogli
di distinguere nel contempo:
a) quanto io sono riuscito a raccogliere;
b) le mie fonti (quando il rivelare le fonti ovviamente non
risulti pregiudizievole a qualcuno o non violi un patto);
c) il mio punto di vista.
Sembra un paradosso, ma il massimo di obiettività corrisponde
al massimo di consapevolezza di come sia relativo ciò che raccontiamo.
Si tratta di sostituire alla cultura di un'asettica presunta
obiettività, una cultura del punto di vista.
Se il punto di vista di partenza è dichiarato e motivato, si
può sviluppare una civiltà della tolleranza, del pluralismo, del dialogo
costruttivo. Diversamente contribuiamo a erigere una Babele, una località
perversa dove si scontrano presunte e parziali certezze i cui artefici tanto più
si accaniscono nel sostenerle e nel difenderle, quanto meno posseggono il senso
del relativo e del limite.
[22] Non vorrei trascurare un settore che pure finisce per
incidere profondamente e con il quale dobbiamo fare i conti; quello delle
telenovelas e delle trasmissioni e pubblicazioni periodiche a sfondo
sentimentale. Quante immagini gratuite, quanti sentimenti falsi, donne in carta
patinata, uomini di successo, situazioni irreali! quanti modelli soltanto
esteriori, vuoti, univoci quante immagini drogate della vita ed estranee ai
valori che contano! quante fantasie spinte a immaginare e a desiderare
situazioni e rapporti irrealizzabili e quante cocenti delusioni, poi,
nell'impatto con la realtà quotidiana!
Mi domando se sia così indispensabile importare dall'estero
una quantità imponente di racconti a puntate; se sia necessaria la concorrenza
accanita e spietata tra reti televisive, tra pubblico e privato, per assicurarsi
i diritti di prodotti (a costi elevatissimi). Sembrano innocui e di fatto sono
un passatempo, soprattutto per persone anziane, ma in realtà diventano scuola di
vita e finiscono per creare un costume, abitudini, modi di pensare sganciati da
riferimenti di valore.
Mi domando se venga fatto tutto quanto è necessario per
cercare e valorizzare talenti nazionali (soggettisti, sceneggiatori, registi),
al fine di proporre storie più vere e autentiche, più vicine ai problemi e agli
svaghi, ai drammi e alle gioie, più rispondenti alla mentalità, alla cultura e
ai valori della nostra gente.
Gli scambi con l'estero, con altri Paesi, sono fecondi se
sono reciproci, se ogni Paese riesce a dare voce al proprio ethos, a comunicare
immagini e vissuti, vicende, aspirazioni, idei propri.
[23] Ancora un'osservazione: riguarda la pubblicità. Sono un
po’ disturbato dall'insistenza e dall'aggressività di molti messaggi
pubblicitari So che esiste un codice di autodisciplina e che molti sforzi
vengono fatti per contenere l'attività di propaganda dei prodotti entro limiti
accettabili. Ma non sono in gioco soltanto regole del mercato, di concorrenza
leale, di rapporto corretto tra prodotto propagandato ed efficacia nel suo
impiego.
Esiste un problema generale, di mentalità sempre più indotta
a consumare il superfluo, di riduzione dell'uomo e della donna a oggetto. E ne
esiste un'altro di invadenza, di arroganza della pubblicità. Te la trovi
dappertutto: reiterata, insistita, dentro i film, dentro i programmi televisivi,
dilagante nei settimanali, a contendere lo spazio informativo sui quotidiani; ora
gridata con slogan e immagini, ora molto più subdola, filtrata attraverso
servizi redazionali, dei quali il lettore semplice non coglie sempre chiaramente
il fine commerciale e non informativo.
[24] Da ultimo una parola che in molti ambienti non si ha il
coraggio di dire (magari per un'adesione acritica al mito della società non
oppressiva), mentre da altri la si vorrebbe gridata e urlata come una
maledizione, simile alla parola di Gesù su chi scandalizza i piccoli (cf Mt 18,
6). Riguarda la pornografia e l'indecenza o la frivolezza, in particolare di
spettacoli televisivi o di pubblicazioni semiclandestine, di videocassette, ecc.
All'origine di tutto ci sono anche qui persone, uomini e donne che vivono queste
cose come mestiere e occasione di guadagno, giustificando con una sorta di
cinismo o di fatalismo gli eventuali rimorsi di coscienza: "Ci vuol pure
qualcuno che le faccia, perché in fondo la gente le vuole".
Ci sono persone che a parole si scandalizzano o comunque non
vogliono ammettere un simile tipo di commercio, ma di fatto, magari di nascosto,
ne sono consumatori. Mi pare che il punto su cui fare leva stia nell'energia
morale di chi decide di tagliare un tale consumo, di boicottarlo, di scartare
questi prodotti, di esigere mediante opportuni organismi e associazioni di
utenti che si rispetti il buon gusto, la decenza, l'accessibilità di tutti a
programmi per i quali non ci sia da storcere il naso. Esistono in Italia molte
associazioni in difesa dei consumatori; quante ne esistono per la difesa degli
utenti dei media? Per la TV, il Consiglio degli Utenti (istituito dalla Legge n.
223, 6 agosto 1990) potrà aprire strade importanti se si sosterranno le
associazioni, di cui alcune di ispirazione cattolica, che fanno parte di tale
Consiglio.
L'appello è quindi indirizzato anzitutto ai recettori, perché
il loro potere è più grande di quanto essi non immaginano. In ogni caso vale in
primo luogo per loro la parola di Gesù: "Se la tua mano e il tuo piede (quindi
anche la mano che tiene il telecomando o il piede che va all'edicola per
comprare il giornaletto) ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da
te: è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani e due
piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di
scandalo, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te entrare nella vita con un
occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco" Mt
18, 8-9). Quanti cammini di fede e, in particolare, cammini vocazionali di
giovani sono stati inariditi e si sono perduti per mancanza di energiche
decisioni e rinunce riguardo a spettacoli televisivi e letture!
Ciò non toglie però l'enorme responsabilità dei produttori,
soprattutto di quelli che hanno in mano le leve di così triste mercato. Non si
illudano di trincerarsi dietro ragionamenti sociologici o economici.
Non c'è motivazione che tenga per questo tipo di attività.
Vale tutta la parola di Gesù sulla terribile punizione per chi "scandalizza
anche uno solo di questi piccoli che credono in me: sarebbe meglio per lui che
gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino e fosse gettato negli
abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! E' inevitabile che avvengano
scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!" (Mt 18,
6-7).
[75] Nella prima parte di questa Lettera siamo rimasti seduti
nella nostra stanza, colloquiando col televisore o con il giornale che avevamo
in mano o con la radio accesa sul tavolo. Abbiamo cercato di renderci conto sia
delle responsabilità di noi ascoltatori, lettori e utenti, sia delle
responsabilità di chi fabbrica gli spettacoli e le notizie.
Ora è necessario un passo ulteriore. Il pianeta dei mass
media non è solo il luogo in cui abitiamo come singoli o come gruppi di utenti o
comunicatori, ma è pure il luogo di confronto di una società, il luogo di
operatività di una Chiesa. E' dunque importante lasciare la quiete della stanza,
la comoda poltrona installata davanti al televisore, per salire fin sopra i
tetti della casa e contemplare il "villaggio globale" che si estende sotto i
nostri occhi. Due cose ci colpiscono in questo villaggio: anzitutto la selva di
antenne televisive, che mostra quanto siano ormai di casa, anche nelle famiglie
più povere (è uno spettacolo che si vede pure nelle più misere città del terzo
mondo), la televisione e, in genere, i mass media; e poi, qualche raro
campanile, che rivela la presenza di chiese anche nel nostro villaggio
"mediatico", cioè ormai condizionato, nel suo vivere e operare quotidiano, dagli
strumenti dell'informazione e della comunicazione di massa.
In quale relazione si trovano antenna televisiva e campanile?
quali i compiti pastorali della comunità cristiana rispetto ai mass media? quale
il rapporto tra Chiesa e strumenti della comunicazione sociale? In proposito
esistono importanti documenti del magistero ecclesiastico, come il Decreto Inter
mirifica del Vaticano II, e l'Istruzione Communio et progressio, pubblicata nel
1971. Presuppongo nei cristiani impegnati nei mass media la conoscenza di tali
documenti e cercherò, da parte mia, di esprimere con semplicità i problemi
sociali e le scelte pastorali riguardanti i media.
[26] In cima al grattacielo Pirelli, presso un potente
ripetitore televisivo, è posta una statua di dimensioni ridotte, che riproduce la
Madonnina. Quando Giò Ponti progettò la sua grande opera, molti rimasero
sconcertati: si metteva in discussione un primato; con la nuova realizzazione il
Duomo di Milano avrebbe smesso di essere l'edificio più alto della città. Un
palazzo destinato a uffici, emblema di progresso e di imprenditorialità, veniva
a sovrastare la casa di Dio. Maria ancora una volta ha ispirato la via d'uscita
da un'impasse apparentemente insolubile; ha evitato lo scontro tra la Milano che
vuole produrre beni, informazioni e profitto, e la Milano della fede, dei valori
religiosi, dell'arte. Oggi, il grattacielo e le sue antenne possono convivere
con le guglie della Cattedrale: non è questione di competizione, e non sui metri
si misura un primato. La Madonnina, che pur nessuno vede su quel tetto, è lì a
testimoniare un'intesa possibile.
[27] Certo, la prima tentazione sarebbe quella di criticare,
di protestare, prendendosela proprio con i tanti ripetitori e le miriadi di
antenne televisive che sovrastano la città: sono una selva, sono troppe! La loro
presenza è così estesa da creare quasi un senso di oppressione, come se tra noi
e il cielo si ponesse un velo, un ostacolo, un diaframma, una rete che invischia
e tende a condizionare, se non a paralizza- re. Ma lamento e rimpianto non sono
buoni materiali da costruzione. Poggiano sul terreno pericoloso della sfiducia e
della rinuncia. Le antenne televisive rappresentano una sfida, interpellano,
pongono tante domande, in particolare a noi cristiani: siete capaci di
ascoltare? e di comunicare? che modi usate? che linguaggi? che messaggi mandate?
che cosa fate per rendere possibile ed efficace la comunicazione? Certo, i
cristiani possono mostrare all'attivo iniziative e realizzazioni concrete,
sforzi poderosi di uomini e di gruppi!
Eppure, se oggi riflettono su questo argomento è proprio
perché molti problemi attendono ulteriori soluzioni. Non è facile liquidare gli
interrogativi posti dalle antenne. Si può chiedere agli altri solo quanto, per
primi, si è in grado di dare.
Per parlare dei media, di come noi cristiani possiamo porci
in relazione con essi, di quali rapporti instaurare con la gente, con gli
operatori, con gli imprenditori che li impiegano e con i politici che fissano le
regole, credo che dobbiamo anzitutto guardare dentro di noi, alla nostra
esperienza di Chiesa, alla comunità cristiana.
Domandiamoci allora: crediamo davvero alla comunicazione?
favoriamo la circolazione delle idee? il dialogo? l'incontro? l'apporto di
ciascuno? abbiamo un'opinione pubblica dentro la Chiesa? la nutriamo? la
incoraggiamo? oppure ne temiamo la sola esistenza e gli effetti? ne vediamo
intellettualmente la positività, ma ne paventiamo forse, istintivamente, i
rischi?
[28] L'"opinione pubblica" nella Chiesa è sempre esistita. I
tempi storici e le realtà ne hanno condizionato la considerazione. Sommersa nei
momenti di grande difficoltà, prodotti ora dall'esterno ora da vicende storiche
interne, oppure esaltata in tempi di grande creatività collettiva (com'è
accaduto con il Concilio Vaticano II), si può dire che anche l'esistenza di
un'opinione pubblica ha consentito alla Chiesa di arrivare oggi in condizioni
tali da rappresentare un punto di riferimento per l'umanità intera.
Ricorre proprio quest'anno il ventesimo anniversario della
promulgazione di un documento molto importante, la Communio et progressio,
l'Istruzione pastorale della Pontificia Commissione per le Comunicazioni
sociali. Alcuni passaggi di quel documento rappresentano tuttora dei capisaldi.
