giovedì 6 settembre 2012

Joseph Ratzinger - Rapporto sulla Fede (Parte seconda)

 http://www.itacalibri.it/System/23250/rapporto-sulla-fede_1.jpg

Questo libro, esaltato da alcuni – ed esecrato da altri – come il «manifesto» che chiudeva la fase tellurica del post-Concilio, è ormai entrato fra i testi di riferimento della storia della Chiesa.
Per la prima volta nella storia, un Prefetto dell'ex-Sant'Uffizio parlava «a cuore aperto», con lucido e coraggioso realismo, affidando le sue riflessioni sulla fede oggi a un giornalista.
Seppure uscito nel 1985 (l'anno stesso in cui si apriva il Sinodo per i vent'anni dalla fine del Vaticano II), colpisce di questo libro la sua bruciante attualità, utile per comprendere presente e futuro della cristianità ora affidata alle cure del nuovo pontefice Benedetto XVI. Lo propongo ai lettori di questo blog a un mese dall'apertura dell'Anno della Fede.

* * *

CAPITOLO QUARTO
TRA PRETI E VESCOVI

  CAPITOLO QUINTO
SEGNALI DI PERICOLO

 CAPITOLO SESTO
IL DRAMMA DELLA MORALE

CAPITOLO SETTIMO
LE DONNE, UNA DONNA

* * *

 CAPITOLO QUARTO
TRA PRETI E VESCOVI
Sacerdote: un uomo a disagio
Se è in crisi il concetto stesso di "Chiesa", sino a che punto e perché sono in crisi gli "uomini di
Chiesa"?
Restando inteso che per il corpo episcopale sarà necessario il discorso a parte che seguirà in
questo stesso capitolo, dove vede Ratzinger le radici di un disagio clericale che in pochi anni ha
svuotato seminari, conventi, presbiteri? In un recente intervento non ufficiale, ha citato la tesi di
un famoso teologo, secondo il quale "la crisi della Chiesa d'oggi è innanzitutto una crisi dei
sacerdoti e degli ordini religiosi".
È una tesi dura - conferma un j'accuse assai aspro, ma può darsi che colga una verità. Sotto l'urto
del postconcilio i grandi ordini religiosi (e cioè proprio le colonne tradizionali della sempre
necessaria riforma ecclesiale) hanno vacillato, hanno subìto pesanti emorragie, hanno visto
ridursi a limiti mai prima raggiunti i nuovi ingressi ed oggi sembrano ancora scossi da una crisi
di identità".
Anzi, per lui, "sono stati spesso gli ordini tradizionalmente più "colti", più attrezzati
intellettualmente a subire la crisi più pesante". E ne vede un motivo: "Chi più ha praticato e
pratica certa teologia contemporanea, ne vive sino in fondo le conseguenze, come la sottrazione
quasi integrale per il prete, per il religioso delle certezze usuali".
A questa prima ragione di "sbandamento", il Prefetto ne aggiunge altre: "La condizione stessa
del sacerdote è singolare, estranea alla società d'oggi. Sembra incomprensibile una funzione, un
ruolo che non si basino sul consenso della maggioranza, bensì sulla rappresentanza di un Altro
che partecipa a un uomo la sua autorità. In queste condizioni è grande la tentazione di passare da
quella soprannaturale "autorità di rappresentanza" che contrassegna il sacerdozio cattolico a un
ben più naturale "servizio di coordinamento del consenso", cioè a una categoria comprensibile,
perché solo umana e per di più omogenea alla cultura d'oggi".
Dunque, se ho ben capito, a suo avviso si eserciterebbe sul sacerdote una pressione culturale
perché passi da un ruolo "sacrale" a un ruolo "sociale", in linea con i meccanismi "democratici",
di consenso dal basso, che contrassegnano la società "laica, democratica, pluralista". "Qualcosa
del genere - conferma -. Una tentazione di sfuggire dal mistero della struttura gerarchica fondata
su Cristo verso il plausibile dell'organizzazione umana".
Per chiarire meglio il suo punto di vista ricorre a un esempio che è di grande attualità, il
sacramento della riconciliazione, la confessione: "Ci sono sacerdoti che tendono a trasformarla
quasi solo in un "colloquio", in una sorta di autoanalisi terapeutica tra due persone sullo stesso
livello. Ciò sembra assai più umano, più personale, più adatto all'uomo d'oggi. Ma questo modo
di confessarsi rischia di avere poco a che fare con la concezione cattolica del sacramento, dove
non contano tanto le prestazioni, l'abilità di chi è investito dell'ufficio. Occorre anzi che il prete
accetti di mettersi in secondo piano, lasciando spazio al Cristo che solo può rimettere il peccato.
Bisogna dunque tornare anche qui al concetto autentico del sacramento, dove uomini e mistero si
incontrano. Bisogna recuperare interamente il senso dello scandalo per il quale un uomo può dire
a un altro uomo: "Io ti assolvo dai tuoi peccati". In quel momento - come del resto nella
celebrazione di ogni altro sacramento - il prete non trae di certo la sua autorità dal consenso degli
uomini ma direttamente da Cristo. L' "io" che dice: "ti assolvo" non è quello di una creatura ma è
direttamente l' "Io" del Signore".
