venerdì 31 agosto 2012

Martini: L'itinerario spirituale dei dodici


Introduzione generale
Vorrei soltanto dare due indicazioni che possono servire per entrare nel lavoro degli Esercizi che gradualmente inizieremo domani.
La prima indicazione sul tema e la seconda indicazione sugli attori degli Esercizi.
Ho scelto come tema il Vangelo di san Marco e ci intratterremo quindi sulla lettura di questo Vangelo. Non ne faremo una lettura continuata (cioè non prenderemo il Vangelo capitolo per capitolo), e nemmeno - una lettura direttamente tematica (cioè non ci fermeremo su alcuni temi del Vangelo di Marco, per esempio sul Regno di Dio, le parabole, i miracoli ecc.). Ne faremo piuttosto una lettura catechistica perché essa ci aiuterà a percorrere una via, un cammino spirituale più consono ad un corso di Esercizi Spirituali.
Cosa intendiamo per lettura catechistica?
Dobbiamo partire dal fatto probabile che san Marco presenta una catechesi, un manuale per il catecumeno. Il Vangelo di Marco è, cioè, un Vangelo fatto per quei membri delle primitive comunità che cominciano l'itinerario catecumenale. Per Marco si può senz'altro parlare di Vangelo del catecumeno. Matteo è, invece, il Vangelo del catechista; cioè, il Vangelo che dà al catechista un insieme di prescrizioni, dottrine, esortazioni. Luca è il Vangelo del dottore; cioè, il Vangelo dato a colui che vuole un approfondimento storico"salvifico del mistero, in una visuale più ampia. Giovanni, infine, è il Vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza.
Marco è il primo di questi quattro manuali: il manuale del catecumeno; centrato quindi su un itinerario catecumenale. Esso si può ben condensare intorno alla parola di Gesù ai suoi: «A voi è dato il mistero del Regno, a quelli di fuori in parabole» (Mc 4, 11).
Il Vangelo di Marco infatti ci mostra come dalle parabole, cioè dalla visuale esteriore del mistero del Regno, possiamo entrare al di dentro e ricevere questo mistero. C'è dunque in Marco un cammino catecumenale che, però non è ancora l'oggetto specifico di queste nostre considerazioni.
Ce n'è un'altra da fare. In questo itinerario catecumenale, che si sviluppa lungo tutto il Vangelo di Marco, hanno gran parte i dodici apostoli.
Propongo quindi, come oggetto specifico, secondo il quale considereremo il Vangelo di Marco, l'itinerario spirituale dei Dodici. Su questo itinerario ciascuno di noi potrà rivedere, riflettere, ripensare il proprio cammino interiore.
* * *
La seconda indicazione riguarda gli attori di questo ritiro: chi è che agisce in questi giorni. Gli attori sono tre.
Lo Spirito Santo è colui che conduce il ritiro. Nei suoi confronti, la domanda da porsi sarà: Quid vult?
Che cosa vuole lo Spirito da me in questo ritiro? Dove mi vuole condurre?
Il secondo attore, guidato dallo Spirito, siete ciascuno di voi: La domanda da porvi è questa: Quid volo?
Che cosa desidero, che cosa attendo, che cosa mi propongo? Lasciamo affiorare gradualmente, nella solitudine, i nostri bisogni, i nostri desideri interiori, le nostre necessità, spesso soffocati, per l'urgenza degli altri, dal clima di ogni giorno, ostico al silenzio e alla preghiera.
La terza persona agente sono io stesso. Sarò soltanto un suggeritore: e il suggeritore ha il compito di facilitare il lavoro dando qua e là qualche indicazione tematica che aiuti ciascuno a riflettere sull'itinerario dei Dodici nel Vangelo di Marco. Essendo io un sacerdote gesuita, faccio infine notare che l'itinerario ascetico (asketikòs, da askéin = esercitare) quale è proposto nel Vangelo di Marco, è lo stesso che, con altre parole, è riflesso nel libro degli « Esercizi spirituali» di sant'Ignazio di Loyola.

* * *
Termino queste parole di, introduzione aggiungendo un pensiero che prendo dall'ultimo interessante libro di Hans Urs Von Balthasar: Il complesso antiromano (trad. italiana di G. Moretto, Brescia 1974).
L'Autore esamina ampiamente come mai esista oggi nella Chiesa un fenomeno di opposizione a Roma, tipico del nostro tempo.
Una delle cose che mi ha colpito, scorrendo il libro, è l'importanza che egli dà al principio mariano della Chiesa. Le parole che voglio citare e sulle quali forse potremo ritornare, riguardano questo fatto: la Chiesa - egli dice - è petrina (cioè apostolica), ma nello stesso tempo è anche mariana.
Balthasar fa notare diffusamente come i due aspetti, compenetranti insieme, danno il volto completo della Chiesa. In qualche modo, l'uno integra l'altro e, dal punto di vista dell'aspetto anche esteriore, umano e affettivo della vita quotidiana, lo completa.
Dovendo, quindi, meditare sull'itinerario dei Dodici in Marco, dobbiamo tenere presente nella nostra preghiera la Madonna perché ci aiuti ad entrare veramente sempre più nel cuore della Chiesa, come il Vangelo ce la presenta; cioè, in tutta la sua totalità, in maniera da poterci confrontare quotidianamente con questa Chiesa apostolica e mariana.
Premessa sul Vangelo di san Marco
Ci chiediamo: esiste un itinerario dei Dodici nel Vangelo di Marco? Hanno, i Dodici, nel Vangelo di Marco, un'importanza sufficiente da permetterci di seguire con un certo rigore esegetico il loro cammino?
Cominciamo con una constatazione di lettura: nel Vangelo di Marco ricorre abbastanza sovente la parola: i Dodici (oi dodeka). Vi sono sette brani che possiamo chiamare i brani dei Dodici.
La prima menzione è al capitolo terzo: «ne fece Dodici» (3, 14); ripetuto in 3, 16: «fece i Dodici ».
La seconda la troviamo nel capitolo seguente: «Quando fu solo lo interrogavano quelli con Lui, cioè i Dodici, e gli chiedevano il significato delle parabole» (4, 10).

Il terzo passo si trova al capitolo sesto: «e chiama i Dodici» (6, 7). Qui è interessante notare che il greco ripete lo stesso verbo (proskaléitai) di Me 3, 13: «Chiama a sé quelli che vuole».
Strettamente connessi con questo brano, alla fine del medesimo capitolo, abbiamo gli apostoli che si radunano presso Gesù: i Dodici sono invitati da Lui ad andare in un luogo deserto e solitario (6, 31).
La quarta occorrenza si trova al capitolo nono, in alcune istruzioni di Gesù ai discepoli: Egli «chiamò i Dodici e disse loro: 'se qualcuno vuole essere il primo sia l'ultimo' » (cfr. 9, 35; 9, 35-50).
La quinta menzione dei Dodici è nel capitolo seguente: la terza predizione della morte e risurrezione: 10, 32-35.
Il sesto brano è contenuto nel capitolo undecimo:
Gesù, dopo essere entrato «in Gerusalemme, nel tempio, e dopo aver osservato ogni cosa, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici alla volta di Betania» (11, 11). Quindi, la presenza dei Dodici nell'apostolato gerosolimitano di Gesù è ricordata espressamente.
Infine la settima occorrenza si ha nel capitolo quattordicesimo, quando inizia la Passione. Qui la menzione dei Dodici ritorna più volte perché tutto il capitolo è presentato in stretta connessione con i Dodici. «Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici... »(14,10). « E fattasi sera venne con i Dodici ... » (14, 17). «E disse loro: è uno dei Dodici, che intinge con me nel piatto» (14, 20). E infine: «... Giuda, uno dei Dodici ...» (14, 43).
La parola i Dodici appare, dunque, sovente in Marco; e, appare ad intervalli regolari, in sette contesti diversi, quasi ogni due capitoli. Dal capitolo tre fino al quattordici, la via del discepolo che ,gradualmente giunge alla conoscenza di Dio è descritta dall'evangelista come segnata dalla presenza dei Dodici. Dal momento della loro costituzione (cap. 3) fino al disperdersi nell'ora della prova con il tradimento di Giuda (cap. 14) questa presenza è sottolineata in ogni sezione principale del Vangelo.
Possiamo affermare: i Dodici accompagnano il cammino di Gesù dalla sua prima affermazione fino alla prova finale.
Notiamo che a questi testi, dove appare la parola i Dodici e che possiamo prendere rigorosamente come punto di partenza per la nostra riflessione, andrebbero aggiunti altri tre testi che senza una loro diretta menzione trattano tuttavia episodi che li riguardano. Soprattutto noterei al capitolo 1, 16. 20; le prime chiamate; cioè i primi quattro chiamati presso il lago, i primi quattro dei Dodici; al capitolo 8, 27-30: Pietro, il quale a nome dei Dodici, confessa che Gesù è il Cristo; al capitolo 16, 7: la nuova chiamata dei Dodici, perché si radunino presso Gesù nella Galilea, dopo la risurrezione.
Se teniamo presenti tutti gli episodi nominati, abbiamo una specie di struttura apostolica della versione marciana. È confermata quindi la possibilità di meditare l'itinerario dei Dodici nel Vangelo di Marco.
Possediamo dieci pericopi apostoliche (sette più tre), in luoghi chiave del Vangelo. Esse traggono origine da un'affermazione iniziale: «Perché stessero con Lui» (3, 14).
Tutta la carriera dei Dodici ha inizio da questo momento fondante la loro esistenza che è «l'essere con Gesù». E tutto ciò che segue è l'approfondimento di ciò che «l'essere con Gesù» significa concretamente per la vita di un uomo chiamato all'intimità personale con il Signore.
Ecco perché quella frase cos1 dura, cos1 inaspettata:
« E ne fece Dodici perché stessero con lui» (3, 14), pur nella sua rudezza, è piena di un immenso significato e contiene in germe tutta la vocazione degli apostoli. Le dieci pericopi mostrano il cammino secondo il quale gli apostoli sono giunti veramente ad essere con Gesù e possedere il mistero del Regno:
« A voi è dato il mistero del Regno di Dio» (4, 11). Essere con Gesù, ricevere da Lui il mistero del Regno, sono due espressioni che descrivono l'identità degli apostoli e il loro cammino.
* * *
Possiamo fare un'ultima osservazione su questo itinerario. In esso il momento della penitenza non è posto all'inizio, ma lo troviamo soprattutto verso la fine, con la prova della Passione, nel capitolo 14. All'inizio c'è soltanto un accenno ad essa, perché, in Marco, non ci viene presentato un itinerario di conversione che comincia con la penitenza e prosegue con la scoperta dell'essere col Cristo, ma ci viene posta innanzi una chiamata ad essere con Cristo. Essa deve gradualmente affinarsi ed approfondirsi, fino a riconoscere, in una riflessione penitenziale, quanto ancora ci manca per essere fedeli ad una vocazione già esistente.
Noi dunque seguiremo il cammino di Marco senza fare un' analisi rigorosa delle singole pericopi. Le terremo tuttavia presenti come sfondo, in maniera da potere intendere come la rivelazione progressiva del mistero del Regno si attui in coloro che sono chiamati ad «essere con Lui» .
Mediteremo il cammino che queste pericopi suppongono o indicano: ci metteremo, cioè, nei panni dei Dodici, alloro posto e ci chiederemo:
- che atteggiamento suppone nei Dodici questo porsi in ascolto rispetto a Gesù?
- Quale mentalità trova in essi?
- Quali presupposti di fede vengono richiesti; quale via si vuole far percorrere; e, quali prove presenta questa via?
- Come avviene la graduale rivelazione del Regno di Dio affinché si capisca - non soltanto a parole, ma a fatti - cosa vuol dire « essere con Lui »?
Ecco il cammino che ci accingiamo a compiere.

Prima meditazione
Il mistero di Dio
Questa meditazione ci aiuta a metterci nelle disposizioni del Principio e Fondamento (E. 23). Essa vuole creare in noi la condizione di totale disponibilità al mistero di Dio, alla sua attività, alla sua iniziativa. Per creare questa disponibilità noi ricorriamo al Vangelo di Marco.
Vogliamo riflettere insieme sul mistero di Dio in Marco; meglio ancora, vedere che parte ha il senso di Dio nel cammino catecumenale che Marco propone;- quale parte ha, in esso, l'educazione al senso di Dio.
* * *
Notiamo subito quanto poco si parli di Dio in Marco, quanto sembri scarsa l'istruzione su Dio.
Mancano per esempio istruzioni fondamentali come quella di Mt 6 sulla provvidenza o sul Padre Nostro, che è l'occasione di una semplicissima ma ampia catechesi su Dio.
Se consideriamo anche le statistiche, pur nel valore limitato che dobbiamo attribuire a dati di questo genere, vediamo che in Marco il nome di Dio occorre 37 volte, contro 46 in Matteo e 108 in Luca. Nel Vangelo del catecumeno, a differenza del Vangelo del dottore, vi è dunque una menzione molto discreta della persona di Dio.
Lo stesso si otterrebbe per la menzione di Padre: la parola ricorre 13 volte in Marco, ma appena cinque volte è riferita a Dio, mentre Giovanni ha centinaia di occorrenze del nome di Padre riferite a Dio; perché, evidentemente, una catechesi su Dio Padre fa parte dell'istruzione del cristiano illuminato, mentre all'inizio Esso viene menzionato appena.
Come mai questo silenzio su Dio? Perché se ne parla poco? Dobbiamo, credo, riportarci alla situazione concreta del catecumeno nella Chiesa primitiva.
I catecumeni della Chiesa primitiva, soprattutto quelli a cui si rivolge il Vangelo di Marco, - cioè probabilmente catecumeni provenienti in gran parte dal paganesimo - avevano già di per sé un grande senso religioso. Non era per nulla estraneo ad essi il pensiero, la parola, il vocabolo, la menzione continua di Dio; come dice bene san Paolo parlando appunto dei pagani: «Ce ne sono molti che sono detti Dio, sia nel cielo che sulla terra, e ve ne sono molti tenuti per dèi, e molti Signori (kyrioi) ... » (1 Cor 8, 5).
Tant'è vero che Paolo, entrando in Atene si irrita per la presenza continua di simulacri di divinità e chiama gli Ateniesi estremamente superstiziosi. Che fossero gente superstiziosa appare anche dal fatto avvenuto ad Efeso e raccontato in Atti 19, 18-19. Vi si dice che molti dei convertiti portarono i loro libri magici per bruciarli e se ne fece un falò che valeva milioni (cinquantamila denari d'argento). Ciò vuol dire che la superstizione era estremamente diffusa, e il catecumenato veniva impartito a gente che, in fondo, Dio l'aveva in bocca anche troppo. Il problema non era tanto di porre in essi il senso della divinità, che per loro era dappertutto e appariva in ogni fenomeno, ma di lottare contro una religiosità erronea.
Tra parentesi, potremmo chiederei: È davvero peggiore la nostra situazione odierna di ateismo diffuso? Forse è più facile parlare del Dio vero in una situazione di ateismo che non in una situazione di superstizione dove il parlare di Dio può essere capito male, travisato, travolto.
Il Vangelo di Marco è nato in una situazione in cui, all'inizio, non era opportuno parlare troppo di Dio, perché questo poteva venire frainteso. Ecco un motivo probabile perché al catecumeno non si parlava tanto di Dio. Vedremo poi che, in realtà, di Dio se ne parlava, ma non in modo diretto.
* * *
Come, dunque, veniva fatta al catecumeno, l'istruzione su Dio?
Era compiuta probabilmente, basandosi in gran parte sul Vecchio Testamento, soprattutto sui salmi. Il libro dei Salmi educava il catecumeno al vero senso di Dio e quindi la comunità primitiva - anche di cristiani provenienti dal paganesimo - lo leggeva molto sovente e conosceva benissimo i singoli salmi. Ciò appare dalle citazioni frequentissime che ne fa il Nuovo Testamento e che non sarebbero spiegabili se la comunità - a cui le lettere apostoliche sono rivolte - non li avesse conosciuti perfettamente.
Il catecumeno veniva educato al senso di Dio attraverso i salmi. Anche noi, in fondo, negli Esercizi, facciamo lo stesso. Attraverso la recita dei salmi ci rieduchiamo a questo senso profondo di Dio che viene assorbito più con la preghiera che non con la comunicazione verbale di ciò che si può dire su Dio (cfr. E. 20).
Nei pochi accenni che vengono fatti nel Vangelo di Marco al mistero di Dio, noi cogliamo quel senso specifico di Dio che egli si attende dal catecumeno ~ artche quel senso specifico di Dio nel quale si attua la rivelazione che Gesù fa di sé ai Dodici.
La meditazione che propongo è dunque una breve scorsa ai testi principali di Marco - una quindicina circa - nei quali si possono trovare accenni diretti o indiretti a Dio, per vedere quale figura, quali aspetti di Dio vengono sottolineati e, quindi quali vengono ritenuti più importanti in un cammino catecumenale verso Dio e verso l'intimità col Signore Gesù, che scandisce l'itinerario dei Dodici.
Questi testi si possono dividere in quattro serie: ci sono alcuni testi preliminari che pongono in luce gli aspetti fondamentali, poi vengono date alcune indicazioni successive, quindi una serie di temi biblici particolari e da ultimo le indicazioni finali sul mistero.
Quattro tipi di testi e ciascuna di queste serie comprende tre o quattro testi per ordine.
1a Serie: Testi Preliminari (Mc 1, 2; 1, 3; 1, 10-11)
Come tradurre questi testi nella nostra esperienza? Chi è Dio? È colui che prende una iniziativa misteriosa: «Ecco, io mando il mio angelo davanti a te»(1, 2). Tralascio il v. 1 perché è molto discusso; probabilmente è autentico ma preferisco non tenerne conto. Dio al v. 2 non è nominato, ma è colui che prende una iniziativa misteriosa, non ben definita; qualcosa sta per succedere; Dio in qualche maniera ci viene incontro.
Dio è il Dio che viene. « Preparate la via del Signore» (1, 3): Dio sta venendo. Questa indicazione, chiara e misteriosa insieme, su Dio come qualcuno che sta venendo verso di noi, che si muove di sua iniziativa verso noi, riappare più avanti: «vide i cieli aperti...» (1, 10); cioè, Dio: «Il Padre vostro che è nei cieli» (11, 25), si fa presente alla nostra realtà, alla nostra esperienza, si mette in comunicazione con noi dal cielo.
E come comunica con noi? La risposta è: «Attraverso il suo Figlio diletto» (1, 11): potremmo dire il Figlio modello, quel. Figlio nel quale capiremo qualcosa dell'inconoscibile mistero di Dio.
Dunque, Dio appare come mistero inconoscibile che, ad un certo punto prende una iniziativa misteriosa nei nostri confronti e ci viene vicino per scuoterci. Non è molto; ma è detto tutto ciò che può suscitare un senso di attesa, di preparazione.
Il catecumeno, quindi, non è invitato a dire subito: «Dio è qui, Dio è questo o quello »; esprime cioè qualcosa di ciò che è Dio. È invitato, invece, a comprendere che Dio è colui che sta per prendere possesso della sua vita, e gli va incontro con una misteriosa iniziativa che egli è chiamato ad accettare, senza conoscerla nei dettagli.
2a Serie: Indicazioni chiarificatrici (Mc 1, 14; 1, 15; 1, 35; 2, 7)
«Gesù viene in Galilea predicando il Vangelo di Dio» (1, 14); quindi indirettamente sappiamo che Dio è il Dio del Vangelo.
« Si è avvicinato il Regno di Dio» (1, 15); quindi Dio è il Dio del Regno.
Come tradurre queste due indicazioni? Il Dio del Vangelo; cioè il Dio che ti porta una buona notizia, la quale sta per cambiare la tua situazione. Il Dio del Regno; cioè, il Dio che sta per mettere le cose a posto, misteriosamente. .
Dio è colui che entra nella tua vita con un messaggio sconvolgente, pieno di letizia, e che viene a riordinare le cose della tua vita. Quindi, di nuovo: l'atteggiamento di chi non sa ancora ciò che Dio vuole, ma si prepara in piena disponibilità nell'accettazione di una novità misteriosa che deve entrare nel suo intimo.
Un altro accenno misterioso, del tutto indiretto,l'abbiamo più avanti: «Gesù al mattino presto va in un luogo deserto e prega» (1, 35). Qui Dio appare come colui che il Cristo prega. Cristo, presentato prima come Figlio modello e suo rivelatore, è in misteriosa unione con Dio; e noi, pur senza sapere molto di più su Dio, ci troviamo immersi in un'atmosfera di attesa, rispetto, riverenza, tensione per il mistero di Dio che, in Cristo ci si sta rivelando.
E ancora, nel capitolo seguente: «... Chi può perdonare i peccati se non Dio solo? (2, 7). La frase è proferita dagli avversari ma serve per dirci che solo Dio è colui che può perdonare. Essa ci reca il senso del perdono. Dio entra con una iniziativa - che è buona novella - di perdono e l'uomo deve restare in attesa e in ascolto, disposto e pronto a riceverlo.
Da questi pochi accenni vediamo che viene operato tutto un rovesciamento della mentalità pagana, per la quale Dio era l'essere a disposizione dell'uomo, sul quale l'uomo poteva mettere le mani, farselo propizio, chiedendo e ottenendo da Lui ciò che voleva; un Dio di fronte al quale l'uomo era in stato di attività manipolatrice.
Ora, invece, l'uomo è posto in stato di totale passività, di attesa, ascolto, riverenza, rispetto. È Dio che sta per fare, sta per mettere in opera il suo Regno.
Noi dobbiamo umilmente ascoltare senza capire, essere pronti ad andare là dove Egli ci vuole portare.
Questi sono alcuni tra gli aspetti fondamentali dell'attesa del mistero di Dio raccolti nella prima parte di Marco.
Dal cap. 2 in avanti sono pochissime le altre menzioni su Dio perché, come vedremo, è in opera Gesù. Egli si accinge a rivelarne il mistero nella sua persona; di conseguenza la catechesi su Dio non appare in primo piano. Una volta che l'uomo si è reso disponibile, viene indicato il Figlio, incomincia allora la via della sequela del Figlio, che ci permette di purificarci da tutto un falso modo di comprendere Dio, per arrivare a conoscerlo nella verità.
3a Serie: Temi biblici
Ci sono, tuttavia, nei capitoli 11, 12, 13, ancora quattro menzioni di Dio che ricalcano temi biblico-veterotestamentari. Esse ci fanno constatare che nel Vangelo marciano non si perdevano di vista alcuni temi fondamentali, che si supponevano quali punti di partenza per una catechesi del « Dio di nostro Signore Gesù Cristo».
Quali sono questi 4 punti fondamentali che si riferiscono sempre alla catechesi veterote~tamen~aria su Dio? Nel capitolo 10, la risposta di Gesù: «Nessuno è buono se non Dio (10, 18). Essa .rivela al catecumeno la bontà di Dio, l'unico buono da amare «con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le forze» come è detto in 12, 30.
Altro passo di catechesi veterotestamentaria lo ritroviamo nel capitolo seguente: l'esortazione o indicazione (dipende dalle traduzioni): «abbiate fede in Dio» (11, 22), trad. C.E.I. Notiamo che il testo greco è molto più misterioso perché dice: échete pistin Theou; cioè, capovolge la questione: 'Chi è Dio? ' È colui che merita fede e fiducia, colui che merita totale abbandono. È quanto di più si insisterà nell'itinerario catecumenale: abbandonatevi al mistero di Dio che vuole agire in voi non a modo vostro, ma cosi come Lui vuole. E quindi siate totalmente disponibili.
Un altro accenno veterotestamentario si trova nel capitolo tredicesimo; il Dio della creazione ricordato in maniera molto indiretta: «Dall'inizio della creazione fino al giorno d'oggi» (13, 19).
Quello del Dio Unico, Buono, Fedele, Creatore, Realtà suprema da amare, erano temi veterotestamentari allora molto presenti. Marco ci dà, infatti, un modello di catechesi per gente che credeva in questi valori. In una catechesi odierna, evidentemente, essi potrebbero darsi per scontati.
Su questi temi è costruita l'idea evangelica del Dio che viene, prende un'iniziativa piena di mistero, del Dio al quale bisogna abbandonarsi e che ci guida misteriosamente per mezzo del Cristo.
Questa è la disposizione fondamentale con cui il catecumeno inizia la sua catechesi e che l'annuncio evangelico suppone in lui.
4a Serie: Temi rivelatori
Finalmente, gli ultimi due testi che sono basilari e rivelatori dell'identità di Dio in Marco.
Nel capitolo quattordicesimo: la preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (14, 36).
Chi è il Dio che sta dietro a questa rappresentazione dataci dalle parole di Gesù? È il Dio a cui tutto è possibile (idea veterotestamentaria), il Dio che può allontanare il calice ma che, in .realtà, non lo fa. È, cioè, il Dio al quale bisogna rimettersi totalmente perché ha su di noi disposizione completa e ci guida. per vie misteriose, cosi come ha guidato il Cristo.
Il catecumeno è quindi invitato a passare da una idea umanamente prefabbricata di Dio, in cui tutto è predisposto, in cui egli può appoggiarsi ed ottenere ciò che vuole, facendo questo o quell'altro atto di culto, ad un Dio che misteriosamente interviene e lo conduce con bontà, ma che lo porta là dove Lui vuole attraverso l'iniziativa evangelica di salvezza che per l'uomo è sempre imprevedibile e sconcertante.
In Marco, difatti, l'ultimo testo in cui Gesù ci parla di Dio è il testo più drammatico del Vangelo. Sulla croce Gesù grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34). Come mai si chiude con questo brano la serie dei pochi accenni al mistero di Dio in Marco?
Proprio perché in esso abbiamo il culmine di questa rivelazione: il Dio che viene presentato nel Vangelo, il Dio a cui tutto è possibile, il Dio che ha in mano ogni cosa e al quale noi ci abbandoniamo totalmente, non è obbligato a fare ciò che noi da Lui attendiamo e può anche esteriormente abbandonarci come ha abbandonato il suo Figlio. È chiaro che nelle parole di Gesù c'è anche il senso di speranza, ma non bisogna dimenticare che sono parole di abbandono. Dio ha lasciato il Cristo in una situazione di amarezza, di desolazione esteriore, di derelizione umana come se l'avesse effettivamente abbandonato.
Il catecumeno è quindi invitato a riflettere attentamente: guarda che la via per cui ti metti non è una via facile, una via in cui Dio ti assicurerà, di successo in successo, una riuscita già da te programmata, ma ti metti nelle mani di un Dio misterioso che è buono, che vuole di te il meglio, ma non a modo tuo.
È in gioco quella disponibilità totale che sant'Ignazio pone come condizione fondamentale degli Esercizi: accettare il mistero del Dio diverso da noi che ci porta spesso, e impensatamente, là dove non vorremmo andare (E. 5). Lo disse Gesù a Pietro: ti porteranno dove non vuoi andare (Gv 21,18).
È l'abbandonarsi totalmente al mistero di Dio per tutte le sorprese che ad ogni momento, ad ogni età dell'esistenza, Egli può manifestare.


