Questa mattina Benedetto XVI ha dedicato la catechesi alla liturgia, riferendosi soprattutto alla Costituzione Conciliare "Sarosanctum Concilium". E' noto che il Papa, da uomo di preghiera, è un finissimo liturgista. Propongo di seguito una ampia presentazione di un "classico" che il card. Ratzinger scrisse nel 2001. Si tratta di "Introduzione allo spirito della liturgia": l'articolo è di son Pietro Cantoni. Segue il capitolo terzo della Parte Seconda del libro. Rimando anche in questo blog ad un altro testo capitale scritto dal Papa sulla liturgia, pubblicato integralmente:
06 Set 2012
Joseph
Ratzinger pubblicò nel lontano gennaio 1984: si tratta di una raccolta
di saggi di Teologia Liturgica dal titolo: "La festa della Fede",
fondamentale per comprendere la "forma" della liturgia cristiana. Ho
scelto questo ...
06 Set 2012
Joseph
Ratzinger pubblicò nel lontano gennaio 1984: si tratta di una raccolta
di saggi di Teologia Liturgica dal titolo: "La festa della Fede",
fondamentale per comprendere la "forma" della liturgia cristiana. Ho
scelto questo ...
* * *
Per un "nuovo" movimento liturgico
Il 4
dicembre 1963, a conclusione della terza sessione del Concilio
Ecumenico Vaticano II (1962-1965), Papa Paolo VI (1963-1978) promulgava
la Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium. La riforma
dei riti e dei libri liturgici della Chiesa cattolica, intrapresa quasi
immediatamente dopo tale promulgazione, è stata giustamente definita "la
più grande riforma liturgica nella storia del cristianesimo" (1).
A
quasi quarant'anni da quell'evento la liturgia continua a essere un tema
d'attualità, come mostrano sia il discreto numero di edizioni e di
traduzioni raggiunto dall'Introduzione allo spirito della liturgia (2),
del card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, sia le discussioni, non sempre pacate, che ne hanno tratto
origine.
Nel
solco della migliore teologia il testo vuol essere non un'arida
speculazione, ma un'"elevazione" sul tema "liturgia", un'autentica
introduzione spirituale alla vita liturgica. Il titolo si ricollega -
con maggior evidenza nell'originale tedesco, che è Der Geist der
Liturgie. Eine Einführung, "Lo spirito della liturgia. Un'introduzione" -
a un'opera famosa, Lo spirito della liturgia, di Romano Guardini
(1885-1968) (3), che in Germania - e non solo in quell'area culturale - è
stata all'origine del movimento liturgico del secolo XX. L'obiettivo è
apertamente dichiarato nella Premessa (pp. 5-6): "Se questo libro
riuscisse a
sua volta a essere di stimolo a qualcosa come un
"movimento liturgico", un movimento verso la liturgia e verso una sua
corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l'intenzione che mi ha
spinto a tale lavoro sarebbe pienamente realizzata" (p. 6).
1. Un delicato restauro
L'opera
si apre con una metafora. La liturgia è paragonata a un prezioso
affresco molto antico, ormai coperto da un intonaco che impediva di
goderne la bellezza, ma che ne aveva preservato intatte le forme. Il
movimento liturgico e il Concilio Ecumenico Vaticano II eseguono un
restauro e portano alla luce l'opera d'arte rimuovendo l'intonaco.
"[...] per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi
colori e delle sue figure" (ibidem). Succede però qualcosa nel
frattempo, perché "[...] a causa dei diversi errati tentativi di
restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa
dei visitatori, questo affresco
è stato messo gravemente a rischio e minaccia di
andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure
necessarie per porre fine a tali influssi dannosi" (ibidem). Non si
tratta, ovviamente, di coprirlo di nuovo d'intonaco, ma "[...] è
indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua
realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rappresenti il primo
gradino della sua definitiva rovina" (ibidem). Si può dire che in queste
parole è condensata tutta l'opera: la coraggiosa denuncia del grave
rischio di distruzione a cui è sottoposto il patrimonio della preghiera
ufficiale romana e il programma di rinnovata attenzione e amore alla
liturgia che vuole
risvegliare. Molto spesso si è tentati, trattando
della riforma liturgica seguita al Concilio Ecumenico Vaticano II, di
parlare de la liturgia, mentre bisogna conservare la consapevolezza che
si tratta di una liturgia, cioè della liturgia romana. Infatti, vi è
tutto il patrimonio delle liturgie orientali che non ha mai conosciuto
riforme di tali portata e dimensioni. Lo stesso card. Ratzinger dedica
all'argomento dei diversi riti liturgici alcune pagine molto opportune.
Rimane tuttavia vero, come molti hanno osservato, che la riforma messa
in opera dalla Chiesa di Roma ha un significato vessillare, che
travalica i confini, peraltro vastissimi, dei fedeli di rito romano. Si
può allora tornare a dire - con
queste indispensabili precisazioni - che la posta in
gioco è la liturgia.
2. L'"essenza" della liturgia
L'opera
si divide in quattro parti: Sull'essenza della liturgia (pp. 9-47),
Tempo e luogo nella liturgia (pp. 49-107), Arte e liturgia (pp.
109-152), Forma liturgica (pp. 153-220), e si chiude con una
Bibliografia (pp. 221-228).
L'essenza
della liturgia, cioè l'irrinunciabile domanda: "Che cos'è?". Al di là
di ogni critica all'"essenzialismo", questa è la domanda che l'uomo non
può rinunciare a porsi, perché questo domandare è inscritto nella sua
natura. Certamente con la consapevolezza che la risposta non può mai
esser tale da esaurire la domanda, anche se può esser tale da costituire
un criterio, facendo discernere quanto stiamo cercando. La liturgia può
essere paragonata a un gioco. Come un gioco non "serve a nulla", cioè
non ha uno scopo pratico. Per qualche verso è fine a sé stessa: ha a che
fare, infatti, con quanto è "ultimo"
e, attraverso essa, l'uomo tocca quanto, essendo
definitivo, non può essere finalizzato ad altro. D'altra parte,
esattamente come un gioco, ha le sue regole, perché un gioco senza
regole non è per nulla divertente. Ciò che fa di questa immagine solo un
paragone è la differenza: i giochi sono "per gioco", mentre la liturgia
è seria, qualcosa di estremamente serio. Il cardinale non si ferma qui,
ma protrae ancora la metafora facendo emergere qualcosa di molto
interessante: "[...] il gioco dei bambini appare in molti suoi aspetti
una sorta di anticipazione della vita, un addestramento a quella che
sarà la loro vita successiva, senza però comportare tutto il peso e la
serietà di quest'ultima.
Allo stesso modo la liturgia potrebbe ricordarci che
noi tutti, davanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare, restiamo
in fondo come dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la
liturgia sarebbe allora una forma completamente diversa di
anticipazione, di esercizio preliminare: preludio della vita futura,
della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita
attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per
tutto della libertà del donare e del dare" (p. 10).
Ciò
apre la strada a un'altra considerazione, che fonda nello stesso tempo
un'insospettabile attualità della liturgia. Lo scrittore francese
Georges Bernanos (1888-1948) ha lasciato queste sagge e ancora
profetiche parole: "Non si capisce assolutamente niente della civiltà
moderna se non si ammette per prima cosa che essa è una congiura
universale contro qualsiasi specie di vita interiore" (4). Il mondo
contemporaneo ha solo accentuato questa impressione. L'ansia e la fretta
crescente che caratterizzano soprattutto la vita economica odierna - ma
non si sta tutto riducendo all'"economico"? - sembrano non lasciare più
spazio a niente di
libero e di disinteressato. Il card. Ratzinger evoca
la figura del Faraone, al quale Mosè chiede che il popolo sia lasciato
partire nel deserto. Perché? Non immediatamente per essere libero, ma
piuttosto "per servire il Signore" (Es. 10, 26), cioè per sacrificare al
Signore. Proprio questa richiesta di prestare a Dio il culto di
adorazione provoca l'irrigidimento, la persecuzione e, infine, la
drammatica sconfitta del tiranno. Il culto a Dio diventa l'espressione e
la causa della libertà del popolo. L'esegesi del cardinale si fa ancor
più interessante quando si arriva al "vitello d'oro" (Es. 32), immagine
classica del culto idolatrico. In realtà, vien fatto notare, l'idolatria
non sta
tanto nell'aver scelto un altro dio al posto di
quello vero, perché il popolo è convinto di prestar culto al Dio dei
padri. Il peccato sta nel non aver saputo aspettare il ritorno dalla
montagna di Mosè, che doveva insegnare al suo popolo il modo giusto di
prestar culto a Dio, il modo che solo Egli stesso può insegnare. "L'uomo
non può "farsi" da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se
Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: "noi non sappiamo con
che cosa servire il Signore" (Es 10, 26), nelle sue parole emerge di
fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie" (p. 17). Infatti
oggi, di fronte al grigiore della gabbia tecnocratica, la fretta che
essa stessa imprime induce molti a cedere alla
tentazione del "fai da te". È questa proprio una delle caratteristiche
più salienti della Nuova Religiosità. Una libertà frutto di una scelta
arbitraria del soggetto è una libertà vana, come una fuga verso il
nulla. Solo l'oggettività del Vero e del Bene può costituire il punto
d'appoggio della libertà autentica. Ma il Vero e il Bene si sono
incarnati in Cristo e a partire da lui hanno tracciato una via che si
esprime fontalmente nella liturgia, "culmen et fons" della vita della
Chiesa (5). Quando un fuggiasco da questo mondo entra in una chiesa,
alzando lo sguardo al soffitto può scorgere - è tipico delle chiese
barocche - un cielo
aperto: questo è, dovrebbe essere, la liturgia.