Basterebbe pensare alla considerazione secondo cui l'opinione pubblica viene
vista come il dialogo tra le membra della Chiesa che è "organismo vivente" (n.
115); al rilievo di come sia "indispensabile per i cattolici comunicare e
colloquiare" (n. 114); alla sottolineatura della "autentica libertà di esprimere
le proprie idee, che si fonda, sul sensus fidei, nella carità" (n. 116); alla
valorizzazione della "libertà di parola nella Chiesa" che "non solo non
pregiudica la sua saldezza e la sua unità, ma, dinamizzando l'opinione pubblica,
può favorire e giovare alla concordia e all'armonia degli animi" (n. 117).
C'è da chiedersi se il seme gettato dalla Communio et
progressio abbia trovato sempre un terreno fertile, oppure se qualche parte non
sia finita sui rovi o tra le pietre. Io credo comunque che i bilanci, purtanto
utili e doverosi, servono se aiutano a guardare avanti, se dall'esperienza di
quanto è stato fatto e di quanto invece resta ancora in cantiere è possibile
trarre utili insegnamenti.
Che fare? Mi sembra che siano quattro gli ordini di problemi
da proporre, nel momento in cui ci si mette nella direzione dell'agire, cioè in
una prospettiva pastorale:
a) la Chiesa deve dire e praticare la comunicazione;
b) la Chiesa deve svolgere principalmente un ruolo educativo e profetico;
c) la Chiesa può influenzare la produzione di messaggi, puntando sulla mediazione professionale;
d) i cristiani devono entrare nei media, anche gestendoli direttamente.
b) la Chiesa deve svolgere principalmente un ruolo educativo e profetico;
c) la Chiesa può influenzare la produzione di messaggi, puntando sulla mediazione professionale;
d) i cristiani devono entrare nei media, anche gestendoli direttamente.
Vediamo, punto per punto, ciascuno di questi problemi.
[29] Leggendo i giornali e guardando la TV, mi accorgo che i
media danno spazio alla Chiesa e alle vicende ecclesiali prevalentemente quando
a parlare è il Papa, oppure una Conferenza episcopale o, ancora, qualche Vescovo
per vari motivi già noto al pubblico.
E' ovvio che il Magistero o la gerarchia rappresentino la
fonte principale dell'informazione di natura religiosa. Mi domando, però, perché
i media non si occupino anche di altri avvenimenti o di situazioni meno
appariscenti, che pure riguardano la comunità cristiana.
Di certo esistono dei motivi specifici dalla parte di
giornali e TV: probabilmente è più facile e in un certo senso più rassicurante
per gli operatori rifarsi a fonti autorevoli e determinate. mi chiedo tuttavia
se non esista una qualche responsabilità da parte nostra nel favorire
un'informazione che finisce per dare un'immagine ridotta della Chiesa.
Voglio cioè chiedere anzitutto a me stesso, ma anche ai
presbiteri, ai religiosi e alle religiose, ai laici impegnati, ai rappresentanti
di associazioni, gruppi, movimenti, se compiamo tutto quello che è necessario
per farci conoscere, per comunicare la straordinaria vitalità dell'esperienza
ecclesiale, i problemi che accompagnano la nostra vita e la nostra ricerca
quotidiana.
Esistono parrocchie che hanno un'intensa vita di fede e di
promozione umana nei quartieri in cui sono radicate e nei quali, uniche,
riescono a portare una parola di speranza nei confronti del degrado. Ci sono
gruppi di volontari che arrivano là dove nessun servizio predisposto dalla
comunità civile potrebbe mai giungere. Ci sono animatori che seguono categorie
particolari: anziani, handicappati, persone in difficoltà. Ci sono molte "madre
Teresa" immerse nell'anonimato. E' possibile che il bene non possa mai fare
notizia? perché mai sui giornali si deve finire soltanto quando si è coinvolti
in un'emergenza o in qualche polemica?
Certo, non tutto è comunicabile; la vita di fede di una
comunità non è vissuta per finire sui giornali, come la sua profondità non si
può misurare dall'indice di gradimento o dalla notorietà. Riguardo all'elemosina
Gesù dice: "Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra" (Mt. 6, 3). Ma
dice anche: "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini" (Mt 5,16). Le Lettere
degli Apostoli abbondano di scambi di notizie tra le comunità.
Sono convinto che dobbiamo promuovere una mentalità più
aperta e più disponibile all'informazione. Molte volte siamo oggetto di giudizi
superficiali o ingenerosi proprio perché offriamo poche occasioni di corretta
informazione, di documentazione, di dialogo.
Non è affatto impossibile stabilire rapporti chiari e leali
con gli operatori dell'informazione. Mettendo a disposizione elementi
sufficienti e fondati di conoscenza, possiamo poi pretendere un trattamento
rispettoso, in un rapporto di reciprocità piena.
La reticenza, invece, è cattiva consigliera, com'è, spesso,
figlia della paura, della insicurezza, dell'irrazionale; finisce per alimentare
o addirittura scatenare una curiosità eccessiva e per provocare illazioni, non
di rado distorcenti. Così siamo talora costretti a dover inviare rettifiche che
non avranno mai un peso pari all'impatto prodotto dalla notizia fuorviante già
pubblicata, o a fornire smentite che qualche volta suonano come delle mezze
ammissioni.
Le abitudini non si cambiano dall'oggi al domani e un
mutamento di mentalità deve essere preparato con iniziative di sensibilizzazione
sia del clero sia dei fedeli e accompagnato anche con opportuni strumenti
tecnici (uffici stampa ben attrezzati, centri di documentazione, ecc. ) che
aiutino pure le singole realtà (per esempio le parrocchie); ma è importante che
incominciamo ad atteggiarci in modo diverso.
Il Signore non ci ha fatto cristiani soltanto per proteggere
la nostra fede, per difendere quanto possediamo, ma soprattutto per rendere
testimonianza della speranza che è in noi. Sono convinto che una strada, oggi,
risiede nell'alimentare un'opinione pubblica viva e feconda interna alla Chiesa,
nel creare una circolarità di informazioni, che consenta a noi tutti di sentirci
parti significative della comunità.
La mormorazione, da cui non sono esenti molti ambienti
cattolici, rappresenta l'ombra della comunicazione, la spia di un'aria stagnante
che, essendo senza ricambio e alimentandosi di se stessa, sottilmente avvelena,
e deprime anche.
Uscire fuori, andare sui tetti e gridare la nostra fede, oggi
non è più soltanto una metafora evangelica.
[30] Abbiamo avuto occasione, nelle pagine precedenti, di
parlare della TV come di "finestra sul mondo".
La finestra costituisce un simbolo importante nella nostra
vita, capace di forti possibilità evocative. La finestra ci consente di
affacciarci, di sporgerci oltre il chiuso del nostro "io", di guardare, di
osservare, di contemplare, di capire. Ma, curiosamente, si può dire che essa
rappresenta anche l'immagine del possibile isolamento dalla realtà. Si dice,
infatti, "stare alla finestra" per significare l'atteggiamento di chi non riesce
o non ha alcuna voglia di lasciarsi coinvolgere dagli altri e dai problemi. Come
se una persona rimanesse calamitata dallo spettacolo del mondo di fuori, senza
però sentirsi in alcun modo chiamata in causa, intimamente coinvolta e
responsabilizzata. La finestra è per me indispensabile se voglio relazionarmi
con l'esterno, con gli altri. Il problema è però anche quello di essere capace
di lasciare il davanzale, o per scendere in strada, o per ritirarmi nel silenzio
e nella preghiera.
Credo che oggi si profili per noi una duplice sfida. Quella
di imparare ad aprire la finestra, perché entri aria, per sentire l'odore di
quell'aria, per ricevere la chiamata all'interrelazione continua, alla
solidarietà del villaggio globale e per sapere, al momento giusto, scendere in
strada. E insieme la sfida di imparare a chiudere la finestra perché, pur con
tutte le migliori intenzioni e predisposizioni, non siamo onnipotenti e non
possiamo neanche lasciarci invadere oltre i limiti della tollerabilità umana, a
tutela del nostro equilibrio.
E' essenziale che io sappia aprirmi, che sia attento,
recettivo, disponibile. Ma è altrettanto indispensabile che sia capace di
chiudere, di fare pausa, di ritirarmi, per riflettere su ciò che ho visto,
misurarmi, verificarmi e rigenerarmi pronto per la prossima apertura e il
successivo moto di disponibilità.
Credo, dunque, necessario considerare i media
alla luce di
questa funzione: aprire e chiudere, uscire e ritirarsi. E' un moto naturale e
vitale, è il movimento del nostro cuore, sistole e diastole.
E' importante che, come cristiani, recuperiamo un
atteggiamento aperto e vigile, personalmente e come comunità. Se il lavoro sarà
impegnato e convinto, potremo aiutare proficuamente anche gli altri. Apri e
chiudi, accendi e spegni il televisore, guardi e rifletti, leggi e pensi. Si
tratta di un'opera di carattere educativo molto impegnativa.
Tale opera rappresenta un cambiamento di mentalità, in un
certo senso una "conversione": da una mentalità unicamente fondata sulla difesa,
limitata all'elaborazione di misure di prevenzione, preoccupata di tener fuori
il mondo perché esso contiene elementi di possibile contaminazione, si passa a
una mentalità di confronto.
E' l'immagine del "lembo del mantello" di Gesù, che si
riaffaccia significativamente, che ci sollecita, ci interroga, ci provoca. E' il
vedere, giudicare, agire che ci hanno insegnato pure i Padri conciliari. La
saldezza della fede e dei valori cristiani è per misurarci con il mondo, non per
chiuderci nelle casseforti ben protette dei nostri ambienti.
Non confrontarsi rappresenterebbe oggi un'operazione in
perdita, quasi suicida, proprio perché siamo porzione del villaggio globale. Se
c'è una guerra dall'altra parte del mondo, la segui in diretta; se
drammaticamente esplode il reattore della centrale di Chernobil, ne subisci le
radiazioni anche stando seduto nella tua comoda poltrona; se mandi per anni
nell'etere i messaggi della tua società dei consumi, del posto garantito, della
mutua, delle auto rombanti, ti vedi arrivare, di ritorno, cittadini dell'altra
sponda del Mediterraneo o dell'Adriatico, che chiedono di sedersi alla tua
tavola imbandita o di ricevere almeno le briciole dei tuoi banchetti. E hai un
bel fare la faccia stupita, rimanere infastidito alla richiesta delle mille
lire, chiedere misure di prevenzione.
Credo che potremmo arrivare pure a gesti simbolici, di grande
significato e magari di provocazione (prima a noi che agli altri) per recuperare
all'uomo la capacità dell"'apri e chiudi".
Penso, per esempio, a una giornata del silenzio, a una sorta
di black-out volontario, da indire una volta ogni tanto. E' semplice. Si decide,
per un giorno, di spegnere il televisore: tutti. Un gesto non di protesta, di
condanna, di anatema, di rivalsa, bensì di gioia, di vera gioia, perché ispirato
a una piccola misura di salvaguardia vitale. Si spegne e si esce, si va a
spasso, ci si ritrova, si fa festa, si recupera il contatto personale con gli
altri, si guardano le persone negli occhi. Oppure si sta in casa, si invitano
gli amici, si parla, si discute, si dicono quelle cose per cui non c'è mai
tempo, si elaborano richieste, proposte.
Oppure, ancora, si sta da soli, si scrive quel biglietto o
quella lettera che da tempo si vorrebbe mandare e per redigere la quale non è
mai il momento buono; o si telefona agli amici incontrati l'estate scorsa e con
i quali ci si è ripromessi di farsi vivi, per sentire come stanno e che cosa
faranno nelle prossime vacanze. Insomma: si recupera il luogo del gratuito,
della creatività, dell'inventiva.
E' questo pure il luogo del silenzio contemplativo, in cui si
ritrova il gusto della preghiera. Chi vuole imparare a pregare, spenga radio e
televisore: "Entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel
segreto", diceva Gesù (Mt 6, 6).