Seconda meditazione
L'ignoranza dei discepoli
La meditazione che intendo proporre vuole aiutarci nell'approfondimento del senso della penitenza. Chiediamo, quindi, al Signore la grazia di purificazione interiormente.
Come appare, nel Vangelo di Marco, questa esperienza di purif1.cazione? Utilizziamo uno dei passi fondamentali in cui Marco, al capitolo quarto, vuol fare comprendere il mistero del Regno: «A voi è dato il mistero del Regno; a quelli di fuori tutto avviene in parabole» (4, 11).
Lo scopo di tutta la catechesi marciana è di far passare da una situazione al di fuori, in cui il mistero del Regno appare da angolature sociologiche o fenomenologiche, ma non è colto nella sua sostanza, alla situazione al di dentro.
Nel Nuovo Testamento ricorre spesso l'espressione al di fuori per indicare chi non partecipa alla conoscenza interiore del mistero del Regno, cioè della fede, come per esempio i pagani. Per esempio: nella prima lettera ai Corinti, parlando 'dei giudizi che devono aversi all'interno della comunità, Paolo dice: « '" tocca forse a me giudicare quelli di fuori? ... » (1 Cor 5, 12-13); e ancora, nella lettera ai Colossesi: «Camminate nella sapienza per riguardo a quelli di fuori» (Col 4, 5); cioè, a quelli che non partecipano al dono del Vangelo e stanno a vedere, e vi guardano giudicandovi da un punto di vista esteriore. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, poi, troviamo: «... affinché camminiate in maniera degna, per riguardo a quelli di fuori» (1 Ts 4, 12).
L'espressione è, quindi, abbastanza nota nel Nuovo Testamento e designa la categoria di coloro che non hanno ancora capito il mistero del Regno. Oggi essa comprende non solo i non battezzati, ma, di fatto, tutti coloro per i quali i misteri del Regno di Dio e della Chiesa sono ancora qualcosa di esteriore a cui non si partecipa dall'interno, con cui non ci si identifica, al punto che tutto appare enigmatico. Si vede la Chiesa fare certe cose, compiere certe azioni sacre o agire in determinati modi, ma tutto sembra come una grande parata di cui non si capisce il significato.
Bisogna allora entrare con coraggio all'interno di questo mistero per identificarsi con esso. Ecco la via catecumenale: da un di fuori in cui i segni appaiono enigmatici, verso un interno in cui essi si identificano con la realtà. Questa via è appunto descritta al capitolo quarto in cui si cita un passo dell'Antico Testamento: «Affinché vedendo non vedano, ascoltando non odano, per paura che si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4, 12: cito 1s 6, 9-10).
Si è discusso a l,ungo su questo versetto per indicare se è mai possibile che ci sia, da parte di Dio, una volontà di non farsi capire. In realtà si tratta di un modo espressivo per dire cosa succede a chi chiude gli occhi, ed è un versetto molto istruttivo se lo rovesciamo cogliendone l'aspetto positivo, Cioè se ci chiediamo: qual è la via del catecumeno? È la via di colui che vuole aprire gli occhi così da vedere. Molti guardano le cose della Chiesa, ma non le vedono, non ne capiscono il senso. Molti, oggi in posizione di critica verso la Chiesa, sono spesso nell'atteggiamento del "guardare e non vedere, dell'ascoltare e non intendere. Bisogna, .invece, passare dal guardare al capire, dall'ascoltare al comprendere, in modo da convertirsi ed avere il perdono. Ecco la via positiva che le parole del V. 12 esprimono.
E si comprende meglio questo, quando si medita il ripetuto invito, nel Vangelo di Marco, ad aprire gli occhi, ad ascoltare e a comprendere. Possiamo, così, dedicare questa meditazione all'ignoranza del discepolo.
San Marco suppone che il punto di partenza della via catecumenale - e per gli stessi Dodici della loro intimità con Gesù - sia una riconosciuta situazione di ignoranza: di un non sapere e non capire, di un non vederci chiaro. Questa attitudine di ignoranza viene più volte ricordata da Gesù ai suoi discepoli, perché si convincano che non hanno ancora veramente visto né capito. Egli ribadisce che è necessario uscire da una tale situazione di sufficienza e mettersi invece in un atteggiamento di riconosciuta ed umile ignoranza, disposta ed attenta all'ascolto.
Ci sono dunque nella prima parte di Marco diversi accenni all'ignoranza del discepolo. Essa è supposta come il normale punto di partenza della catechesi; per i Dodici, poi, sarà il punto al quale si salderà, ad un certo momento, la chiamata di Gesù.
Nel capitolo quarto, oltre al già citato v. 12, abbiamo il v. 23 con l'invito: «Se qualcuno ha orecchi per intendere ascolti ». Al V. 24: «Guardate bene ciò che udite », e al v. 40: «Perché tanta paura? non avete ancora fede? »; cioè: Non intuite ancora? Vedremo poi, quanto il capitolo quarto sia fondamentale, perché segna un passo avanti nella conoscenza di Gesù.
Nel capitolo sesto ritorna lo stesso rimprovero: «Non avevano capito riguardo ai pani, essendo il loro cuore indurito» (6, 52).
Altro brano di insistenza sull'ignoranza del discepolo è al capitolo ottavo: «Perché state discutendo che non avete pane? Ancora non capite, non intendete (in greco letteralmente: non avete mente)? Avete il cuore indurito? Avendo occhi non vedete, avendo orecchi non udite? e non vi ricordate ... » (8, 17). Ci sono presentati 5 rimproveri successivi che passano in rassegna tutti i sensi dell'uomo per fare intendere agli interlocutori che non hanno capito assolutamente niente.
E finalmente al capitolo nono troviamo l'ultimo brano riguardante l'incomprensione: «Ma questi non capivano la parola e avevano paura di interrogarlo » (9, 32).
Ecco dunque il punto di partenza per il cammino catecumenale. Tale stadio, anzi, accompagna per qualche tempo questo itinerario ed è caratterizzato dalla situazione di essere in qualche modo con l'animo ancora al di fuori del centro del messaggio; di intuire confusamente qualcosa, ma di non avere ancora capito il mistero. « A voi è dato il mistero ... »(4, 11s); Ma questo mistero non viene inteso, non viene capito fino in fondo finché non si è percorso tutto il cammino che è segnato dal Vangelo di Marco. Dal capitolo quarto al capitolo nono si sottolinea che si è ancora molto indietro in questa strada.
È un atteggiamento che dovremmo suscitare in noi ogni volta che ci mettiamo di fronte al mistero di Dio. Dovremmo poter dire: ‘quanto poco conosciamo del mistero di Dio’. Perché è soltanto con questo atteggiamento che possiamo metterci in attentissimo ed umile ascolto, pronti a percepire ciò che Dio vuole comunicarci.
Il primo punto allora è il seguente: il Vangelo di Marco suppone, per un serio cammino catecumenale e per una vera sequela dei Dodici nei riguardi di Gesù, che si parta dalla constatazione dello stato di una certa ignoranza e incomprensione teorica e pratica del mistero di Dio.
Il secondo punto di questa meditazione vuole rispondere alla domanda: in che cosa consiste concretamente questa ignoranza? Dove si esplica negli apostoli, nei discepoli?
Occorre leggere tutto il Vangelo di Marco e vedere dove e come tale ignoranza affiora. Tra i vari passi che si potrebbero proporre ne ho 'Scelti alcuni, tenendo presente che il Vangelo di Marco viene letto in una situazione di istruzione catecumenale. Ogni episodio di Marco in fondo, ha lo scopo, soprattutto nella prima parte di stigmatizzare l'ignoranza del discepolo e fargli capire cosa non va in lui affinché se ne avveda e cerchi di correggersi. Tutta la prima parte, quindi, ha uno scopo penitenziale. I passi che ora leggiamo contengono tutti un rimprovero di Gesù, rimprovero diretto o indiretto. Da essi si vede che viene sempre rimproverata al discepolo una situazione di nescienza e di incomprensione.
Nel capitolo secondo ci imbattiamo nell'episodio degli apostoli che stanno cogliendo le spighe di grano di sabato.
Che cosa viene stigmatizzato in esso? Ciò che si potrebbe chiamare l'ignoranza della vera libertà dei fio gli di Dio. « Non avete letto ciò che fece Davide quando era in necessità, come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione» (2, 25-26). Si tratta chiaramente di un rimprovero di Gesù: non avete letto le Scritture? non le capite? È condannato l'atteggiamento tipico di chi sta facendo faticosamente il passo dal di fuori verso il centro del mistero, ma continua ad attaccarsi alle leggi, alle norme, alle convenzioni, alle consuetudini come se fossero qualcosa di estremamente importante. Il catecumeno pagano era molto tentato di fare questo: di legarsi, cioè, a norme e leggi, quasi che in esse soltanto potesse salvarsi.
Gesù fa intendere che chi possiede questo atteggiamento di rigidità non ha ancora capito il mistero del Regno. Perché il mistero del Regno non si rivela davanti ad un tale attaccamento alle esteriorità legali, Gesù le rimprovera come un difetto ed. un errore, facendo notare che Davide era diverso e sapeva rendersi conto di ciò che era importante e di ciò che era accessorio, avendo egli superato lo stadio di una esteriore legalità.
Si attua in questo passo una profonda educazione degli apostoli esortati ad andare al di là di quella che è l'esteriorità del fenomeno, al di là di una pura legalità.
Un secondo rimprovero di Gesù lo troviamo, subito dopo, nel capitolo terzo. È un forte rimprovero; Gesù guarda intorno a sé con ira, profondamente rattristato per l'accecamento del loro cuore (3, 5).
Cosa suscita qui l'ira di Gesù? È la situazione dei farisei che gli stanno intorno nella sinagoga, mentre Egli si appresta a guarire di sabato un uomo. Essi non osano rispondere al quesito: «È lecito nel sabato fare del bene o del male? » (3, 4).
Si tratta di gente colta, venuta a spiarlo, e che sta lì a guardare, in posizione di critica; gente che non osa buttarsi; gente che non osa dire una parola per paura di compromettersi. E il Signore rigetta la paura dell'impegno. Questo è un atteggiamento comune a parecchi cristiani di oggi: lo stare a guardare la Chiesa, il Cristo, le cose della Chiesa, dal di fuori, pronti a giudicare, a programmare" forse, ma senza tuttavia buttarsi dentro e impegnarsi. È l'atteggiamento di comoda sufficienza critica di chi non vuole pagare di persona; di chi - anche battezzato - sta col cuore al di fuori; di chi giudica dall'alto la Chiesa, le persone di chiesa e il loro modo di agire, dicendo che non fanno come dovrebbero, ma che non vuole buttarsi dentro con il rischio di sbagliare.
Un tale atteggiamento suscita l'ira di Gesù e il suo profondo dolore, perché esprime il fatto che si discute, si disserta sul Regno di Dio in maniera anche dotta, in maniera apparentemente prudente, ma si ha paura a sporcarsi le mani, a buttarsi nella mischia.
Un atteggiamento successivo stigmatizzato da Marco lo troviamo nel medesimo capitolo terzo. Qui la situazione è capovolta, perché sono gli altri, che rimproverano Gesù. È una situazione paradossale, ironica, nella quale Marco vuol fare vedere a che punto si arriva quando si critica lo stesso Gesù. Perché? Vengono i suoi e vogliono prenderlo dicendo: «È fuori di sé» (3, 21). Altro atteggiamento tipico di chi crede di essere dentro al mistero, ma ne è ancora fuori.
È la paura di fare la fine di Gesù, cioè, di essere chiamati fanatici.
Molti vorrebbero avvicinarsi al mistero cristiano, parteciparvi in parte, ma non troppo, per la paura che la gente dica: 'è matto'. In realtà non si vuole partecipare fino in fondo al mistero di Gesù, e questa paura non è rara anche all'interno della Chiesa stessa. Molti di noi vorremmo vivere il cristianesimo in un modo tale che la gente non pensi che siamo diversi, un po' strani, che ci siamo esposti troppo, che in qualche ambiente non si dica che siamo dei fanatici.
Certamente non dobbiamo essere dei fanatici, ma tuttavia non dobbiamo aver paura che altri lo pensino; dobbiamo essere prudenti, equilibrati, discreti, ma non dobbiamo preoccuparci troppo che gli altri ci ritengano tali. Perché sarà difficile, se prendiamo il Vangelo alla lettera, che ad un certo punto qualcuno non dica di noi: 'è fuori di sé, fa troppo, se la prende troppo'; dal momento che questa è stata la sorte di Gesù.
Un altro atteggiamento presentato come un errato punto di partenza per un itinerario catecumenale, lo troviamo descritto ampiamente nel capitolo quarto. In forma parabolica ed enigmatica nei VV. 4-7, dove si parla del seme mangiato dagli uccelli, calpestato sulla strada, soffocato dalle spine; spiegato poi nei vv. 14-19 attraverso le diverse applicazioni: il diavolo, le persecuzioni, i troppi affanni ed impegni. Vorrei qui insistere soprattutto su quanto ha origine nel cuore dell'uomo; cioè, i troppi affannosi impegni e le molteplici preoccupazioni.
Tutto ciò è indicato come una delle cause dell'impossibilità di comprendere la parola, e dell'incapacità di penetrare il mistero. Lo sappiamo per esperienza: questa è una delle cause più frequenti per cui gli uomini - anche i cristiani di una certa bontà d'animo - non arrivano a superare l'esteriorità. Presi da molte cose, invischiati in un continuo succedersi di eventi esteriori, sono incapaci di arrivare al cuore della realtà.
Questi sono gli atteggiamenti che colui il quale inizia la via della conoscenza di Gesù è chiamato a superare. E non dimentichiamo che le spine delle continue preoccupazioni - merimnai, come dice il testo greco - cioè delle angustie del momento presente, possono operare in qualunque situazione, in qualunque momento, anche quando si è molto avanti nella vita dello spirito e della conoscenza di Cristo.
L'accumularsi di preoccupazioni esteriori è il più grave pericolo nel quale possiamo incorrere, perché può veramente, ad ogni momento, soffocare ed ottundere lo spirito.
Un altro atteggiamento riprovato dal Signore lo trovo nel medesimo capitolo quarto: «Guardate ciò che ascoltate. Con quella misura con cui misurate sarà misurato a voi e vi sarà dato» (4, 24). È l'atteggiamento del cuore angusto, del cuore che non si apre; dà poco e allora poco riceve; del cuore che chiede al Vangelo quel tanto che basta e quindi riceve molto poco. Un chiudersi nel proprio limite, che qualche volta può diventare regola di vita: fare il meno possibile, accontentarsi di tutto ciò che ci mette al riparo dal troppo impegno, dalle esigenze di Dio; scegliere la mediocrità che conduce ad un vicolo cieco.
Un'ultima serie di rimproveri, di atteggiamenti da evitare perché rendono incapaci di conoscere il mistero, l'abbiamo infine nel capitolo settimo che è una piccola somma della catechesi morale della Chiesa primitiva: «... È dall'interno, cioè dal cuore degli uomini, che escono i pensieri cattivi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivie, occhio cattivo, maldicenze, credere di essere qualcosa, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono dall'interno e contaminano l'uomo» (7, 21-23). Questi versetti enumerano molti vizi e peccati.
Innanzitutto c'è l'affermazione evangelica fondamentale: è dall'uomo, dal suo interno che queste cose nascono e, di conseguenza, è soprattutto l'interno che occorre rinnovare; il problema non è solo della società, della struttura, del sistema, ma del cuore dell'uomo da cui tutto procede.
In secondo luogo va notato che oltre i peccati grossolani che parrebbero riguardare un peccatore che vuole convertirsi e non noi, ci sono degli atteggiamenti raffinati che vale la pena di considerare. C'è ad esempio, quello che viene chiamato l'occhio cattivo (ophtalmos poneros). Non è facile, a prima lettura, dire cosa si intende con occhio cattivo. Ma anche Matteo nella parabola dei lavoratori della vigna parla di occhio cattivo: «Non mi è permesso di fare ciò che voglio del mio? Ovvero l'occhio tuo è cattivo perché io sono buono? » (Mt 20,15). Possiamo forse concludere che venga stigmatizzato un atteggiamento di invidia e quasi di critica dei disegni di Dio.
Noi ci affatichiamo tanto e poi Dio, al di fuori di ciò che noi abbiamo fatto, opera cose migliori e più belle; per esempio: nei protestanti e nei pagani. Questo talora ci sconcerta, e suscita in noi un senso di smarrimento davanti al mistero di Dio: 'Ma come, noi abbiamo tanto lavorato, operato e forse le persone migliori ci sono sfuggite! '.
Un ulteriore atteggiamento da respingere è indicato nella stoltezza (aphrosyne): è l'ultimo della serie precedente che, come abbiamo detto, costituisce una sorta di summula del catecumeno. Ci sono tanti modi di stoltezza, ma ci sembra di coglierne due che sono specificamente enunciati in due passi del Vangelo di Luca.
Al capitolo undicesimo, sono chiamati 'stolti' i farisei che purificano l'esterno del bicchiere e non si curano dell'interno che è pieno di furto e di cattiveria: «Stolti! Colui che ha fatto l'esterno non ha fatto anche l'interno? » (Le 11, 40). Stoltezza, in questo caso, è ogni incoerenza che si preoccupa degli atteggiamenti esteriori, che potendo essere visti, mettono in cattiva luce; mentre non ci si preoccupa degli atteggiamenti interiori.
Essa è una situazione nella quale è possibile essere coinvolti, perché è facile ritenere importanti quelle cose di cui tutti si preoccupano, e invece trascurare quelle cose che sono poco pubblicizzate o reclamizzate, ma che, davanti a Dio sono più serie e gravi.
Un'altra stoltezza (aphrosyne) la troviamo rimproverata al capitolo dodicesimo di Luca, al termine della parabola del ricco stolto, il quale, avendo un grande raccolto, pensa di organizzarsi costruendo un granaio. Il Signore gli dice: «Stolto (aphron)! questa notte chiedono da te la tua anima! » (Le 12, 20).
Viene qui stigmatizzato l'atteggiamento del dare troppa importanza alle cose esteriori. Ognuno di noi deve, nella vita realizzare delle cose esteriori: fare, costruire, amministrare... Bisognerebbe - ci dice il Vangelo - compiere tutte queste cose con l'indice o col dito mignolo della mano sinistra; perché anche se esse coinvolgono responsabilità, impegni, persone, il Regno di Dio è la cosa più importante. Tutto il resto vale ed aiuta, ma può esserci o non esserci; oggi c'è e domani viene distrutto. Basta un niente per dissolvere un'opera esteriore; invece ciò che conta è l'interiore adesione al Regno. .
Ancora un'indicazione, nella medesima serie, è la hyperephania: cioè quell'atteggiamento che - ci dice la Madonna nel Magnificat (Lc 1, 51) - Dio ha respinto: il credere di essere qualcuno. L'atteggiamento di superbia, che impedisce la conoscenza del Regno e rende ottusi alla intuizione della verità profonda del Vangelo.
Abbiamo delineato, attraverso sei testi di Marco, un quadro del come il catecumeno - nella Chiesa primitiva - veniva esortato ad esaminarsi, a confrontarsi con la sua realtà di peccato, per comprendere le radici della sua ignoranza del Regno. A questa ignoranza, riconosciuta ed umilmente accettata e confessata, Gesù porta una notizia buona e strabiliante. Tale lieto annunzio - ci dice Marco nei primi due capitoli - è soprattutto rivolto ai malati; a quelli, cioè, che si riconoscono affetti, in un modo o nell'altro, da qualunque di queste debolezze., Condizione essenziale, quindi, per riceverlo, è riconoscersi coinvolti in qualcuna di queste difficoltà. Altrimenti non si può essere in grado di ascoltare il Vangelo. Gesù dice: «Non hanno bisogno del medico i sani, ma quelli che stanno male; non vengo a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Me 2, 17).
Mentre da una parte questa situazione di ignoranza, di incompiutezza e di inadeguatezza del discepolo gli impedisce di capire il mistero del Regno, dall'altra parte il riconoscerla umilmente gli permette di ascoltare la parola del medico Gesù.
Il male ha dunque il rimedio. Il riconoscersi bisognosi è già passo necéssario verso la Parola. Nella prospettiva dell'educazione del catecumeno si comprendono, quindi, i primi due capitoli di Marco che mostrano Gesù abbondantemente occupato con i malati. Gesù il grande medico, Gesù che non trascura nessuna malattia, che non rifugge di fronte ad alcun limite dell'uomo. Questi versetti dovevano riempire di consolazione il catecumeno incerto e titubante dal momento che rivelavano la figura di Gesù-medico-universale, pronto a venire incontro a qualunque genere di malattia, di oppressione, di difficoltà. Marco dice: è venuto proprio per questo.
Si attua già qui il primo incontro tra il catecumeno che si riconosce ignorante e distante dal Regno e la figura di Gesù medico, il quale non gli dice ancora cosa dovrà fare, ma gli annunzia che è venuto proprio per guarirlo. Il confronto fra il catecumeno e il suo Signore prelude all'intimità della chiamata di Gesù.