3. Liturgia "cosmica"
Un
altro aspetto dell'essenza della liturgia è il suo orientamento insieme
cosmico e storico. Qui il card. Ratzinger tocca un punto oggetto di una
vasta discussione sul senso stesso del cristianesimo. È una religione
che si fonda tutta su un positivo intervento profetico di Dio, di
carattere storico, o ha anche un fondamento nella natura delle cose,
nella creazione di Dio? Questa impostazione si ricollega a quella -
apparentemente così lontana - dell'enciclica Fides et ratio di Papa
Giovanni Paolo II sui rapporti fra fede e ragione (6). Dio si rivela non
solo nella storia, ma anche, e previamente, nel cosmo. Così il culto da
Lui voluto come via d'accesso
dell'uomo a quella vita divina che Egli vuole
donare, avrà un carattere non solo storico - cioè riferito agli eventi
salvifici con cui Dio è entrato nella storia, dal passaggio del Mar
Rosso al sacrificio del Golgota -, ma anche cosmico. Il cielo e la
terra, i punti cardinali, il sorgere e il tramontare del sole, e così
via, parlano di Dio e segnano indelebilmente il modo con cui l'uomo si
può e si deve rivolgere a Dio.
Il
grande quadro in cui il cardinale inserisce il suo discorso sulla
liturgia è quello dell'exitus-reditus: da Dio tutto proviene, a Dio
tutto ritorna, non per un processo necessario, che vincolerebbe -
contradditoriamente - Dio al mondo, ma per un procedimento che ha nel
suo nucleo centrale il fatto della libertà. Dio crea esseri liberi,
perché solo nella libertà possono partecipare alla sua vita divina, che è
vita d'amore. Non si può amare per costrizione. A percorrere questo
cammino è Dio stesso in Cristo. I Vangeli, in modo particolare quello di
Giovanni, usano spesso immagini dinamiche per descrivere tutta la
vicenda della vita terrena di Gesù e
soprattutto la sua Pasqua. Già il termine "pasqua"
significa etimologicamente passaggio, attraversamento. "Prima della
festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da
questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li
amò sino alla fine" (Gv. 13, 1). "Dove vado io voi non potete venire"
(Gv. 13, 33; 8, 21), è qui indicato chiaramente che il gesto di Gesù,
quello del suo sacrificio che nella risurrezione è destinato a vincere
la morte, a "sfondare" le barriere dell'inferno, è irraggiungibile per
qualsiasi altro che non sia l'uomo-Dio. Gesto che non è però di un
"solitario": "Io vado a prepararvi un posto;
quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E
del luogo dove io vado, voi conoscete la via" (Gv. 14, 2-4). Ecco allora
che il senso della liturgia diventa chiaro: vuol dire rendere presente
in tutta la storia degli uomini l'evento fondante, cioè la Pasqua del
Signore, perché tutti vi possano, se lo vogliono, partecipare. Molti
elementi, a prima vista poco comprensibili, diventano in quest'ottica
evidenti: la necessità dei riti e dei simboli, perché solo essi
permettono di partecipare a un evento divenuto ormai eterno e
trascendente. La necessità del mistero, perché "Cristo [...], venuto
come sommo sacerdote di beni
futuri, attraverso una Tenda più grande e più
perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa
creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio
sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una
redenzione eterna" (Eb. 9, 11-12; 10, 10-12). La liturgia si situa
strutturalmente in mezzo, sulla soglia: fra la terra e il cielo, fra un
santuario fatto di pietre o di mattoni e il santuario celeste,
appartenente a una nuova creazione. La necessità di regole non fatte
dall'uomo, o che - se pure sono materialmente tali - si concepiscono
sempre come espressione o interpretazione di norme immutabili, che sono
la via, non costruita da mani d'uomo, per
compiere la volontà di Dio e ritornare a Dio.
Il
fatto che le leggi liturgiche o sono il risultato di una prassi
immemoriale oppure sono promulgate o riconosciute dall'autorità suprema,
esprime questa necessità ed è esso stesso un segno liturgico.
Inoltre,
il fatto che nella liturgia cosmo e storia s'intreccino, anzi esprimano
un'unità profonda, è in stretta connessione con un tema teologico che
si trova in stretta sintonia con il movimento liturgico, quello
dell'assoluto primato di Cristo, non solo nell'ordine della redenzione,
ma già anche nell'ordine della creazione. È quello stesso tema che - a
livello sociale - si esprime come regalità di Cristo. Il cosmo, e l'uomo
in particolare come micro-cosmo, sono stati creati in Cristo, cioè il
Verbo - e il Verbo incarnato - è stato il progetto e il modello che ha
presieduto alla creazione dell'uomo e del mondo per l'uomo. "Per mezzo
di lui sono
state create tutte le cose, quelle nei cieli e
quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni,
Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per
mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte
sussistono in lui" (Col. 1, 16-17; cfr. Ef. 1, 3-14) (7).
4. I "santi segni"
L'ultima
parte dell'opera riecheggia I santi segni di Guardini ed è come una
manuductio alla comprensione dei fondamentali gesti e simboli liturgici:
il segno della croce, l'inginocchiarsi, lo stare in piedi o il sedersi,
gli abiti e le suppellettili. Tutto questo è espressione di un
determinato modo di atteggiarsi, che non è arbitrario, ma fissato e, per
così dire, stilizzato. È il "rito". La mentalità illuministica e
l'intellettualismo che essa veicola tende a relegare il rito nell'ambito
dell'accessorio, del superfluo, del "superstizioso". Ciò che conta è il
comportamento, la morale. Immanuel Kant (1724-1804) ha criticato la
religiosità che si esprime nella ritualità,
riducendola invece all'essenziale, cioè all'etica. In pochi passaggi il
card. Ratzinger fa magistralmente notare come la posta in gioco sia
alta: il problema del rito non si riduce solo a un aspetto schiettamente
antropologico che lo rende in qualche modo necessario. Oggi proprio le
scienze umane attirano l'attenzione sull'irrinunciabilità del rito per
l'uomo. Invece anche qui il nocciolo della questione è soprattutto
teologico: "[...] l'uomo cerca sempre il modo giusto di onorare Dio, una
forma di preghiera e di culto comune che piaccia a Dio stesso e sia
conforme alla sua natura. In questo contesto si può ricordare che la
parola "ortodossia"
all'origine non significava, come oggi quasi sempre
si intende, "retta dottrina". Da una parte, infatti, la parola "doxa" in
greco significa "opinione", "apparenza"; d'altra parte, nel linguaggio
cristiano, essa significa qualcosa come "vera apparenza", vale a dire:
"gloria di Dio". Ortodossia significa quindi il modo giusto di onorare
Dio e la retta forma di adorazione. In questo senso l'ortodossia è per
sua stessa definizione anche "ortoprassi"; il contrasto moderno tra i
due termini, nella loro origine si risolve da se stesso. Il punto non
sono delle teorie su Dio, ma la vera strada per incontrarLo. Grande dono
della fede cristiana fu
quello di apprendere ora qual è il vero culto, in
che modo si onora davvero Dio - nella partecipazione orante e nella
condivisione del cammino pasquale di Gesù Cristo, nel prendere
pienamente parte alla sua "Eucharistia", in cui l'Incarnazione conduce
alla Resurrezione - sulla via della croce. Si potrebbe dire,
parafrasando un'espressione di Kant: la liturgia riferisce tutto
dall'Incarnazione alla Resurrezione, ma sulla via della croce. Il "rito"
è dunque per i cristiani la forma concreta, che supera i tempi e gli
spazi, in cui si è comunitariamente configurato il modello fondamentale
dell'adorazione che ci è stato donato dalla fede; a sua volta, questa
adorazione [...] coinvolge sempre
l'intera prassi della vita. Il rito ha, dunque, il
suo luogo primario nella liturgia, ma non solo in essa. Esso si esprime
anche in un modo determinato di fare teologia, nella forma della vita
spirituale e negli ordinamenti giuridici della vita ecclesiale" (pp.