Eppure, dico, non sembrano infondate tante critiche al "vecchio" modo di confessarsi. Replica
subito: "Mi sento sempre più a disagio quando sento definire con leggerezza "schematica"
"esteriore", "anonima" la maniera un tempo diffusa di avvicinarsi al confessionale. E mi suona
sempre più amaro l'autoelogio di alcuni preti per i loro "colloqui penitenziali" divenuti rari ma,
"in compenso, ben più personali" come dicono. A ben guardare, dietro la "schematicità" di certe
confessioni di un tempo c'era anche la serietà dell'incontro tra due persone consapevoli di
trovarsi davanti al mistero sconvolgente del perdono di Cristo che giunge attraverso le parole e il
gesto di un uomo peccatore. Senza dimenticare che in tanti "colloqui" divenuti sin troppo
analitici è umano che si insinui una sorta di compiacenza, un'autoassoluzione che - nel profluvio
delle spiegazioni -può non lasciare quasi più spazio al senso del peccato personale del quale, al
di là di tutte le attenuanti, siamo sempre responsabili".
Un giudizio davvero severo, osservo: non rischia forse di essere troppo drastico?
"Non voglio dire che non si potrebbe avere una riforma adeguata anche della celebrazione
esteriore della confessione. La storia mostra in proposito una tale ampiezza di sviluppi che
sarebbe assurdo voler canonizzare per sempre una singola forma, quella attuale. È indubbio che
alcuni uomini, oggi, non riescono a trovare più nessun accesso al tradizionale confessionale,
mentre la forma colloquiale di confessione apre ad essi realmente una porta. Perciò non vorrei in
nessun modo sottovalutare il significato di queste nuove possibilità e la benedizione che esse
possono rappresentare per molti. Del resto, il problema fondamentale non è questo. Il punto
decisivo della questione si trova ad un livello più profondo e ad esso volevo richiamare".
Tornando infatti alle radici in cui gli sembra di individuare la crisi del sacerdote, mi parla della
"tensione di ogni momento di un uomo, come è oggi il prete, chiamato ad andare assai spesso
controcorrente. Un uomo simile può alla fine stancarsi di opporsi, con le sue parole e ancor più
con il suo stile di vita, alle ovvietà dall'apparenza così ragionevole che contrassegnano la nostra
cultura. Il prete - colui, cioè, attraverso il quale passa la forza del Signore - è stato sempre tentato
di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla
come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua
statura umana, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà ma con fiducia per farsi elevare a
quell'altezza".
Il problema delle Conferenze Episcopali
Dai preti "semplici" passiamo ai vescovi, cioè a coloro che, essendo "successori degli Apostoli",
detengono la "pienezza del sacerdozio", sono "maestri autentici della dottrina cristiana", "godono
di autorità propria, ordinaria, immediata sulla Chiesa loro affidata" della quale sono "principio e
fondamento di unità"; e che, uniti nel collegio episcopale con il suo Capo, il Romano Pontefice,
"agiscono in persona di Cristo" per governare la Chiesa universale.
Tutte definizioni, quelle che abbiamo date, che sono proprie della dottrina cattolica
sull'episcopato e che sono state riaffermate con vigore dal Vaticano II.
Il Concilio, ricorda il card. Ratzinger, "voleva proprio rafforzare il ruolo e la responsabilità del
vescovo, riprendendo e completando l'opera del Vaticano I, interrotto dalla presa di Roma
quando era riuscito ad occuparsi soltanto del Papa. A quest'ultimo, i Padri conciliari avevano
riconosciuto l'infallibilità nel magistero quando, come Pastore e Dottore supremo, proclama da
tenersi come certa una dottrina sulla fede o sui costumi". Si era creato così un certo squilibrio
presso qualche autore di manuali di teologia che non sottolineava abbastanza che anche il
Collegio episcopale gode della medesima "infallibilità nel magistero", sempre che i vescovi
"conservino il legame di comunione tra loro e con il successore di Pietro".
Tutto rimesso a posto, dunque, con il Vaticano II?
"Nei documenti sì, ma non nella pratica, dove si è verificato un altro degli effetti paradossali del
postconcilio", risponde. Spiega, infatti: "il deciso rilancio del ruolo del vescovo si è in realtà
smorzato o rischia addirittura di essere soffocato dall'inserzione dei presuli in conferenze
episcopali sempre più organizzate, con strutture burocratiche spesso pesanti. Eppure, non
dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno
parte della struttura ineliminabile della Chiesa così com'è voluta da Cristo: hanno soltanto una
funzione pratica, concreta"
E del resto, dice, quanto riconferma il nuovo Codice di diritto canonico, che fissa gli ambiti di
autorità delle Conferenze, le quali "non possono agire validamente in nome di tutti i vescovi, a
meno che tutti e singoli i vescovi non abbiano dato il loro consenso", e a meno che non si tratti di
"materie in cui lo abbia disposto il diritto universale oppure lo stabilisca un mandato speciale
della Sede Apostolica". Il collettivo, dunque, non sostituisce la persona del vescovo il quale -
ricorda il Codice, ribadendo il Concilio - "è l'autentico dottore e maestro della fede per i credenti
affidati alle sue cure". Conferma Ratzinger: "Nessuna Conferenza episcopale ha, in quanto tale,
una missione di insegnamento; i suoi documenti non hanno un valore specifico ma il valore del
consenso che è loro attribuito dai singoli vescovi".