Terza meditazione
La chiamata di Gesù
Nella precedente meditazione abbiamo detto che il confronto tra il catecumeno, che si riconosce ignorante e bisognoso, col suo Signore, prelude all'intimità della chiamata ai Gesù.
Considereremo, in questa meditazione, le chiamate che Marco pone al cap. 1, 16-20, al cap. 2, 13-14 e al cap. 3, 13-19. Presentiamo questi passi nella prospettiva teologica del Vangelo marciano. Marco ha, infatti, voluto non soltanto tramandare i fatti di Gesù, ma presentarli in una cornice accurata e teologicamente elaborata, in maniera da dare un 'senso profondo ad ogni parola e ad ogni inserto redazionale
Vi sono studi molto recenti sulla struttura del Vangelo di Marco e sul posto che in esso hanno le chiamate, e in particolare, quelle dei Dodici. Mi riferirò qui agli ultimi quattro lavori più importanti in materia:
due in lingua inglese e due in lingua tedesca. Considereremo i testi dividendoli in due parti chiaramente distinte dallo stesso Marco:
a) La prima parte, che comprende i primi due testi, la chiameremo: le vocazioni presso il lago.
b) La seconda parte, con il testo del capitolo terzo, sarà intitolata: la vocazione sul monte.
a) Le vocazioni presso il lago
Esse si pongono i seguenti interrogativi: 1) Dove avvengono queste chiamate? 2) In quale situazione Gesù chiama? 3) Come chiama Gesù? 4) A cosa chiama? 5) Con quale risultato chiama?
1) Dove avvengono queste chiamate?
Presso il lago. Marco insiste chiaramente su questo particolare che ripete ben tre volte. « Passando presso il mare di Galilea, vide Simone ed Andrea» (1, 16); la stessa connotazione di luogo è ripetuta per la chiamata di Giacomo e Giovanni: «andato un poco oltre» (1, 18). La medesima situazione locale la troviamo nel capitolo secondo: «Gesù uscì di nuovo presso il lago» (2, 13); « facendo strada (in greco, il verbo è paragon, come in 1, 16) vide Levi di Alfeo seduto al banco delle imposte» (2, 14).
Cosa vuol dire il « lago» nella presentazione di Marco? Il lago è il luogo nel quale vive la gente di Galilea e vi lavora: Gesù cerca e trova la gente nella propria situazione. Marco ci presenta Gesù che va per le strade del mondo a cercare la gente là dov'è.
2) In quale situazione Gesù chiama?
L'evangelista precisa con insistenza: al proprio posto di lavoro. Per ciascuno, la medesima circostanza: «Li vide mentre gettavano le reti in mare: infatti erano pescatori» (1, 16). Sono dunque presso il lago, al loro mestiere. 10 stesso, per Giacomo e Giovanni: «sulla barca li vide mentre riassettavano le reti» (1, 19). Quindi non soltanto sono pescatori, ma stanno pescando, oppure si accingono a farlo, preparandosi alla pesca. È interessante quell'insistere che sono lì e stanno facendo il loro lavoro di ogni giorno.
La stessa precisazione al capitolo secondo: «Facendo strada presso il lago vede Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte» (2, 14); quindi non soltanto si parla del suo mestiere, è gabelliere, ma è seduto lì al banco delle imposte, al suo lavoro di ogni giorno.
Che cosa vuol dire Marco? Che Gesù chiama la gente a seguirlo là dove si trova, nella propria situazione concreta. Va a porgere a ciascuno il suo invito là dove egli è, in una situazione comune, onesta e onorata come quella dei pescatori, oppure in una situazione disonorata e moralmente difficile come quella del Gabelliere. Gesù va dall'uno e dall'atro e li chiama.
In questa situazione il catecumeno riconosce la sua chiamata che a lui - come a ciascuno di noi - è
stata rivolta là dove egli era: in una situazione geografica, ambientale, familiare, sociale, caratteriale, diversa. Dio ci ha incontrati e chiamati là dove eravamo, invitandoci alla fede e alla sequela del Cristo.
La chiamata, quindi, viene offerta a ciascun uomo là dove egli si trova, nella propria situazione.
3) Come chiama Gesù?
Viene sottolineato l'aspetto personale: attraverso un colloquio familiare. Vede Simone e Andrea, si avvicina loro, parla e li chiama. Vede Giacomo e Giovanni, si avvicina loro familiarmente, parla e li chiama. Vede Levi di Alfeo e anche a lui, singolarmente, si presenta, parla e lo chiama.
Gesù si avvicina ad ogni uomo e, là dove egli è, gli fa ascoltare quella parola di speranza e di fiducia che è la chiamata a seguirlo.
4) A che cosa chiama?
Questo non viene specificato se non in maniera generica, ma al tempo stesso globale: a seguirlo. « Venite dietro a me (déute opiso mou) » (1, 17); oppure: «Seguimi (akoluthei moi) » (2, 14). Cioè chiama ad andare dietro a lui, a percorrere la sua via, e quindi chiede soprattutto un'immensa fiducia in Lui. C'è, in verità, una frase misteriosa: «Vi farò pescatori di uomini» (1,17), ma rimane avvolta nel mistero del futuro. Ora. bisogna fidarsi totalmente di Lui. Cosi l'istruzione catecumenale della Chiesa primitiva leggeva l'abbandono fiducioso a Gesù, necessario per percorrere la via verso la conoscenza del mistero. Il catecumeno ha visto qualcosa di Gesù, della. sua Chiesa, ha sentito un'attrazione e deve decidersi a impegnarsi, altrimenti non potrà arrivare a percorrere il cammino. Fiducia totale, donazione completa alla persona di Gesù e non ad una causa. Perché Gesù non dice « vieni a fare una cosa o un'altra », ma abbi fiducia nella mia persona.
5) Con quale risultato Gesù chiama?
Marco sottolinea la subitaneità, l'urgenza della risposta; tutti acconsentono subito: in 1,18; in 1,20; in 2, 14.
Questa prima serie di chiamate invita ognuno di noi a prendere coscienza di quanto la nostra vita sia stata trasformata dalla chiamata di Gesù. Essa è, per il catecumeno e per voi, la vocazione battesimale: chiamata fondamentale nella quale si radica ogni altra, e che ci ha messo in una via che è la via cristiana; itinerario globale, abbracciante tutta quanta la nostra esistenza e sempre legato alla persona di Gesù che seguiamo. Invita ognuno di noi a prendere coscienza, con riconoscenza, di quanto la nostra vita dipenda dal nome personale che Gesù, nella sua infinita bontà, recando verso di noi la misericordia di Dio e facendola divenire Corpo e Parola, ha voluto pronunciare su ciascuno di noi.
b) La vocazione sul monte
Vediamo ora, invece, il secondo tipo di chiamata, quello che abbiamo definito chiamata sul monte.
In Marco 3, 13-19, il testo si fa estremamente più denso e più ricco. Vedremo, prima di tutto, il testo stesso che Marco stacca da ciò che precede e da ciò che segue, perché sia maggiormente evidenziato; vedremo poi lo sfondo su cui avviene la chiamata, il luogo dove avviene, cioè il monte, e infine le varie parole, prese una per una, cioè:
- «Gesù chiama a sé
- quelli che voleva
- e andarono presso di Lui
- e fece Dodici
- affinché siano con Lui
- per mandarli a predicare
- e avere il potere di cacciare i demoni» (3, 13-15).
Ogni parola ha un significato molto ricco in tutta la struttura di Marco.
Prima di tutto, il testo è chiaramente distinto almeno scenograficamente, da ciò che precede e da ciò che segue. Esiste, infatti, al v. 13 e al v. 20 un cambio di topografia. Nel v. 13 Gesù sale sul monte; nel v. 20 va verso una casa. Il soggetto è sempre Gesù, il quale è al centro di tutto questo quadro. Viene enucleato, quindi, un luogo distinto da tutto il resto, in cui Gesù sta per compiere qualcosa di speciale.
Qual è lo sfondo ambientale nel quale avviene l'azione descritta nei vv. 13-19? Esso è descritto nei versetti precedenti, soprattutto in 3, 7-12. Non è più come nelle chiamate presso il lago -la vita quotidiana con la gente al proprio posto di lavoro, ma l'immensa moltitudine dei bisognosi; potremmo dire, il dolorante spettacolo ecclesiale del popolo che accorre a Gesù. Tutt'altra situazione della precedente. Prima un incontro in un ambiente limitato; adesso è ormai tutta una moltitudine che ha sete e fame della Parola di Gesù, della sua persona, ed è piena di ansia, brucia dal desiderio di essere salvata da Lui.
Marco, di solito così conciso, sa descrivere tutto questo in maniera mirabile: «... Molta gente dalla Galilea lo seguì. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea, dall'oltre Giordano, dai dintorni di Tiro e Sidone, una moltitudine grande, udito quanto Egli faceva, venne a Lui. Perciò egli disse ai suoi discepoli di tenergli sempre vicina una barca, a causa della folla, per non restarne schiacciato. Poiché, avendone guariti molti, tutti quelli che avevano malanni, gli si gettavano addosso per toccarlo. E gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si prostravano innanzi e gli gridavano: Tu sei il Figlio di Dio! Ma egli severamente imponeva loro di non manifestare chi egli fosse» (3, 7-12).
È messo in rilievo il premere dell'umanità dolorante, in tutte le sue miserie, da ogni parte e non soltanto dalla Galilea e dalla Giudea, verso Gesù. È un grandioso scenario di convergenza dell'uomo verso la persona di Gesù che parla.
In questo sfondo ecclesiale e che potremmo definire redentivo, Gesù sale sul monte. Che cosa significa salire su questo monte, con cui comincia l'azione che ci accingiamo a contemplare? Non è facile determinarlo. I lavori recenti di cui ho parlato cercano di studiare il significato che può avere questo accenno. Sappiamo che nell' Antico Testamento salire significa solitudine, separarsi dal resto, speciale momento di preghiera. In questo senso Luca parla di Gesù che si separa e sale sul monte a pregare. Con Marco siamo però davanti a un quadro diverso. A leggerlo bene vediamo che non c'è, nella sua mente, un Gesù che lascia tutta questa gente con le loro miserie e se ne va in solitudine. Gesù è, invece, presso il lago, e vicino al lago ci sono - lo si vede anche oggi ~ delle piccole alture o colline. Egli, lentamente, va verso una di esse mentre la gente lo segue, poi, da quella posizione elevata, comincia a gridare, a chiamare per nome. Quindi, la sua, è una vera scelta ecclesiale, in un certo senso. Dalla massa di persone che lo seguono, Gesù, sovrastandola, chiama misteriosamente e solennemente alcuni. Certamente questo salire sul monte dà un rilievo al gesto di Gesù, che forse può avere anche altri significati teologici; ma il più evidente è quello che abbiamo descritto. Marco ci presenta chiaramente una scena solenne in cui Gesù, senza separarsi dalla folla, e tuttavia distanziandosene in qualche maniera, quasi per provvedere meglio ad essa, abbracciandola, con uno sguardo, chiama i dodici. Egli non sceglie i suoi nella solitudine; li sceglie nel pieno della sua attività, tra la folla che cerca aiuto presso di lui. Il senso apostolico ed ecclesiale di tale scelta è quindi evidenziato dal modo stesso della descrizione.
Gesù sale sul monte e « chiama (proskaléitai) quelli che voleva (éthelen) e andarono (apélthon) da lui ». Tre tempi diversi: presente, imperfetto e aoristo. Il presente: Gesù chiama. È un verbo tipico di Marco, il quale lo usa 9 volte (in Giovanni non appare mai). Marco, tuttavia, lo usa generalmente come principio, mentre qui al cap. 6, 7 è usato nella forma finita; cioè, come verbo che descrive un'azione. È riservato, cioè, a descrivere l'azione di Gesù nei riguardi dei Dodici.
Dal punto di vista esteriore, qual è il contenuto di tale verbo? L'azione è descritta nel modo seguente; nella folla immensa, nella quale ci sono malati, storpi, gente che urla, Gesù grida ad alta voce i dodici nomi, fa segno e questi si staccano dagli altri, venendo verso di Lui. Esteriormente è uno scandire con solennità alcuni nomi. Ma dal punto di vista degli atteggiamenti, questo verbo contiene chiaramente l'idea di subordinazione. Chiama in questo modo chi ha potere su di un altro. Un caso tipico in cui il verbo è presente in Marco con questa sfumatura, lo troviamo in 15, 44, dove Pilato si meravigliò e « chiamato il centurione ...» ecc.; cioè il superiore che chiama a rapporto presso di sé un inferiore. Probabilmente oltre all'idea di subordinazione c'è anche l'idea di preferenza; uno speciale rapporto con Gesù insito in questo chiamare che sceglie. La preferenza è comunque chiarissima nel versetto seguente: «Quelli che voleva Lui»; qui si esprime la sovranità della chiamata. Anzi, a questo « voleva» non deve forse attribuirsi tanto l'idea di «quelli che a Lui piaceva », di « quelli che gli erano venuti in mente », ma piuttosto l'idea del verbo ebraico « quelli che lui aveva. in cuore ». Il paragone migliore lo trovo in Matteo 27, 43, che cita un passo dell'Antico Testamento, il Salmo 22, 9. Lanciando delle invettive contro Gesù in croce, la folla grida: «Ha avuto fiducia in Dio! Lo salvi ora, se lo ha in cuore (ei thélei; lo stesso verbo di 3, 13: éthelen).
Gesù quindi chiama quelli che vuole, che ha in cuore, che ha prediletto. L'insistenza è poi espressa di nuovo nell'autos: quelli che voleva Lui. L'autos non era necessario dal punto di vista grammaticale perché la frase è ugualmente chiara, ma insistendo con il « che voleva Lui» si sottolinea che non c'è nessuna qualità, nessuna bellezza o attrattiva da parte di chi è chiamato, ma è Lui che li ha in cuore e li sceglie. È questo suo amore il movente delle sue azioni. Forse si può leggere un'altra sfumatura nell'imperfetto « che voleva », « che portava in cuore» ed è l'intensità dell'affetto. La medesima sfumatura dell'imperfetto l'abbiamo in un caso del tutto opposto, al cap. 6, 19: «Erodiade ce l'aveva contro Giovanni e voleva ucciderlo (éthelen) »; cioè, covava nel cuore questo desiderio da tempo, con intensità di passione. Qui, l'opposto, Gesù ha nel cuore i suoi, con amore appassionato. Lui stesso quindi, li chiama.
Ed ecco la risposta: «Andarono presso (pros) di Lui ». Marco, qui, non usa il frasario delle prime chiamate: '« Lo seguirono »; cioè, il Maestro va avanti e il discepolo, il cristiano lo segue. Non dice « andarono dietro a Lui », o « lo seguirono », ma andarono « presso di Lui », intorno a Lui. È raro questo uso di pros con il verbo di moto. Di solito si usa eis per descrivere l'andare ad un luogo. Si usa pros soltanto per le persone, ad indicare una intimità che si viene a creare.
Pros auton vuol dire, di fatto, mettersi dalla parte di uno, non soltanto andare fisicamente verso, ma stare con qualcuno. Per questo Marco dice: «vennero» (apélthon). Il verbo greco venire, preceduto da apo, indica il lasciare una certa posizione per andare ad un'altra. Gli apostoli lasciano la loro posizione comune, in mezzo alla gente, per mettersi strettamente dalla parte di Gesù, insieme con Lui.
È interessante notare che qui Marco non ha usato un verbo indicante un atteggiamento interiore, per esempio « gli obbedirono », ma invece usa « si mossero », lasciarono il loro posto e vennero là dove era Lui. In tutta la descrizione noteremo questo aspetto di concretezza: non si parla soltanto di una adesione interna, ma proprio del mettersi nella situazione dove Gesù si trova.
Il v. 14 comprende la frase « E fece Dodici »; frase molto strana anche in greco, con l'inciso « Che chiamò apostoli », inciso non riportato da tutti i codici. Segue poi: «Affinché siano con Lui per mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni».
Già nella traduzione è evidente la durezza del susseguirsi ed accumularsi di queste frasi, ciascuna delle quali ha un senso pregnante.
« Fece Dodici ». Il significato è certamente forte perché può voler dire: «Ne stabilì Dodici ». Alcuni esegeti addirittura intendono: «Ne creò Dodici »; quasi che, con questi dodici, si ricreasse un popolo. Certaménte non è bene premere troppo il testo, ma il verbo si presta ad un significato densissimo.
Qual è, infatti, la finalità del ' fare Dodici '? Esso contiene due verbi:
a) «Affinché siano con Lui », e questo è al centro della scelta, dell'affermazione, della volontà di Gesù. Cosa vuol significare questo stare con Lui? Intanto è sorprendente che lo scopo di tutta questa grande scena sia che i Dodici stiano con Lui: ma proprio Il è posto l'accento di tutto il brano.
Stiano con Lui, prima di tutto con una presenza fisica, e quindi lo accompagnino. Notiamo che, quando durante la Passione la portinaia di Caifa si rivolge a Pietro per accusarlo, non dice: «Tu eri un discepolo », ma « Anche tu eri con Gesù» (14, 67). Si vede quindi che la caratteristica di questi uomini non era tanto quella di essere della gente che aderiva intellettualmente, ma che stava fisicamente sempre con Lui.
Questo stare è la prima cosa alla quale Gesù chiama, e in questo essere con Lui possiamo leggere forge anche di più se ricordiamo che questa è la formula tipica dell'alleanza: «Dio con noi e noi con Lui». Si realizza in questa semplice convivenza, il popolo della nuova alleanza, espressa da «Dio con noi e noi con Lui». Notiamo infine che il verbo al congiuntivo (hina osin) indica proprio la stabilità: affinché stessero stabilmente con Lui. E quindi: non perché fossero suoi discepoli, perché lo accogliessero, lo accettassero, gli ubbidissero. Prima di tutto, invece, è sottolineato lo stare fisico che è esso stesso oggetto di chiamata, di scelta, di elezione.
Dall'esser con Lui deriva poi l'altro verbo per il quale « Fece Dodici»:
b) mandarli a predicare. Notiamo che anche qui non si dice: stiano con lui e predichino, ma viene affermato che è Lui che li manda a predicare. In altri termini è sempre presente, nel rapporto tra Cristo e i suoi, l'iniziativa di Gesù.
San Paolo in Rm 10, 15 mette quasi in rapporto tecnico, nei riguardi della predicazione, il « mandare a predicare ». È dunque Gesù che li .manda a predicare, a proclamare, a gridare. Predicare che cosa? È ciò che verrà spiegato in tutto il Vangelo di Marco. Possiamo anticiparlo dicendo: predicare Lui, il mistero del Regno, il Cristo. Allora si comprende perché sono con Lui:. stanno con Lui perché devono testimoniare di Lui. Non sono con Lui perché debbono essere istruiti e poi mandati a ripetere, ma perché lo conoscano intimamente in una comunione di vita e poi lo testimonino.
Vediamo quanto il senso dell'apostolato come testimonianza personale sia fortemente sottolineato.
L'altra realtà che scaturisce da questo essere con Lui è l'avere potere di cacciare i demoni. Non si dice di cacciarli, ma avere il potere di farlo. Anche qui le parole sono pregnanti. Per esempio il termine exousian, in Marco, è usato solo per Gesù e per i Dodici. Soltanto Gesù e i Dodici hanno il potere per eccellenza. In Marco 1, 22 si dice che quello del Cristo è un insegnamento nuovo con potenza. La frase « cacciare i demoni» ha, per Marco, una grande importanza perché indica, attraverso gli esorcismi e ciò che essi significano, la lotta che Gesù conduce contro il male; quindi, la sintesi dell'opera di Gesù, alla quale Egli associa i suoi. La medesima parola ritorna al cap. 6, 7 quando Gesù manda i suoi in missione. Essa è perciò strettamente legata alla predicazione. Ciò vuol dire che, secondo tale concezione, predicazione e lotta contro il male sono strettamente unite. Non si tratta di una predicazione astratta e poi di un'azione benefica, ma di una predicazione che si attua con potenza (cfr. Mc 1, 22).
Desidero concludere questa meditazione con un'ultima osservazione: cosa devono. fare i Dodici in Mc 3, 14-15? Devono predicare e cacciare i demoni. Come sarà descritta la loro azione in Mc 6, 12-13? Che hanno predicato e cacciato i demoni.
In sostanza: che cosa sono i discepoli? Sono Gesù stesso che prolunga la sua azione. Non soltanto i ripetitori di ciò che hanno udito, ma sono l'azione di Gesù che si allarga e si prolunga. Ancora una volta comprendiamo l'importanza dell'essere con Gesù, non tanto per imitare qualche parola o coglierne qualche frase, ma per identificarsi con il suo modo di vivete, di agire, per testimoniarlo e ripeterlo alla stessa maniera.
Ecco come Gesù ha preparato i suoi e come prepara tutti coloro che nella Chiesa sono chiamati ad essere in permanenza con il Signore.