155-156).
In
definitiva, l'ostilità nei confronti del rito denuncia un atteggiamento
"pelagiano", cioè l'illusione di far da soli, senza porre il dono di
Dio, la grazia, a fondamento del proprio essere e del proprio agire.
5. Una polemica
L'opera
ha subìto sulle pagine della rivista Vita Pastorale, a firma del
liturgista padre Rinaldo Falsini O.F.M., una stroncatura radicale (8).
Credo valga la pena dedicare un po' d'attenzione a questa polemica
"domestica", sia perché riflette in modo esemplare le discussioni che il
saggio ha suscitato un po' dappertutto nella Chiesa, sia per l'indubbia
influenza che Vita Pastorale esercita, soprattutto attraverso il clero a
cui si rivolge direttamente, sull'insieme della vita ecclesiale
italiana. La critica di padre Falsini si può così riassumere: l'opera
del card. Ratzinger è un'ottima meditazione teologica sulla liturgia, ma
è pericolosissima
nel momento in cui avanza proposte concrete, che
sono l'espressione di "pregiudizio anticonciliare" (9) e rischiano di
minare la fiducia dei fedeli nella bontà e nella positività della
riforma liturgica. Inoltre, le proposte di reintrodurre nella liturgia
l'orientamento della celebrazione verso il sole che sorge, di porre il
crocifisso sull'altare e di recitare la preghiera eucaristica a voce
bassa, sarebbero - secondo padre Falsini - prive di un fondamento
storico serio e pastoralmente inaccettabili.
La
polemica aiuta a evidenziare meglio le finalità precise dell'intervento
del cardinale. Come ho già fatto notare, ci troviamo davanti a un testo
suscettibile di dare l'avvio a un'ampia riflessione sul valore e sul
significato della liturgia, qualcosa che si potrebbe anche chiamare un
nuovo movimento liturgico, teso immediatamente non all'introduzione di
cambiamenti nella prassi liturgica, quanto piuttosto a una visione più
profonda, di carattere teologico, spirituale e pastorale della liturgia e
del suo ruolo nell'esistenza cristiana. Il card. Ratzinger non è nuovo a
questo argomento, perché alla teologia della liturgia ha già dedicato
altre due opere, La
festa della fede. Saggi di Teologia liturgica (10), e
Cantate al Signore un canto nuovo (11). La teologia liturgica, come
egli la concepisce, non si limita a giustapporsi alla liturgia, ma
mantiene con essa un collegamento vitale, guarda volentieri alla
concreta prassi liturgica e non disdegna dall'avanzare critiche e
proposte. Il rischio è quello di recepire solo questi aspetti più
appariscenti, tralasciando il contesto teologico da cui procedono e in
cui s'inseriscono. Il rischio è soprattutto quello di non cogliere la
proposta di fondo: una rinnovata meditazione sulla realtà della liturgia
per una rinnovata vita liturgica. Tutto nella polemica sembra ruotare
attorno all'altare rivolto a Oriente e alla
preghiera eucaristica recitata sottovoce dal
sacerdote.
L'enfatizzazione
della celebrazione versus populum, che è diventata quasi il simbolo
della riforma liturgica o addirittura di tutto l'aggiornamento
conciliare, è sottoposta dal cardinale a critica serrata. Dopo aver
rilevato che i dati sicuri della storia liturgica attestano che la
direzione verso oriente della preghiera cristiana è un fatto pressoché
unanimemente attestato in Oriente e anche in Occidente, si pone la
domanda se questa importante indicazione della storia non possa e non
debba ancor oggi giocare un ruolo significativo: "La forma originaria
della preghiera cristiana può dirci ancora oggi qualcosa o dobbiamo
semplicemente cercare la nostra
forma, la forma per il nostro tempo? Ovviamente non
vi è solo il desiderio di imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed
esprimere l'essenziale. Quel che importa è, quindi, continuare a
scoprire quello che è essenziale attraverso i cambiamenti epocali.
Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro
secolo. Era giusto avvicinare al popolo l'altare spesso troppo lontano
dai fedeli [...]. Era anche importante tornare a distinguere con
chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia
eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente
di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano
l'uno di fronte all'altro colui che
annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano
nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo
trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece,
essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera
eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma
dell'essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma
l'adorazione comune, l'andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio
chiuso in se stesso esprime l'essenza dell'evento, ma la partenza
comune, che si esprime nell'orientamento comune" (pp. 76-77).
Anzitutto
è importante mettere a fuoco con chiarezza l'oggetto del contendere,
perché ciascuno possa farsi un'opinione fondata. Vorrei chiarire cioè
dove propriamente si situano i problemi.
1.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II non c'entra, perché la Costituzione
sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium non dice proprio nulla sulla
celebrazione versus populum e sul modo di recitare la preghiera
eucaristica.
2.
Neppure la riforma liturgica è messa in discussione in quanto tale,
semmai lo sono alcune sue espressioni, che non costituiscono affatto
quanto in essa vi è di più sostanziale.
Il
punto di partenza teologico delle proposte del card. Ratzinger sta in
due concetti che dovrebbero essere condivisi da tutti i teologi e i
liturgisti cattolici.
1. L'orientamento della celebrazione è al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo.
2.
La "figura" - Gestalt - propria della Messa non è il convito ma
l'eucaristia, cioè la preghiera di lode e di azione di grazie sugli
elementi materiali del pane e del vino.
Sul primo punto non vale la pena spendere tante parole.
Sulla
"figura" della celebrazione il discorso può apparire più problematico,
posto che uno dei padri del movimento liturgico, Guardini, ci ha
lasciato la formula secondo cui la Messa è un sacrificio nella forma del
banchetto. Formula assolutamente ortodossa dal punto di vista
strettamente dogmatico, ma che è stata ormai abbandonata per la sua
intrinseca fragilità. Appare infatti ovvio che la forma deve esprimere
il contenuto e che, se un sacrificio implica sempre un pasto come
conseguenza, un banchetto non implica di per sé un sacrificio. Il
cardinale aveva dedicato ampio spazio a una riflessione sulla "figura"
della celebrazione
eucaristica, mettendola in connessione con il
sacrificio ebraico della Toda in La festa della fede. Saggi di Teologia
liturgica (12). Qui riprende il tema più succintamente, sottolineando
come la Messa cristiana rappresenti la realizzazione perfetta della
loghiké Thusía, cioè del sacrificio "secondo il Logos", sacrificio
perfettamente spirituale, che qui però è sacrificio del Logos fatto
carne. È un'autentica azione sacrificale, compiuta solo con una
preghiera - la preghiera eucaristica -, che non è solamente preghiera di
lode e di ringraziamento per il sacrificio già offerto da Gesù, come
condanna il Concilio Tridentino (1545-1563), ma è ri-presentazione
misterica dello stesso sacrificio
che diventa in quell'atto anche sacrificio della
Chiesa. Quest'atto nasce certamente nel contesto dell'ultima cena, ma
dice riferimento al sacrificio del Tempio, di cui rap-presenta e
ri-presenta il compimento sul Golgota. La liturgia cristiana ha
conservato la memoria dell'ultima cena nell'agape fraterna che
anticamente accompagnava l'eucaristia, ma ha ben presto assunto una
figura propria, che non è quella del convito. La strutturazione
dell'assemblea eucaristica cristiana ha avuto due fondamentali punti di
riferimento: la Sinagoga e il Tempio. Già la Sinagoga era orientata al
Tempio, come d'altra parte lo era la cena pasquale, in cui si consumava
l'agnello sacrificato al Tempio. Nell'eucaristia cristiana
Sinagoga e Tempio sono raccolti in sintesi, il che
si esprime anche a livello architettonico.
* * *
Il
dato della corretta "figura" della celebrazione da rinvenirsi nella
preghiera eucaristica come "cuore" e "culmine" della celebrazione (13)
può essere considerato come acquisito. Nel prestigioso dizionario di
liturgia delle Edizioni S. Paolo, alla voce Sacrificio, redatta da dom
Burkhard Neunheuser O.S.B., si legge: "La "figura" della celebrazione,
se proprio vogliamo usare questa parola, non è il (semplice) convito e
neppure un sacrificio materiale di pane e vino in quanto azione distinta
dal sacrificio di Cristo, bensì il memoriale di ringraziamento sul pane
e sul vino (elementi del convito) in cui diventa
presente l'unico sacrificio di Cristo, quello da lui
offerto in croce: sacrificio sacramentale, pieno di realtà" (14).