Con questi gesti e con gli atteggiamenti di cui essi sono
simbolo, alla rete televisiva si sostituisce la rete dei rapporti umani diretti
e autentici, e quella dei rapporti con Dio. Alla relazione univoca tra me e il
televisore, tra te e il televisore e così via, si affianca la relazione tra me,
te e tutti gli altri, e di tutti noi con il Signore.
Non c'è da stupirsi dei gesti. Lo Stato e i Comuni non ci
hanno già costretti a piedi quando si è reso necessario? E' capitato quando
mancava il petrolio e bisognava non disperdere risorse e ricreare scorte
energetiche. E' successo quando l'inquinamento ha raggiunto limiti di guardia
nella città e si è creato il bisogno di discernere, per una volta, tra i consumi
necessari (i servizi collettivi, quelli di pubblica necessità) e quelli, invece,
se non proprio superflui, legati comunque a un impiego privato, individuale.
Come cristiani, abbiamo il compito di attivare tutta una
serie di iniziative di carattere educativo all"'apri e chiudi". Penso a corsi di
formazione. Nelle parrocchie e nelle strutture decanali, accanto alle iniziative
più proprie di catechesi e di formazione religiosa, abbiamo già scuole o
manifestazioni di educazione al sociale e al politico. Occorre incominciare a
pensare ai media come realtà non più eludibile. Si tratta di informare le
persone sui linguaggi, sulle tecniche.
Ma si tratta pure di dare vita a occasioni specifiche di
discussione e di approfondimento. Quando furono creati i cineforum, migliaia di
giovani si ritrovarono nelle sale a discutere di film. Tra il messaggio e la
società emergeva un'opinione pubblica; il cinema era davvero un medium tra la
cultura e la società che l'aveva prodotto e le persone.
Oggi, mancando un lavoro di presa di coscienza collettiva, i
media, a guardare bene, rischiano di non essere neanche più media, se
assecondiamo la spirale perversa che riduce le potenzialità comunicative a un
rapporto (tra l'altro squilibrato e senza contraddittorio), per esempio, tra TV
e singolo individuo.
Penso allora che sarebbe opportuno rilanciare luoghi di
discussione e di approfondimento, realizzando accanto al cineforum iniziative
che potremmo chiamare teleclub o teleforum. La crescita e magari un domani la
manifestazione di un'opinione pubblica, oggi sommersa e senza voce, risulterebbe
più efficace sulla gente che non la formulazione di giudizi morali da parte di
una autorità.
Nell'attenzione educativa rientra anche l'attivazione di una
responsabilità politica nei confronti dei media. Sarà soprattutto compito di
laici cristiani farsi carico di intervenire perché il sistema dei media, che ha
un enorme impatto etico, culturale ed educativo, sia disciplinato e governato in
vista dell'interesse generale. Particolare apprezzamento merita il sistema misto
pubblico e privato - nel campo dei media. La creazione di concentrazioni in un
settore tanto delicato può arrivare fino a compromettere la stessa democrazia.
E' comunque doveroso riconoscere il ruolo svolto dal servizio radiotelevisivo
pubblico, come espressione dell'intera comunità nazionale. Tale servizio, - purché
sottratto a logiche di lottizzazione partitica - evita, almeno in parte,
la logica spietata dell'indice di gradimento.
[31] Le nostre chiese sono piene di splendide opere d'arte.
Pittori e scultori sono passati alla storia grazie ai lavori effettuati per
altari, absidi, pareti, pulpiti, vetrate, guglie, portali.
Ma accanto ai capolavori, di cui quasi sempre ci restano nomi
e attribuzioni, esistono anche opere frutto di botteghe artigiane: dai codici
agli arredi, dai tessuti alle suppellettili agli oggetti di culto. Tutti questi
materiali recano il segno di una tradizione, di un'operosità, di un'attenzione
tutte rivolte a una domanda proveniente dalla Chiesa e dai fedeli.
I tempi sono profondamente cambiati. E' mutata la coscienza
che la comunità ecclesiale ha di se stessa in relazione alla società, il ruolo
della Chiesa è giocato su registri diversi; eppure mi viene da dire, per
associazione, che, come cristiani, dobbiamo recuperare e rilanciare la funzione
di committenti, anche per quel genere di espressione rappresentato dai media.
Oggi che la fede non si vive più soltanto nei luoghi sacri e
di culto, oggi che una società supertecnicizzata livella e rende indifferenti ai
valori, ci tocca recuperare energie e potenzialità, che rischiano diversamente
di andare disperse o di venire travolte da una generica tendenza alla
secolarizzazione.
Forse registi, soggettisti, operatori culturali, giornalisti,
non ci pensano; non affrontano certe tematiche. non rivelano talune sensibilità
perché sono immersi, come del resto ciascuno di noi, in un clima secolarizzato,
non perché siano cattivi o distratti.
Uno dei nostri problemi oggi, nei confronti dei media, è di
uscire dal guscio e di chiedere. Dobbiamo smettere di crearci delle aspettative,
di lamentarci, di adombrarci. Occorre invece che, da persone adulte, proponiamo
e avanziamo richieste.
Chiedere che cosa? chiedere come? La prima
richiesta che viene
alla mente è quella di alcuni contenuti su cui mostrarci esigenti. Vorremmo che
i media parlassero dell'uomo, dei suoi problemi, delle difficoltà oggettive, dei
sentimenti, dei motivi per cui vivere, degli altri Paesi, della natura, della
storia, delle ricchezze della nostra storia cristiana, di Dio.
Ci farebbe piacere sentir riproporre i temi dell'interiorità,
della gioia, della speranza, della fatica quotidiana per realizzarsi.
Ma ci interessano, oltre che i contenuti, anche i modi. Nei
dibattiti, magari in televisione, sarebbe importante che lo spettatore potesse
ritrovare un clima civile, di rispetto reciproco delle persone e delle idee, non
invece la polemica per la polemica, la rissa, la ricerca o la provocazione a
bella posta dello scontro (magari anche fisico) tra i partecipanti.
Se è vero che i giocatori di calcio con atteggiamenti
divistici possono creare nei tifosi reazioni scomposte o addirittura violenza,
non è meno vero che il clima di civile confronto tra la gente dipende pure dai
modelli televisivi, dal comportamento di uomini politici o di esponenti della
cultura cui i media stanno dando sempre più spazio.
[32] La nostra richiesta potrà avere tante maggiori
possibilità di ottenere riscontro dagli interlocutori se saremo:
* chiari nelle proposte;
* rispettosi delle possibilità tecnico-linguistiche dei mezzi;
* fiduciosi nei valori professionali degli operatori;
* larghi nel concedere lode e ammirazione a chi lo merita.
* rispettosi delle possibilità tecnico-linguistiche dei mezzi;
* fiduciosi nei valori professionali degli operatori;
* larghi nel concedere lode e ammirazione a chi lo merita.
Esistono ancora, nel nostro mondo, ignoranza circa le
potenzialità e le leggi proprie dei mezzi e incrostazioni fatte in parte di
pregiudizi nei confronti degli operatori. Si va da una sorta di sudditanza
psicologica a una certa sospettosità. I giornalisti, per esempio, sono da molti
ancora visti come intrusi, persone che fanno sostanzialmente perdere tempo, non
troppo preparate sulle tematiche religiose, pronte a tendere tranelli, con
visioni già predeterminate. Registi o artisti, poi, vengono ancora giudicati
magari per certi aspetti esteriori, caratterizzati dall'originalità nelle
abitudini di vita.
Dobbiamo attrezzarci per imparare a metterci in relazione in
maniera nuova con questo mondo, con piena consapevolezza e senso di dignità per
il nostro modo di essere, ma con altrettanto rispetto e considerazione degli
altri.
Se vogliamo udienza, è bene che partiamo da una posizione di
rispetto e di incoraggiamento della professionalità degli operatori della
comunicazione. Allora possiamo pretendere, instaurare un vero dialogo da pari a
pari, denunciare tradimenti ed errori. L'autorevolezza la si conquista sul
campo, con i comportamenti, con gli atteggiamenti, con la chiarezza, con la
fermezza se è necessario.
Le "condanne" di programmi e di opere, talora inevitabili,
rappresentano l'extrema ratio. Prima di esprimerle, vale però la pena di
chiedersi se non forniranno una pubblicità indiretta, ma purtroppo molto
efficace, a un prodotto che, per la sua esiguità, cadrebbe velocemente nel
dimenticatoio. In ogni caso, quando una condanna è pronunciata, in fondo una
rottura si è già verificata. Quando si arriva a questi casi è sempre bene
domandarci che cosa ha fatto la comunità cristiana in prima persona perché le
cose non prendessero quella direzione; e perché l'azione sia proficua, è
importante interrogarci su che cosa possiamo fare in futuro.
[33] Sulla presenza dei cattolici nel mondo dei media credo
sia difficile che possano insorgere contestazioni.
Non intendo riferirmi al lavoro meritorio che già viene
svolto dai fedeli laici nelle testate e nelle emittenti di informazione
cosiddette "indipendenti" e alla preziosa testimonianza di fede che essi
riescono a dare. Neppure posso soffermarmi sul grande contributo che danno alla
formazione di un'opinione pubblica nella comunità ecclesiale i quotidiani
cattolici, i settimanali, i mensili, le radio diocesane, nonché gli ordini
religiosi che hanno, a motivo delle loro costituzioni o per la loro tradizione,
un impegno specifico nei vari campi della comunicazione: giornali, emittenti
televisive e radiofoniche, riviste, editoria.
Voglio sottolineare l'importanza del mezzo radiofonico: il
primato che in esso può assumere la parola, il tipo di rapporto personale che
esso può favorire, la compagnia che crea, la discrezione con cui accompagna chi
lavora o è in viaggio, chi è solo o malato, fanno sì che esso ben possa
accordarsi con le finalità e lo stile della comunicazione pastorale. Giustamente
molte nostre comunità hanno capito la sua importanza e se ne servono, anche
mediante opportuni collegamenti tra loro.
Tutte queste iniziative vanno incoraggiate, sostenute,
ulteriormente migliorate e potenziate, dove necessario, nell'impianto
tecnico-editoriale, perché possano continuamente tener testa con dignità e
professionalità ai compiti di informazione e di formazione ai quali sono
quotidianamente chiamate.
Come comunità ecclesiale ci attendono ulteriori compiti, a
cominciare da un salto di qualità nella considerazione dei mezzi.
Dal punto di vista pastorale è chiaro che i media di matrice
cattolica debbono sempre più puntare sulle opinioni e tentare una lettura dei
fatti alla luce dei valori. E' impensabile ipotizzare una concorrenza con
giornali o TV pubbliche o private, sul piano della quantità delle notizie e dei
servizi. Va tuttavia ricordato che ci si può distinguere sul piano della
qualità, con le notizie date in altro modo, con un altro taglio, mettendo in
evidenza quello che altri, tante volte solo interessati allo spettacolo e
all'audience, non rilevano. Così pure esiste tutto un tessuto di cose fatte, di
solidarietà, di educazione, di comunicazione, che spesso viene ignorato e che
costituisce un prezioso patrimonio di notizie e di informazioni suscettibile di
fare opinione.
In generale l'obiettivo - come avviene in altri Paesi - è di
attrezzare media cui i cattolici (ma, in linea di principio, qualsiasi lettore)
possano rivolgersi per avere notizie che altri non danno, per leggere commenti,
informazioni qualificate, documentazioni, dibattiti, e che siano così segno di
una Chiesa viva.
Viva perché animata da un'opinione pubblica molto motivata,
perché permette la circolazione di idee, tematiche, scambi di valutazioni, di
esperienze di fede e di impegno quotidiano. Viva perché i media promuovono un
dialogo continuo tra i laici e i pastori e sono i primi a portare l'eco del
mondo, a sottolineare le difficoltà e i problemi del vivere, i punti cruciali su
cui gli insegnamenti magisteriali dovranno costantemente misurarsi: pensiamo ai
temi della famiglia, dei giovani, delle persone anziane, del lavoro,
dell'ambiente, della pace. Viva perché attraverso i media è in grado di far
sentire la sua voce in una serie di problemi (casa, assistenza, sanità,
territorio, volontariato, ecc. ) che toccano da vicino la vita della gente.