Perché l'insistenza del Prefetto su questo punto? "Perché - risponde - si tratta di salvaguardare la
natura stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di
federazione di chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che
sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c'è che un pastore e maestro della fede, in comunione
con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo. La Chiesa cattolica si regge sull'equilibrio
tra la comunità e la persona, in questo caso la comunità delle singole chiese locali unite nella
Chiesa universale e la persona del responsabile della diocesi".
Succede, dice, che "certa caduta del senso di responsabilità individuale in qualche vescovo e la
delega dei suoi poteri inalienabili di pastore e maestro alle strutture della Conferenza locale
rischiano di fare cadere nell'anonimato ciò che deve invece restare molto personale. Il gruppo dei
vescovi uniti nelle Conferenze dipende in pratica, per le decisioni, da altri gruppi, da appositi
uffici che producono tracce preparatorie. Avviene poi che la ricerca del punto di incontro tra le
varie tendenze e lo sforzo di mediazione diano luogo spesso a documenti appiattiti, dove le
posizioni precise sono smussate".
Ricorda che nel suo Paese una Conferenza episcopale esisteva già negli anni Trenta: "Ebbene, i
testi davvero vigorosi contro il nazismo furono quelli che vennero da singoli presuli coraggiosi.
Quelli della Conferenza apparivano invece un po' smorti, troppo deboli rispetto a ciò che la
tragedia richiedeva".
"Ritrovare il coraggio personale"
C'è una legge ineliminabile, precisa, che guida - lo si voglia o no - il lavoro dei gruppi,
"democratici" solo in apparenza. E quella legge stessa (ha ricordato un sociologo) che agì anche
al Concilio, dove in una sessione - test, la seconda, svoltasi nel 1963, alle riunioni in aula
partecipò una media di 2135 vescovi. Di questi soltanto poco più di 200, il 10 per cento,
intervenne attivamente, prendendo la parola; l'altro 90 per cento non parlò mai e si limitò ad
ascoltare e a votare.
"Del resto - dice - si capisce immediatamente che la verità non può essere creata come risultato
di votazioni. Un'affermazione o è vera o è falsa. La verità può solo essere trovata, ma non
prodotta.
Contrariamente ad una diffusa concezione, non si allontana da questa regola fondamentale
neppure la procedura classica dei Concili ecumenici. Infatti fu sempre chiaro che, di essi,
potevano diventare affermazioni vincolanti solo quelle accolte con unanimità morale. Ora ciò
non significa affatto che almeno queste conclusioni unanimemente accettate abbiano potuto, per
così dire, "produrre" la verità. Semmai, l'unanimità di un numero così grande di vescovi di
diversa provenienza, di diversa formazione culturale e di diverso temperamento è un segno che
essi parlano non di ciò che hanno "inventato", ma di ciò che hanno "trovato". L'unanimità
morale, secondo la concezione classica del Concilio, non possiede il carattere di una votazione,
ma il carattere di una testimonianza. Se uno ha chiaro questo punto, non ha più bisogno di
dimostrare per ché una conferenza episcopale (la quale per di più rappresenta un ambito molto
più limitato di un Concilio) non può votare sulla verità. Mi sia permesso richiamare, a questo
proposito, un dato di fatto psicologico: noi preti cattolici della mia generazione siamo stati
abituati ad evitare le contrapposizioni tra confratelli, a cercare sempre il punto di accordo, a non
metterci troppo in vista con posizioni eccentriche. Così, in molte conferenze episcopali, lo spirito
di gruppo, magari la volontà di quieto vive re o addirittura il conformismo trascinano la
maggioranza ad accettare le posizioni di minoranze intraprendenti, determinate ad andare verso
direzioni precise". Continua: "Conosco vescovi che confessano in privato che avrebbero deciso
diversamente da quanto fatto in Conferenza, se avessero dovuto decidere da soli. Accettando la
legge del gruppo, hanno evitato la fatica di passare per "guastafeste", per "attardati", per "poco
aperti". Sembra molto bello decidere sempre "insieme". In questo modo, però, rischiano di
perdersi lo "scandalo" e la "follia" del vangelo, quel "sale" e quel "lievito" oggi più che mai
indispensabili per un cristiano (soprattutto se vescovo, dunque investito di responsabilità precise
per i fedeli) davanti alla gravità della crisi".
Gli ultimissimi tempi, però, sembrano segnalare una inversione di tendenza rispetto alla prima
fase del postconcilio. Ad esempio, l'assemblea plenaria del 1984 dell'episcopato di Francia (si sa
che questo Paese esprime spesso tendenze interessanti per il resto della cattolicità) si è
concentrata sul tema del recentrage, il "ricentraggio". Ritorno al centro costituito da Roma; ma
anche ritorno a quel centro ineliminabile che è la diocesi, la chiesa particolare, il suo vescovo.
È una tendenza appoggiata, lo abbiamo sentito, dalla Congregazione per la dottrina della fede, e
non soltanto in modo teorico. Nel marzo del 1984, lo staff dirigente della Congregazione si è
spostato a Bogotá per la riunione delle Commissioni dottrinali dell'episcopato latino-americano.
Da Roma si è insistito perché all'incontro partecipassero i vescovi in persona e non i loro
rappresentanti, "in modo da sottolineare - dice il Prefetto - la responsabilità propria di ciascun
presule che, per usare le parole del Codice, "è il moderatore di tutto il ministero della Parola,
colui cui spetta di annunciare il vangelo nella Chiesa affidatagli". Questa responsabilità
dottrinale non può essere delegata. Ci sono invece alcuni che considerano inaccettabile persino il
fatto che il vescovo scriva personalmente le sue lettere pastorali!".