Sacrificio
sacramentale vuol dire sacrificio nel segno efficace. Un segno deve
esprimere la realtà di cui è segno (15). Il segno di un sacrificio
dev'essere sacrificale. Qui il segno è - complessivamente - una
preghiera su elementi materiali, perché è un sacrificio secondo il Logos
fatto carne. Deve però essere una preghiera sacrificale per svolgere
questa funzione, quindi orientata all'adorazione E non al convito, che è
solo il contesto in cui essa avviene. Essendo preghiera sacrificale, il
convito può solo logicamente seguire, come conseguenza però, non come
scopo (16).
Quindi
dom Neunheuser prosegue citando quanto i princìpi e le norme per l'uso
del Messale Romano dicono a proposito della Preghiera Eucaristica: "A
questo punto ha inizio il momento centrale e culminante dell'intera
celebrazione, vale a dire la preghiera eucaristica, cioè la preghiera di
azione di grazie e di santificazione... Il significato di questa
preghiera è che tutta l'assemblea si unisca insieme con Cristo nel
magnificare le grandi opere di Dio e nell'offrire il sacrificio" (17).
Poi commenta: "Qui risulta chiaro che non basta parlare della figura di
"convito" della messa" (18).
Il
problema vero sta dunque nel comprendere quali possono essere le azioni
liturgiche che meglio esprimono questo orientamento e questo contenuto
teologico. Qui s'inserisce la proposta del prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede di ravvivare la tradizione liturgica nella
direzione della celebrazione verso Oriente, cioè verso il sole che sorge
come simbolo di Cristo che viene. Il card. Ratzinger dà per scontato
quanto ogni buon liturgista dovrebbe sapere, cioè che il dato
dell'orientamento della preghiera liturgica verso Oriente è un dato
comune della tradizione cristiana fin dai primordi. Nell'opera in esame
non entra nei dettagli, che ha
invece affrontato altrove (19). Proprio questo
"scontato" viene invece messo in discussione.
Per
padre Falsini l'orientamento sarebbe di origine pagana, accolto in modo
unanime solo in Oriente, mentre in Occidente esso diventerebbe generale
solo a partire dal secolo IX. Per corroborare questa tesi vengono
addotti alcuni fatti, fra cui la presenza di tante chiese "orientate" a
occidente proprio a Roma e la presenza di una rubrica nel messale
tridentino che parla di celebrazione versus populum.
In
realtà quello dell'orientamento della preghiera è un dato comune a tutte
le religioni (20). I cristiani ereditano l'orientamento dal giudaismo,
solo che - lasciata cadere, per ovvie ragioni teologiche, la direzione
del Tempio - la sostituiscono con quella del sole che sorge, simbolo di
Cristo (cfr. Lc. 1, 78; Mt. 24, 27; Ap. 7, 2; At. 1, 11) e assumono così
con estrema naturalezza la prassi pagana della direzione verso Oriente,
cioè dell'"orientamento" in senso etimologico (21). Il controfatto
costituito dalla presenza in Occidente di tante chiese "occidentate" non
è ad rem. Dobbiamo infatti accuratamente distinguere l'orientamento
delle chiese e quello della preghiera. Anche nelle
basiliche romane con l'abside a occidente la preghiera era sempre
orientata: proprio così si spiega il fatto che il sacerdote si poneva
dietro l'altare e davanti al popolo. A ben guardare poi anche l'abside a
occidente rispondeva solo a un diverso concetto di orientamento, per
cui era la porta a essere rivolta verso il sole che sorge, per influsso
di Ez. 8, 16 (22). Riassume bene i fatti don Michael Kunzler: "Nella
chiesa antica l'orientamento della celebrazione era verso oriente, non
solo per il celebrante, ma anche per tutti i fedeli. Se la porta
d'ingresso era ad oriente, in effetti il celebrante stava "dietro"
l'altare rivolto verso la
comunità, ma vedeva solo delle schiene, dato che per
pregare anche la comunità si rivolgeva verso oriente. Dato che le
chiese di nuova costruzione erano sempre in maggior numero rivolte verso
oriente, ne risultò l'orientamento della celebrazione versus altare"
(23).
Certo
si può obiettare, come qualcuno ha fatto, che - qualunque sia il dato
tradizionale sul punto - l'orientamento non sarebbe capito dall'uomo
d'oggi. Nel contesto postmoderno in cui viviamo questo è molto
discutibile, posta la rinnovata sensibilità che si sta delineando per
tutto ciò che ha valore "simbolico". Pur tuttavia si può agevolmente
sottolineare che, al di là dell'orientamento strettamente "geografico",
un comune guardare nella stessa direzione al momento della preghiera -
in particolare della grande preghiera, la preghiera eucaristica - non
risulterebbe affatto di difficile comprensione. Si tratterebbe infatti
di evidenziare
gestualmente il senso della preghiera in cui si
realizza il sacrificio eucaristico, che è inequivocabilmente versus
Deum. Il cardinale ravvisa proprio nella migliore distinzione delle
diverse parti della celebrazione - liturgia eucaristica e liturgia della
parola - uno dei meriti principali della riforma liturgica. Si
tratterebbe allora di trarne tutte le conseguenze. Posto che la
celebrazione - da cogliere sempre nella sua unità - è fondamentalmente
composta di tre momenti - liturgia della parola, liturgia eucaristica e
liturgia del convito -, niente di più naturale che la liturgia della
parola e il momento della distribuzione della comunione vedano il
celebrante e il popolo faccia a faccia, mentre al
momento della liturgia sacrificale sacerdote e
popolo si volgano nella stessa direzione, verso il Padre, per il Figlio,
nello Spirito Santo.
Negli
anni 1980 la Santa Sede, in collaborazione con la Chiesa cattolica
siro-malabarese, ha realizzato la riforma dell'antico rito liturgico di
questa Chiesa, che si ricollega al rito siro-orientale o "caldeo",
riportandolo a una maggiore conformità alle origini dopo le
latinizzazioni subentrate nel corso della sua storia. In quel contesto
si è discusso anche di questo problema ed è interessante ascoltare
quanto dice un liturgista indiano a questo proposito riassumendo i dati
scientifici e la mens della Congregazione competente: "Secondo la
tradizione comune bimillenaria di tutte le Chiese, la liturgia
eucaristica si celebra versus Deum (ossia
versus Orientem o altare), cioè il popolo e il
celebrante guardano nella stessa direzione, aspettando il Signore che
verrà dall'Oriente. Dopo il concilio Vaticano II, la Chiesa latina
cominciò a celebrare la liturgia versus populum. Non si può dire, però,
che la Chiesa latina abbia completamente abbandonato la tradizione di
celebrare la Messa versus Deum. In alcune chiese e monasteri antichi si
celebra ancora la Messa secondo la tradizione comune. Lo stesso Papa
nella sua cappella privata - con la partecipazione di alcune persone -
celebra la Liturgia dell'Eucaristia versus altare. Nella basilica di San
Pietro presso i sette altari famosi e nelle altre basiliche romane
presso gli altari antichi si può
vedere ogni giorno la celebrazione della Liturgia
dell'Eucaristia versus altare. Per l'influsso della Chiesa latina,
qualche diocesi orientale cattolica ha abbandonato la celebrazione verso
l'Oriente, ma la tradizione comune è fedelmente osservata da tutte le
Chiese orientali non ancora in piena comunione con la Chiesa romana"
(24).
Padre
Falsini minimizza tutta la questione, facendo notare come i documenti
della Conferenza Episcopale Italiana in tema di altare non ne facciano
menzione. Non cita però un importante responso della Congregazione per
il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 25 settembre 2000,
che pone invece il tema dell'orientamento nel dovuto risalto (25).
Altra
sorgente di confusione è il sovrapporre - come fa padre Falsini - al
tema della direzione della preghiera il tema della centralità
dell'altare. Sono due problematiche diverse. La centralità dell'altare
non è messa in discussione da nessuno e ha lo scopo di far risaltare la
sacralità del luogo dove si compie il sacrificio e sono preparati il
cibo e la bevanda celesti di cui la Chiesa è chiamata a nutrirsi.
L'altare è simbolo di Cristo - altare, vittima e sacerdote -, per cui è
opportuno che sia unico, separato dalla parete e posto al centro
dell'abside. Anche qui le assolutizzazioni vanno però evitate, così come
dovrebbe essere evitata la
distruzione di quelle autentiche opere d'arte e di
pietà cristiana che sono spesso gli altari barocchi. Quanto mi preme
sottolineare è che la centralità dell'altare non è legata alla posizione
che il celebrante assume rispetto a esso.