Ma vi sono alcune ipotesi cui ritengo doveroso fare almeno un
cenno, lasciando alle persone competenti di valutarle. L'impegno diretto nei
media potrebbe comportare almeno tre ordini di problemi in un futuro non troppo
lontano:
a) riconsiderare con le emittenti televisive pubbliche e
private quello che una volta si chiamava "l'accesso". L'argomento va
approfondito e meglio studiato anche nelle componenti tecniche, ma occorre
individuare modi e strade perché si possa dare voce a temi e istanze di
carattere religioso. Associazioni e movimenti laicali possono avere in proposito
un ruolo importante;
b) valutare la possibilità di una presenza televisiva di
qualità autonoma, gestita da laici cattolici che si assumano l'onere
dell'impresa. L'attuale panorama dei network lascia forse intravedere spazi
possibili per iniziative che si facciano carico di un servizio culturale, anche
con modalità nuove;
c) studiare la possibilità, da parte di imprenditori
cristiani, di intervenire pure ai livelli produttivi, per esempio con
"agenzie-programmi" che offrano servizi in grado di fare opinione. In questa
linea si muovono centri di produzione cattolica in diversi Paesi del mondo.
[34] Vi invito a fare un altro salto verso il cielo.
Siamo passati dalla stanza col televisore ai tetti del
viaggio globale, caratterizzato dai ripetitori e dalle antenne, ma anche segnato
dai campanili. Ora dobbiamo porci in una posizione più elevata per contemplare
meglio l'insieme del panorama umano. Nella prima parte abbiamo insistito
soprattutto sull'etica del recettore e del comunicatore; nella seconda parte
sulla pastorale della Chiesa rispetto ai mass - media; in questa terza parte ci
interrogheremo sul rapporto tra il mondo segnato dai media e i suoi grandi fini,
i suoi fini ultimi.
In linguaggio tecnico si direbbe che introduciamo una
considerazione escatologica sui media e il loro significato. Si tratta di una
riflessione forse un po’ inusuale, che in qualche modo prelude a quello che
vorrei fosse il programma pastorale prossimo, il programma sulle cose ultime,
sul "vigilare". Sono convinto che non usciamo dal "pantano" nel quale siamo oggi
con i media se non guardando molto in alto, con una energia non umana, ma
proveniente dal mistero definitivo, quello che già aveva orientato il nostro
cammino all'inizio del "comunicare".
Con le seguenti riflessioni mi propongo, in sostanza, tre
obiettivi:
* guardando dall'alto, come da un satellite in orbita, il
nostro vasto mondo, vorrei mettere in luce il primato della persona sulla massa,
del piccolo numero, del singolo, sui grandi numeri, dell'essere sull'avere;
* vorrei aiutare a guardare le cose dalla fine e non soltanto
dall'esserci in mezzo. I media sono abituati a stare dentro le cose, dentro la
notizia. Ma la vita dell'uomo e del mondo si valuta dal suo scopo ultimo, si
misura rispetto al suo termine, con misura di eternità, in linguaggio di
speranza e di attesa. In che modo il guardare alle cose ultime può aiutare anche
il mondo dei media a essere più se stesso, più umano, più vero?
* vorrei, a modo di conclusione pratica, chiedermi con
ciascuno dei lettori che cosa si può fare per aiutare chi usa i media e chi li
gestisce e li fabbrica a ricordarsi delle cose ultime, ad avvertire la nostalgia
di una patria che dia sapore alle scelte della vita e a operare perciò alcune
opzioni precise.
Infine, vorrei invitarti a unirti a me in una preghiera fatta
al termine di questo avventuroso viaggio, scendendo dal satellite sui tetti del
villaggio e rientrando di nuovo in casa, in mezzo alle vicende della nostra
quotidianità, ritemprati da quanto abbiamo insieme capito.
[35] Proprio grazie alla televisione molti di noi, la notte
del 20-2l luglio 1969 hanno potuto seguire i primi passi dell'uomo sulla luna e
vedere le grandi orme lasciate dalle curiose calzature di Neil Armstrong sul
suolo lunare. Da allora i viaggi interspaziali sono diventati qualcosa di
ordinario. Non fanno più notizia. Anch'io ti invito a fare un viaggio con me e a
raggiungere uno dei tanti satelliti in orbita e grazie ai quali possiamo
ricevere immagini e notizie da tutto il mondo.
E se, invece che su un satellite, noi arrivassimo
sull'asteroide B 612? In quel delizioso libretto che è Il piccolo Principe,
Antoine de Saint-Exupéry racconta di aver incontrato, appunto, un fanciullo che
proveniva da un pianeta piccolissimo, appena più grande di una casa, l'asteroide
B 612. Il fanciullo, disceso dal misterioso pianeta, non ragionava come le
persone serie: "Le persone serie amano i numeri dice il piccolo Principe -.
Quando voi parlate loro di un vostro nuovo amico, queste persone non vi chiedono
mai: "Qual è il suono della sua voce? quali i suoi giochi preferiti? per caso fa
collezione di farfalle?". Le persone serie vi chiedono: "Quanti anni ha? quanti
fratelli ha? quanto pesa? quanto guada gna suo padre?". Solo a quel punto le
persone serie credono di conoscere. Se voi dite alle persone serie: "Ho visto
una bella casa di mattoni rosa, con i gerani alle finestre e le colombe sul
tetto. . . ", le persone serie non arrivano a immaginare questa casa. Bisogna
dire loro: "Ho visto una casa che vale centomila franchi". Allora le persone
serie gridano: "Così è bella"".
Questo fanciullo che guarda il cosmo da un lontano e sperduto
pianeta non pone le domande che interessano le persone serie, ma ha un piccolo
prezioso segreto da rivelare anche a noi che vogliamo guardare l'universo dei
mass media. Eccolo: "E' semplicissimo: si vede bene solo col cuore. L'essenziale
è invisibile agli occhi".
E' con lo sguardo del cuore che vorrei invitarvi a guardare
dal satellite o, con il piccolo Principe, dall'asteroide B 612, il nostro mondo,
la nostra terra e la sua complessa rete di comunicazioni di massa.
Sarà capitato a molti di voi di guardare da un aereo in volo
cercando di riconoscere luoghi che ci sono familiari. Quando si sta per
atterrare a Linate e si è seduti nella parte sinistra dell'aereo, si può vedere
distintamente il campanile di Chiaravalle che i milanesi chiamano
confidenzialmente "la Ciribiciacola", per via della sua forma bizzarra e
l'Abbazia di Viboldone col suo massiccio campanile romanico.
Il pensiero allora corre ai monaci e alle suore che in quei
luoghi pregano e lavorano. E poi le fattorie della Bassa Milanese con il
tracciato geometrico degli appezzamenti di terreno, delle "marcite" sempre verdi
anche nella stagione invernale e i contadini al lavoro nei campi.
E poi la città, con la sagoma del Duomo, della Torre Velasca,
del grattacielo Pirelli, con un sol colpo d'occhio la si può abbracciare tutta.
E sul nastro delle strade e dell'Autostrada del Sole il traffico. Le persone si
notano appena, così minuscole viste dall'alto, eppure. . . è proprio alle
persone che in quel momento pensiamo. Forse qualcuno è ad attenderci
all'aeroporto; è così bello trovare qualcuno che ci aspetta e ci fa segno con la
mano! Comunque, a casa incontreremo volti familiari, e per la gioia di
incontrarli siamo impazienti.
Il mondo visto dall'alto ci fa percepire che proprio le
persone, realtà davvero minuscole viste dall'alto, sono le realtà più preziose.
Con gli occhi del cuore vediamo proprio loro pur se ai nostri occhi risultano
solo come piccoli punti in movimento. Ha ragione il piccolo Principe:
l'essenziale è invisibile agli occhi. Si vede bene solo con gli occhi del cuore.
Questo sguardo è anche quello di Gesù.
[36] Di Gesù gli evangelisti ci dicono che parlava alle
grandi masse, talora così numerose da costringerlo a salire in una barca per
farsi udire dalla folla che si accalcava sulla riva. Altre volte la pressione
della gente gli toglie persino il tempo di mangiare oppure obbliga chi vuole
presentargli un malato a calarlo dal tetto. Le masse sono una presenza costante
nel ministero di Gesù; a esse si rivolge con attenzione e amore, facendosi
carico pure della loro fame.
Tuttavia Gesù sembra prediligere relazioni brevi, il dialogo
a tu per tu, il colloquio intimo. Possiamo dire che è l'uomo dei piccoli numeri,
attento ai pochi spiccioli della vedova. E' sensibile ai segni più modesti e
discreti, è capace di cogliere in un gesto quasi furtivo un grande significato.
In Gesù, Dio sembra perdersi nel particolare, nascondersi
volentieri nelle cose minutissime e semplicissime, prestare attenzione a
un'azione di poco conto, come quella di dare un bicchiere d'acqua a un assetato.
Gesù mostra attenzione per le cose per cui noi non abbiamo tempo, non abbiamo
calma, non abbiamo attenzione.
In proposito vorrei riprendere due espressioni assai dense e
significative, care ai Padri della Chiesa.
Esse sono: "La Parola si abbrevia, si fa come stretta; la
Parola si fa piccola". La Parola, il Logos di Dio, la manifestazione suprema del
Padre, la manifestazione perfettissima di Dio si è rimpicciolita. Questo Logos,
come abbiamo già ricordato citando il vangelo di Giovanni, è quello in cui tutto
è stato creato: l'universo, gli uomini, le cose, le situazioni della storia; è
il senso, la ragione di tutte le cose.
Il Logos, dicono i Padri, si è fatto stretto, piccolo.
La Parola universale, principio di intelligenza di tutto il
reale, si è come rattrappita nel tempo e nello spazio, così da essere qui e ora,
si fa particolare nel suono del dialetto di Canaan parlato da Gesù, si rende
accessibile, si presta al rapporto interpersonale.
Ecco perché più volte nel vangelo basta la dedizione a uno
solo dei più piccoli tra i fratelli per decidere di una vita. Lo ricorda la pagina sconvolgente di Mt
25: ogni volta che avrete fatto questo non alla generica umanità, ma "a uno solo
di questi piccoli, lo avrete fatto a me". Chi porta fino alle estreme
conseguenze la particolarizzazione di Gesù, costui siederà alla sua destra
quando egli verrà nella gloria.
Noi siamo chiamati a trovare Dio nel mondo, nelle cose, negli
altri, nella storia. Tuttavia ciò non sarà possibile se non partiremo da quella
situazione immediata che è la nostra. In ogni situazione immediata, che comporta
anche il più piccolo servizio, noi tocchiamo la totalità del servizio. In ogni
frammento tocchiamo il tutto di Dio che si manifesta.
In un mondo attento prevalentemente alla dimensione
macroscopica dei fenomeni, lo stile di Gesù ci rende dunque attenti al valore
unico e irripetibile di ogni persona. E noi, affascinati dai media, dai grandi e
intricati network, non dobbiamo dimenticare questo valore evangelico
fondamentale: la relazione tra le persone. E' stato il tema dello scorso anno;
lo vogliamo riprendere occupandoci dei media.
[37] Con questa formula vorrei indicare il primato della
relazione, della comunicazione personale. Io mi costituisco nella relazione,
nella comunicazione. Comunicare non è un'attività facoltativa: senza
comunicazione non c'è esistenza e sviluppo. Perciò Gesù ha detto: "Effatà,
apriti", cioè comunica. Non dimentichiamo che la nostra attuale attenzione per i
mezzi di comunicazione di massa è stata preceduta da un'intensa riflessione
sulla comunicazione come valore decisivo dell'esperienza umana e religiosa.
Il punto di partenza ci è offerto da una suggestiva
affermazione del filosofo Nietzsche: "Il "tu" è parola più originaria
dell"'io"". Tale intuizione trova conferma nelle prime parole che un essere
umano pronuncia. Le nostre prime parole sono state rivolte al "tu": mamma, papà.
. . ; solo successivamente il bimbo impara a dire il suo nome come conseguenza
della relazione che ha istituito con gli altri, cioè con il "tu". Scrive
Emmanuel Mounier. "L'esperienza primitiva della persona è l'esperienza della
seconda persona. Il "tu", e in esso il "noi", precede o almeno accompagna l
"'io"".