Quarta meditazione
La crisi del ministero galilaico di Gesù
(Le parabole del seme)
In questa meditazione vogliamo riflettere sul cap. quarto di Marco, detto il « capitolo delle parabole ». Esso ne comprende principalmente tre:
1) La parabola del seminatore, con la spiegazione che segue;
2) La parabola del seme che cresce da solo;
3) La parabola del grano di senape.
Questi sembrano essere i tre elementi costituenti la più antica unità letteraria da cui si è sviluppato il cap. 4. In seguito sono state aggiunte altre due brevi parabole - quella della lucerna sotto il moggio e quella della misura -. evidentemente per raggrupparle tutte insieme.
Ci chiediamo: lungo l'itinerario dei Dodici con Gesù, a quale momento corrisponde l'insegnamento delle parabole? A quale problema intende venire incontro? Quale momento del cammino degli apostoli con il Signore, viene a segnare?
Sembra molto probabile che gli insegnamenti delle parabole del cap. 4 corrispondano ad un momento di crisi del ministero di Gesù. Occorre quindi:
A) prima di tutto, e brevemente, analizzare la crisi del ministero di Gesù ;"
B) vedere, poi, come essa si rifletta, e continui ad operare nella crisi del catecumeno che, nella Chiesa primitiva, legge questo Vangelo;
C) considerare come questa crisi può rispecchiarsi in noi;
D) infine, vedere in qual modo le parabole intendono dare un insegnamento e venire incontro a tale momento di crisi, momento necessario per la formazione dei Dodici nella sequela di Gesù.
a) Crisi del ministero galilaico di Gesù
Gli esegeti sono d'accordo nel ritenere che, dopo i primi momenti di successo, c'è stato nel ministero di Gesù un momento di crescente difficoltà. Questa difficoltà è accennata in varie parti di Marco. Dapprima si tratta di una difficoltà di rapporti con i suoi compaesani, annunciata in Me 6, 3ss, dove Gesù è respinto dai Nazaretani che si scandalizzano di Lui. Poi la cosa si allarga; non vale soltanto per Nazareth. Ad un certo momento Gesù è indotto a reazioni come questa: «... gemendo nel suo spirito disse: Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico che non le sarà dato nessun segno ... e se ne andò al di là del lago » (8, 12).
È chiaramente un momento di urto, quasi di ira del Cristo che non viene capito. Il suo messaggio non viene accolto e Gesù addirittura se ne va, si allontana.
Del resto neppure gli stessi apostoli lo capiscono a fondo e pochi versetti dopo, in un brano che abbiamo già letto, Gesù può ripetere amaramente: «Ma non capite, non intendete, siete accecati? Non avete più nella mente quando spezzai 5 pani per i cinquemila uomini, quante ceste piene di pezzi ne portaste via? '" ancora non intendete? » (8, 17-21).
Ciò vuol dire che Gesù non passa di trionfo in trionfo, ma piuttosto, dopo la prima grande ondata di entusiasmo, che è notata espressamente in 3, 7 dove si parla di « molta folla», di una grande massa di gente, gradualmente questo entusiasmo va calando per vari motivi.
Intanto è chiaro, da diverse espressioni di Gesù, che parecchia gente che lo segue non è della qualità che Gesù vuole; è gente che va dietro per motivi esteriori e non sa vedere in fondo alle cose. Questo spiega l'insistenza di Gesù: «Chi ha orecchi per intendere ascolti» (4, 9); perché è gente çhe non sa capire bene, è gente che vede e non intende, ascolta e non comprende e quindi non si converte e non viene perdonata. .
Gesù fatica a far capire il suo messaggio; la gente viene attirata all'inizio dai segni strepitosi, ma poi, quando si tratta di venire al dunque, parecchi si tirano indietro. Abbiamo così altre affermazioni - in capitoli seguenti - abbastanza negative e pessimistiche:
« ... questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me » (7, 6).
Affermazioni più ampie, che si riferiscono a molti altri uditori, le abbiamo in 9, 19: «O generazioni incredule! Fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? ». Esse indicano che Gesù, nel suo ministero, non aveva sempre consolazioni. 
Oppure la dura rampogna di 8, 38: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui ... ».
Assistiamo, dunque, a partire dalla une del cap. 3 di Marco, ad un declino del prestigio personale di Gesù. Egli viene gradualmente contestato e respinto, e già anzi in 3, 6 si comincia a volerlo togliere di mezzo. L'opposizione parte dai Farisei, ma poi si allarga alla gente semplice sino a diventare opposizione completa. Nella parabola dei vignaioli – Marco 12,1 ° - Gesù parla ormai di sé come della pietra che è respinta dai costruttori. Egli sente che la sua vita si avvia a terminare in un insuccesso, che essa viene rifiutata e respinta. Il rifiuto sarà gridato in 15, 14, quando Pilato chiederà cosa ha fatto di male, e la gente urlerà sempre più forte: crocifiggilo!
Il Vangelo di Marco, quindi, non tace per nulla che la via di Gesù, dopo un primo momento di entusiasmo e di successo, ha dovuto contrastare con una diffidenza crescente, con il distacco e l'allontanamento di parecchi, sempre più numerosi, sino ad essere completamente respinto dalla maggioranza della sua gente.
Tale esperienza i Dodici la condividono a partire dal giorno in cui, con entusiasmo, solenne, sono stati chiamati dalla folla per seguire Gesù. Essa si ripercuote nel Vangelo: anch'essi partecipano in maniera dolorosa alla crisi del ministero di Gesù. Quando Pietro, per esempio, in 8, 32 incomincia a rimproverare il Signore, mostra di soffrire veramente perché non può, non riesce a capire il senso delle cose che accadono, e lo fa presentando lui e tutti gli altri apostoli quasi dicessero: Ma così non va, non ti abbiamo seguito per questo, era altra la realtà che ci promettevi o almeno che sembravi promettere. Lo stesso sgomento si ritrova in 9, 32, quando Gesù parla della sua prossima Passione ed essi non capiscono nulla di quel discorso e hanno paura di interrogarlo.
Analogamente in lO, 32, quando Gesù: precedendoli va verso Gerusalemme. Essi. «Di ciò si meravigliano e avevano paura». Appare quindi chiaro che anche gli apostoli sono presi da un senso di sgomento e di disagio; stanno ancora con Lui, ma si domandano perché le cose vanno così, cosa sta succedendo; non si aspettavano questo.
b) La crisi del catecumeno nella Chiesa primitiva
Il catecumeno che legge questo Vangelo e trova in esso descritta la via che lo attende nella sequela del Signore, come sente in sé ripercossa la crisi che si è verificata nel ministero galilaico di Gesù?
Diciamo subito che anche il catecumeno, nella Chiesa primitiva, dopo aver risposto generosamete alla prima chiamata, analoga alla chiamata presso il lago, attraversa la sua crisi; crisi necessaria.
Quali sono le cause che creano la crisi del catecumeno, dopo il primo momento di entusiasmo? Possiamo immaginario facilmente pensando alla situazione del catecumeno che dal mondo pagano, ricco di tutta una sua tradizione, di una sua cultura, di una struttura sociale ben compaginata, entra nel piccolo gregge dei credenti in Cristo e si domanda: perché così pochi credono e si convertono? Perché questa parola di Dio - se è veramente parola di Dio - non travolge il mondo, non lo cambia in un baleno?
C'è poi la domanda che si ponevano con più dolore, amarezza e sgomento gli ebrei convertiti: perché il popolo non ha accettato la Parola? Perché non c'è una conversione in massa come ci aspettavamo dalle promesse? È il problema che angosciava anche san Paolo, il quale era continuamente tentato e agitato da questo pensiero: ma perché la parola di Dio se è parola di Dio - non cambia, non converte il cuore di tutto il popolo?
E per i giudei e per i pagani insieme, altri problemi che affiorano nelle lettere di Paolo: Perché un Messia crocifisso? Perché un messaggio così oscuro, così dolorante, così diverso da quello offerto dal nostro ambiente?
Vediamo quindi come, nella Chiesa primitiva, il catecumeno - dopo aver acconsentito alla sequela di Gesù - passa anch'egli attraverso una prova di fede, analoga a quella per la quale è passato Gesù stesso e sono passati gli apostoli. Essa consiste fondamentalmente nel domandarsi: ma perché la parola di Dio non sconvolge immediatamente il mondo, non lo trasforma subito?
c) La nostra crisi
Ecco, allora; che in questa luce possiamo riflettere sulle prove della nostra fede, quelle per le quali devono necessariamente passare tutti coloro che presso il lago o sul monte hanno sentito la chiamata e l'hanno ascoltata. Credo che le prove attraversate dalla nostra fede siano analoghe a quelle di Gesù, dei suoi, di coloro che erano con Gesù, dei cristiani primitivi e di tutti coloro che lo seguono.
Le domande che possiamo farei dal punto di vista personale sono: perché Dio non mi fa migliore? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, di impegno, di preghiera, di meditazione, siamo sempre gli stessi, con gli stessi piccoli difetti, con le stesse piccole difficoltà, quasi fossimo agli inizi della vita spirituale?
Perché la parola di Dio non ei ha trasformato?
E poi, guardandoci attorno, ei possiamo chiedere: perché il Vangelo non cambia il mondo? Perché così poco frutto dal mio apostolato? Perché il nostro messaggio non è attraente, non ha un'immediata rispondenza nella gente, in modo da essere subito capito, assimilato e messo in pratica? Perché non c'è corrispondenza immediata tra la parola pastorale bene annunciata e la rispondenza della gente? Perché pastoralmente non è possibile programmare in modo da vedere presto una risposta che ci permetta di fare, in crescendo, un ulteriore programma con nuove risposte sempre migliori?
Altre domande ei vengono poi, in momenti particolari della vita, nei momenti drammatici: perché la sofferenza? Perché questa morte, lo stroncamento di un apostolato che produceva tanto frutto? Perché Dio sembra non aver bisogno di persone all'acme dell'attività e del rendimento?
Tutte situazioni nelle quali possiamo ripetere: Perché il Regno di Dio va così; perché non c'è un'immediata rispondenza tra potenza della Parola e sua attuazione?
Ecco alcune ripercussioni di questa perenne purificazione della fede che si attua nei Dodici, nella Chiesa primitiva e in ciascuno di noi.
d) La risposta in parabole
Vediamo ora, come quarto punto della nostra riflessione, in che modo il capitolo delle parabole risponde a questa situazione di crisi.
Le tre parabole - che hanno come protagonista comune il seme - ci danno, ciascuna con 'un messaggio diverso, la risposta alla domanda fondamentale: perché la parola di Dio non fa frutto subito e non trasforma il mondo, non trasforma gli altri, me stesso, ecc.
* * *
La prima parabola, quella del seminatore, è portatrice, in sostanza, di questo insegnamento: la parola di Dio non fa frutto automaticamente.
La parola di Dio di per sé, è buona e, se presentata bene, farebbe frutto; ma esso non dipende solo dalla parola, dipende anche dalle diverse situazioni del terreno, dalle diverse risposte. Questo è un punto essenziale del mistero del Regno di Dio, il quale non è un mistero da interpretare secondo categorie di efficienza. Si pongono, cioè, in opera un certo numero di mezzi e si ottengono adeguati risultati. Esso è un mistero di dialogo in cui viene fatta una proposta che può essere accettata o trascurata e appena considerata o respinta. È un mistero che gli apostoli sono chiamati a vivere stando con il Signore. Verificare, giorno per giorno, che il Regno di Dio va avanti attraverso questa umile proposta, la quale, proprio perché è proposta, ha in sé insito tutto il rischio della negligenza, trascuranza, non accettazione, opposizione. E gli apostoli devono vivere con Gesù questo mistero dell'umiltà del seme del Regno, il quale, pur essendo parola di Dio, - e quindi la cosa più perfetta, più santa e più strapotente che esista - si adatta ad essere accolta dalle pietre, dalle spine, dal terreno sbagliato e accetta tali situazioni nelle quali non può fare frutto.
Potremmo forse domandarci, con la Chiesa primitiva,. nella spiegazione più ampia della parabola del seminatore, quali sono le situazioni che impediscono di fare frutto.
La parabola ne elenca tre: il seme che viene mangiato dagli uccelli, quello che cade tra le pietre e non ha radici, quello che cade tra le spine e che viene soffocato. Vengono notate le tre grandi difficoltà nelle quali incorre continuamente la predicazione evangelica che, pur essendo santa, buona e presentata pastoralmente bene, spesso non fa frutto.
a) La prima difficoltà - il seme divorato dagli uccelli - viene spiegata con la menzione di satana:
« Subito satana viene e toglie la parola seminata in loro ». Cosa significa questa venuta di satana? Se noi ci riferiamo alla figura di satana, in altri passi di Marco, per es. quando Pietro in 8, 33 viene rimproverato da Gesù, vediamo che satana porta nel cuore l'incomprensione delle vie di Dio. L'incapacità a comprendere la via della croce e, quindi, il desiderio del crescente successo. Il catecumeno, che accetta il cristianesimo come un modo di essere di più, di valere di più, di avere più prestigio, più autorità è come il seme mangiato dagli uccelli. Dovrà accorgersi che la via non è quella, che ha sbagliato strada, e tornare indietro.
b) La seconda difficoltà - il seme senza radici descrive la situazione nella quale la parola è stata accettata solo esteriormente. È stata accolta per un certo gusto estetico della parola stessa, per una certa forma di snobbismo, forse, non è stata accolta con quella profondità di adesione a Cristo, con quell'amore personale per Lui che soltanto permette di conservarla, senza scandalizzarsi di Lui. Questo radicarsi in Cristo (di cui parla san Paolo in Col 2, 7) potrebbe essere il modo con cui la Chiesa primitiva spiegava le sue radici: bisogna essere profondamente radica ti in Lui e nell'amore di Lui per poter fare della ricerca di Lui non la moda del momento, ma un qualcosa di permanente e di profondo, che non tema lo scandalo.
c) La terza difficoltà - il seme soffocato - è di moltissimi. Le preoccupazioni della vita presente, l'attrazione esercitata dall'avere, dal potere, dal possedere. Per moltissimi la preoccupazione del guadagnare è ostacolo alla parola stessa. Tali preoccupazioni della vita presente hanno d'altronde una applicazione molto vasta, se pensiamo che nel rimprovero fatto a Marta, che pure si stava occupando del pasto di Gesù, ritorna la stessa parola: «Marta, ti preoccupi di troppe cose» (Lc 10, 41). Il giudizio, quindi, sull'influsso negativo delle preoccupazioni eccessive - se vogliamo dare veramente senso e valore alle parole usate da Gesù - è molto severo.
In conclusione, la parola non fa frutto automaticamente ma umilmente e, pur essendo divina, si adatta alle condizioni del terreno, o meglio, accetta le risposte che il terreno dà e che spesso -sono negative. Casi Gesù, spiega agli apostoli perché Lui predica e la sua parola non è efficace. Non è, in realtà, inefficace la sua parola, ma è l'accoglienza che manca. Questa parabola vuole essere la giustificazione di Gesù di fronte ai suoi, che vorrebbero un suo maggiore, quasi automatico, successo.
* * *
La seconda parabola - il seme che cresce da solo - è, come spesso avviene nel Vangelo, in certo mqdo il rovescio della precedente. La prima ci ha detto che la parabola non fa frutto da sola; qui, al contrario, si afferma: «spontaneamente» da sola (4, 28).
Vuole dire agli apostoli, che temono perché la parola è respinta, che la parola fa frutto a suo tempo Bisogna avere fiducia, perché la parola seminata va avanti da sola. Buttatela quindi con coraggio, non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della parola. Voi sparge tela e poi andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto.
Mentre la prima parola esprime un insegnamento di realismo, questa ci presenta un insegnamento di fiducia assoluta che la parola, da sola, fruttificherà.
Basta seminarla con coraggio, con pazienza e con perseveranza.
* * *
La terza parabola - quella del granello di senape - è anch'essa adattata a questa situazione.
Gli apostoli che sono attorno a Gesù vedono, ad un certo punto, che il loro gruppo rimane un piccolo gruppo, non si sviluppa, molta gente non prende seriamente il Maestro. Ed egli risponde ai loro muti interrogativi con la parola del grano di senapa, del piccolo seme. Non abbiate paura - dice - il Regno di Dio comincia con poco. Non vogliate pretendere chissà quali risultati; lasciate che le cose si sviluppino gradualmente: da piccoli semi, da invisibili inizi, nascerà il grande successo del Regno di Dio.
Gesù chiede, in sostanza, agli apostoli una cambiale in bianco; chiede fiducia assoluta in Lui: venitemi dietro! Voi vedete che le cose non vanno bene, vi immaginavate di avere un Maestro trascinatore di folle, vedete invece che non lo sono. Questo non dipende da me, dipende dal fatto che il Regno ha la struttura di proposta di una persona ad un'altra persona; però il Regno di Dio è potenza di Dio e quindi si sviluppa certamente. Dal poco, Dio produrrà il molto; dal pochissimo, si svilupperanno cose immense.
Gesù educa i suoi - e la Chiesa primitiva ripete questo insegnamento ai catecumeni - a chiudere gli occhi su ciò che sembra realtà perché si vede e ad aprirli su ciò che è; cioè, sulla realtà misteriosa del Regno di Dio che sta fruttificando silenziosamente, mentre noi non ce ne accorgiamo, e darà frutto a suo tempo.