A
livello metodologico, la discussione centrata sulla "figura" della
celebrazione eucaristica è di primaria importanza. Il teologo elabora il
"contenuto" teologico della celebrazione, tenendo in adeguato conto non
solo il dato biblico, patristico e magisteriale, ma anche la liturgia
come locus theologicus, in ossequio al detto legem credendi lex statuat
supplicandi, "la norma della fede è stabilita dalla norma della
preghiera", che costituisce un imprescindibile punto di riferimento di
tutta la sua riflessione. Alla luce di questa, il teologo della liturgia
cerca di enucleare le linee portanti della celebrazione, allo scopo di
percepire la sua struttura essenziale, la sua
"figura", Gestalt. Il liturgista si sforza di tradurre questa figura,
letta sempre teologicamente in stretta connessione con il suo
"contenuto" - Gehalt -, nelle forme che meglio gli convengono alla luce
della storia liturgica, delle norme ecclesiastiche e delle esigenze
pastorali. Così si delineano anche meglio gli ambiti delle diverse
competenze. Qualunque altra strada confina la liturgia o nel positivismo
legalistico, cioè nel "rubricismo", oppure nell'arbitrio
pastoralistico, che di volta in volta inventa quello che sembra più
accattivante ed efficace. La proposta del card. Ratzinger credo debba
essere letta in questa
prospettiva.
Egli
non ritiene opportuno procedere ora a nuovi cambiamenti nella liturgia,
perché di cambiamenti ve ne sono stati già tanti e i fedeli
rimarrebbero ulteriormente disorientati. La liturgia rischia di apparire
come un campo di battaglia in cui i preti sfogano la loro litigiosità
"teologica" e i fedeli ne subiscono le conseguenze. Celebrare versus
Deum è già possibile secondo il Nuovo Messale. Là dove non è possibile
perché il santuario è già stato stabilmente ristrutturato, il cardinale
consiglia di mettere un crocifisso sull'altare, secondo una modalità
prevista dalle norme vigenti. Davanti all'imbarazzo che i liturgisti
denunciano nel
rilevare la scarsa incidenza della preghiera
eucaristica, che pure dovrebbe essere il cuore della celebrazione, e
davanti alla situazione di impasse da cui si tende a uscire fabbricando
nuove preghiere sempre più banali o dando spazio a improvvisazioni che
sono in realtà abusi, il card. Ratzinger torna a proporre la recita
della preghiera "sottovoce". La proposta potrà apparire discutibile, ma
vi è da riflettere sul fatto che le moderne scienze umane hanno
abbondantemente messo in luce come la comunicazione verbale non sia
l'unica forma comunicativa e neppure sempre la più chiara. A volte i
silenzi parlano più delle parole.
In
tutto questo però rischiamo anche noi di spostare l'attenzione lontano
dall'essenziale. Scopo dichiarato dell'opera, cioè, non è quello di
"ribaltare gli altari" o di "zittire il prete", ma di avviare una
riflessione. All'intervistatore che lo incalzava nel senso di un
cambiamento concreto della posizione dell'altare, il cardinale ha
risposto così: "Tuttavia, questa dev'essere la conseguenza di una nuova
presenza del sacro nei cuori. È stata cambiata la posizione dell'Altare
perché vi era una nuova sensibilità, più didattica, direi un po' più
razionalista. Si è pensata la Messa come fosse un dialogo con il popolo.
Tutto
andava compreso, tutto doveva essere "aperto" per
essere compreso. E si è perduta la percezione del fatto che comprendere
la realtà della liturgia è cosa ben diversa dal comprendere le stesse
parole della liturgia.
"Una
pia vecchietta può comprendere benissimo la profondità del mistero,
senza tuttavia comprendere il significato di ogni parola.
"Questo
è quanto è accaduto dopo il Concilio. Il Concilio è rimasto ancora
molto equilibrato, ma dopo il Concilio è prevalsa l'idea che occorreva
aprire tutto, comprendere tutto, cosa questa che derivava da una
superficialità circa il modo di comprendere la liturgia e il suo
messaggio. Vero è che la liturgia, in questo modo, è annunciata, ma si
tratta di un annuncio differente. È molto importante che i giovani
chiamati alla vocazione riscoprano che una liturgia razionalizzata, una
liturgia in cui vige solo la preoccupazione di farsi comprendere dal
punto di vista della ragione e dal punto di vista intellettuale, non ha
più la profondità di quella
realtà che tocca il mio cuore fino al livello della
presenza di Dio in me.
"Se
si ritorna a una visione molto più profonda della liturgia come
mistero, nel senso che questo termine ha nel Nuovo Testamento, se
ritroviamo l'essenziale in questo contatto tra il popolo e il prete, nel
Signore, e se è il Signore stesso che ci tocca, allora il più
importante è stato fatto. Penso dunque che una nuova sensibilizzazione
nei confronti delle realtà della liturgia e del suo mistero, insieme a
una nuova educazione liturgica, siano le prime cose da fare. Non bisogna
pensare innanzi tutto e subito a cambiamenti. Se si ritrova una più
profonda comprensione, i cambiamenti seguiranno necessariamente" (26).
Dà sempre però un senso di profonda tristezza qualunque polemica attorno a quello che è e rimane il sacramento dell'amore.
Torniamo
dunque al nocciolo, al cuore e al culmine della celebrazione, al
momento in cui irrompe l'atto d'amore assoluto del Dio fatto uomo: nella
preghiera eucaristica l'amore infinito dell'uomo-Dio si fa infatti
presente perché noi vi partecipiamo e la Chiesa lo fa suo, quindi
"nostro" davanti a Dio e ai fratelli. Quel momento supremo che lasciava
assorto il beato padre Pio da Pietrelcina O.F.M. Cap. (1887-1968), a
volte per lungo, lunghissimo tempo, in un silenzio rotto solo dal
bisbiglio incomprensibile ma eloquente delle parole del Canone (27). In
quel momento il sacrificio di Gesù non era solo ripresentato
cultualmente, ma rivissuto, come
d'altra parte è nella sua natura profonda. Il rito è
infatti sempre mediazione, indispensabile mediazione fra la vita di
Cristo e la nostra vita.
Oggi
nelle nostre parrocchie è sempre più frequente assistere a celebrazioni
della liturgia domenicale absente presbytero (28). Ho l'impressione che
l'unica differenza con la Messa colta dalla grande maggioranza dei
fedeli è che l'una è celebrata dal diacono, o da un ministro
straordinario dell'Eucaristia, e questa dal sacerdote. Se in una
celebrazione sparissero le letture o la comunione tutti se ne
accorgerebbero. Ma se sparisce il suo "cuore"?
6. Il movimento liturgico
Si è
parlato sovente di "movimento liturgico". Si tratta di un concetto
chiave per capire quest'opera, che comunque non nasconde affatto
l'intento di contribuire alla nascita di un "nuovo" movimento liturgico.
Non è certamente questa la sede per una trattazione esaustiva o anche
solo generica di un argomento così complesso (29), ma vale la pena
tracciarne qualche linea.
Anzitutto
occorre osservare che tutta la liturgia è sempre stata "in movimento".
Uno sguardo anche solo superficiale alla sua storia convince che, se le
linee essenziali sono permanenti - e quanto è permanente non è certo
poco -, tuttavia la liturgia conosce tanti mutamenti nel corso della sua
storia. La stessa fissazione dei riti secondo testi stabiliti e
normativi è frutto di un processo durato secoli. Qualcuno insiste
nell'affermare che la liturgia dei primi secoli era "libera" e questo
costituirebbe quasi una prerogativa cristiana rispetto al ritualismo
ebraico e pagano. Ciò è esatto solo in parte, perché la libertà
consisteva
nell'improvvisare ampiamente testi e gesti che però
si riconducevano a modelli prefissati. Per certo la liturgia cristiana
si è sviluppata a partire da quella ebraica, in particolare dal culto
della Sinagoga, mentre il riferimento al Tempio rimaneva sia attraverso
il legame che la Sinagoga conservava con il Tempio, sia attraverso il
senso tipologico che il Tempio con il suo culto sacrificale manteneva
rispetto al sacrificio perfetto di Cristo. I diversi contesti culturali e
le diverse epoche hanno dato origine a diversi "riti" (pp. 156-162) e a
forme diverse, che questi riti hanno assunto nel corso della loro
storia. Tuttavia i riti non sono "[...] solo prodotti
dell'inculturazione, benché
abbiano fatto propri elementi di culture diverse.
Essi sono figure della tradizione apostolica e del suo sviluppo nei
grandi ambiti tradizionali" (p. 160).
Certamente
l'interesse e l'amore per la liturgia cristiana hanno sempre
accompagnato la sua storia ormai bimillenaria, ma si può parlare di
"movimento liturgico" in senso vero e proprio quando sorge il problema
di una disaffezione - che è sempre, a monte, una mancanza di
comprensione - per la liturgia. Dove debba essere collocato l'in
principio cronologico di questo evento è oggetto di discussione fra gli
storici e i liturgisti. Vi è chi lo fa iniziare con l'Illuminismo, chi
lo posticipa al secolo XIX o all'inizio del XX o chi lo anticipa -
almeno quanto a germi precorritori - addirittura al tardo Medioevo.