Per comprendere la persona dobbiamo dunque cogliere questa
originaria relazionalità. La persona umana è, esiste solo in quanto è situata,
in quanto è legata grazie al corpo a un tempo, a uno spazio, in relazione con
altri, verso il mondo e nel mondo.
[38] L'attenzione per i media non deve quindi cancellare il
primato della comunicazione interpersonale. Il vasto mondo guardato dall'alto ci
porta a scoprire nelle intricate reti mediali il valore infinito di ogni
persona, che i media rischiano di cancellare o di manipolare.
Nella comunicazione mediale avvertiamo una sorta di malattia:
ritenere che la "comunicazione" sia semplicemente l'accumulo delle informazioni
e dei dati. I mezzi di comunicazione di massa ci rovesciano addosso una valanga
di messaggi, possiamo attingere con facilità a banche-dati immense. Eppure a
tale qualità dell'informazione non sempre corrisponde una qualità della
comunicazione. Spesso denunciamo la solitudine, l'incapacità a comunicare, le
chiusure e le ghettizzazioni di questo mondo dove non mancano le informazioni e
gli scambi sono intensi e facili.
Dobbiamo distinguere due tipi fondamentali di scambio: quello
materiale e quello simbolico. Il primo è largamente dominante nella nostra
giornata: noi scambiamo cose per cose, denaro per cose, prestazioni lavorative
per denaro; è lo scambio mercantile dove prevalgono gli oggetti, le cose, mentre
le persone restano marginali. Nello scambio simbolico, sugli oggetti prevale il
senso degli oggetti e il senso dello scambio, la relazione tra le persone. La
solitudine che spesso denunciamo è anche conseguenza del prevalere del primo
tipo di scambio a scapito del secondo, a scapito quindi della relazione
interpersonale e del senso. Possiamo dire che, nel primo caso, dominante è
l'avere - avere cose, avere informazioni, ecc. -, mentre nel secondo è dominante
l'essere, l'essere in relazione.
[39] Visto dal satellite o dall'asteroide B 612, il mondo che
i media dicono di aver trasformato in villaggio, è davvero un minuscolo
villaggio nel vasto universo. La stessa sensazione si avverte quando, raggiunta
la cima di una montagna, cerchiamo di abbracciare l'orizzonte, senza poterlo
esaurire.
Alla sproporzione dell'uomo nell'universo ha dedicato uno dei
suoi pensieri più penetranti Blaise Pascal: "L'uomo contempli, dunque, la natura
tutta intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli
oggetti meschini che lo circondano.
Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada
eterna a illuminare l'universo; la terra gli apparisca come un punto in
confronto dell'immenso giro che quell'astro descrive, e lo riempia di stupore il
fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto
di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. . . Tutto questo mondo
visibile è solo un punto impercettibile nell'ampio seno della natura. Nessuna
idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni al di là degli
spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose partoriamo solo atomi"
(Pensieri, n. 223).
Così Pascal ci invita ad "allontanare lo sguardo dagli
oggetti meschini che ci circondano", a non restare impigliati nella rete
complessa costruita dalla nostra intelligenza: finiamo per pensare di essere il
centro di questo universo. Non l'abbiamo forse costruito noi? Ne siamo il
centro. E' secondo la nostra misura. E' quasi istintivo per l'uomo comprendere,
nel senso, appunto, di prendere dentro, di afferrare e come racchiudere in sè,
l'intera realtà riducendola alla propria misura. I media si muovono secondo tale
logica. Farò un esempio per spiegarmi meglio.
Grandi avvenimenti stanno trasformando la geografia europea e
mondiale. Paesi che credevamo disperatamente chiusi dietro un muro invalicabile
si stanno faticosamente, ma inesorabilmente aprendo alla libertà. I media ci
hanno fatto partecipare, con intensa commozione, al crollo del muro, al
desiderio incontenibile di libertà che fermenta in quelle terre.
Hanno accuratamente presentato le ragioni storiche,
economiche e politiche che spiegano quei mutamenti.
Ma tale lettura, tutta interna agli avvenimenti, è adeguata?
ci aiuta a cogliere le dinamiche profonde che sono all'origine di quelle
trasformazioni? o non ci nasconde dimensioni decisive della storia?
La stessa recente Enciclica del Papa, Centesimus annus, pur
così ampiamente e cordialmente ripresa dai media, è stata letta quasi
esclusivamente con categorie economiche, politiche, storiche. Le poche pagine
dedicate a valutare il capitalismo hanno monopolizzato l'attenzione dei media,
mentre l'ampia e decisiva analisi delle radici spirituali è stata quasi
completamente ignorata.
Eppure un indizio prezioso per leggere in profondità questi
eventi ci era stato dato dalle parole straordinariamente intuitive del
presidente Vaclav Havel nel breve saluto al Papa che giungeva in Cecoslovacchia:
"Non so, se so cosa sia un miracolo. Nonostante ciò oso dire che, in questo
momento, sto partecipando a un miracolo. . . Durante lunghi decenni lo spirito
veniva bandito dalla nostra Patria. Ho l'onore di essere il testimone del
momento in cui il suo suolo viene baciato dall'apostolo della spiritualità" (21
aprile 1990).
Ecco la chiave di lettura, paradossale - lo riconosco -, per
i media: il miracolo. Gli eventi di cui siamo testimoni in questi anni chiudono
una fase della storia moderna: quella, appunto, che ha voluto costruire le
proprie speranze solo sull'uomo, esclusivamente sulla sua ragione o sulla sua
prassi politico-rivoluzionaria. E confermano il ruolo che i valori spirituali
hanno nella trasformazione storica. Proprio un pensatore marxista, Ernst Bloch,
lo ha detto con grande efficacia: "Senza le strade interiori dello spirito non
si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo". Lo
Spirito, forza propulsiva della storia.
Sul filo di questa intuizione i media avrebbero potuto
leggere gli eventi dell'est europeo con una intelligenza più penetrante e
comprensiva. Magari lasciandosi istruire dalla lettura che ne ha dato il Papa in
occasione del suo viaggio in Cecoslovacchia nell'aprile 1990: "Apparentemente,
tutto è iniziato con il crollo delle economie. Era questo il terreno prescelto
per costruire un mondo nuovo, un uomo nuovo, guidato dalla prospettiva del
benessere; ma con un progetto esistenziale rigorosamente limitato all'orizzonte
terreno. Tale speranza si è rivelata un'utopia tragica, perché vi erano
disattesi e negati alcuni aspetti essenziali della persona umana: la sua unicità
e irripetibilità, il suo anelito insopprimibile alla libertà e alla verità, la
sua incapacità di sentirsi felice escludendo il rapporto trascendente con Dio.
Queste dimensioni della persona possono essere per un certo tempo negate, ma non
perennemente rifiutate. La pretesa di costruire un mondo senza Dio si è
dimostrata illusoria. E non poteva essere diversamente. Rimanevano misteriosi
soltanto il momento e la modalità".
L'esempio ci permette, credo, di apprezzare il lavoro di
informazione e di comprensione che i media ci hanno dato su avvenimenti tanto
decisivi dei nostri giorni. Ma con grande franchezza dobbiamo riconoscere i
limiti di un tale lavoro. Forse ha davvero ragione Pascal: in confronto della
realtà delle cose partoriamo solo atomi Atomi preziosi, ma pur sempre atomi.
[40] E' singolare che le prime comunità cristiane, minuscole
realtà disperse nel vasto mondo pagano, alla ricerca di un termine che le
qualificasse, abbiano scelto una parola che ha poi avuto grande fortuna ed è
ormai familiare: il termine greco scelto per indicare la comunità cristiana è
paroikìa, da cui il nostro "parrocchia". Il vocabolo greco indica la condizione
di chi vive in un Paese come straniero, senza poter godere della pienezza dei
diritti. Un vivere provvisorio, non di installazione definitiva. La Lettera agli
Ebrei ci ricorda che deve essere questo lo stile dei credenti: "stranieri e
pellegrini sulla terra" (Eb 11, 13). Uno stile che difficilmente viene avvertito
dai media.
Ho sotto gli occhi i risultati di una delle tante indagini
demoscopiche - non a caso tali indagini o sondaggi di opinione sono assai
apprezzate dai media -, che tenta di misurare la considerazione di cui gode la
Chiesa oggi. Emerge una considerazione generalmente elevata per le sue funzioni
sociali. Il primo posto è occupato dalla promozione della pace (95,2%), e
seguono: il sostegno a chi è in condizioni di difficoltà o sofferenza (94,8%),
la lotta contro le ingiustizie (93, 1 %). Viene poi la funzione educativa della
Chiesa (86,7%) e quindi le funzioni legate all'annuncio del vangelo e ai
sacramenti. Le funzioni sociali sembrano dunque più rilevanti delle stesse
funzioni religiose. Sull'azione sociale si determina il consenso della quasi
totalità, mentre per quella religiosa il consenso è espresso dai 3/4 del
campione. Interessante la considerazione che ottiene il Papa: la maggioranza
risulta attratta dalla presenza umana del Pontefice, dalla funzione di fiducia
collettiva che esercita. Solo una minoranza dice di vedere, nel Papa, un
messaggio di fede, un segno che rinvia a realtà che superano le attese umane.
Mi sono soffermato su queste rilevazioni - che dobbiamo
prendere, ovviamente, con le pinze - perché sono indizio di un apprezzamento per
la Chiesa e la sua opera, ma insieme di una drastica riduzione di prospettiva,
direi anzi di una netta incomprensione della sua autentica fisionomia. Tale
incomprensione è talora favorita dal volto non sempre genuinamente evangelico
delle nostre comunità, ma certo è propiziata dai media e dalle loro logiche.
Ancora una volta i media leggono la realtà, in questo caso la vita della Chiesa,
inforcando occhiali che riducono il campo prospettico a una sola dimensione:
quantitativa, storica, immanente, in una parola orizzontale.
Che cosa possiamo fare per aiutare chi usa i media e chi li
gestisce a ricordarsi non solo delle cose penultime, ma di quelle ultime, ad
avvertire la nostalgia di una Patria che dia sapore alle scelte e alla vita?
come aprire una dimensione di verticalità nella successione orizzontale dei
nostri giorni?
[41] Con questi interrogativi, ve ne siete accorti, noi già
guardiamo al tema della prossima tappa del nostro cammino pastorale: dopo
educare e comunicare, vigilare e cioè spalancare lo sguardo sul mondo
invisibile, ma non meno reale, di Dio e del Regno.
E' forse troppo chiedere ai media, occupati a descrivere la
città terrena, di avere occhi per l'altra città, quella futura? non dovremmo
limitarci a chiedere ai media di essere osservatori scrupolosi e non settari di
questo mondo, senza lenti deformanti? Faticano i credenti a "dire Dio"; come
possiamo pretendere che lo dicano i media?
Una volta, quasi a modo di provocazione, ho detto che forse i
giornalisti sportivi, meglio di quelli economici o politici, potrebbero tentare
di "dire Dio", di dar voce cioè a questa dimensione verticale dell'uomo e della
sua cronaca. Perché? Chi descrive i fenomeni economici, storici, politici, tende
a riportare tutto, anche la Chiesa, entro categorie rigorosamente orizzontali,
entro dinamiche di partiti e di correnti. Occorre invece avere occhio per la
dimensione ludica, estetica, gratuita delle cose, andare al di là dei retroscena
e dei secondi fini. Abbiamo bisogno di uomini e di donne che, lavorando nei
media e usando i media, non pretendano di ricondurre alle nostre misure
l'eccedente novità di Dio.
Quali i vantaggi per gli uomini dei media e per noi tutti
utenti se ci ricordassimo di più delle cose ultime, se giungessimo, come Mosè, a
"camminare come vedendo l'invisibile" (Eb 11, 27)?
Raccolgo alcuni suggerimenti emersi in un incontro tenuto
qualche mese fa, a Milano, con i giornalisti, sul tema: "Come le realtà ultime
della vita dell'uomo (morte, aldilà. . . ) incidono sull'orizzonte della
comunicazione pubblica", affidando le riflessioni all'ulteriore meditazione
creativa di ciascuno.