In un documento a sua firma, il card. Ratzinger ricordava ai fratelli nell'episcopato l'esortazione
severa e appassionata dell'apostolo Paolo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo che verrà
a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in
ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità
e dottrina". L'Apostolo continua (e continuava l'esortazione di Ratzinger): "Verrà giorno, infatti,
in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si
circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per
volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua
opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero" (2Tim 4, 1-5).
Un testo inquietante, buono per ogni tempo; ma che per il Prefetto, forse, sembra avere echi
particolari in questi nostri anni. Ne viene fuori comunque l'identikit del vescovo secondo la
Scrittura, così come Ratzinger lo ripropone.
Maestri di fede
A quale criterio, gli chiedo, ci si è ispirati negli anni passati e ci si ispira oggi nell'individuare da
Roma i candidati alla consacrazione a vescovo? Ci si basa ancora sulle indicazioni dei Nunzi
Apostolici, anzi, dei "Legati del Romano Pontefice" (secondo il loro nome ufficiale), che la
Santa Sede ha in ogni Paese?
"Sì, questo compito è riconfermato dal nuovo Codice: "Spetta al Legato pontificio, per quanto
riguarda la nomina dei vescovi, comunicare o proporre alla Sede Apostolica i nomi dei candidati,
nonché istruire il processo informativo sui promovendi". E un sistema che, come tutte le cose
umane, dà anche qualche problema, ma non si saprebbe come sostituirlo. Ci sono Paesi che, per
la loro vastità (il Brasile, gli Stati Uniti), impediscono al Legato una conoscenza diretta di tutti i
candidati. Ne possono dunque nascere degli episcopati non omogenei. Intendiamoci, non si vuole
certo un'armonia monotona, dunque noiosa; elementi diversi sono utili, ma occorre che tutti
siano d'accordo sui punti fondamentali. Il problema è che, negli anni subito dopo il Concilio, per
un certo tempo non parve del tutto chiaro il profilo del "promovendo" ideale".
Che cosa intende dire?
"Nei primi anni dopo il Vaticano II il candidato all'episcopato sembrava essere un sacerdote che
fosse innanzitutto "aperto al mondo"; in ogni caso, questo requisito veniva messo al primo posto.
Dopo la svolta del '68 e poi, via via, con l'aggravarsi della crisi, si è capito che quella sola
caratteristica non bastava. Ci si è accorti, cioè, anche attraverso esperienze amare, che
occorrevano vescovi "aperti" ma al contempo in grado di opporsi al mondo e alle sue tendenze
negative per guarirle, arginarle, metterne in guardia i fedeli. Il criterio di scelta, dunque, si è fatto
via via più realistico, l' "apertura" come tale non parendo più, nelle mutate situazioni culturali, la
risposta e la ricetta sufficienti. Del resto, una simile maturazione si è verificata anche in molti
vescovi che hanno sperimentato duramente nelle loro diocesi che i tempi sono davvero cambiati
rispetto a quelli dell'ottimismo un po' acritico dell'immediato post-Concilio".
Il ricambio generazionale è in corso: alla fine del 1984, ormai quasi la metà dell'episcopato
cattolico mondiale (Joseph Ratzinger compreso) non aveva partecipato direttamente al Vaticano
II. È dunque una nuova generazione che sta prendendo la guida della Chiesa.
Una generazione alla quale il Prefetto non consiglierebbe di mettersi in concorrenza con i
professori di teologia: "Come vescovi - ha scritto di recente - non hanno il compito di approntare
altri strumenti "scientifici" da aggiungere ai già molti prodotti dagli specialisti". Maestri
aggiornati della fede e pastori zelanti del gregge loro affidato, certo; ma "il loro servizio è
personificare la voce della fede semplice, con il suo semplice e fondamentale intuito che precede
la scienza. La fede, infatti, è minacciata di distruzione ogni qual volta la scienza innalza se stessa
a norma assoluta". Dunque, in questo senso, "i vescovi assolvono a una funzione davvero
democratica, perché restano vicini ai fratelli che devono guidare nella tempesta. Una funzione
che non riposa sulle statistiche ma sul comune dono del battesimo".
Roma, malgrado tutto
Durante una delle pause della nostra conversazione, gli ho rivolto una domanda che voleva
essere scherzosa. L'intenzione era di allentare un poco la tensione provocata dal suo sforzo di
farsi capire e dal mio desiderio di comprendere. In realtà, mi sembra che la risposta che ha dato
possa servire a capire meglio la sua idea di Chiesa, fondata non su dei manager ma su degli
uomini di fede, non sui computer ma sulla carità, la pazienza, la saggezza.
Gli avevo dunque chiesto se (essendo stato arcivescovo a Monaco di Baviera e Cardinale
Prefetto a Roma: potendo dunque fare un confronto) avrebbe preferito una Chiesa con il suo
centro non in Italia ma in Germania.
"Che guaio! - ha riso -. Avremmo una Chiesa troppo organizzata. Pensi che dal mio solo
arcivescovado dipendevano 400 tra funzionari e impiegati, tutti regolarmente stipendiati. Ora, si
sa che per sua natura ogni ufficio deve giustificare la propria esistenza, producendo documenti,
organizzando incontri, progettando nuove strutture. Certamente tutti avevano le migliori
intenzioni. Ma spesso è accaduto che i parroci si sentissero più aggravati che sostenuti dalla
quantità di "aiuti"...".