Quinta meditazione
Gesù in azione
Vogliamo portare la nostra. riflessione su un episodio della vita di Gesù raccontato in Mc 9, 14-29. Esso ci mostra un suo tipico modo di agire, in un momento difficile. Vogliamo, cioè, vedere in questa meditazione, come Gesù parla, come agisce, come si muove, come si comporta, in una parola Gesù in azione.
Mc 9, 14-29 è un episodio lungo, circostanziato, che si riferisce ad un momento storico della vita del Signore.
Perché veniva tramandato nelle comunità primitive con tanta dovizia di particolari? Possiamo azzardare un'ipotesi: perché nella comunità primitiva si praticavano molti esorcismi, alcuni dei quali fallivano. L'episodio del fanciullo indemoniato vuole, allora, venire incontro all'insuccesso, in modo da poter superare lo scandalo degli esorcismi mancati. Esso si propone di far vedere che l'esorcista non dev'essere troppo sicuro di sé, perché anche gli apostoli non sono riusciti; l'esorcista non deve gloriarsi del suo potere perché anche lui è soggetto a mancare, se non possiede le condizioni qui segnalate.
Probabilmente, però, è presente anche qualche elemento che fa pensare ad un riflesso di catechesi battesimale; pare, cioè, che Marco aiuti il catecheta ad indicare alcuni aspetti del battesimo. Possiamo dividere l'episodio in sei parti.
1) Mc 9, 14-16. La scena: è costruita accuratamente. Attraverso una serie di immagini visive. si suscita l'interesse del lettore.
Gesù, dopo la Trasfigurazione, scende dal monte con i tre apostoli, raggiunge gli altri, vede una gran folla, gli scribi che discutono, la gente che alterca e che, al vederlo, corre a salutarlo. Questa confusione indica l'esistenza di un grave problema che interessa tutti. E Gesù interroga gli apostoli: «Di che cosa discutete con loro? ».
2) Mc 9, 17-18. Il caso: viene presentato il problema attraverso la parola del padre del ragazzo:
« Maestro, ti ho condotto il mio figliolo che ha uno spirito muto e, dove l'afferra, lo abbatte; egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho domandato ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti ».
La scena si concretizza, così, in un caso difficile. Difficile per la tragicità, per il ribrezzo, per il disagio che desta, e ancor più difficile perché gli apostoli non sono riusciti a cacciare il demonio. Comincia, in tal modo, tutta una discussione sulla inanità della predicazione apostolica. Il caso è molto serio, se si pensa, inoltre, che Gesù ha scelto i Dodici per essere con Lui, mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni. Essi falliscono quindi nella loro missione essenziale. La loro situazione è drammatica.
3) Mc 9, 19-20. Le reazioni di Gesù. La prima (v. 19), si configura come uno scatto di ira violenta. Essa è veramente grave, perché sembra dire: 'non ne posso più di stare con voi'. Sembra quasi messo in questione il permanere di Gesù fra gli uomini, nel mondo. Se non di tutti, si può dire che Gesù si lamenta almeno del pubblico che lo circonda: 'Non siete degni della mia opera'.
Qual è la causa di questo grido di sdegno, cos1 offensivo per le persone alle quali è diretto? È l'incredulità, la mancanza di fede. La stessa constatazione di ira, stupore e rimprovero l'abbiamo in 6, 6 e in 6, 14. Gesù per tutta la vita, deve affrontare una simile situazione di incredulità. L'uomo che non ha fiducia in Lui, che non si abbandona a Lui e non crede al suo amore. La colpa fondamentale - e la ritroviamo anche negli altri rimproveri di Gesù in Marco - è sempre l'incapacità ad abbandonarsi al suo mistero, quella rigidità che non permette di varcare il confine della fede, della fiducia nel Signore.
La seconda reazione (v. 20), sembra diametralmente opposta: la calma, il sangue freddo di Gesù.
Dalle parole: «Conducetelo a me. E glielo condussero e veduto che ebbe Gesù, lo spirito subito lo fece dare in convulsioni, ed egli cadde a -terra, rotolandosi e spumando», possiamo intuire che Gesù non si scompone, ma domina con distacco la situazione. È importante questo prendere le distanze compiuto dal Cristo! Per Lui non è un atteggiamento passeggero, ma descrive un abituale stato d'animo. Di fronte alla crisi degli apostoli e del malato, innanzitutto Gesù osserva con tranquillità la situazione. Viene in mente quello che Paolo dice in 1 Cor 7, 29-31 quando descrive gli atteggiamenti del distacco cristiano, nelle situazioni difficili. Alla lista di paolo potremmo aggiungere: 'Chi governa, come se non governasse;
chi opera pastoralmente, come se non lo facesse '; cioè, non dobbiamo essere travolti dalla situazione. Dobbiamo imparare a guardarla, a osservarla con distacco.
Come la osserva Gesù? La osserva con Gestalt. Questa parola tedesca, intraducibile, significa: tenere conto di tutto il complesso di una situazione, inserendo ogni elemento - col suo giusto rilievo - nell'insieme. Di qui nasce la constatazione che, di solito, le forme di degradazione psicologica non nascono dal fatto che non si veda bene l'oggetto, ma dal non saperlo inquadrare nella situazione con il dovuto distacco.
Vediamo Gesù che, appunto, applica uno sguardo di Gestalt: di rapporto immagine-sfondo, a tutto ciò che avviene. Egli vede il malato, ma vede -anche il padre, vede gli apostoli, vede la folla e colloca tutto nel quadro della sua missione.
Così lo sguardo di Gesù domina ciò che accade. Non è travolto dal fatto particolare del ragazzo che gli si rotola innanzi, ma tiene conto di tutta la situazione.
Come avviene, concretamente, nella psicologia umana di Gesù, questo distaccarsi dal particolare e la sua capacità di considerarlo nel quadro di insieme? Facciamo attenzione ad una nota finemente psicologica riportata da Marco. Gesù non si occupa del ragazzo, ma del padre; egli passa mentalmente ad un altro aspetto della situazione.
Cosa succede quando noi ci fermiamo a considerare soltanto un aspetto delle cose? Che questo aspetto ingigantisce e ci ipnotizza. La situazione di distacco si ha quando da un particolare si passa ad un suo contrario, o presente o possibile, e quindi si comincia ad allargare il quadro della realtà considerata.
In realtà cosa fa Gesù? Vede il ragazzo che grida, schiuma, si divincola, ma riflette che il vero malato è il padre. Capisce quindi che la via da prendere è un'altra. Attraverso una riflessione attenta e distaccata trova il vero punto d'appoggio che è nuovo, diverso, e a cui nessuno aveva pensato. Gli apostoli si erano messi a gridare, à fare preghiere sul ragazzo, ma avevano cominciato dalla parte sbagliata; erano stati incapaci di vedere una nuova apertura nella situazione.
4) Mc 9, 31-24. Il colloquio. Gesù incomincia, quindi, il colloquio con il padre; un esempio di pastorale dialogica. «Da quanto tempo ciò accade? ». La domanda è molto semplice, quasi banale, ma è fatta con un tono cordiale che manifesta la partecipazione e che quindi scioglie il cuore del padre. Egli è appunto il grande protagonista della situazione, da tutti ignorato.
E vediamo come il cuore del padre si scioglie. Di! una risposta quasi monosillabica: «Dall'infanzia », passa, sentendosi capito, a dire altre cose. Incomincia a descrivere i sintomi del male del figlio, e poi dal suo cuore viene finalmente fuori ciò che è il nocciolo del problema: «Ma se tu puoi aiutaci, mosso a pietà di noi! ».
Siamo così giunti al momento in cui dal semplice rapporto con un ragazzo da guarire si è giunti ad un cuore che chiede, che si volge con umiltà al Signore per invocare aiuto.
Gesù continua il colloquio e corregge, amabilmente, le parole troppo timide del padre, rimandando il gioco a lui: «Hai detto, se posso; ma tutto è possibile a chi crede! ». In altri termini: stai chiedendo qualcosa che devi cominciare a fare tu stesso. Allora il padre comprende e grida: «Credo, aiuta la mia fede! ».
Siamo arrivati al centro, al nodo, al punto veramente difficile della situazione. Gesù, trascurando i dati esteriori della realtà, con gradualità e dolcezza, ha trovato il bandolo della matassa; comincia, cioè, a guarire l'incredulità di quest'uomo. Il grido del padre è molto bello .nella sua semplicità. Dice: «Credo, aiuta la mia poca fede ». Mostra l'apertura, il desiderio di essere aiutato, è un umile atto di fede, e insieme un riconoscimento di essere ancora molto indietro, di avere bisogno di qualcosa d'altro.
Esso è il monito che nella comunità viene ripetuto agli esorcisti imprudenti e spavaldi: 'Attenzione! ci vuole molta fede per operare tali grandi cose; non crediate di essere onnipotenti, ma riconoscete a fondo la vostra debolezza e chiedete aiuto'.
Se l'episodio - nella catechesi della Chiesa primitiva - ha un riflesso primario verso gli esorcisti, ne ha anche uno nei riguardi della catechesi catecumenale. Il catecumeno, infatti, di fronte alle esigenze troppo grandi di Gesù, al mistero del Regno che comincia a vedere in tutta la sua povertà, la sua durezza, la sua aridità quotidiana, è tentato di non farcela più, di bloccarsi. Con questo episodio è invitato, invece, a non spaventarsi della sua paura, ma a manifestarla umilmente al Signore; è invitato a trarre vantaggio anche da questa sua sofferta povertà e debolezza, per farne oggetto di umile preghiera.
5) Mc 9, 25-27. L'esorcismo: esso è un esempio tipico nel suo genere. C'è la menzione dello spirito, la menzione di chi fa l'esorcismo, la menzione del suo potere di comando e la menzione di ciò che si chiede con autorità. Segue il parossismo delle manifestazioni del male nel ragazzo stesso, poi il suo cadere come morto, e, infine, la scena di Gesù che lo rialza guarito.
.In tutto l'episodio, oltre al tema dell'esorcismo propriamente detto, ci sono, forse, anche elementi che davano appigli ad una primitiva catechesi battesimale. Non soltanto nel senso che il battesimo libera l'uomo dal potere di un male che lo rende chiuso agli altri, ma in un senso ancora più specifico.
Al v. 26, infatti, si insiste due volte sul tema della morte: «E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano che era morto »; e subito dopo, al v. 27, vengono usati due classici verbi della risurrezione: «Gesù lo prende con la sua mano, lo rialza e lo fa risorgere ».
È certo che, con l'impiego di questi quattro verbi, due di morte e due di risurrezione (il Cristo morto per i nostri pecca. ti, il Cristo risorto per la nostra giustificazione), la catechesi primitiva spiegava il battesimo come un morire con Cristo, e un risorgere con Lui e per virtù di Lui.
6) Mc 9, 28-29. La conclusione: «Entrato poi in casa, i discepoli gli chiedono: perché noi non siamo riusciti a cacciarlo? Risponde Gesù: questa specie di demoni in nessun modo si può cacciare se non con la preghiera».
Questo insegnamento di Gesù aveva un riflesso molteplice nella catechesi primitiva.
A livello dell'esorcista, era, appunto, l'invito a non presumere di sé, ma a pregare, a riconoscere che il potere è di Dio e non proprio.
A livello del catecumeno, il quale si trovava di fronte a difficoltà apparentemente insormontabili nella sua sequela del Signore, è la via. della croce, era !'invito a pensare che. solo attraverso la preghiera, l'affidarsi totalmente a Lui, il chiedere umilmente a Lui, avrebbe potuto superare le proprie difficoltà.
* * *
L'episodio del ragazzo. indemoniato, quindi, da una parte è qualcosa che riguarda Gesù stesso, presentato in un momento forte della sua vita, mentre agisce con distacco, con semplicità e profondità nello scoprire le cause del male; dall'altra parte è un insegnamento per la chiesa primitiva e per il catecumeno che si è dato alla sequela di Gesù e che viene cosi- a comprendere come è possibile seguirlo con fiducia.
Gesù stesso ci invita a pregarlo per ottenere la forza di fare tutte le cose difficili, per vincere tutte le difficoltà apparentemente insormontabili che ci sono richieste, e ci dice che Egli è venuto per aiutarci a superarle.