E' stato detto, in quell'occasione: se la nostra comunità
ecclesiale tornasse a respirare con ambedue i polmoni, quello della profezia
accanto a quello della carità, se avesse il coraggio di proclamare il Cristo
risorto e la vita eterna, se in essa fosse più intensa la vigilanza e l'attesa
per il ritorno di Cristo, anche il linguaggio dei media e tutta la comunicazione
pubblica ne verrebbero toccati. La comunicazione di massa tende a ignorare la
vera novità, seguendo la legge che solo il già noto è immediatamente
comunicabile. Per questo tende a imprigionare l'agire umano nelle categorie
dell'utile, dell'audience, dell'erotico, del nemico, del malvivente. Essa va
aiutata ad aprirsi alla percezione del nuovo: "Ecco io faccio nuove tutte le
cose" (Ap 21, 5).
Si potrebbe così comprendere meglio l'imprevedibilità della
storia e la sua capacità di cambiare, la presenza di dinamismi che non sono
unicamente quelli del guadagno, del tornaconto, del benessere, dello scontro
delle fazioni e dei nazionalismi. Nei singoli e nelle comunità è presente e
opera la forza dello Spirito santo, dello Spirito del Cristo risorto.
Ne verrebbe inoltre un più grande rispetto per il mistero
dell'uomo, una sospensione del giudizio ultimo di fronte alle azioni umane.
La nostra contemplazione del mondo dall'alto di un satellite
si è dunque tramutata in una riflessione sull'importanza di guardare alle cose
ultime, al destino definitivo dell'uomo e della storia, per situare le sue
vicende temporali nell'ottica giusta e sdrammatizzare quanto i media sono
tentati di dare come definitivo e irrimediabile. C'è una saggezza sulla vita
umana che è propria di chi considera i tempi lunghi e non si misura con lo
spazio "effimero" (efemeride è il nome greco per il nostro "giornale
quotidiano") che è ordinariamente quello delle cronache e dei notiziari.
Giunti a questo punto, non ci resta che indicare qualche
pista di riflessione pratica, per poi trasformare in preghiera le nostre
intuizioni, rivolgendoci a quel Signore che ci dà la possibilità di comunicare
tra noi e con lui, per poter comunicare senza più turbamenti nella pienezza di
una vita senza fine.
[42] Per aiutare l'assimilazione pratica di quanto ho detto
fin qui, suggerisco alcune piste di riflessione.
Questa Lettera, infatti, diventerà operativa se e in quanto
sarà stata assimilata posatamente nei suoi contenuti. Non domandiamoci quindi
subito: che cosa ci dice di fare?, ma: che cosa ci dice?
Sarà importante leggerla e rileggerla, magari in piccoli
gruppi (perché non sostituire tale lettura all'ascolto di un programma
televisivo?). La lettura fatta per brani dovrà essere intercalata da domande
molto semplici: come ci riguarda ciò che abbiamo letto? che cosa ne pensiamo noi
o ciascuno di noi? le nostre esperienze vanno in questo senso o no? condividiamo
i giudizi espressi o li esprimeremmo diversamente?
Solo a questo punto, dopo aver magari aggiunto un supplemento
di ricerca e di ascolto di qualche esperto su tali temi, ci si potrà chiedere:
che cosa ci spinge a fare quanto abbiamo sentito e meditato?
Per aiutare la lettura meditata esprimo - analogamente a ciò
che ho suggerito lo scorso anno per Effatà, Apriti -, un abbozzo di esame di
coscienza per tutti. Poi aggiungerò altre indicazioni specifiche.
[43] * Il mio atteggiamento generale verso i media qual è? di
passività un po’ scettica e pessimista oppure di ottimismo oppure di
indifferenza? come valuto questi atteggiamenti alla luce di quanto è detto nei
nn. 6- 15? cerco nella preghiera e nella contemplazione del disegno di Dio
l'atteggiamento giusto (cf nn. 1 -5)?
* Mi rendo conto delle illusioni e delle parzialità di
giudizio che possono creare in me l'ascolto e la lettura acritica, cioè senza
distanza mentale e sforzo di giudizio proprio, delle informazioni date dai
media? sono uno di quelli che traggono conclusioni dal semplice fatto che "l'ho
visto in televisione", "l'ho letto sul giornale"? pratico la lectio divina così
da controbilanciare con le notizie di Dio la molteplicità e la limitatezza dei
messaggi umani?
* So limitarmi nell'uso dei media, così da dare ancora tempo
alla lettura di libri e articoli seri, alla discussione con persone competenti
su domande importanti? nella parrocchia e nel decanato promuovo l'attività di
centri culturali che abbiano il coraggio di andare a fondo delle notizie e delle
opinioni correnti, e così aiutare a trovare la verità? trovo tempo per la
preghiera meditativa che mi riporta al cuore delle cose e al centro della
Verità?
* Ho mai provato a pregare a partire dai media? Scrive un
autore spirituale: "Non leggere il giornale come il turista, non guardare la
televisione come un dilettante, ma ogni volta cerca di comunicare con la vita
reale di tutti quegli uomini dei quali intravedi gli occhi esteriori nei mezzi
di informazione: la tua preghiera si arricchirà di tutta questa vita del mondo.
Essa si farà supplice per gli uomini che soffrono spiritualmente e
materialmente. Comprenderai che ciò che manca loro di più non sono tanto i
mezzi, ma le ragioni per vivere. . . " (J. LAFRANCE, Prega il Padre nel segreto,
O. R. Milano 1989, p. 140). Sono convinto che la preghiera è il primo e più
importante strumento per comunicare in modo serio e costruttivo con gli altri?
* So essere esigente con i comunicatori, con quelli che
stanno al di là del televisore e a monte del giornale o della radio, facendo
sentire le mie ragioni, i miei desideri, le mie critiche? so organizzarmi con
altri per far ascoltare la mia voce?
* Se sono comunicatore, so proporre atteggiamenti
costruttivi, senza lasciarmi imprigionare dalla moda di una critica perennemente
corrosiva? so verificare le notizie e i giudizi ascoltando tutte le parti in
causa, senza lasciarmi soffocare dai miei pregiudizi? so ammettere di aver
sbagliato e so porre i lettori nella condizione di rettificare il loro parere?
mi sforzo di rispettare la privacy di situazioni dolorose? so essere libero di
fronte ai politici e ai loro linguaggi? mi sforzo di mediare davvero mettendomi
al servizio della vera libertà di stampa e di opinione? rischio di abusare della
fiducia che la gente semplice ha in me come comunicatore? so superare il mito
della completezza? che cosa faccio per una più seria moralità e per elevare il
gusto del pubblico per quanto riguarda trasmissioni sentimentali, imperversare
della propaganda, erotismo e pornografia?
* Mi sforzo di servire a una seria opinione pubblica nella
Chiesa? come stimolo la comunicazione nell'ambito della mia comunità? mi so
imporre sacrifici e rinunce per non essere inquinato dai media? so chiudere il
televisore quando un programma è biasimevole? se ne ho i talenti, penso di
dedicarmi a servire la persona umana nei media? prego per queste intenzioni?
* Mi lascio guidare dalle scelte di Gesù che mette sempre al
centro la persona e il rapporto personale? so perdere tempo con le persone
singole? mi lascio avvolgere dall'amore di Dio per riesprimerlo nei contatti
personali? la speranza cristiana della vita eterna è per me qualcosa che mi
muove e mi scuote? prego per avere il desiderio del Regno? prego per ottenere di
valutare ogni realtà temporale in relazione all'eternità del Regno?
* Se opero in una scuola cattolica, so educare all'uso dei
mass media? come è presente nella mia scuola questa preoccupazione?
[44] * Rileggere insieme soprattutto le pagine della seconda
e terza parte, che riguardano le responsabilità della comunità cristiana,
interrogandosi su quanto si fa e su quanto si potrebbe fare, aiutandosi con le
domande del numero precedente. Le comunità religiose potranno utilmente leggere
alcune pagine del documento emanato dalla Congregazione per gli Istituti di vita
consacrata e le Società di vita apostolica, Direttive sulla formazione negli
Istituti religiosi (specialmente il n. I B).
a) Nel campo dei media
[45] Le indicazioni che seguono sono un tentativo di dare
concretezza a certe regole di comunicazione espresse sia in Effatà, Apriti che
in questa Lettera, così da coinvolgere il numero più grande possibile di persone
della comunità ecclesiale nel processo di coscientizzazione critica rispetto ai
media e nel dialogo con le più importanti realtà della vita sociale e civile con
cui i media ci mettono a contatto. E' importante che ci si eserciti su sentieri
semplici e quotidiani, prima di buttarsi in settori più vasti, ricordando che,
per quanto riguarda l'impegno delle nostre comunità nei media, esso andrà sempre
sostenuto con convinzione e non potrà essere lasciato alle pure leggi del
mercato. Chi non si adatta ai metodi di una comunicazione "drogata" non potrà
mai farsi sufficiente pubblicità da sè, ma avrà bisogno del sostegno cordiale
della comunità di cui è espressione.
Non c'è dubbio che il primo passo da compiere, da parte delle
nostre comunità, è quello di prendere coscienza che il problema della
comunicazione di massa è, oggi, un'autentica priorità pastorale. Proprio perché
i cristiani devono entrare nel mondo dei media anche gestendoli direttamente (cf
n. 30) e perché, come comunità ecclesiale, ci attendono ulteriori compiti, a
cominciare da un "salto di qualità" nella considerazione dei mezzi (cf n. 33),
si pone il problema dell'impegno che attende la comunità diocesana nel campo
degli strumenti della comunicazione sociale.
Sottolineo i seguenti punti.
1. L'impegno educativo resta fondamentale e, sotto questo
aspetto, un compito formidabile interpella la nostra diocesi.
* Educazione dei recettori (cioè praticamente di tutti,
perché oggi i media invadono la vita di ciascuno) a non rassegnarsi a un ruolo
soltanto passivo. Educarsi anche mediante qualche gesto significativo - come,
per esempio, una "giornata del silenzio" (cf n. 30) -. Educare a collegarci
insieme perché, se l'opinione del singolo utente dei media può essere facilmente
ignorata, ciò non è più possibile quando tale opinione è condivisa da molti e
diventa pubblica (cf nn. 31-32). Educarsi ed educare a conoscere, almeno per
sommi capi, linguaggi e tecniche dei media, sia per non lasciarsene
strumentalizzare, sia per poterli utilizzare in tutte le loro potenzialità,
anche attraverso appositi corsi di formazione (cf n. 30).
* Educazione dei comunicatori a ritrovare spazi di libertà,
di discernimento e di creatività all'interno del ruolo che ciascuno è chiamato a
svolgere (cf nn. 16-22).
* Soprattutto sono chiamati a educarsi e a educare coloro che
hanno precise responsabilità educative all'interno della comunità diocesana.
Penso in particolare al ruolo che, in questo campo, potrebbe svolgere il
Seminario. So che molti dei numerosi problemi di carattere pastorale e
formativo, sui quali ci siamo soffermati precedentemente, sono ben presenti alla
sensibilità educativa del nostro Seminario diocesano. Mentre ne incoraggio
l'opera, chiedo agli educatori e agli alunni di far tesoro delle autorevoli
indicazioni offerte dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica nel documento
Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della
comunicazione sociale ( 19 marzo 1986).
L'Ufficio di Curia per le Comunicazioni sociali sarà il
naturale punto di riferimento per le varie iniziative di formazione e di
riflessione sul tema della comunicazione.
2. Se questo resta il compito prioritario, si pone pure il
problema dell'uso dei media, in particolare di quelli promossi all'interno della
comunità diocesana.
In essa esiste un grande patrimonio di strumenti, non sempre
conosciuto e adeguatamente valorizzato, che vive in gran parte per
l'intelligente dedizione di volontari, convinti che su questa difficile
frontiera si gioca una partita importante per la crescita delle persone e della
comunità civile ed ecclesiale nel suo complesso. Ma, come ricordavo a una
sessione del Consiglio presbiterale, è difficilissimo trovare denaro per la
stampa e per la radio, perché la gente è abituata a investire nelle costruzioni
e negli edifici ed è contenta di farlo.