Meglio dunque Roma, malgrado tutto, piuttosto che le rigide strutture e l'iper-organizzazione che
attirano gli uomini del Nord?
"Sì, meglio lo spirito italiano che, non organizzando troppo, lascia spazio a quelle personalità
individuali, a quelle iniziative singolari, a quelle idee originali che - lo dicevo a proposito della
struttura di certe Conferenze episcopali - sono indispensabili alla Chiesa. I santi, tutti, sono stati
uomini di fantasia, non funzionari di apparato. Sono stati personaggi profondamente obbedienti e
al contempo uomini di grande originalità e indipendenza personale. Mi piace poi quell'umanità
latina che lascia sempre spazio alla persona concreta nella pur necessaria intelaiatura di leggi e
codici. La legge è per l'uomo, non l'uomo per la legge: la struttura ha le sue esigenze ma queste
non devono, soffocare le persone".
La Curia romana, dico, la fama discussa che la circonda da sempre, dal primo Medio Evo,
passando per i tempi di Lutero, sino ad oggi...
Mi interrompe: "Anch'io, dalla mia Germania, guardavo spesso con scetticismo, magari con
diffidenza e impazienza all'apparato romano. Arrivato qui mi sono accorto che questa Curia è
ben superiore alla sua fama. In grande maggioranza è composta da persone che vi lavorano per
autentico spirito di servizio. Non può essere altrimenti, vista la modestia di stipendi che da noi
sarebbero considerati alla soglia della povertà. E visto anche il fatto che il lavoro dei più è ben
poco gratificante, svolgendosi dietro le quinte, in modo anonimo, a preparare documenti o
interventi che saranno attribuiti ad altri, ai vertici della struttura".
Le accuse di lentezza, i ritardi proverbiali nelle decisioni...
Dice: "Questo si verifica anche perché la Santa Sede, spesso sospettata di nuotare nell'oro, in
realtà non è in grado di sostenere i costi di un personale più numeroso. Molti che credono che
"l'ex-Sant'Uffizio" sia una struttura imponente, non immaginano forse che la sezione dottrinale
(la più importante e la più bersagliata dalle critiche delle quattro sezioni di cui si compone la
Congregazione) non conta che su una decina di persone, Prefetto compreso. In tutta la
Congregazione siamo una trentina. Dunque un po' in pochi per organizzare quel golpe teologico
di cui alcuni ci sospettano! Comunque pochi - battute a parte - anche per seguire con la
necessaria tempestività tutto quanto si muove nella Chiesa. Nonché per attuare quel compito di "
promozione della santa dottrina " che la riforma pone al primo posto tra i nostri compiti".
Come agite, allora?
"Incoraggiando la costituzione di "commissioni per la fede" presso ogni diocesi o conferenza
episcopale. Certamente, conserviamo per statuto il diritto di intervenire ovunque, in tutta la
Chiesa universale. Ma quando ci sono fatti o teorie che suscitano perplessità, incoraggiamo
innanzitutto i vescovi o i superiori religiosi a entrare in dialogo con l'autore, se non l'hanno già
fatto. Solo se non si riesce a chiarire le cose in questo modo (o se il problema supera i confini
locali assumendo dimensioni internazionali o se è l'autorità locale stessa che auspica un
intervento da Roma), solo allora entriamo in dialogo critico con l'autore. Innanzitutto gli
comunichiamo la nostra opinione, elaborata sull'esame delle sue opere con l'intervento di vari
esperti. Egli ha la possibilità di correggerci e di comunicarci se qua o là abbiamo male
interpretato il suo pensiero. Dopo uno scambio di lettere (e talvolta una serie di colloqui) gli
rispondiamo dandogli una valutazione definitiva e proponendogli di esporre tutti i chiarimenti
emersi dal dialogo in un articolo soddisfacente".
Un procedimento, dunque, che già di per sé esige lungo tempo. Carenza di personale e ritmi
"romani" non allungano ancora i tempi, quando occorrerebbe una decisione tempestiva, spesso
nell'interesse stesso del " sospettato " che non può essere lasciato troppo in sospeso?
"È vero. Ma mi lasci dire che la proverbiale lentezza vaticana non ha soltanto aspetti negativi. È
un'altra delle cose che ho capito bene soltanto a Roma; sapere soprassedere, come dite voi
italiani, può rivelarsi positivo, può permettere alla situazione di decantarsi, di maturarsi, dunque
di chiarirsi. C'è forse anche qui un'antica saggezza latina: le reazioni troppo rapide non sempre
sono auspicabili, una non eccessiva prontezza di riflessi finisce talvolta per rispettare meglio le
persone".

* * *

 CAPITOLO QUINTO
SEGNALI DI PERICOLO

"Una teologia individualista"
Dalla crisi della fede nella Chiesa come mistero dove il Vangelo vive, affidato a una gerarchia
voluta dal Cristo stesso, il Cardinale vede discendere come logica conseguenza la crisi di fiducia
nel dogma proposto dal Magistero:
"Molta teologia - dice - sembra aver dimenticato che il soggetto che fa teologia non è il singolo
studioso ma è la comunità cattolica nel suo insieme, è la Chiesa intera. Da questa dimenticanza
del lavoro teologico come servizio ecclesiale, deriva un pluralismo teologico che in realtà è
spesso un soggettivismo, un individualismo che ha poco a che fare con le basi della tradizione
comune. Ogni teologo sembra ormai voler essere "creativo"; ma il suo compito autentico è
approfondire, aiutare a capire e a annunciare il deposito comune della fede non " creare ".