Sesta meditazione
Il mistero del figlio dell'uomo
Questa meditazione alla quale diamo come titolo: il mistero del Figlio dell'Uomo, comprende i brani che Marco ci presenta tra il capitolo 8 e il capitolo 10.
Entriamo nel più profondo del mistero del Regno di Dio. Di conseguenza, ancora di più, la comprensione di quanto ora andiamo leggendo, deve avvenire più nella preghiera che non nella considerazione teorica di quello che si ascolta.
In qualche maniera, ciò che ora dobbiamo capire più profondamente è quello che san Paolo desiderava comprendere quando, nella Lettera ai Filippesi, dice: «Conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione, ed essere messo a parte dei suoi patimenti » (Fil 3, 10).
Già nella meditazione delle parti precedenti il cap. 8 si può intuire come la sorte del seme calpestato e soffocato è, in ultima analisi, quella di una persona;' cioè, la sorte di Gesù stesso.
Il seme è la parola di cui si diceva al cap. 4: la parola evangelica, ma la parola evangelica è Gesù. Il mistero del regno presentato oscuramente nelle parabole come mistero di nascondimento, mistero di crescita nell'oscurità, di crescita faticosa e contrastata, si rivela più chiaramente, nella seconda parte di Marco, come il mistero del Figlio dell'Uomo. ,
Il catecumeno che ha detto di sì a Gesù Figlio di Dio, quando si è sentito chiamare presso il lago, esperimenta, nella prova di fede alla quale viene condotto attraverso la sequela di Cristo, che egli è introdotto in una situazione inattesa e nuova; situazione nella quale valgono le leggi dell'incontro personale, dell'umiltà, dell'attesa, della pazienza. Questa è la scuola che Gesù fa nei primi otto capitoli di Marco.
Lo stare con lui porta i discepoli a comprendere gradualmente che la vita che hanno abbracciato non è
un'esistenza in cui valgono le leggi dell'efficienza, del. successo, del potere, ma piuttosto le leggi del nascondimento, dell'incontro personale, della piccolezza.
Dopo il cap. 8 questa velata conoscenza del mistero, che avviene soltanto attraverso accenni, si chiarifica. Incomincia così la seconda parte del Vangelo di Marco.
Per comprendere bene questo, occorre premettere che Marco si divide chiaramente in due parti quasi uguali, che si differenziano tra loro per molti aspetti. Per esempio, ci sono vocaboli che ricorrono di frequente nella prima parte, e non ricorrono più nella seconda e viceversa. Vocaboli caratteristici della prima parte sono verbi come: comprendere, incapacità a comprendere, capire, vedere, avere il cuore accecato, indurito; ascoltare, conoscere, nascondere, rivelare; verbi che indicano come Gesù chiede la comprensione del Regno attraverso la fiducia nella sua parola. Si lamenta che gli uomini hanno il cuore chiuso, che i discepoli non comprendono. Gesù vuole suscitare l'attenzione, in maniera che la mente sia tesa verso ciò che Egli sta per manifestare.
Ad un certo punto, però, la richiesta di Gesù cambia:
l'insistenza non è più tanto sul comprendere, sull'aprire gli occhi, sul capire, ma sul fare qualcosa per il Regno, sul dare se stessi, dare la propria vita, pagare di persona. Ecco allora le tipiche frasi della seconda parte, come: solo chi perde la propria vita la salverà; occorre lasciare casa, fratelli, parenti, figli per il Vangelo; anche la mano, il piede, l'occhio vanno sacrificati per il Regno.
Nella prima parte si tratta di comprendere il Regno, nella seconda parte si tratta di entrare nel Regno.
Qual è l'evento che segna il passaggio dall'attenzione al Regno all'entrare nel Regno? L'evento che conduce dalla prima alla seconda fase della predicazione di Gesù?
È l'episodio della confessione messianica di Pietro a Cesarea. Esso è il punto centrale a partire dal quale troviamo un mutamento nei temi della predicazione di Gesù. Ed è nella seconda parte che Egli si dà, in particolare, ad una formazione più accurata del gruppo dei Dodici. Nella prima parte essi lo seguono, vedono ciò che fa; nella seconda parte Egli si rivolge a loro con maggior frequenza ed intimità.
Perché la confessione di Pietro ha una parte centrale?
Perché da questo momento comincia il Regno sulla terra. Il fatto che Gesù da questo piccolissimo gruppo, piccolo come un granello di senape rispetto al mondo di allora - da Pietro, cioè, e dai Dodici insieme con Lui - venga riconosciuto nella sua vera identità, segna l'inizio del Regno, di quel Regno che Gesù viene a portare sulla terra. Questo fatto cambia tutto il contenuto della predicazione di Gesù. Egli comincia a parlare non più per enigmi ma chiaramente.
Vediamo allora alcuni elementi della seconda parte del Vangelo di Marco; 'in particolare, le predizioni della Passione. La prima predizione segue immediatamente la confessione di Pietro e le altre due si succedono a intervalli di un capitolo ciascuna; cioè, a intervalli regolari.
Questa successione ritmica, in Marco, è evidentemente intenzionale.

Perché, innanzi tutto, tre predizioni? Perché ciò che è essenziale occorre sia ripetuto: tre volte. Si tratta allora di un insegnamento estremamente importante. Proprio per questo appare collocato subito, all'inizio della seconda parte.
a) Prima predizione: Me 8, 31-37
«Gesù cominciò ad insegnare... »: evidentemente è un nuovo inizio, un suo nuovo modo di parlare, un nuovo momento della formazione dei Dodici.
Cosa insegna Gesù? «Che il Figlio dell'uomo deve soffrire molte cose ed essere respinto dagli anziani ed essere ucciso e dopo tre giorni risorgere. E apertamente diceva la parola ».
Gesù insegna, dunque, una cosa che non era mai stata menzionata prima, e penetrava veramente fino in fondo al suo mistero. Insegna che « deve »; cioè, che quanto comincia appartiene al piano di salvezza; che è disegno di Dio per la redenzione dell'umanità.
«Il Figlio dell'Uomo »: è designazione misteriosa che, nella tradizione apocalittica, esprime una connotazione gloriosa del Messia, ma che qui viene, invece, utilizzata in un contesto di estrema umiltà e di totale umiliazione.
«Soffrire molte cose ed essere respinto»: essere respinto dai presbiteri, dai sommi sacerdoti, dagli scribi; cioè, dalla gente di cultura, dalle categorie sociali che allora contavano.
«Ed essere ucciso e dopo tre giorni risorgere. E apertamente diceva la parola »: questa ci fa capire, appunto, che finora Gesù non ha parlato apertamente.
Egli ha attratto i suoi - in particolare i Dodici - con il fascino proveniente dalla sua persona, dal suo potere miracoloso, dalla sua bontà; li ha riempiti di fiducia verso di Lui. Adesso che sono un piccolo gruppo, ormai ben compatto, può parlare loro con chiarezza.
E le parole chiare sono estremamente dure, perché si parla di morire: essere respinto ed ucciso. Appare, è vero, in prospettiva anche la risurrezione, ma in una forma tanto misteriosa che i discepoli non capiscono ancora.
Il mistero perciò è presente nella sua interezza e crea immediatamente nei Dodici un senso di sgomento e di smarrimento che si esprime, subito dopo, nell'intervento di Pietro (v. nb-33). Esso manifesta la reazione dell'uomo comune, di ciascuno di noi: questo non dev'essere, questo non va, non ha senso. Esprime la nostra incapacità a capire il mistero di Dio così come ci si manifesta nella sua realtà e verità, in Gesù Cristo.
Quando - da una conoscenza esteriore del mistero di Dio in Cristo - passiamo alla sua vera comprensione, cioè al mistero del Cristo respinto e morto per noi, la nostra prima reazione potrebbe essere bene espressa dalle parole di Pietro: 'Ma come mai, perché? Questo non va assolutamente ... '. Probabilmente i Dodici capiscono bene che se questo succede al maestro, a loro è destinato qualcosa di analogo; la loro sorte per l'avvenire non sarà certamente rosea. Tutto il loro orizzonte -si annebbia e si oscura. . E Gesù allora dice a Pietro che egli non capisce niente del piano di Dio. In Pietro, i Dodici vengono confrontati col piano di Dio così com'è, sono messi di fronte alla dura realtà del progetto del Signore; realtà misteriosissima, inaccettabile dal punto di vista della comune logica umana. Ma essi, ormai, per l'affetto che hanno verso Gesù, per il fatto che stanno con Lui, non la possono più respingere. Hanno reazioni interiori contrastanti, è vero, ma sono totalmente presi dalla persona del . Signore che Egli sa bene di poter parlare loro apertamente. Tuttavia la parola stessa rimane durissima.
Nei vv. 34-37 c'è, poi, la trasposizione ai discepoli. Gesù ha parlato di sé, ha parlato del proprio destino in maniera chiara, e ciò suscita la meraviglia, lo sgomento e lo smarrimento degli apostoli. Ora, gradualmente, incomincia a trasporre la propria via, il proprio mistero di Figlio dell'uomo, alla vita di quelli che lo seguono. Avviene proprio ciò che gli apostoli, forse inconsciamente, temevano: la via di Gesù è la via di coloro che sono i suoi.
Abbiamo così la sua parola: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso» (v. 34). Se pensiamo a Pietro che rinnega Gesù dicendo di non conoscerlo, possiamo affermare che la parola «rinneghi se stesso» vuole appunto dire: non mi conosco, non tengo più conto della mia vita, non mi prendo in considerazione. Così dirà Paolo - riassumendo la sua vita - nel discorso -agli anziani di Efeso, riportato in Atti 20, 18-24.
E Gesù continua: «Prenda la sua croce »; cioè, tutti i disagi che comporta la sequela del Cristo, e: «Mi segua ». Tutta la forza della frase è riposta nel verbo « mi segua »; cioè, tutte le altre cose dette prima e dopo, sono i preliminari necessari per poter essere con Gesù, per poter continuare ad essere con Lui.
Potremmo allargare la nostra considerazione e tutto ciò che nei capitoli seguenti, specialmente al cap. 10 viene specificato intorno a questa sequela di Gesù. Qui abbiamo soltanto la prima delle indicazioni di quello che comporta il mistero del Regno. Nei capitoli successivi viene specificata la stessa esigenza in vari modi.
Ho raccolto alcuni brani sotto il titolo: Gesù e i suoi, per mostrare che praticamente il suo insegnamento al piccolo gruppo dei Dodici si può riassumere nel modo seguente: chi ha accettato la chiamata personale a seguirmi, a essere con me, deve accettarmi così come sono. Cfr. Mc 10, 43-45; 10, 29; 10, 38; 13, 13.
E come viene descritta l'identità e l'agire di Gesù? Egli spiega che come e dove Lui è, anche gli altri devono essere. Dice, per esempio: io non sono venuto per essere servito, ma per servire; così chi di voi vuole essere come me, sia servo di tutti.
Io ho lasciato ogni cosa: il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo; così posso chiedere a voi di lasciare padre, madre, campi, figli ed ogni cosa.
Io sono venuto a voi come uno che non possiede nulla; così posso chiedere a voi che si lascino le ricchezze con le quali il Regno dei cieli non va d'accordo.
Io bevo per primo il calice della Passione; così posso chiedere che voi beviate il mio calice.
Io accetto la contraddizione, l'essere respinto dalla maggioranza del mio popolo; posso chiedere che anche voi accettiate 'la contraddizione, la contestazione, da qualunque parte venga, perché il Figlio dell'Uomo è stato respinto per primo.
In altre parole Gesù, nei testi citati, chiede di scegliere coraggiosamente una vita simile alla sua. Di sceglierlo nel cuore, perché l'avere questa o quella situazione esterna non dipende da noi. Dipende da noi, invece, scegliere nel cuore una vita quanto più possibile vicina al suo modo di vivere fra gli uomini.
Non dipenderà da noi scegliere sempre il servizio più umile, la posizione meno appariscente, la condizione esteriore più modesta, ma dipenderà da noi l'avere nel cuore questo desiderio di essere, in quanto È possibile, dove Lui è.
E quindi, tra posizioni di maggiore o minore prestigio e potenza, preferire le seconde; tra condizioni di maggiore o minore ricchezza, preferire queste ultime; tra posizioni di servizio comodo o disagiate, preferire quelle disagiate.
Ecco come avviene in questa seconda parte di Marco, l'avviamento alle scelte evangeliche. Gesù si mette davanti, presenta se stesso e invita ciascuno ad essere là dove Lui si trova, almeno col cuore, almeno con il desiderio, perché questa è la maniera di capire profondamente il senso del Vangelo.
Questa è una scelta estremamente importante perché, al di là di tutte le teologie, di tutte le teorie, investe la capacità di capire il Vangelo dall'interno (E. 98, 146, 167).
Quando non si è fatta la scelta fondamentale dell'essere là dove Gesù è, non soltanto nella sua attività esteriore descritta nella prima parte di Marco, ma lungo l'itinerario che porta alla croce, descritto nella seconda, non sarà possibile inquadrare le altre verità evangeliche, dare loro il posto giusto, avere la Gestalt di cui abbiamo parlato; cioè, quel rapporto tra le singole cose e il loro sfondo, che mette ogni cosa al suo posto.
Ogni vera ripresa, ogni vero approfondimento dello spirito, ogni capacità di comprendere le situazioni nelle quali ci troviamo - la nostra situazione nel mondo, la situazione presente della Chiesa - parte da questa rinnovata adesione alla via di Gesù, così come ci è presentata nella seconda parte di Marco. È il segreto evangelico che ci dà il modo di capire il nostro posto, il posto della Chiesa nel mondo; è il cuore delle richieste di Gesù.
b) Seconda predizione della passione: Mc 9, 31-32
Essa è molto breve: «Stava ammaestrando i suoi e diceva loro: il Figlio dell'Uomo sarà dato nelle mani degli uomini che lo uccideranno, ma tre giorni dopo risorgerà. Essi però non comprendevano un tale parlare e avevano paura di interrogarlo ».
Abbiamo Gesù che, sempre più vicino al gruppo dei suoi, li forma all'unico punto essenziale e presenta il mistero centrale del Vangelo; cioè Lui, la sua morte e risurrezione.
Marco, tuttavia, ci fa notare come questo mistero sia difficile e vada ripensato continuamente nelle nuove situazioni, nelle nuove esigenze della nostra vita spirituale, e col crescere di questa.
Quella di Gesù è una proposta che è assolutamente incomprensibile, che non ha paragone con nessun'altra proposta umana.
Nessuna proposta umana oserebbe parlare di morte e risurrezione: siamo qui nel cuore della piena e pura fede richiesta al discepolo, la quale è l'unica via per arrivare ad una vera conoscenza di ciò che significa la vita evangelica.
c) Terza predizione della passione: Mc 10, 32-34
Essa è più ampia delle precedenti: «Mentre erano in strada verso Gerusalemme, Egli li precedeva e di dò si meravigliavano, mentre quelli che venivano dietro erano presi da timore ... ».
Marco sembra voglia farci coraggio dicendo che gli apostoli ce ne hanno messo di tempo a capire; Gesù era amato da loro, stava in mezzo a loro, anzi andava avanti a loro, ed essi non potevano non seguirlo; sentivano un'attrazione intensa per Lui, però quanto a capire veramente il cuore del mistero c'era ancora una lunga strada da fare. Ed il cammino era estremamente faticoso.
« E tratti a sé i Dodici prese a dire loro: noi andiamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà dato in mano dei grandi sacerdoti e degli scribi e lo condanneranno a morte, lo daranno in mano ai Gentili, le scherniranno e gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo faranno morire, ma dopo tre giorni risorgerà ».
È di nuovo presente il mistero, con una notevole insistenza sui momenti in cui Gesù viene respinto e disprezzato. La predicazione diventa quindi una nuova richiesta agli apostoli di affidarsi a Lui e di accettare tutto il mistero. nella sua globalità, perché non c'è risurrezione senza il passaggio attraverso la sofferenza.
Che cosa poteva concludere il catecumeno che veniva educato gradualmente, attraverso questa lettura, a capire il mistero centrale del Regno di Dio?
Credo che il catecumeno viene implicitamente invitato - e ciò vale anche per noi - ad adorare, prima di tutto, nella preghiera, il mistero del disegno divino, riconoscendo che esso è estremamente difficile da comprendere. Che tutte le volte che ci imbattiamo in esso, non soltanto nella fantasia, ma nella realtà, proviamo una istintiva incapacità ad adattarci; ma è appunto nella preghiera che dobbiamo insistere, chiedendo di accettare il Cristo così come Egli è.
In secondo luogo, il catecumeno viene stimolato, insieme con noi, a ringraziare il Signore, perché si è manifestato con tanta chiarezza, e senza alcun desiderio di illuderei. In prospettiva, quindi, chiedergli di poter rendere grazie quando Egli si manifesta in noi con la stessa realtà di morte e di risurrezione, perché allora siamo al centro del Vangelo.
Perché tutte le situazioni, che a prima vista ci appaiono incomprensibili e inaccettabili - nelle quali sale in noi il grido: qualunque altra cosa, ma non questa - sono in realtà situazioni che ci pongono al centro della manifestazione del mistero di Dio.
Viene, infine, chiesto al catecumeno - e a noi – di insistere nella preghiera per chiedere che Gesù ci tenga con sé e ci porti con sé fino in fondo, convinti che questa accettazione è la chiave per la comprensione di tutti gli spiriti; nel quale, cioè, è possibile fare la discrezione, l'analisi delle diverse mentalità che operano in noi e nella Chiesa, perché a questo punto tutte le mentalità e i comportamenti non evangelici si disperdono, dissolvendosi. Tutti i sogni, tutti i castelli in aria, tutti i progetti puramente umani vengono meno, e rimane viva soltanto la verità del Vangelo. Il catecumeno viene, così, educato gradualmente e con insistenza a prendere coscienza che questa è la rivelazione fondamentale del Figlio dell'Uomo ed il mistero nel quale entrare se vuole superare una pura programmazione umana e collocarsi veramente nel cuore del Regno di Dio.

Settima meditazione
La passione di Gesù

Nelle tre predizioni Gesù annunzia la via della Passione che poi percorre con coraggio fino in fondo.
Noi siamo chiamati a seguirlo, almeno con l'affetto, nella contemplazione che ci avvicina a Lui con il cuore, per realizzare in qualche modo ciò che Pietro non ha potuto, pur avendolo desiderato; cioè, il « dovessi morire con Te! » (Mc 14, 31).
Capiamo come Pietro avrebbe voluto essere col Maestro, fino in fondo, ma che lo sarebbe stato in seguito, dopo essere passato attraverso a dura lezione che Gesù si appresta a dargli, subendo la Passione.
A) La meditazione della Passione, così come è costruita nel racconto, è sempre per vari motivi, molto difficile e lo era già per la Chiesa primitiva.
Prima di tutto era difficile rispondere alla domanda del come storicamente era potuto accadere un fatto simile. Esso comporta, infatti, una inspiegabile serie di errori, di decisioni affrettate e maldestre, di reazioni a catena, di palleggiamenti di responsabilità dall'uno all'altro dei protagonisti. Perché non c’era nessun motivo di far morire Gesù!
Come poi si sia giunti a questo così velocemente, in una confusione di passioni, di sbagli, di tergiversazioni, di paure, certamente mette in imbarazzo chi tenta di raccontarlo.
L'evangelista si dilunga nel racconto della Passione, appunto per far comprendere gradualmente questa serie di fatti tragici e drammatici e, di per sé, non adeguatamente motivati.
Un'altra domanda difficile si presenta alla Chiesa primitiva e al catecumeno che meditava la Passione: che cosa può avere di grande una morte?
Tutti coloro che, per vari motivi, hanno qualche familiarità col mistero della morte, sanno come immediatamente, di fronte a tale fatto, tutta la retorica cessi.
Non c'è niente di meno umano che la morte. L'uomo che muore assume, di solito, un'espressione banale e goffa; oppure, forse, tormentata e incredula. Non c'è situazione nella quale l'uomo è meno se stesso del momento della morte.
Appunto perché realtà alla quale è difficile dare un senso, la morte è un non-senso per l'uomo che vive.
L'uomo morto rappresenta qualcosa di incomprensibile, qualcosa che non dev'essere.
Ora, pensare che questa realtà, cioè i non-senso per la vita, è stata affrontata da nostro Signore Gesù Cristo, costituisce appunto il mistero dei misteri. Come Gesù, cioè la vita stessa, abbia voluto ridursi a tutte le espressioni di degradazione umana insite nella morte, è inspiegabile.
La Chiesa primitiva sentiva profondamente questo mistero perché aveva davanti agli ochi la reale figura del Crocifisso. Per essa il grande problema era: come leggere questa realtà di per sé illeggibile, come darle un senso? E ciò da un duplice punto di vista:

1) Dal punto di vista dell'uomo: come leggere tutte le altre realtà della vita che sembrano mancare di senso, che sembrano pura perdita, pura carenza; ciò che non può essere, e quindi che non si vuole?
2) Dal punto di vista di Dio: come Dio poteva essere con Lui anche nella Passione e nella morte? Non l'ha, forse, abbandonato?
B) Questi i problemi che agitavano il cuore dei primi cristiani nel meditare la Passione. Il lungo racconto, presente in ciascuno dei Vangeli, è la risposta a tale interrogativo.
Abbiamo detto che esso è lungo. In Marco comprende, infatti, due capitoli; gli è dedicato uno spazio estremamente sproporzionato rispetto al resto. Per il catecumeno e per ciascuno di noi, questo vuol dire che la Passione richiede una lunga considerazione; che bisogna contemplarla molto, la Passione del Signore; che essa deve avere grande parte nella nostra conoscenza di Lui.
La Passione è un lungo racconto che introduce un mistero difficile, ed è a sua volta presentato da alcuni fatti che ne danno il senso.
Il senso fondamentale da essi espresso è mutuato dal profeta Isaia: «Quia ipse voluit» (Is 53,7: volgata latina; cfr. testo ebraico: Is 53,10°.12c). La Passione non è accidentale, ma è Gesù stesso che ha accettato fino in fondo questa estrema umiliazione; allora essa comincia ad acquistare un senso, perché diventa un atto umano di Gesù.
Quali sono gli episodi che sottolineano il «Quia ipse voluit» ?
L’unzione di Betania, dove Gesù dice: «Ciò che essa ha fatto, l’ha fatto per ungere in anticipo il mio corpo per la sepoltura » (14,8); cioè Gesù va verso il mistero di degradazione umana che coscientemente accetta.
Durante la Cena: « Il Figlio dell’Uomo va, come è scritto di Lui» (14,21); quindi, Gesù entra in un disegno del Padre.
Sempre durante la Cena, ancora più chiaramente: « Questo è Il sangue versato per molti» (14,24).
L'Eucaristia è il mistero che mostra come Gesù accetta di cuore e anticipa in sé la Passione.
E finalmente nel Getsemani, l'ultima parola che riprende questo tema: «Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (14, 36). Tutta la passione va quindi meditata riportandola, per così dire, nell’intimo del cuore del Signore che è andato incontro a questo tragico fatto volontariamente.
Voglio sottolineare, a questo proposito, un aspetto che è conseguente al modo con cui la Passione ci è presentata da Marco: Gesù è andato incontro alla morte, perché ha voluto venirci incontro fino in fondo; cioè, non ha voluto tirarsi indietro di fronte a nessuna conseguenza del suo essere con noi, affidandosi a noi completamente.
Ha compiuto la missione di essere con i suoi, fino ad accettare le ultime conseguenze drammatiche di questo affidarsi agli uomini con fiducia, con buona volontà, col desiderio di aiutarli.
Da queste riflessioni sul «Quia ipse voluit», psiamo concludere che l'unica cosa che può dare senso alle nostre sofferenze, è che anche noi giungiamo ad accettarle con Lui.
E questo è facile certe volte, per le sofferenze che riusciamo a percepire come tali (per esempio malattie non troppo gravi), e che possiamo prendere dalle mani di Dio con pazienza, offrendole per gli altri.
Ma quando le sofferenze diventano parte di noi stessi, quando diventano difficoltà che si identificano con il nostro essere, quando finiamo per trovarci in certe situazioni a cui è estremamente difficile dare un senso, allora l’accettazione diventa sempre più problematica, perché non ci si sente liberi e distaccati di fronte ad essa. Possiamo quindi dibatterci per anni, in uno stato di disagio, di insofferenza magari inconscia, di rivolta interiore verso situazioni che non siamo capaci di accettare. Certe volte, anzi, la cosa più pesante a cui acconsentire è costituita proprio da noi stessi.
Gesù ci insegna che finché non giungiamo a questa accettazione cosciente e libera, le nostre sofferenze non hanno veramente senso. Esse cominciano ad averlo quando le abbiamo in qualche maniera guardate in
faccia, come Lui ha fatto, e le abbiamo accettate con Lui.
Questa credo sia una delle chiavi di comprensione del perché della Passione di Gesù: «Quia ipse voluit ».
C) Venendo alla Passione in se stessa, propongo un modo di contemplarla che, penso, sia consono alla struttura di Marco. Nel suo Vangelo la Passione è tutta un susseguirsi di piccoli quadri che descrivono situazioni umane, cioè confronti di persone.
Non è tanto un resoconto concatenato di eventi, e neanche uno studio sulla concatenazione delle cause, anche se questo è presente.
Il modo di raccontare di Marco è piuttosto quello di una serie di quadri in cui i diversi personaggi di questo mondo entrano in confronto diretto con Gesù, vivendo ciascuno il mistero della propria chiamata e della propria presa di posizione verso il Regno.
Gesù continua, nella sua Passione, la sua missione di presentare il mistero del Regno alle persone più diverse e più lontane, a quelle che più sembrano respingerlo, per compiere sino in fondo la sua missione di essere con noi.
In qualche modo si verifica ancora la parabola del seminatore: Gesù si presenta - come seme - in diversi terreni e in ciascuno va incontro ad una sorte diversa.
È possibile allora meditare la Passione come una serie di episodi, di situazioni, in cui Gesù continua eroicamente ad essere il Maestro buono, che insegna come perdere la vita per acquistarla, come rinnegare se stessi, come prendere la croce, come farsi servo e schiavo di tutti; realizzazione, cioè, del programma che egli ha enunciato nei capitoli 9 e 10 di Marco.
Possiamo contemplare questi quadri, uno per uno, considerando in ciascuno il mistero del Regno come
seme evangelico che riceve risposte diverse. Ne indico 14 in maniera da potere eventualmente servire
per una « Via Crucis ».
1° Gesù e Giuda
2° Gesù e le guardie
3° Gesù e il sinedrio
4° Gesù e Pietro
5° Gesù e Pilato
6° Gesù e Barabba con la folla
7° Gesù e i soldati
8° Gesù e Simone di Cirene
9° Gesù e i crocifissori
10° Gesù e i derisori
11° Gesù e il Padre
12° Gesù e il centurione
13° Gesù e le donne presso la croce
14° Gesù e gli amici
Tutta una galleria di persone che si confrontano con il seme del Regno. Ciascuno con una diversa risposta, davanti a un Gesù sempre uguale nel suo atteggiamento di disponibilità e di offerta di salvezza.
Basta prendere una dopo l'altra queste scene e contemplarle. C'è in esse una certa progressione, un crescendo continuo di umiliazioni sino alla scena decima, quella dei derisori.
Un altro particolare importante, in queste scene, è il silenzio di Gesù. Parla brevemente all’inizio, parla a Giuda, parla alle guardie, al sommo sacerdote, parla ancora nella quanta scena, a Pilato. E poi tace.
Tutti girano attorno a Gesù come in una drammatica giostra ed egli, col suo silenzio, domina tutto. Contempliamo il contrasto tra le persone che si agitano, che fanno e dicono una cosa o l'altra e Gesù che, con
la sua silenziosa presenza, è al centro, dominatore di, tutta una situazione caotica e convulsa.
Col suo solo esistere, col suo solo essere là, Gesù parla, Gesù giudica.
Ed infine l'ultima parola di Gesù, il grido,:.. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34), che esprime, al tempo stesso, l'apice e il fondo del cammino della croce, percorso sino all’estremo della desolazione, ma che, insieme, manifesta una immensa fiducia (cfr. Sal 22 21, 1.20.32).
Al centro di tutto, nella scena undecima, sta questa parola di Gesù, la sua invocazione al Padre. Da questo punto comincia un fluire graduale di consolazione e di pace. Già nella Passione, così come è raccontata, nasce dunque il senso della consolazione e della pace che durerà fino al sepolcro, preparando la scena della risurrezione.
Possiamo senz'altro tener conto di questa progressione e poi del graduale subentrare di una nuova atmosfera, quando Gesù è sulla croce. Assaporiamo il mutamento che misteriosamente il Crocifisso arreca a coloro che gli sono vicini: le donne, gli amici.
Ecco alcune indicazioni per una riflessione su queste scene della Passione. Esse devono costituire un frequente argomento della nostra contemplazione perché sono il contravveleno quotidiano a quella atmosfera del mondo in cui viviamo e di cui parla Paolo scrivendo agli Efesini, al cap. 6 (cfr. in appendice, pag. 105 ss.).
È nell'attenta contemplazione della Passione che si sciolgono i nodi di situazioni difficili a comprendersi e si chiariscono i giudizi su situazioni ambigue. Confrontato con questo paradigma, ciò che è scoria viene a cadere e rimane, invece, ciò che evangelicamente vale.
È forse per mancanza di riflessione, di meditazione, di contemplazione sulla Passione di Gesù, che oggi assistiamo a molte confusioni. La Passione ha una parte così preponderante nei Vangeli, proprio per offrirci un elemento sicuro di discernimento.

Ottava meditazione
La risurrezione
(e la vita nascosta di Gesù)
In questa ultima contemplazione voglia1no rispondere a due domande:
1) come mai Marco, nel cammino che propone al catecumeno, non fa alcun accenno all'infanzia di Gesù e quindi alla presenza di Maria nella vita del Signore?
2) perché al catecumeno viene data una brevissima istruzione sulla risurrezione? Soltanto otto versetti, alla fine di Marco?
1) Il catecumeno è chiamato a convertirsi a Gesù Cristo Figlio di Dio, a seguirlo rispondendo alla sua chiamata, ad andare con Lui fino alla Passione; cioè, a partecipare al destino del Regno che si sviluppa come ci mostra Marco stesso - nell'umiltà, semplicità, nascondimento, come un seme che aspetta di essere ricevuto. Troverebbe quindi un grande vantaggio a meditare l'infanzia di Gesù.
Infatti, le considerazioni sull'infanzia ci presentano due caratteristiche importanti dell'opera di Gesù: una serie di caratteristiche esteriori - proprie della sua opera - ed un'altra serie di caratteristiche che si potrebbero chiamare interiori.
Quali le caratteristiche esteriori? Innanzitutto Gesù, tra i tanti modi possibili di manifestarsi al mondo (per esempio nello splendore di un evènto cosmico quale gli viene chiesto in Me 8, 11-12: «Dacci un segno dal cielo »), sceglie il mezzo meno appariscente. Sceglie di nascere in povertà, in un angolo remoto del mondo, fuori dalla propria stessa casa; sceglie di essere presentato al tempio nel nascondimento, come uno qualunque; sceglie di mangiare il pane amaro dèll'emigrazione; sceglie di vivere per decenni nella più assoluta insignificanza anche di fronte ai suoi, i quali, poi, come ci dice Marco, non riescono neppure a capirlo quando si ripresenta a Nazareth e dicono: ma costui non l'abbiamo già conosciuto? La sua vita tra noi non aveva alcuna importanza (6, 2ss).
Quindi caratteristiche esteriori di insignificanza. Tuttavia, in questo quadro esterno di azione senza sfarzo, di una vita in massima parte senza risonanza mondana, senza rilevanza sociale o religiosa o politica, come il seme che sembra dormire nella terra, Gesù non rinuncia a una delle coordinate essenziali del suo Regno. Ed ecco le caratteristiche interiori del Vangelo dell'infanzia; cioè, la presenza di alcuni cuori che gli sappiano dare il cento per uno.
Questo contrasto costituisce uno dei misteri fondamentali dell'infanzia: in una estrema povertà e semplicità esteriore, la presenza di persone a Lui totalmente dedicate, come la terra buona che dà il centuplo.
Vediamo allora come per decenni il seme evangelico fruttifica silenziosamente nel cuore di Maria, colei che dà, fin dall'inizio, il cento per uno; fruttifica nel cuore umile di Giuseppe; viene deposto nell'animo semplice dei pastori; di Simone e di Anna; di alcuni altri poveri di Jawhè che aspettavano la consolazione di Israele; trova - questo seme - anche le spine di Erode che tendono a soffocarlo; si rifugia nel terreno ben disposto di alcuni uomini fuori di Israele, come i Magi, animati da volontà buona e da rettitudine sincera.
I Vangeli dell'infanzia presentano la vicenda personale del seme che viene accolto in diversi terreni e che fa diverso frutto, ma senza alcuna pompa, nessuna risonanza esteriore di tipo mondano quale ci si aspettava da una manifestazione del Messia.
In questo senso i Vangeli dell'infanzia hanno un'importanza grande, perché programmatica, per la vita cristiana. Essi ci riportano ad una delle leggi fondamentali del Regno: poco sfarzo esteriore e molta interiorità. .
Marco non ha racconti dell'infanzia. Non li ha perché questi racconti suppongono, per essere accolti, uno spirito di fede maturo, suppongono un animo capace - avendo ormai accettato in pieno il mistero cristiano - di esercitarsi anche nelle cose più piccole e pii! semplici del Vangelo, di cogliere il significato salvifico delle realtà che sono apparentemente più insignificanti.
Questo viene fatto nella seconda formazione cristiana, in un momento più interiore. Ed ecco perché la predicazione primitiva non ha mai proposto i Vangeli dell'infanzia. Nella seconda formazione, invece, essi'
venivano proposti perché il catecumeno aveva già accettato il paradosso dell'umiltà del mistero di Cristo ed era pronto ad accoglierla anche in quei segni semplicissimi della vita a Nazareth, della nascita a Betlemme, del nascondimento di trent'anni.
Marco, sull'episodio della Chiesa primitiva, non ha presentato subito al catecumeno queste cose che richiedono una capacità di assimilazione più approfondita.
Se però riflettiamo all'itinerario dei Dodici con Gesù, così come Marco ce lo presenta, ci accorgiamo che, in fondo, la via per la quale essi sono guidati è la stessa.
Con altre parole, in maniera più evidente e più palese, viene esposto un identico cammino: si tratta di scoprire le leggi della salvezza del Regno, le quali si possono ridurre a tre fondamentali:
- 1a: La modestia degli inizi, il piccolo seme, esperimentato dagli apostoli nella semplicità della predicazione di Gesù, riconosciuta da alcuni, respinta, o poco capita, o non subito accolta da altri.
- 2a: L'insignificanza agli occhi di chi bada soltanto agli eventi che fanno notizia. Gesù non ha mai fatto notizia nel suo tempo, forse l'ha fatta la sua morte per qualche giorno, ma l'insieme della sua opera è stato pochissimo conosciuto nel mondo d'allora, il mondo religioso, politico e militare che badava soltanto ai grandi avvenimenti.
- 3a: La contraddizione, lo scandalo e le difficoltà alle quali abbiamo già accennato.
Sono queste le tre leggi che regolano il corso del ministero di Gesù e che gli apostoli imparano a conoscere stando con Lui, rendendosi sensibili a quelle che sono le realtà del Regno.
A che cosa sono dunque chiamati gli apostoli attraverso questa educazione? Sono chiamati a ciò cui è anche chiamato ogni cristiano che medita il Vangelo dell'infanzia: cioè ad amare Gesù così com'è; a convertirsi alle leggi e al modo di agire del Signore.
Il catecumeno della Chiesa primitiva è chiamato ad accettare un Gesù diverso da come l'avrebbe voluto, un Gesù che opera tra noi in maniera diversa da tutti i moduli religiosi o profani: politici e civili, che ci si può aspettare, e quindi a riconoscere che il mistero del Regno è, in definitiva, Gesù stesso, il suo modo di vivere e di morire.
E qui vediamo anche come il mistero di Maria, che non viene accennato quasi per nulla da Marco il quale non ricorda neppure la presenza di Maria presso la croce - è tuttavia un mistero posto al centro del Regno di Dio e delle sue leggi fondamentali, perché è un mistero di umiltà, di nascondimento e di fedeltà interiore ricchissima, ma non appariscente.
Per questo, nella introduzione agli Esercizi, parlavo - citando un libro di Hans U. von Balthasar - della coesistenza nella Chiesa, insieme con un principio gerarchico - cioè della presenza visibile e fisica attorno a Gesù di coloro dai quali discende l'azione della Chiesa - di un principio mariano - cioè del valore, nella Chiesa, della fedeltà fatta di interiore nascondimento -.
Marco, pur non presentandoci il mistero di Maria - perché anche esso è un mistero che viene quando si è già accettato il Battesimo, quando si è entrati nella comprensione della vita cristiana - ci fa vedere l'uno e l'altro principio in opera: la visibile presenza e la nascosta fedeltà che formano il mistero della Chiesa. -
Queste riflessioni vogliono rispondere agli interrogativi riguardanti la prima parte della vita di Gesù, cioè la sua vita nascosta in quanto considerata da Marco.
2) Ora dobbiamo rispondere alla seconda domanda che ci fa riflettere sull'ultima parte della vita di Gesù; cioè, sulla vita del Signore risorto.
Perché al catecumeno viene data, al capitolo sedicesimo, una così breve istruzione sulla risurrezione? È vero che la narrazione continua con i versetti che vanno dal 9 al 20, ma sappiamo che con tutta probabilità non sono un finale letterario, ma un finale canonico del Vangelo di Marco. Gli esegeti discutono molto - senza giungere ad una conclusione - se il Vangelo sia da considerarsi terminato con Mc 16, 8 o se ci fosse un'altra finale perduta nella quale Marco parlasse di più della risurrezione di quanto non risulti a noi; oppure se la finale canonica, pur non essendo di Marco, sia stata aggiunta in maniera che debba essere considerata parte integrante anche della struttura evangelica e non soltanto del messaggio evangelico.
La maggior parte degli esegeti ritiene, comunque che Marco abbia finito il suo Vangelo al v. 8; cioè, abbia dato una brevissima istruzione sulla risurrezione. Una istruzione, poi, incompleta, perché in essa non appare Gesù risorto; vi si dice soltanto che è risorto e che lo vedranno.
Come mai questa carenza di Marco riguardo alla risurrezione? Cerchiamo di dare alcune risposte.
a) Prima di tutto bisogna dire, per spiegare Marco così com'è, che al tempo del primitivo kérygma, nell'iniziazione catecumenale era già stata data una parte notevole all'istruzione sulla risurrezione.
Possiamo, infatti, distinguere con molta probabilità un primo kérygma, cioè un primo breve annuncio del Cristo, poi una catechesi più ampia che potrebbe essere appunto Marco, e infine una seconda catechesi per i battezzati.
Ora, nel primissimo kérygma c'era già un'istruzione centrale sulla risurrezione, e la troviamo, per esempio, nei discorsi di Pietro in Atti 2, 24-36: è una istruzione più che sufficiente e duplice:
- apologetica; cioè la risurrezione è la giustificazione del Cristo, condannato e morto, ma risuscitato da Dio, e;
- storico-salvifica; cioè, la risurrezione è il centro del piano divino di salvezza predetto dalle profezie. Quindi una duplice istruzione - apologetica e storico-salvifica - si supponeva già come data al catecumeno. Essa sarà poi ampliata nella catechesi successiva, come possiamo rilevare nel magistrale capitolo 24 di Luca, che è una catechesi amplissima sul significato storico-salvifico della Risurrezione.
Un'istruzione, invece, morale ed ascetica sulla risurrezione è affidata soprattutto - sembra - alla catechesi post-battesimale, ed è quella che ritroviamo specialmente in certe lettere di san Paolo; la supponiamo, per esempio, in Col 3, 1ss che sviluppa la morale pasquale insegnata ordinariamente dopo il battesimo.
C'è, infine, sulla risurrezione un quarto tipo di istruzione; cioè, l'istruzione mistica o gnostica: quella in cui la risurrezione e la gloria del Risorto sono presentate come attuate nella vita stessa di Gesù e del credente. Una istruzione amplissima di questo tipo, che gli antichi chiamano gnostica, è data da Giovanni, il quale ci presenta Gesù come ancora vivente nella carne, e che addirittura nella sua stessa morte, manifesta la gloria del Padre.
Istruzione necessaria e importante, ma per uno stadio di maturità spirituale.
b) Che cosa viene dato, invece, al catecumeno nell'istruzione di Marco? Pur nella brevità del testo, vengono già offerte al catecumeno parecchie cose importanti.
- Un primo annuncio, nelle parole stesse dell'angelo: «Non abbiate paura» (16, 6). Tale annuncio riassume a questo punto tutti i rimproveri di Gesù e li porta al punto conclusivo. Ormai bisogna veramente abbandonare ogni timore!
- Poi un secondo annuncio: «Voi cercate Gesù il crocifisso: è risorto, non è qui »; cioè, lo stato di Gesù crocifisso non è lo stato nel quale dovete pensarlo sempre; quello definitivo. Esso è stato un passaggio; la sua nuova situazione è vita ed Egli vive ora presso di voi con un nuovo tipo di presenza.
- E il terzo annuncio: «Vi precede in Galilea» (16, 7). Anche questo annuncio è pregnante di significato. Gli esegeti discutono: che cosa significa la Galilea? Significa varie cose.
Nel Vangelo di Marco - che si svolge in massima parte in Galilea - è appunto il luogo in cui Gesù si è già mostrato la prima volta ai discepoli, nel quale si ripresenterà a loro nelle apparizioni che verranno poi narrate nella catechesi. È quindi il luogo dove con gli stessi gesti, con la sua stessa bontà e disponibilità, essi ritroveranno la presenza viva di quel Signore che hanno conosciuto. È il luogo in cui il Signore si manifesterà ad essi visibilmente e dove Gesù comincerà la ricostruzione della comunità, quella ricostruzione che veniva annunciata nella Passione, in Mc 14, 27: Gesù come pastore che precede il gregge, che presiede al gregge e lo ricostituisce gradualmente.
La Galilea è dunque il luogo dove la comunità dei Dodici sarà ricostruita.
Nelle parole dell'angelo vi è, probabilmente, anche un richiamo al cap. 13 che è il capitolo della speranza definitiva, della apparizione definitiva del Signore. Esso mostra come lo sviluppo evangelico della speranza non è lungo la linea di un'utopia mondana di progresso, ma secondo una linea evangelica di tribolazione, che è stata la linea del Figlio dell'Uomo. L'attenzione del catecumeno, quindi, viene portata verso questa speranza del ritorno di Gesù, che tuttavia dovrà essere preceduta da tribolazioni e prove.
Abbiamo tutta una serie di accenni che dovevano essere, poi, svolti nella catechesi, per insegnare a guardare al futuro e a considerare quale doveva essere l'attesa del catecumeno.
Ecco dunque alcune brevissime riflessioni sulla realtà del Risorto, sulla sua presenza viva tra i suoi, nel gruppo ricostituito della Chiesa, e sulla sua apparizione finale.
c) Tuttavia è chiaro che Marco non ci parla della risurrezione soltanto negli otto versetti citati. Se notiamo bene egli va letto e dev'essere letto sin dall'inizio alla luce della presenza di Gesù vivente. Inizia, infatti, con le parole - che non si trovano in tutti i codici, ma che con ogni probabilità sono originali - « ... Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio»( 1, 1). Tutta l'attività di Gesù è proiettata come la presenza tra noi del Figlio di Dio, che la morte non può inghiottire, quel Figlio in cui Dio si compiace; e quindi, Colui che vive.
Di conseguenza, tutta l'iniziazione catecumenale è fatta non su un Gesù passato e finito, ma su Gesù che è il Vivente. Intanto, quindi, ha valore considerare le chiamate di Gesù, i Dodici con Lui, la vicendevole comunanza di vita, in quanto il catecumeno sa che questa esperienza è permanente, perché Gesù è il Figlio di Dio che non è rimasto nella morte, ma vive. Le parole che legge hanno un senso, oggi, e sono rivolte a lui.
Tutto il Vangelo di Marco è meditato nell'ipotesi, nella presupposizione, meglio, nell'accettazione che Gesù vive e parla oggi ai suoi e li chiama, cosi come ha chiamato presso il lago, o presso il monte, e continua a spiegare la sua vera identità nella Chiesa.
Si potrebbe, forse, valorizzare anche in questa maniera l'uso del presente storico in Marco. Sappiamo che egli usa volentieri il presente: Gesù va, passa, Gesù chiama, Gesù dice. Questo modo potrebbe non dal punto di vista di rigida prova esegetica, ma nella fede - essere stato scelto per presentare Gesù come Colui che oggi vive, chiama, annuncia, esige, invita, rimprovera, Gesù viene presentato come Colui che vive nella Chiesa, e può quindi essere fonte di chiamata, Persona che può venire concretamente seguita, accettata, riconosciuta ed amata.
Tutta la catechesi di Marco non è una catechesi del passato, ma una presentazione delle esigenze di Gesù vivente, ora nella Chiesa.
d) Come le realtà della risurrezione, espresse in Marco, possono essere vissute a livello della nostra attuale esperienza ecclesiale? Sottolineerei soprattutto due conseguenze:
La prima potrebbe essere ritrovata nella parola, ripetuta così spesso da Gesù: «Aprite gli occhi ». Cioè il Signore è risorto, il Signore vive; ma dove? Vive presso Dio e vive in mezzo a voi; quindi, l'invito a riconoscere la presenza viva di Gesù nella nostra esperienza.
Dov'è presente Gesù nella nostra esperienza? Tutte le volte che essa è in consonanza con l'esperienza descritta dal Vangelo. Gesù vive nei Dodici e in coloro che continuano a predicare dopo di loro; vive in tutti quelli che sono uniti con i Dodici per fare corpo con Gesù; vive, quindi, in tutta la vita della Chiesa e in tutta la sua santità, e in tutti i suoi sacramenti. Vive anche nella nostra stessa vocazione che è risposta alla chiamata di Gesù, e che è un miracolo agli occhi del mondo, un qualcosa di inspiegabile dal punto di vista umano. Perché ogni volta che una persona accetta di vivere una vita di fede, avviene qualcosa di incomprensibile e di misterioso. Ogni cristiano vivente è una manifestazione straordinaria, umanamente inspiegabile della risurrezione del Signore.
Questo Vangelo allora è un invito ad aprire gli occhi per vedere il Signore nella nostra esperienza.
La seconda conseguenza è non solo di vedere Gesù che vive, ma Gesù che viene.
Viene tutte le volte che ripetiamo i suoi gesti, le sue parole, tutte le volte che spezziamo il pane, tutte le volte che rifacciamo le azioni che Egli ci ha comandato di fare e che viviamo la vita che Egli ci ha insegnato.
È un invito, quindi, a riconoscere Gesù vivo nella Chiesa in quanto è espressione di umiltà, di oscurità, di cose che non appaiono, forse, esteriormente molto visibili e comprensibili, ma che viste con simpatia, dall'interno, ci. manifestano, la presenza viva della risurrezione del Signore.
* * *
In questo momento degli Esercizi, la scelta fondamentale che possiamo compiere è quella di vivere con riconoscenza la nostra vita così com'è, nella Chiesa. Scoprire, cioè, il tesoro che abbiamo nel nostro campo e ringraziare immensamente Dio perché ci permette di vivere con Lui una vita nascosta e non esente da contraddizioni, difficoltà ed oscurità, ma che proprio in esse manifesta la presenza viva del seme evangelico.
In fondo, la scelta fondamentale che spesso bisogna fare è quella di glorificare l'opera di Dio nella nostra vita concreta, con tutte le sue ambiguità, incertezze e debolezze, perché in queste debolezze; incertezze ed ambiguità si manifesta la potenza del Risorto.
La nostra vita quotidiana, infatti, nella sua apparente insignificanza. - perché ogni vita quando è vista da vicino e analizzata nelle sue componenti quotidiane appare estremamente semplice, povera, inadeguata a quello che è il mistero di Dio - porta già, proprio in questa inadeguatezza, i segni della risurrezione del Signore.
Essa può diventare una gloriosa manifestazione della potenza del Figlio di Dio nella umiltà: come il seme messo nella terra e nascosto che nasce per la potenza di Dio e per la fiducia che si ha nella sua parola.
In questo modo, mi sembra, il Vangelo di Marco ci riporta, dalla vita nella carne di Gesù, ad accettare e valorizzare, nella fede, tutta la ricchezza della nostra situazione presente.