La professionalità e l'efficacia dei media che la Chiesa
ambrosiana ha generosamente messo in campo (in qualche caso da moltissimi anni)
per creare comunicazione al suo interno e per favorire la crescita della
società, dipenderanno, in parte non piccola, dalla quantità e qualità di persone
e di mezzi che si deciderà di impiegare in questo settore.
Faccio appello soprattutto ai giovani, perché sorgano
autentiche "vocazioni" nel difficile, ma affascinante campo della comunicazione
di massa, come un servizio tra i più delicati e impegnativi del "farsi prossimo"
nei confronti dell'uomo, di tutti gli uomini, per una ricerca della verità
sull'uomo, su Dio, sulla storia. Faccio appello a sacerdoti e comunità affinché
verifichino ed eventualmente rivedano le priorità pastorali considerando come
particolarmente rispondente alle attese degli uomini e delle donne di oggi
l'investire risorse nei mass media, soprattutto in quelli che, in qualche modo,
tentano di creare canali di comunicazione ai vari livelli aggregativi della
nostra diocesi.
Proprio perché tali risorse non vadano disperse in tentativi
scoordinati e velleitari, occorre chiarezza circa il ruolo rispettivo di
ciascuno strumento e le sue logiche interne che vanno rispettate, se non si
vuole correre il rischio dell'inefficacia.
Ma il problema della comunicazione, essendo pastorale, pone
la questione del corretto uso degli strumenti. Una società complessa e
frammentata, come quella in cui viviamo, e una realtà diocesana articolata, come
quella di Milano, richiedono una pluralità di strumenti. Pur tenendo conto dei
problemi indicati al n. 33, il "salto di qualità" potrebbe dunque cominciare con
il potenziamento e la valorizzazione degli strumenti esistenti.
3. Per quanto riguarda il cinema e il teatro, esiste in
diocesi un vasto patrimonio di strutture legate alle parrocchie o alle
istituzioni religiose, destinate alle riunioni, e molte più specificamente
attrezzate e abilitate per spettacoli teatrali e cinematografici: sono le "sale
della comunità". Concetto non nuovo e opportuno da richiamare almeno brevemente
perché queste strutture, che potremmo definire di pre-evangelizzazione,
coinvolgono tutta la comunità.
Infatti, attraverso di esse, la comunità si fa missionaria:
molti uomini di oggi, prima di essere invitati nel tempio, possono essere
incontrati in un luogo che offra una ricca presa di coscienza di valori umani.
E, mediante il cinema, il teatro, così come mediante mostre artistiche, tavole
rotonde, dibattiti culturali, la sala consente un primo approccio con una
comunità di adulti nella fede, capaci di rendere la parola del Vangelo eloquente
per la mente e il cuore dell'uomo contemporaneo. Senza dimenticare il valore
della sala della comunità come luogo di incontro per manifestazioni a sfondo
civile e sociale.
Occorre rivalutare le strutture, adeguandole alle normative
di sicurezza vigenti, volte alla salvaguardia dei frequentatori e a dare
cosciente tranquillità ai titolari. Ma è soprattutto al saggio utilizzo di
queste sale che deve volgersi l'attenzione degli operatori, sacerdoti e laici,
impegnati a dare oneste risposte alla crescita umana e culturale delle comunità
ampiamente intese. Circa i modi e i tempi di tale crescita sarà corresponsabile
la stessa comunità, al di fuori di ogni logica commerciale, concorrenziale,
esibizionistica e di prestigio.
Non aspiriamo a diventare professionisti del cinema o del
teatro; li usiamo invece come validi sussidi per un più vasto disegno educativo
per la nostra gente, dove trovano posto la possibilità di incontro e di dialogo,
l'aggiornamento culturale, l'addestramento alla riflessione critica sulle
proposte di varia provenienza.
Su queste direttrici è auspicabile spendere energie e quindi
favorire iniziative che, se pur collaudate da tempo, trovano ancora consensi tra
i giovani, come i classici cineforum, magari a livello decanale o di zona. Si
potrebbe inoltre pensare a qualche nuova iniziativa culturale a livello decanale
(in qualche caso addirittura zonale) in collaborazione anche con i Centri
culturali più vicini oppure a qualche teleclub o teleforum (cf n. 30).
4. Un importante strumento di comunicazione della diocesi è
costituito da Radio A che trasmette a tutti il messaggio cristiano, calato nella
realtà di ogni giorno, e i momenti più importanti della vita ecclesiale locale e
universale.
Come ho già avuto occasione di scrivere, riferendomi alla
città di Milano (cf Alzati, và a Ninive, la grande città), Radio A ha una
funzione insostituibile per dare dimensione cittadina a momenti celebrativi ai
quali non tutti possono partecipare, come pure ai dibattiti e alle prese di
posizione che sono, per loro natura, relativi all'intera città. Tale ruolo deve
essere svolto nei confronti di tutta la diocesi. Inoltre, con la costituzione di
Rete aperta, Radio A è diventata centro di collegamento con una trentina di
radio parrocchiali, decanali e zonali della diocesi, e di 25 radio delle diocesi
dell'Italia settentrionale.
L'impegno professionale in radio porta l'esigenza di una
cultura cristiana ispirata: il comunicare, insieme ai fatti e alle notizie,
anche il senso della realtà e il perché della nostra fede, non con il fine di
occupare spazi, ma con quello del servizio alla possibilità di una corretta
comunicazione.
5. Un ruolo fondamentale di comunicazione è svolto dal
complesso mondo della stampa, realtà che, secondo una recente indagine elaborata
dall'AC milanese, sta tornando a godere di molta attenzione, in modo particolare
presso i giovani.
Nel campo della stampa può esserci l'impressione di una certa
dispersione: occorre quindi esaminare con attenzione quello che già da vari anni
è a disposizione della nostra diocesi per coglierne gli ambiti e le potenzialità
comunicative, ma soprattutto occorre essere consapevoli che, oggi, la formazione
globale non può prescindere dall'integrazione, nella persona del recettore, di
diversi tipi di strumenti che vanno perciò opportunamente valorizzati.
Il quotidiano cattolico Avvenire rappresenta uno strumento
utile per una lettura dei fatti della Chiesa e del mondo alla luce della fede e
per aprirsi a una mentalità cattolica. Tra l'altro, la presenza di Milano 7 al
suo interno è al momento l'unica occasione di dialogo e di incontro per la
Chiesa che vive nella città di Milano.
Un prezioso ruolo di informazione, di collegamento e di
dibattito è svolto dai numerosi bollettini o notiziari parrocchiali che vengono
pubblicati in moltissime parrocchie della diocesi. Attraverso la lettura di tali
strumenti, umili e talvolta prodotti in vesti tipografiche dimesse, è possibile
cogliere uno spaccato realistico delle comunità. Essi, tuttavia, al di là dei
contenuti e proprio per una logica interna, comunicano con un ambito limitato.
La loro periodicità li rende, tra l'altro, inadatti ad affrontare
tempestivamente problemi e ambiti più vasti di quello parrocchiale o, al
massimo, cittadino.
Per una comunicazione ecclesiale che tenga anche conto
dell'attuale suddivisione della diocesi in zone pastorali, strumento adatto
appare il settimanale cattolico locale: Il Resegone per la zona III, Luce per le
zone II e IV e, con un'altra edizione, per i decanati di Cantù e Mariano
Comense, Città Nostra per la zona VII, Settimo Giorno per i decanati di Melzo e
San Donato Milanese e Il Popolo Cattolico per Treviglio. Tali testate rendono un
reale servizio alla comunicazione tra persone e comunità, sia all'interno della
Chiesa, sia nella società civile, svolgendo opera di informazione, di dibattito
e di dialogo con e tra la gente del territorio, inteso come sede di viventi
comunità umane e non solo come ripartizione amministrativa.
Tra l'altro, intorno a queste testate si è creato un gruppo
di collaboratori di buon livello, che ha dato la possibilità di offrire un
prodotto giornalistico in grado di stare sul mercato. Se dunque le comunità si
coinvolgessero maggiormente, suscitando impegno, vocazioni al giornalismo,
mobilitando più persone, i settimanali potrebbero diventare un grande strumento
di idee, di partecipazione, di vera promozione, capaci di far crescere un modo
di pensare più aperto, di sollecitare la condivisione.
Un'azione di collegamento tra diocesi e comunità locale, al
fine di accrescere le possibilità per una libera comunicazione nella Chiesa, è
svolto dall'inserto diocesano "7 giorni" presente nei settimanali locali, e dal
mensile Il Segno. L'inserto, opportunamente potenziato, potrebbe costituire -
anche secondo quanto auspicato dal Consiglio presbiterale - il supporto per
dotare di uno strumento di comunicazione le zone pastorali della diocesi che ne
sono ancora prive (penso in particolare alla città di Milano).
Il Segno, secondo quanto felicemente intuito dall'allora
Arcivescovo Montini, si propone pure quale sostegno per i bollettini
parrocchiali: una scelta particolarmente significativa ed efficace per non
obbligare la parrocchia a un carico di lavoro eccessivo in uomini e mezzi.
Sempre a livello diocesano vengono, infine, realizzati altri
due strumenti che, nella loro cadenza bimestrale, appaiono di grande utilità.
Terra ambrosiana che, rivolgendosi a operatori culturali, studenti e docenti
universitari, costituisce un tentativo qualificato per illustrare il cammino
della diocesi milanese; Ambrosius che vuole essere il luogo di dibattito e di
rielaborazione delle indicazioni pastorali e liturgiche della diocesi per
catechisti, membri dei Consigli pastorali parrocchiali e decanali.
6. Tutti questi strumenti diocesani costituiscono - ne siamo
ben consci - un insieme abbastanza modesto, che fa la figura di un piccolo
Davide di fronte al Golia dei grandi mass media di cui abbonda la realtà
milanese. Occorre però tenere presenti due aspetti:
* tali strumenti, benché semplici, sono capaci di una
diffusione capillare e rappresentano una libertà informativa chiaramente
indipendente da ogni interesse economico o politico. In questo senso
costituiscono una realtà di tutto rispetto. La loro "povertà" non ci deve
turbare, perché ben si accorda con la semplicità della predicazione evangelica.
Ma la loro forza persuasiva e la loro credibilità possono essere molto grandi,
se soltanto ci crediamo noi un po’ di più e dedichiamo un po’ più di amore, di
interesse e di competenza. Vanno sostenuti con entusiasmo; vanno utilizzati al
massimo delle loro possibilità. Allora le piccole pietre del torrente si possono
tramutare in strumenti di grande efficacia; invece di lamentarci continuamente
per la povertà dei nostri mezzi e di sognare che cosa potremmo fare se avessimo
l'armatura di Saul, cominciamo a usarli al meglio e con coraggio e vedremo che
non sono così pochi e così ininfluenti come spesso si pensa o si dice;
* è necessaria soprattutto una convinzione: che i mezzi di
comunicazione di una comunità vanno usati in correlazione stretta tra loro e con
tutte le altre attività comunitarie. La radio e la stampa diocesane ed eventuali
trasmissioni televisive avranno successo se a esse si farà opportuno rinvio
negli incontri del Consiglio pastorale, talora anche nelle omelie, partendo da
eventi diocesani che in esse hanno avuto risonanza o indicando quali eventi sarà
possibile seguire mediante tali strumenti. Acquisteranno credibilità agli occhi
dei fedeli quando si vedrà che se ne fa pure un uso pastorale. Non sono mass
media come tutti gli altri, lasciati al libero gioco del mercato. Sono strumenti
operativi di una comunità e ciò deve risaltare dall'insieme della vita della
comunità stessa.
b) Nel campo dell'azione educativa: per i giovani
[46] In Effatà, Apriti, nn. 80-81, veniva individuata una
categoria particolarmente significativa come scelta per gli anni 1990- 1991 e
1991 - 1992: il biennio per i diciottenni-diciannovenni.
Le indicazioni valgono quindi anche per quest'anno e andranno
riprese a cura della Pastorale giovanile. Potranno utilmente essere introdotti
nella riflessione alcuni esami di coscienza riguardanti l'uso che i giovani
fanno dei mass media, dei divertimenti collettivi e della musica, perché di
grande rilevanza per il loro mondo e la loro psicologia.