Altrimenti, la fede si frantuma in una serie di scuole e di correnti spesso contrastanti, con grave
danno dello sconcertato popolo di Dio. La teologia in questi anni si è energicamente dedicata ad
accordare fede e segni dei tempi per trovare vie nuove alla trasmissione del cristianesimo. Molti,
però, sono arrivati a convincersi che questi sforzi hanno spesso contribuito più ad aggravare che
a risolvere la crisi. Sarebbe ingiusto generalizzare questa affermazione, ma sarebbe anche falso
negarla puramente e semplicemente".
Dice, continuando la sua diagnosi: "In questa visione soggettiva della teologia, il dogma è spesso
considerato come una gabbia intollerabile, un attentato alla libertà del singolo studioso. Si è
perso di vista il fatto che la definizione dogmatica è, invece, un servizio alla verità, un dono
offerto ai credenti dall'autorità voluta da Dio. I dogmi - ha detto qualcuno - non sono muraglie
che ci impediscano di vedere; ma, al contrario, sono finestre aperte sull'infinito".
"Una catechesi frantumata"
Le confusioni che il Prefetto registra nella teologia si traducono, per lui, in gravi conseguenze
per la catechesi.
Dice: "Poiché la teologia non sembra più poter trasmettere un modello comune della fede, anche
la catechesi è esposta alla frantumazione, a esperimenti che mutano continuamente. Alcuni
catechismi e molti catechisti non insegnano più la fede cattolica nel suo complesso armonico -
dove ogni verità presuppone e spiega l'altra - ma cercano di rendere umanamente " interessanti "
(secondo gli orientamenti culturali del momento) alcuni elementi del patrimonio cristiano.
Alcuni passi biblici vengono messi in rilievo perché considerati "più vicini alla sensibilità
contemporanea"; altri, per il motivo opposto, vengono accantonati. Dunque, non più una
catechesi che sia formazione globale alla fede, ma riflessi e spunti di esperienze antropologi che
parziali, soggettive".
All'inizio del 1983, Ratzinger tenne in Francia una conferenza (che fece gran rumore) proprio
sulla "nuova catechesi". In quell'occasione, con la consueta chiarezza, disse tra l'altro: "Fu un
primo e grave errore sopprimere il catechismo dichiarandolo "sorpassato"; una decisione che è
stata universale in questi anni, nella Chiesa, ma ciò non toglie che sia stata erronea o, almeno,
affrettata".
Mi ripete ora: "Occorre ricordarsi che sin dai primi tempi del cristianesimo appare un "nucleo"
permanente e irrinunciabile della catechesi, dunque della formazione alla fede. È il nucleo, poi,
utilizzato anche da Lutero per il suo catechismo, alla pari di quello Romano deciso a Trento.
Tutto il discorso sulla fede, cioè, è organizzato attorno a quattro elementi fondamentali: il Credo,
il Pater Noster, il Decalogo, i Sacramenti. È questa la base della vita del cristiano, è questa la
sintesi dell'insegnamento della Chiesa basato su Scrittura e Tradizione. Il cristiano trova qui ciò
che deve credere (il Simbolo o Credo), sperare (il Pater Noster), fare (il Decalogo) e lo spazio
vitale in cui tutto questo deve compiersi (i Sacramenti). Ora questa struttura fondamentale è
abbandonata in troppa catechesi attuale, con i risultati che constatiamo di disgregazione del
sensus fidei nelle nuove generazioni, spesso incapaci di una visione di insieme della loro
religione".
Nelle conferenze francesi raccontò di aver parlato, in Germania, con una signora che gli disse
che "il figlio, scolaro delle elementari, stava apprendendo la " cristologia dei lógia del Kyrios "
ma non aveva ancora sentito nulla dei sette sacramenti o dei dieci comandamenti...".
"Spezzato il legame tra Chiesa e Scrittura"
Alla crisi di fiducia nel dogma della Chiesa si accompagna, per Ratzinger, la contemporanea crisi
di fiducia nella morale proposta dalla Chiesa stessa. Poiché però questo discorso sull'etica è a suo
avviso talmente importante da esigere un discorso assai articolato, ne riferiamo più avanti.
Qui diamo conto di quanto ci è stato detto a proposito di un'altra conseguenza della crisi dell'idea
di Chiesa: la crisi di fiducia nella Scrittura così come è letta dalla Chiesa stessa.
Dice: "Il legame tra Bibbia e Chiesa è stato spezzato. Questa separazione è iniziata da secoli in
ambiente protestante e si è estesa di recente anche tra gli studiosi cattolici. L'interpretazione
storico-critica della Scrittura ha certamente aperto molte e grandiose possibilità nuove di
comprendere meglio il testo biblico. Ma essa, per sua stessa natura, - può illuminarlo solo nella
sua dimensione storica e non nella sua attuale valenza. Se si dimentica questo limite essa diventa
non solo illogica, ma anche, proprio perciò, non-scientifica; si dimentica allora anche che la
Bibbia come messaggio per il presente e per il futuro può essere compresa solo nel collegamento
vitale con la Chiesa. Si finisce così per leggere la Scrittura non più a partire dalla Tradizione
della Chiesa e con la Chiesa, ma a partire dall'ultimo metodo che si presenti come "scientifico".