Appendice
Il combattimento spirituale
Il testo di Paolo in Ef 6, 10-17 presenta il cristiano come colui che ha lottato fino in fondo contro il nemico e l'ha vinto con la propria morte. È un brano molto denso, ricco di mètafore. Occorre vedere quali realtà Paolo voleva annunziare attraverso tali metafore.
Il brano può essere diviso in tre parti: la prima parte contiene due esortazioni; segue poi, nella seconda, il motivo di queste esortazioni; infine, nella terza, l'elenco dell'armatura spirituale di cui rivestirei.
1) Le due esortazioni sono: fortificatevi nello Spirito e rivestitevi dell'armatura di Dio.
Si tratta quindi di un consiglio dato a qualcuno che si trova di fronte a una situazione difficile.
L'esortazione ad armarsi, a rivestirsi, la troviamo pure in Rm 13, 12 e in 2 Cor 10, 4. Quello agli Efesini è però il brano nel quale maggiormente viene svolta la metafora della panoplia, l'armatura completa del servitore di Dio, di colui che segue da vicino Gesù.
2) Il motivo: perché dobbiamo armarci così? Perché la nostra lotta è una lotta spirituale, contro i principati, le potestà, gli spiriti maligni. Possiamo tradurre facilmente queste espressioni in una realtà comprensibile perché essa è di evidenza quotidiana. Dobbiamo, cioè, vivere in un'atmosfera - lo spazio tra ter. l'a e cielo - che è invasa da elementi maligni, contrari al Vangelo, nemici di Dio. L'atmosfera in cui viviamo è satura di potenze contrarie a Cristo e quindi la nostra lotta si annuncia difficile. Questa mentalità, questa atmosfera che è frutto in parte della potenza del male e in parte dell'uomo soggiogato da questa potenza del male, crea una situazione nella quale siamo immersi e che ci minaccia da ogni parte. Da qui la necessità di armarsi con l'armatura di Dio.
3) Tale armatura viene descritta con sei metafore: la cintura, la corazza, i calzari, lo scudo, l'elmo, la spada.
Che cosa significa ciascuna di queste metafore? Prima di esse c'è una esortazione che permette di comprendere la situazione nella quale ci si trova: «State in piedi»; tenetevi in piedi. Si tratta, quindi, di persona pronta alla battaglia; ed è in questa situazione di prontezza che viene descritta l'armatura.
La prima metafora è la cintura della verità. Quale verità è arma per noi? Per capire bene bisogna notare che questa metafora, come pure le altre, sono attinte largamente dal Vecchio Testamento. Chi scriveva questo brano conosceva a memoria interi passi del Vecchio Testamento e ne supponeva la conoscenza anche nei suoi lettori.
Soprattutto due brani del Vecchio Testamento sono qui utilizzati per questa descrizione.
- Il primo brano è tratto da 1s 11, il germoglio di Jesse, del quale viene descritta la veste, il modo di presentarsi e di combattere;
- il secondo brano è tratto da 1s 59, in cui si descrive, a un certo punto, l'armatura di Dio. Nell'Antico Testamento, quindi, è l'armatura di Dio stesso, oppure dell'inviato, del prediletto di Dio, ad essere descritta.
Qui l'armatura di Dio è trasferita al servo di Dio, a: colui che segue Gesù. Dice 1s 11, 5: «Cintura dei suoi fianchi è la fedeltà» (trad. della C.E.I); nella Bibbia dei LXX il vocabolo usato è alétheia, la verità e il testo greco lo riporta esattamente.
La verità di cui si cinge, come di una veste stabile, colui che combatte è, quindi, la coerenza; è quella fedeltà che è coerenza piena, stile coerente di vivere e di agire.
Per poter combattere contro l'atmosfera maligna, l'atmosfera pestifera nella quale viviamo, occorre es. sere armati di una profonda coerenza fra ciò che proclamiamo e ciò che dobbiamo internamente sentire e vivere tra noi.
E questa coerenza è tanto più importante in quanto noi predichiamo la parola di Dio. Chi non vive ciò che predica si mette a poco a poco nella .condizione di essere esposto agli assalti del nemico.
Se la nostra predicazione fosse continuamente confrontata con ciò che sentiamo interiormente, con ciò di cui siamo persuasi, sarebbe più facile e più accessibile a tutti.
È vero che questo profondo confronto fra coerenza interiore ed esteriore farà talora riconoscere di essere lontani da ciò che si predica, ma l'umiltà del riconoscerlo è già un aspetto della coerenza, è un modo di mostrare che desideriamo averla.
La metafora seguente è la corazza della giustizia. In Is 59, 17 si descrive l'armatura di Dio. Dio si è rivestito di giustizia come di una corazza.
La giustizia è qui espressa come l'attività di Dio che salva i poveri e umilia i peccatori. Dio che impetuosamente compie le sue opere, che è salvezza e punizione. Nella nostra situazione, dovremmo tradurla come il partecipare allo zelo di Cristo per la giustizia del Padre. Questa corazza che ci cinge completamente, che ci difende, è il rivestirei di quei sentimenti che fanno gridare a Cristo per le strade di Palestina: «A Dio ciò che è di Dio »; cioè, che gli fanno proclamare la giustizia del Padre, e, come giustizia, l'opera di salvezza per chi si pente e il castigo per chi non si pente. Per noi, il partecipare all'intimo zelo di Cristo per la giustizia del Padre, è questa corazza che ci cinge, ci avvolge, che ci difende dai nemici.
La terza metafora: calzati i piedi di alacre zelo per il Vangelo della pace. Si descrive qui piuttosto una situazione. Pronti a partire per l'annuncio del Vangelo della pace. La realtà della metafora è la prontezza a portare il Vangelo.
In Is 52, 7 troviamo: «Come sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza ... ».
Fuori di metafora viene indicato l'ardore, il desiderio di predicare il Vangelo, sapendo che è beneficio per gli uomini e che porta loro la pace. Quindi anche la gioia di chi ha trovato il tesoro (la donna che ritrova la dracma e chiama le vicine piena di gioia: Le 15, 8ss).
Questa è una caratteristica importante del ministero del Vangelo, soprattutto oggi, in cui il ‘pluralismo’ - quando diventa pluralismo filosofico, culturale, religioso - sembra in qualche modo togliere l' ardore di predicare il Vangelo della pace.
Qualcuno vorrebbe addirittura sostituire e correggere l'imperativo di Matteo « Andate e predicate a tutte le genti» (Mt 28, 19) con l'esortazione « Andate e imparate da tutte le genti », perché ci sono valori ovunque e si dice, non conta tanto portare il messaggio quanto ascoltare umilmente ciò che gli altri hanno da dirci. E si rischia di perdere l'ansia di predicare il Vangelo della pace.
Ci chiediamo se ci sia una soluzione a questa difficoltà. La soluzione c'è e non è certamente quella di.
abolire il pluralismo. Credo anzi che quanto più cresce il dialogo, tanto più deve crescere l'approfondimento della vita evangelica, Se queste due cose crescono insieme, allora è possibile ed è facile conciliare un immenso rispetto per tutte le culture, razze, valori, con un immenso ardore di portare il Vangelo, che è una proposta trascendentale, non commensurabile con nessun altro valore, ma capace di illuminarli e trasformarli tutti.
Quindi questa arma, questa disposizione è estremamente importante per difendersi dall'atmosfera che invece tende piuttosto a livellare tutti i valori. Conciliare l'ardore del Vangelo con la stima dei valori altrui e l'opera mirabile a cui è chiamata la Chiesa di oggi, se vuole conservare il suo slancio missionario.
Quarta metafora: in tutte le occasioni, impugnate lo scudo della fede. I dardi infuocati lanciati dal maligno (l'espressione è presa dal Salmo 11) sono le mentalità del mondo di peccato che, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, ci circonda e ci invita ad interpretare cose e situazioni della nostra vita con metri esclusivamente psicologi, sociologi, economici, assalendoci da ogni parte per toglierci il tesoro della fede.
Lo scudo per opporsi a questa mentalità è lo scudo della fede, cioè la considerazione evangelica di tutta la realtà umana, continuamente richiamata.
Quinta metafora: l'elmo della salvezza, anzi l'elmo dell'opera salvifica, come dice il testo greco. L'espressione è presa da I s 59, 17, e in Isaia vuol dire che Dio è pronto a salvare. Il greco ha un verbo (dexasthe) che vuole dire accettare l'elmo della salvezza; quindi accettate l'azione salvifica di Dio in voi come unica vostra protezione, unica vostra speranza; vi protegge il capo perché essa è la cosa più essenziale.
Sesta metafora: la spada dello Spirito che è la parola di Dio. Cos'è la spada dello Spirito? Ci sono tre passi che possono aiutarci: Is 49, 2 dove si parla di « bocca come spada »; Eh 4,12 dove si parla di « spada come parola»; infine Is 11, 4 dove si dice che « con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio ».
La parola di Dio non è qui il logos, cioè la predicazione, ma il rhéma, cioè gli oracoli divini. Quindi penserei come «spada dello Spirito» non tanto la predicazione di Gesù, ma la sua lotta contro Satana, quando si difende citando gli oracoli di Dio. «Sta scritto ... »; cioè, gli oracoli di Dio furono per Lui, e sono per noi, difesa.
Quando siamo assediati dalla mentalità del mondo che ci vorrebbe fare interpretare tutte le cose in maniera puramente umana, dobbiamo ricorrere ai grandi oracoli di Dio nella Bibbia per avere una parola di chiarezza su queste cose e respingere le interpretazioni sbagliate della storia del mondo e della nostra esistenza.
Queste le esortazioni di Paolo. Possiamo concludere riassumendo: quali situazioni suppongono e quali esortazioni offrono queste parole? .
a) Suppongono prima di tutto che noi siamo in una situazione veramente rischiosa; cioè che nel mondo di oggi è rischioso e pericoloso vivere il Vangelo fino in fondo. Dobbiamo avere questo senso della difficoltà perché esso è realismo. Se ci troviamo di fronte a realtà avverse senza osare guardarle in faccia; se viviamo pensando che ci circondano continue difficoltà e rischi, possiamo vivere in una perpetua e sterile apprensione. Ma quando abbiamo analizzato il fondo, sulla base della Scrittura e abbiamo conosciuto l'avversario, vedendo le vie attraverso le quali il mondo è portato al male e come esse si manifestano, allora anche davanti a tutto il mistero del male, nella sua interezza, possiamo sentiréi pieni della forza di Dio.
Una profonda analisi e sintesi del mistero della perversione fatto con l'aiuto della Scrittura può metterci davanti ad una situazione di rischio, di timore, di pericolo, ma non di paura, perché vediamo con chiarezza tutta ]a vastità dell'avversario e tutta la potenza di Dio.
b) Seconda osservazione: si tratta di una lotta che non ha né sosta né quartiere; cioè, contro un avversario astuto e terribile che è fuori di noi e dentro di noi. Questo; oggi, lo si dimentica troppo spesso, vivendo in una atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle fratture della storia umana, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi, i quali minacciano proprio chi non se l'aspetta, cullato in una visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio.
c) Terza osservazione: solo chi si arma di tutto punto potrà resistere. Qui vorrei ricordare una delle regole di sant'Ignazio il quale aveva chiarissima l'idea che il nemico attacca valutando la situazione del cristiano. Bisogna conoscerlo bene, perché il nemico gira per vedere se c'è anche soltanto un elemento mancante nell'armatura. È quindi una lotta che deve prenderci tutti e trasformarci, santificandoci completamente.
Un'ultima parola a proposito di un'assenza rilevabile in questo brano: la preghiera. In realtà la preghiera viene nominata, ma non qui. La si ricorda alla fine del brano e con un'esortazione intensissima: «Con ogni sorta di preghiere e di suppliche pregate incessantemente mossi dallo Spirito ... » (Ef 6, 18).
Tutte queste armi vanno, quindi, continuamente affinate nell'esercizio della preghiera che non le supplisce - la preghiera non supplisce lo zelo, lo spirito di fede, l'impegno, la capacità di donarsi - ma è quella nella quale tutte quante sono avvolte e nella quale vengono continuamente ritemprate nella lotta.