Tra le diverse iniziative che verranno rilanciate, sottolineo
quella degli Esercizi spirituali in Quaresima. Nello scorso anno pastorale vi
hanno partecipato circa 800 giovani (su 1200 che si erano iscritti), provenienti
da 176 parrocchie, mentre nell'incontro iniziale del 7 settembre 1990 erano
rappresentati in Duomo 448 parrocchie e gruppi. La valutazione è stata ottima
per quanto riguarda lo spirito dei partecipanti e l'impegno dei predicatori; non
così va detto del numero dei presenti e delle comunità coinvolte. C'è dunque ora
posto per un impegno più grande da parte di tutti. Nessuno si pentirà di aver
inviato un giovane o una ragazza a questi incontri e nessuno si pentirà di aver
detto il suo sì, anche con sacrificio, a questo momento forte dello spirito. La
coincidenza con il quinto centenario della nascita di s. Ignazio di Loyola,
instauratore del metodo degli Esercizi, ci deve spingere a rispondere
generosamente all'iniziativa.
Gli Esercizi spirituali per i giovani, in particolare per i
diciottenni-diciannovenni, costituiscono un'esperienza importante e valida,
meritevole di diventare tradizione nell'itinerario educativo proposto dalla
nostra Chiesa locale. Sarebbe un vero peccato se essa si riducesse all'attività
di un solo biennio, legata a un determinato programma pastorale.
Dalla pratica degli Esercizi emerge con chiarezza, da parte
di tanti giovani, il desiderio del colloquio personale, alla ricerca e nello
sforzo di calare nella propria vita le grandi indicazioni della parola di Dio.
Si ha talora invece l'impressione che la proposta educativa
tra i giovani abbia come primo destinatario il gruppo. E' dunque importante
richiamare il diritto-dovere della direzione o dell' accompagnamento spirituale
come momento qualificante l'azione educativa e strumento privilegiato della
pastorale vocazionale.
E' vero che il dialogo con i giovani esige tempo e comporta
spesso una fatica paziente. Ma è pur vero che, al di là dei frutti
soprannaturali che solo il Signore conosce, è un'esperienza arricchente anche
per il prete, fa crescere la sua umanità e la sua fede, fa vivere con gioia il
sacerdozio.
c) Nel campo dell'azione educativa: le Scuole diocesane
[47] L'educazione al senso critico e al corretto rapporto con
i mezzi della comunicazione sociale e, in genere, con i meccanismi del mondo
moderno, può avvalersi anche delle Scuole diocesane di formazione che, dopo la
positiva esperienza degli anni scorsi, per il 1991-1992 verranno promosse
secondo i seguenti criteri.
1. Scuole di base per la formazione di operatori pastorali:
la segreteria diocesana ha già trasmesso a tutti i decani gli schemi dei due
anni di formazione degli operatori pastorali a livello decanale, riservandosi di
promuovere per il 1992-1993 un successivo anno di specializzazione a livello
diocesano. Spetta ora ai decanati decidere, per questo o per uno dei prossimi
anni, di promuovere la Scuola che ha lo scopo di favorire un'omogenea e coerente
preparazione dei membri dei Consigli pastorali, dei catechisti e degli altri
operatori dei diversi settori della vita pastorale.
2. Scuole diocesane per la formazione all'impegno sociale e
politico: hanno lo scopo di curare la formazione ecclesiale fondamentale
(contenuti della dottrina sociale della Chiesa, discernimento vocazionale,
riflessione culturale) dei giovani e dei giovani-adulti che intendono porsi a
servizio del bene comune secondo l'insegnamento della Chiesa. Anche per il 1992
sono previste due Scuole per ogni zona pastorale (una sola per la città di
Milano). Gli sbocchi di queste Scuole, come è noto, vanno ricercati nel servizio
sociale (lavoro, scuola, sanità, emarginazione, immigrati, comunicazione,
famiglia); nell'impegno culturale (istituzione di Centri culturali); nel
servizio politico vero e proprio, con responsabilità distinte da quelle
ecclesiali anche se sempre coerenti con le indicazioni del magistero.
d) Nel campo dell'azione educativa: un Convegno regionale
sulla vita umana
[48] Si tratta del Convegno dal titolo Nascere e morire oggi.
Le Chiese di Lombardia per una nuova cultura della vita umana. Promosso dai
Vescovi lombardi per il 1991-1993, si presenta come un iniziativa ampia e
articolata, che coinvolge direttamente le diocesi della nostra regione e che
vorrebbe suscitare un dialogo culturale di alto profilo sui temi della vita
umana, della sua accoglienza, del suo rispetto, della sua difesa, della sua
promozione.
Esso ritma il cammino di quasi un intero biennio pastorale:
inizia infatti nell'autunno 1991 con un "pomeriggio di studio" per i membri dei
Consigli pastorali e i rappresentanti dei Consigli presbiterali delle diocesi
lombarde, e terminerà con una grande manifestazione pubblica nella primavera
1993. Lungo questo periodo valorizzeremo la XIV Giornata per la Vita (2 febbraio
1992) come momento ufficiale di indizione del Convegno nelle singole diocesi; i
Consigli pastorali di ogni parrocchia e quelli pastorale e presbiterale delle
diocesi sono invitati a tenere almeno una sessione sui temi del Convegno; verrà
proposta una specifica Preghiera del Convegno. Nell'anno pastorale 1992- 1993,
oltre alla celebrazione della XV Giornata per la Vita (7 febbraio 1993), terremo
nell'autunno 1992 un Convegno per operatori pastorali e uno per cristiani
impegnati nella cultura, nel sociale, nel politico.
Obiettivo fondamentale del Convegno è quello di aiutare le
nostre Chiese a interrogarsi sulla cultura della vita, che le attraversa e che
domina nella nostra società, e a individuare quale impegno vada realizzato più
puntualmente per costruire una cultura della vita umana coerente con la verità
dell'uomo.
Sarà questo un modo per offrire il proprio contributo alla
realizzazione di una svolta culturale che si palesa come sempre più urgente.
Sarà anche un modo per attuare gli orientamenti pastorali dell'episcopato
italiano per gli anni '90, nella consapevolezza che il servizio alla vita
dell'uomo costituisce una frontiera significativa e impegnativa per
l'evangelizzazione e la testimonianza della carità.
Dati ulteriori saranno comunicati in seguito. Fin da
quest'anno, preparandoci alle varie tappe del Convegno, potremo riflettere in
particolare sul rapporto tra i valori della vita e le concezioni che emergono
dalla cultura dei mass media per stimolare un coraggioso giudizio e azioni
efficaci.
[49]
Signore, come è bello stare quassù! Lo sguardo si perde negli infiniti spazi del cielo trapuntato di stelle, e la terra sembra così piccola, da suscitare tenerezza. La silenziosa scrittura dei cieli mi parla di te e in questa solitudine piena di pace mi sento avvolto dall'oscuro, vivificante grembo del tuo amore. |
Anch'io vorrei dirti, come un giorno Pietro: "Facciamo qui tre tende"! Vorrei restare con te su questo nuovo Tabor, sospeso tra la terra e il cielo e guardare le cose dalla fine, nell'ultimo orizzonte che di ciascuna dà alla verità il senso. Fa' che io sappia sempre ricordarmi di te, della patria verso cui sono diretto dove tutto quanto è umano appare così piccolo, eppure così grande si avverte l'abbraccio del tuo amore! |
E fa'che ricordandomi di te e di questo tuo cielo senza fine io sappia anche ricordarmi dei tanti volti amati e dei tanti altri, indifferenti o sconosciuti, per capire che nessuno è estraneo a te e il valore infinito d'ogni persona umana sta in questo Amore eterno che l'avvolge |
****
Ma tu vuoi che io ridiscenda
verso il piccolo, grande mondo
dove hai posto la tua tenda
e la mia:
tu vuoi che io stia nel villaggio
e condivida la vita in comunione.
Sì, tu mi fai gustare
la bellezza del cielo,
ma tu mi vuoi fedele alla terra.
Comunicare con te
mi mette nel cuore l'urgenza
di comunicare con gli uomini,
miei compagni di strada.
verso il piccolo, grande mondo
dove hai posto la tua tenda
e la mia:
tu vuoi che io stia nel villaggio
e condivida la vita in comunione.
Sì, tu mi fai gustare
la bellezza del cielo,
ma tu mi vuoi fedele alla terra.
Comunicare con te
mi mette nel cuore l'urgenza
di comunicare con gli uomini,
miei compagni di strada.
****
Scendo allora con te verso la terra, mentre vedo le sagome lontane diventare figure precise, disegni e geometrie della vita quotidiana del mondo. Spiccano su tutto le antenne e i campanili della mia città. Venendo da tanto lontano mi sembra di guardarli con nuova simpatia; è come se la luce dei tuoi occhi mi avesse reso capace di riconoscere in tutto l'impronta del tuo amore. |
Fa', o Signore, che le antenne e i campanili sappiano dialogare tra loro. Aiuta la tua Chiesa a essere il popolo del dialogo, capace di dire e di praticare la comunicazione al suo interno e con tutti. Fa'che sappiamo educarci ed educare a un uso libero e liberante dei media, per riconoscere e valorizzare profeticamente in essi il lembo del mantello del Figlio tuo, fatto uomo per noi. |
Donaci perciò persone capaci di unire nella loro vita l'antenna e il campanile, fedeli al mondo presente e fedeli alla patria promessa, in grado di coniugare le due fedeltà con professionalità e con amore. |
****
Ed eccomi, infine, nella mia stanza, con te davanti al mio televisore: è come ritrovarmi con un fedele servitore in compagnia dell'Amico, che mai mi lascerà. Ora so che anche nella massa un incontro personale è possibile, e che perfino attraverso un lembo di mantello può raggiungermi la Vita che non passa, la Verità che illumina e riscalda. Aiutami a non dimenticarlo più, fa'che io sappia lodarti insieme al "villaggio globale" che è il mio mondo, come un giorno seppe lodarti col suo mondo Francesco, il fratello universale, l'uomo della comunicazione con te e con tutte le tue creature: Altissimu onnipotente bon Signore tue so' le laude la gloria e l'honore et omne benedictione. Ad te solo Altissimu se konfano et nullo homo éne dignu te mentovare. |
con tutte le tue creature specialmente fratello televisore che riempie ore delle nostre giornate ed è bello e irradiante con grande splendore e di te Altissimo porta significazione. Laudato sii mio Signore per sorella radio per cui le notizie attraversano i cieli e il mondo diventa a me vicino. Laudato sii mio Signore per fratello giornale che mi informa sulle nubi e sul sereno delle vicende umane e mediante cui tu nutri la conoscenza e la riflessione di tante tue creature. Laudato sii mio Signore per ogni tipo di informazione che è molto utile quando sa essere umile e veritiera e casta. Laudato sii mio Signore per i comunicatori grazie ai quali illumini la mente e doni gioia e forza al nostro cuore, quando essi servono la verità con modestia. |
Laudato si' mi' Signore per sora nostra matre terra la quale ne sustenta et governa et produce diversi fructi con coloriti flori et herba: essa diviene sempre più per noi la casa comune che i media ci fanno conoscere e amare. Laudato si' mi' Signore per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke le sosterrano in pace ka da te Altissimu sirano incoronati. Specialmente sii lodato per quanti, usando i mass media, sapranno ricordarsi che nulla al mondo vale più della persona umana. Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale da la quale nullo homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati ka la morte secunda no 'l farrà male. Specialmente sii lodato per quanti, ricordando che tutto passa e che tu solo resti, si sforzano di operare nei media secondo verità e giustizia e hanno cura dei deboli così esposti al potere della comunicazione di massa. |
Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate
et servite a lui cum grande humilitate.
Lodatelo tutti, abitanti del "villaggio globale",
unendo la vostra alla voce di tutte le creature.
et servite a lui cum grande humilitate.
Lodatelo tutti, abitanti del "villaggio globale",
unendo la vostra alla voce di tutte le creature.
O Gesù, fa' che anch'io possa toccare con fede
il lembo del tuo mantello!
il lembo del tuo mantello!
Milano, 31 luglio 1991
Festa di s. Ignazio di Loyola, nel quinto centenario della nascita
Festa di s. Ignazio di Loyola, nel quinto centenario della nascita