Questa indipendenza è diventata, in alcuni, addirittura una contrapposizione; tanto che la fede
tradizionale della Chiesa a molti non sembra più giustificata dall'esegesi critica ma appare
soltanto come un ostacolo alla comprensione autentica, " moderna " del cristianesimo".
È una situazione sulla quale ritornerà (individuandone le radici) nel testo che riportiamo a
proposito di certe "teologie della liberazione".
Qui anticipiamo la sua convinzione, secondo la quale "la separazione tra Chiesa e Scrittura tende
a svuotarle entrambe dall'interno. Infatti: una Chiesa senza più fondamento biblico credibile
diventa un prodotto storico casuale, un'organizzazione accanto alle altre, quella cornice
organizzativa umana di cui parlavamo. Ma anche la Bibbia senza la Chiesa non è più la Parola
efficace di Dio, ma una raccolta di molteplici fonti storiche, una collezione di libri eterogenei dai
quali si cerca di tirare fuori, alla luce dell'attualità, ciò che si ritiene utile. Una esegesi che non
viva e non legga più la Bibbia nel corpo vivente della Chiesa diventa archeologia: i morti
seppelliscono i loro morti. In ogni caso, in questo modo l'ultima parola sulla Parola di Dio in
quanto Parola di Dio non spetta più ai legittimi pastori, al Magistero, ma all'esperto, al
professore, con i loro studi sempre provvisori e mutevoli".
Per lui, dunque, sarebbe necessario "che si cominciassero a vedere i limiti di un metodo, che, pur
valido in sé, diventa sterile quando lo si assolutizza. Quanto più si va oltre la mera constatazione
di fatti del passato e si desidera una comprensione attuale di essi, tanto più vengono ad essere
coinvolte anche concezioni filosofiche, che solo apparentemente sono un prodotto della ricerca
scientifica sul testo. Fino ad arrivare ad esperimenti assurdi come "l'interpretazione
materialistica" della Bibbia. Per fortuna, però, è iniziato oggi un intenso dibattito tra gli esegeti
sui limiti del metodo storico-critico e degli altri metodi moderni di esegesi".
"Per opera della ricerca storico-critica - continua - la Scrittura è ridiventata un libro aperto, ma
anche un libro chiuso. Un libro aperto: grazie al lavoro dell'esegesi, noi percepiamo la parola
della Bibbia in modo nuovo, nella sua originalità storica, nella varietà di una storia che diviene e
che cresce, carica di quelle tensioni e di quei contrasti che costituiscono contemporaneamente la
sua insospettata ricchezza. Ma, in questo modo, la Scrittura è tornata ad essere anche un libro
chiuso: essa è divenuta l'oggetto degli esperti; i laici, ma anche lo specialista in teologia che non
sia esegeta, non possono più azzardarsi a parlarne. Essa sembra ormai sottratta alla lettura e alla
riflessione del credente, poiché ciò che ne risulterebbe sarebbe dichiarato "dilettantesco ". La
scienza degli specialisti erige un recinto attorno al giardino della Scrittura, inaccessibile ormai al
non-esperto".
Dunque, chiedo, anche un cattolico che voglia essere " aggiornato " può ricominciare a leggere la
sua Bibbia senza troppo preoccuparsi di complesse questioni esegetiche?
"Certamente. Ogni cattolico deve avere il coraggio di credere che la sua fede (in comunione con
quella della Chiesa) supera ogni " nuovo magistero " degli esperti, degli intellettuali. Le ipotesi
di costoro possono essere utili per capire la genesi dei libri della Scrittura, ma è un pregiudizio di
derivazione evoluzionistica che si capisca il testo solo studiando come si è sviluppato e creato.
La regola di fede, oggi come ieri, non è costituita dalle scoperte (vere o ipotetiche che siano)
sulle fonti e sugli strati biblici, ma dalla Bibbia come sta, come è stata letta nella Chiesa, dai
Padri a oggi. È la fedeltà a questa lettura della Bibbia che ci ha dato i santi, spesso illetterati e
comunque spesso inesperti di complessità esegetiche. Eppure, sono loro quelli che meglio
l'hanno capita".
"Il Figlio ridotto, il Padre dimenticato"
Da questa serie di crisi è per lui ovvio che derivi una crisi anche nei fondamenti stessi: la fede
nel Dio Trinitario, nelle sue Persone. Mentre sarà trattato a parte il tema " Spirito Santo",
riferiamo qui quanto ci è stato detto a proposito di Dio Padre e del Figlio, Gesù Cristo.