Alcuni punti di riferimento certi sono
questi: il primo a usare il termine - e certamente
un padre, se non il padre, riconosciuto del movimento - è l'abate di
Solesmes, in Francia, dom Prosper Guéranger (30). Il nome di dom
Guéranger è legato anche alla riforma del monachesimo benedettino nel
secolo XIX e certamente le vicende della liturgia nei tempi moderni sono
profondamente legate all'ordine di san Benedetto che è divenuto, per
così dire, il custode delle ricchezze e dei valori della liturgia in
Occidente. Dello stesso ordine sono infatti il belga dom Lambert
Beauduin O.S.B. (1873-1960) e il tedesco dom Odo Casel O.S.B.
(1886-1948), nomi "chiave" per intendere le vicissitudini del movimento
liturgico. Così come vanno ricordati i
"luoghi" benedettini: accanto al già menzionato
Solesmes, Maria Laach e Beuron in Germania, Maredsous e Mont-César in
Belgio, per segnalare solo i più importanti. Come ho già osservato, nel
secolo XX è assolutamente significativo Guardini. Se il movimento ha una
sua struttura unitaria non si può dire che fosse così negli intenti,
tanto che gli si possono attribuire diverse "anime".
Vi è
un'anima storicizzante, che tende a ricercare la forma liturgica più
pura nell'antichità. Vi è la tendenza a idealizzare il periodo del rito
romano "puro", cioè non ancora inquinato dagl'influssi gallicani e
franchi del Medioevo. Nasce una caratteristica mentalità che predilige
il romanico, è sospettosa nei confronti del gotico e aborrisce il
barocco. A questa mentalità è riconducibile una deviazione che è stata
detta "archeologismo", cioè il pensiero che l'originario rappresenti
sempre la perfezione e che tutto quanto si è aggiunto nella storia sia
decadenza e appesantimento del tempo, dimenticando il valore dello
sviluppo
organico che nella Chiesa è opera dello Spirito
Santo. Non tutto quanto si aggiunge nel tempo è sempre buono, ma non
vale neppure il criterio contrario. È opportuno un discernimento, a cui
tutti - pastori, teologi e semplici fedeli - possono dare il loro
contributo, ma di cui solo il Magistero rappresenta l'istanza
definitiva.
Vi è
poi un'anima metafisica, che vede nella liturgia l'espressione
dell'oggettività della fede e della preghiera contro lo spirito
soggettivistico e individualistico che nasce con il tardo Medioevo, ma
che in qualche modo, secondo alcuni ambienti liturgici, è già preparato
dalla Scolastica. Si riconosce certamente il criterio di giudizio
classico della scuola contro-rivoluzionaria. A quest'anima è ascrivibile
però uno degli episodi più discutibili della storia del movimento
liturgico: la polemica che vede i liturgisti contrapporsi agli Esercizi
Spirituali di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556) e in generale alla
mistica "moderna", tacciata
appunto di psicologismo e d'individualismo.
Vi
è, infine, un'anima pastorale, preoccupata soprattutto della divisione
che nella liturgia si riscontra fra clero e popolo (31) e
dell'incomprensione che anche nel clero sussiste sul vero senso della
liturgia, ridotta a un "insieme di norme", dette "rubriche", a causa del
colore rosso con cui venivano scritte le indicazioni operative nei
libri liturgici, dove i testi delle preghiere erano in nero, prassi
tuttora conservata. Da cui il termine "rubricismo" per indicare un modo
solo esteriore e giuridico di affrontare la liturgia. A quest'anima
dev'essere attribuita la particolare sensibilità per la "partecipazione
attiva"
(32) dei fedeli alle celebrazioni. Il termine risale
a Papa san Pio X, che può essere a pieno titolo annoverato fra i
pionieri del movimento liturgico. Anche qui però abbiamo un possibile
sviluppo negativo, perché l'esasperazione di questo principio porta con
sé, puramente e semplicemente, la distruzione della liturgia (33).
Naturalmente
un "nuovo" movimento liturgico deve tener conto di tutta la strada
percorsa e, facendo propria la sostanza certamente positiva
dell'"antico" movimento liturgico, saperne superare - con il senno del
poi che fa della storia un'autentica magistra vitæ - quelle tendenze
negative che proprio nel postconcilio sono emerse con valenza
distruttiva, rischiando di compromettere la sopravvivenza stessa
dell'"affresco". Né si può escludere a priori che qualcuna di queste
tendenze abbia giocato un suo ruolo anche nella riforma liturgica
stessa.
In
questo processo di discernimento è certamente importante anche
raccogliere le critiche che sono state sollevate nei confronti della
riforma. Si va da critiche di carattere dogmatico, che ne mettono in
discussione addirittura l'ortodossia cattolica, a quelle di carattere
storico, liturgico o pastorale. Le critiche radicali di carattere
dogmatico sono certamente inconsistenti (34), mentre più serie, anche se
da vagliare con grande spirito critico e con discernimento "cattolico",
quelle di altra natura (35). Da più parti si parla con insistenza di
"riforma della riforma" (36), proprio rilevando le carenze della recente
riforma liturgica.
Bisogna però tener conto del fatto che il processo
di maturazione che ha portato dal "movimento" alla "riforma" liturgica è
durato almeno cinquant'anni. Questi sono i tempi della Chiesa.
7. La religiosità popolare
Dopo
aver capito che l'esito della secolarizzazione non era la scomparsa del
religioso, ma la sua inflazione, si è tornati a osservare con interesse
il fenomeno della religiosità popolare. Anche in questo caso ha
nuociuto al movimento liturgico l'eccessivo fissarsi sull'"oggettivo",
cioè sul "dato" tradizionale e liturgico, che ha creato diffidenza nei
confronti della mistica e della devozione popolare, accusate di
eccessiva soggettività e sentimentalismo. Di fatto "soggettivo" e
"oggettivo" sono come due facce di un'unica inseparabile medaglia:
qualunque realtà è "oggetto" solo per un "soggetto"
che effettivamente la coglie e se ne appropria.
Negli ambienti liturgici la devozione popolare è di frequente guardata
con disprezzo e tacciata di "devozionismo". In realtà questo è il modo
in cui spesso i temi della liturgia sono vitalmente fatti propri dal
popolo. La religiosità popolare è il luogo di una genuina creatività
liturgica, molto più autentica di quella prodotta a tavolino da
professori di liturgia. Fra la religiosità popolare e la creatività dei
professori vi è lo stesso rapporto che si riscontra fra la vita che i
classici latini hanno continuato a godere nel Medioevo e la
sopravvivenza fredda e meccanica - anche se per certo filologicamente
più esatta - che hanno conosciuto
nella stagione dell'Umanesimo e del Rinascimento. La
differenza fra paraliturgia popolare e liturgia ufficiale va certamente
mantenuta, purché la distinzione non diventi separazione, che degenera
fatalmente in dialettica, e si conservi quindi la possibilità di uno
scambio vitale, che assicuri alla liturgia un'autentica crescita
organica e alla devozione il modello e il controllo della tradizione
ecclesiastica. Si può dire, con una non debole analogia, che la liturgia
sta alla devozione popolare come il dogma sta alla riflessione
teologica.
Tornando
alla metafora da cui sono partito, ci si può chiedere in che cosa
consista quell'affresco da riscoprire e da non rovinare, cioè
quell'essenza della liturgia di cui nuovamente riappropriarsi. È
evidente che non si tratta della liturgia di un dato momento storico,
fosse pure quello della "liturgia romana classica", espressione con la
quale s'indica la liturgia di Roma a partire dal passaggio dal greco al
latino, sotto il pontificato di san Damaso (366-384), fino ai secoli VII
e VIII, quella liturgia che i pellegrini franco-germanici ammiravano
estasiati e cercavano di portare anche nelle loro contrade, come avvenne
ai pellegrini di Kiev per la
liturgia bizantina; ancora, la liturgia che, con la
sua nobile semplicità, romana gravità e serena bellezza ha contribuito
in modo certamente determinante a forgiare l'Europa cristiana
occidentale. Ebbene, non si tratta né di questa liturgia né del messale
tridentino o "di san Pio V". Si tratta piuttosto dell'essenza della
liturgia: "Ogni età deve ritrovare ed esprimere l'essenziale. Quel che
importa è, quindi, continuare a scoprire quello che è essenziale
attraverso i cambiamenti epocali" (p. 77).
8. Conclusione
Il
vero rinnovamento lo attua non chi cerca direttamente di essere
aggiornato, ma chi oggi, nella situazione in cui si trova e con le
risorse a disposizione, cerca con tutte le forze di andare
all'essenziale, di ritrovare il centro della liturgia partendo da quel
punto della circonferenza che è il suo momento storico. Così come la
vera inculturazione è attuata non da chi la cerca per sé stessa, ma da
chi, vivendo pienamente in una data cultura, con essa e a partire da
essa, cerca di cogliere l'essenza di una dottrina e di viverla,
ovviamente al prezzo anche di staccarsi da quegli aspetti della sua
mentalità che alla prova risultano incompatibili con la
dottrina riconosciuta vera. Si vede ancora una volta
la fondamentale differenza che intercorre fra relativismo e
prospettivismo. Il relativismo concepisce la verità come legata a una
variabile indipendente, per esempio nel caso dello storicismo la verità
dipendente dal momento storico. Nel prospettivismo, nonostante le
apparenti somiglianze, si verifica esattamente l'opposto, perché è il
momento storico - o l'uomo che vive nel momento storico - a concepirsi
come assolutamente dipendente dalla verità. Come ammoniva a suo tempo
Michele Federico Sciacca (1908-1975): "Non c'è storia della verità, ma
dell'umana scoperta di essa" (37).
E
talora, come suggerisce Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), "Per rinnovare
non è necessario contraddire, basta approfondire" (38).
Certamente
l'opera del card. Ratzinger è un contributo essenziale a un
approfondimento di tale natura, non puramente accademico e mirante a
un'erudizione fine a sé stessa, ma finalizzato a riappropriarsi
dell'essenza della liturgia, così com'essa è oggi presente nella Chiesa e
attraverso la Chiesa, per far sì che continui a essere anche domani
quello che da sempre è: culmen et fons.
(don Pietro Cantoni)
* * *
Da: Joseph Ratzinger – Introduzione allo spirito della Liturgia – San Paolo,
2001
Parte seconda, capitolo terzo.
“L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia”
Le trasformazioni fin qui descritte della sinagoga in funzione della liturgia cristiana permettono – come
si è già detto – di riconoscere molto chiaramente la continuità e la novità nel rapporto tra Antico e Nuovo
Testamento anche dal punto di vista architettonico. Prendeva così forma lo spazio per il culto cristiano vero
e proprio, la celebrazione eucaristica, con il servizio della Parola ad essa ordinato. È chiaro che ulteriori
sviluppi erano non solo possibili, ma necessari. Il Battesimo doveva trovare un suo spazio appropriato. Il
sacramento della penitenza ha avuto una lunga evoluzione, i cui risultati dovevano trovare riscontro nella
conformazione della Chiesa. La devozione popolare, nelle sue molteplici forme, ha trovato necessariamente
espressione anche nello spazio liturgico. Bisognava chiarire la questione delle immagini, trovare una giusta
collocazione alla musica sacra. Ma anche il canone architettonico della liturgia della Parola e di quella
sacramentale, così come noi lo conosciamo, non era affatto rigido; naturalmente di fronte a ogni
evoluzione e cambiamento ci si deve chiedere che cosa corrisponde all’essenza della liturgia e che cosa
allontana da essa. In relazione a questa domanda la forma degli spazi liturgici della cristianità di lingua e
cultura semitica, di cui abbiamo parlato poco sopra, offre dei criteri che non è possibile trascurare.
Soprattutto, però, al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al
secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è
espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia
della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già donato così come la
dinamica del progredire in avanti trovano in essa pari espressione.
L’uomo contemporaneo comprende poco tale “orientamento”. Mentre per l’ebraismo e per l’islam
continua a essere ovvio che si deve pregare rivolti verso il luogo centrale della Rivelazione – verso Dio che si
è mostrato a noi, dove e come egli si è mostrato a noi –, nel mondo occidentale è divenuto dominante un
pensiero astratto che, per qualche aspetto, è persino frutto della stessa evoluzione della cultura cristiana.
Dio è spirito, e Dio è dappertutto. Ciò non significa forse che la preghiera non è legata a nessun luogo e a
nessuna direzione? In effetti, noi possiamo pregare dovunque, e Dio è per noi raggiungibile dovunque.
Questa universalità del pensare a Dio è conseguenza dell’universalità cristiana, dello sguardo cristiano al
Dio che è al di sopra di tutti gli dei, che abbraccia il cosmo e che è più intimo a noi di noi stessi. Ma la
consapevolezza di questa universalità è frutto della Rivelazione: Dio si è mostrato a noi. Solo per questo lo
conosciamo, solo per questo possiamo abbandonarci con fiducia a lui nella preghiera in ogni luogo. E
proprio per questo continua a essere appropriato il fatto che nella preghiera cristiana trovi espressione la
dedizione fiduciosa al Dio che si è rivelato a noi. E come Dio stesso ha preso un corpo, è entrato nello spazio
e nel tempo della terra, così è giusto – almeno nella preghiera liturgica comunitaria – che il nostro parlare
con Dio sia “incarnato”, cristologico, si volga al Dio trinitario attraverso la mediazione del Verbo incarnato.
Il simbolo cosmico del sole che sorge esprime ad un tempo l’universalità al di sopra di tutti i luoghi e
mantiene comunque la concretezza della rivelazione di Dio. La nostra preghiera si colloca così nella
processione dei popoli verso Dio.
Come stanno però le cose con l’altare? In quale direzione preghiamo nella liturgia eucaristica? Mentre
nella costruzione delle chiese bizantine la struttura ora descritta veniva sostanzialmente mantenuta, a
Roma si è andata sviluppando una diversa disposizione. Il seggio episcopale viene spostato al centro
dell’abside; di conseguenza, anche l’altare viene portato nella navata centrale. Pare che nella Basilica
Lateranense e in Santa Maria Maggiore le cose siano state così fino al secolo nono. Nella Basilica di San
Pietro, invece, sotto il pontificato di Gregorio Magno (590‐604) l’altare fu collocato vicino al seggio
episcopale, probabilmente perché così veniva a trovarsi sopra la tomba di san Pietro. Trovava così
espressione concreta il fatto che noi celebriamo il sacrificio del Signore nella comunione dei santi, che
abbraccia ogni tempo. L’usanza di edificare l’altare sopra le tombe dei martiri risale molto indietro nel
tempo ed esprime sempre lo stesso concetto: i martiri continuano lungo tutto il corso della storia il
sacrificio di Cristo; essi sono, per così dire, l’altare vivente della Chiesa, che non è fatto di pietra, ma di
persone che sono divenute membra del corpo di Cristo e che esprimono così il nuovo culto: il sacrificio è
l’umanità che con Cristo si trasforma in amore. Sembra, poi, che la disposizione adottata nella Basilica di
San Pietro sia stata imitata anche in molte altre chiese romane.
I singoli particolari di questi sviluppi sono oggetto di discussioni che, per le nostre riflessioni, rivestono
scarsa importanza. Nel nostro secolo il dibattito è stato piuttosto acceso da altre innovazioni. Le indagini
topografiche hanno infatti rivelato che la Basilica di San Pietro guardava verso occidente. Se, dunque, il
sacerdote celebrante voleva guardare verso oriente – così come esige la tradizione liturgica cristiana –,
allora egli doveva trovarsi dietro il popolo e, di conseguenza, guardava verso il popolo. In ogni caso, per
influsso diretto della Basilica di San Pietro, si può ritrovare questa disposizione in tutta una serie di altre
chiese. Il rinnovamento liturgico del nostro secolo si è rifatto a questa presunta posizione del celebrante,
per sviluppare sulla sua base una nuova idea di forma liturgica: l’Eucaristia deve essere celebrata versus
populum (in direzione del popolo); l’altare – come si può dedurre dalla configurazione di San Pietro,
ritenuta normativa, deve essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a
vicenda e costituire così nel loro insieme il cerchio dei celebranti. Solo questa forma corrisponderebbe al
senso della liturgia cristiana, all’impegno della partecipazione attiva. Solo così si corrisponderebbe, inoltre,
all’immagine originaria dell’Ultima Cena. Queste conclusioni appaiono poi tanto convincenti che dopo il
Concilio (che, di per sé, non parla di “disposizione verso il popolo”) da tutte le parti si sono eretti nuovi
altari; la celebrazione orientata versus populum appare oggi come il vero frutto del rinnovamento liturgico
operato dal Concilio Vaticano II. In effetti essa è la conseguenza più visibile di una nuova forma che non
significa solo una diversa disposizione esteriore degli spazi liturgici, ma implica anche una nuova idea
dell’essenza della liturgia come pasto comunitario.
È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della Basilica romana e della disposizione
dell’altare al suo interno. Quanto meno approssimativa è poi anche l’immagine dell’Ultima Cena di Gesù.
Ascoltiamo in proposito ciò che scrive Louis Bouyer: «L’idea che la celebrazione versus populum sia stata la
celebrazione originaria, e soprattutto quella dell’Ultima Cena, non ha altro fondamento se non un’errata
concezione di ciò che poteva essere un pasto, cristiano o meno, nell’antichità. In nessun pasto dell’inizio
dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi
stavano tutti seduti, e distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma o a ferro di cavallo. Mai,
dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi versus populum per presiedere un
pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè
dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola» (p. 38).
A questa analisi della “forma del convito” si deve comunque aggiungere che l’Eucaristia non può
certamente essere descritta adeguatamente dai termini “pasto” o “convito”. Il Signore, infatti, ha
indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha
comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale. Proprio per questo la novità si è molto
presto liberata dal suo antico contesto e ha trovato una forma a lei propria, che era già stata anticipata dal
fatto che l’Eucaristia rinvia alla croce e, quindi, alla trasformazione del sacrificio del tempio nel culto
spirituale. Altra conseguenza è che la liturgia sinagogale della Parola, rinnovata e approfondita
cristianamente, si fuse con la memoria della morte e resurrezione di Cristo, divenendo “Eucarestia” e,
proprio in questo modo, si restò fedeli all’incarico del «fate questo». Questa nuova immagine complessiva
non poteva, in quanto tale, essere desunta semplicemente dal pasto, ma dall’insieme di tempio e di
sinagoga, di Parola e di sacramento, di dimensione cosmica e storica. Essa si esprime appunto nella forma
che abbiamo ritrovato nella struttura liturgica delle prime chiese della cristianità semitica. Essa è rimasta
ovviamente fondamentale anche per Roma. Cito, in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella
data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si
sia attribuita qualche importanza o anche solo qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il
popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia
veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte
le altre preghiere, rivolto verso oriente… Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al
celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi
volgere verso oriente; era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui» (p. 39).
La consapevolezza di questo stato di cose si andò certamente oscurando nel corso della modernità o,
addirittura, andò del tutto perso, tanto nel modo di costruire le chiese che in quello di celebrare la liturgia.
Solo così si può spiegare il fatto che l’orientamento comune del sacerdote e del popolo sia stato etichettato
come “celebrazione verso la parete” o come “un mostrare le spalle al popolo” e che, quindi, sia apparso
come qualcosa di assurdo e completamente inaccettabile. Solo così si può spiegare che l’idea del “convito”
– ulteriormente ripresa nelle raffigurazioni artistiche moderne – sia divenuta ora normativa per la
celebrazione liturgica dei cristiani. In verità si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai
data in precedenza. Ora, infatti, il sacerdote – o, il “presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il
vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna
guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere
l’insieme della celebrazione. È altresì comprensibile che si cerchi poi di ridurre questo ruolo attribuitogli,
distribuendo numerose attività e affidandosi alla “creatività” dei gruppi che preparano la liturgia, i quali
vogliono e devono anzitutto “portare se stessi”. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più
importante quello che fanno le persone che qui si incontrano e che non vogliono affatto sottomettersi a
uno “schema predisposto”. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se
stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto
con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il
sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella
sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”.
Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, Joseph A.
Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di
camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma,
come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene
incontro.
Ma tutto questo non è forse romanticismo e nostalgia per il passato? La forma originaria della preghiera
cristiana può dirci ancor oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il
nostro tempo? Naturalmente non si può voler semplicemente imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed
esprimere l’essenziale. Quel che importa è, quindi, scoprire questo essenziale attraverso i cambiamenti.
Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al
popolo l’altare spesso troppo lontano dai fedeli, anche se, nelle chiese cattedrali ci si poteva comunque
richiamare alla tradizione dell’altare del Crocifisso, che aveva trovato posto nel passaggio dal presbiterio
alla navata. Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della Parola
rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso
e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro
che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo
trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso
est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è
importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma lo sguardo al Signore. Non si tratta qui di un dialogo, ma di
una adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime
l’essenza dell’evento, ma il comune andare incontro, che si esprime nell’orientamento comune.
Contro queste idee, da me già esposte in altra occasione, A. Häußling ha avanzato diverse obiezioni. Ho
già toccato la prima di esse: queste idee sarebbero ricerca romantica dell’antico, erronea nostalgia del
passato. Inoltre sarebbe strano il fatto che io mi richiami solo al cristianesimo antico, prescindendo da tutti
i secoli seguenti. Da parte di uno specialista di liturgia si tratta di un’obiezione notevole, dato che a me
sembra che il punto problematico di gran parte della moderna scienza liturgica consiste proprio nella
pretesa di riconoscere soltanto l’antico come corrispondente all’originale e quindi autorevole,
considerando tutto ciò che è successivo, che è stato elaborato in seguito, nel Medioevo e dopo Trento,
come spazzatura. Si arriva così a delle discutibili ricostruzioni di ciò che è più antico, a dei criteri mutevoli e,
quindi, a delle continue proposte di forme sempre nuove che, alla fine, finiscono per dissolvere la liturgia
cresciuta con la vita. Contro tutto ciò è importante e necessario riconoscere che non è l’antico a poter
essere in sé e per sé un tale criterio e che ciò che è venuto in seguito non può essere automaticamente
etichettato come estraneo alle origini. Ci può essere senz’altro un’evoluzione viva in cui il seme dell’origine
giunge a maturazione e porta frutto. Dovremo ritornare su questo pensiero. Nel nostro caso, però, come si
è già mostrato, non si tratta affatto di una fuga romantica nell’antico, ma della riscoperta dell’essenziale, in
cui la liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente. Häußling, evidentemente ritiene che oggi
non si può più cercare di riproporre nella liturgia l’orientamento ad est, verso il sole che sorge. Davvero ciò
non è possibile? Il cosmo non ci riguarda più? Oggi siamo davvero chiusi senza speranza nel nostro cerchio?
O non è forse proprio oggi importante pregare insieme con tutta la creazione? Non è forse proprio oggi
importante dare spazio alla dimensione del futuro, della speranza nel Signore che tornerà? Riconoscere,
quindi, e vivere la dinamica della nuova creazione come forma essenziale della liturgia?
Un’ulteriore obiezione è che non vi è bisogno di guardare verso oriente e verso la croce, dal momento
che quando il sacerdote e i fedeli si guardano reciprocamente, essi vedono nell’uomo l’immagine di Dio; di
conseguenza, il giusto orientamento della preghiera è quello in cui ci si rivolge gli uni verso gli altri. Mi
risulta difficile credere che il noto recensore abbia potuto sostenere seriamente una tesi di questo genere,
dal momento che l’immagine di Dio nell’uomo non la si vede poi così facilmente. “Immagine di Dio” non è
nell’uomo ciò che si può fotografare o che si può scorgere con uno sguardo puramente fotografico. La si
può certamente vedere, ma soltanto con il nuovo vedere della fede. Si può vedere così come si può vedere
in un uomo la bontà, la sincerità, la verità interiore, l’umiltà, l’amore – ciò che lo rende simile a Dio. Ma
proprio per questo si deve apprendere il vedere nuovo, e anche per questo esiste l’Eucaristia.
Più importante è un’obiezione pratica. Si dovrebbe allora di nuovo cambiare tutto? Niente è più
dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra, anche se apparentemente non si
tratta di vere novità. Mi sembra che una via d’uscita possa venire dalla osservazione cui ho accennato
all’inizio richiamandomi a delle osservazioni di Erik Peterson. La direzione verso oriente, si trovava in stretto
rapporto con il «segno del Figlio dell’uomo», con la croce, che annuncia il ritorno del Signore. L’Oriente fu
quindi posto molto presto in relazione con il segno della croce. Dove non è possibile rivolgersi insieme
verso oriente in maniera esplicita, la croce può servire come l’oriente interiore della fede. Essa dovrebbe
trovarsi al centro dell’altare ed essere il punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità
orante. In tal modo seguiamo l’antica invocazione pronunciata all’inizio dell’Eucaristia: «Conversi ad
Dominum» – Rivolgetevi al Signore. Guardiamo insieme a colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio,
a colui che sta presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a colui che fa di noi un nuovo
tempio vivente. Tra i fenomeni veramente assurdi degli ultimi decenni io annovero il fatto che la croce
venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia,
rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere
corretto il più presto possibile e questo può avvenire senza nuovi interventi architettonici. Il Signore è il
punto di riferimento. È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che
rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue ed acqua
– l’Eucaristia e il Battesimo –, come pure di una croce trionfale, che esprime l’idea del ritorno e attira
l’attenzione su di esso. Perché è lui, comunque, l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno (Eb 13, 8).