Dice dunque: "Temendo, naturalmente a torto, che l'attenzione sul Padre Creatore possa oscurare
il Figlio, certa teologia tende oggi a risolversi in sola cristologia. Ma è una cristologia spesso
sospetta, dove si sottolinea in modo unilaterale la natura umana di Gesù, oscurando o tacendo o
esprimendo in modo insufficiente la natura divina che convive nella stessa persona del Cristo. Si
direbbe il ritorno in forze dell'antica eresia ariana. Difficile, naturalmente, trovare un teologo "
cattolico " che dica di negare l'antica formula che confessa Gesù come "Figlio di Dio". Tutti
diranno di accettarla, aggiungendo però " in quale senso " quella formula dovrebbe secondo loro
essere intesa. Ed è qui che si operano distinzioni che portano spesso a riduzioni della fede in
Cristo come Dio. Come già dicevo, sganciata da una ecclesiologia che sia anche soprannaturale,
non solo sociologica, la cristologia tende essa stessa a perdere la dimensione del Divino, tende a
risolversi nel " progetto-Gesù ", in un progetto cioè di salvezza solo storica, umana".
Quanto al Padre come prima Persona della Trinità - continua -, la sua " crisi " presso certa
teologia è spiegabile in una società che dopo Freud diffida di ogni padre e di ogni paternalismo.
Si oscura l'idea del Padre Creatore anche perché non si accetta l'idea di un Dio al quale rivolgersi
in ginocchio: si ama parlare solo di partnership, di rapporto di amicizia, quasi tra uguali, da
uomo a uomo, con l'uomo Gesù. Si tende poi a mettere da parte il problema di Dio Creatore
anche perché si temono (e dunque si vorrebbero evitare) i problemi sollevati dal rapporto tra fede
nella creazione e scienze naturali, a cominciare dalle prospettive aperte dall'evoluzionismo. Così,
ci sono nuovi testi per la catechesi che partono non da Adamo, dal principio del libro della
Genesi; ma partono dalla vocazione di Abramo o dall'Esodo. Ci si concentra cioè solo sulla
storia evitando di confrontarsi con l'essere. In questo modo, però - se ridotto al solo Cristo,
magari solo all'uomo Gesù - Dio non è più Dio. E difatti, sembra proprio che una certa teologia
non creda più a un Dio che può entrare nelle profondità della materia; c'è come il ritorno
dell'indifferenza, quando non dell'orrore della gnosi per la materia. Da qui i dubbi sugli aspetti
"materiali" della rivelazione, come la presenza reale del Cristo nell'eucaristia, la verginità
perpetua di Maria, la risurrezione concreta e reale di Gesù, la risurrezione dei corpi promessa a
tutti alla fine della storia. Non è certo per caso che il Simbolo apostolico comincia confessando: "
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra ". Questa fede
primordiale nel Dio creatore (dunque, un Dio che sia davvero Dio) costituisce come il chiodo a
cui tutte le altre verità cristiane sono appese. Se qui si vacilla, tutto il resto cade
"Rifar posto al peccato originale"
Per tornare alla cristologia, c'è chi dice che essa sia messa in difficoltà anche dalla dimenticanza,
se non dalla negazione, di quella realtà che la teologia ha chiamato " peccato originale ". Alcuni
teologi avrebbero fatto proprio lo schema di un illuminismo alla Rousseau, con il dogma che è
alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia: l'uomo buono per natura, corrotto
solo dalla educazione sbagliata e dalle strutture sociali da riformare. Intervenendo sul " sistema "
tutto dovrebbe sistemarsi e l'uomo potrebbe vivere in pace con se stesso e con gli altri.
Dice al proposito: "Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei
dedicarmi proprio a scrivere sul " peccato originale " e sulla necessità di riscoprirne la realtà
autentica. In effetti, se non si capisce più che l'uomo è in uno stato di alienazione non solo
economica e sociale (dunque un'alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce
più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L'incapacità
di capire e presentare il " peccato originale " è davvero uno dei problemi più gravi della teologia
e della pastorale attuali".
Per Ratzinger - lo vedremo ampiamente - il concetto chiave di tante teologie di oggi è quello di "
liberazione " che sembra avere sostituito quello tradizionale di "redenzione" In questo
spostamento qualcuno ha visto anche un effetto della crisi del concetto di " peccato " in generale
e di " peccato originale " in particolare. Si osserva infatti che il termine "redenzione" richiama
direttamente una misteriosa "caduta", una situazione oggettiva di peccato dalla quale solo la
forza onnipotente di Dio può redimere; mentre tale legame sarebbe meno diretto nel concetto di "
liberazione " cosi come è abitualmente inteso.
Comunque sia, gli chiedo se il disagio non si manifesti anche a livello linguistico: è ancora
adeguata la vecchia espressione, di origine patristica, di "peccato originale"?
"Modificare il linguaggio religioso è sempre molto rischioso. La continuità, qui, è di grande
importanza. lo non vedo modificabili le espressioni centrali della fede che derivano dalle grandi
parole della Scrittura: ad esempio "Figlio di Dio", "Spirito Santo", "Verginità" e "Maternità
divina" di Maria. Concedo invece che possano essere modificabili espressioni come " peccato
originale " che, nel loro contenuto, sono anch'esse di diretta origine biblica, ma nell'espressione
manifestano già lo stadio della riflessione teologica. In ogni caso, occorre procedere con molta
cautela: le parole non sono insignificanti, sono anzi legate in modo stretto al significato. Credo
comunque che le difficoltà teologiche e pastorali davanti al " peccato originale "non siano certo
solo semantiche ma di natura più profonda".
E cioè?
"In un'ipotesi evoluzionistica del mondo (quella alla quale in teologia corrisponde un certo
"theilardismo") non c'è ovviamente posto per alcun "peccato originale". Questo, al massimo, non
è che un'espressione simbolica, mitica, per indicare le mancanze naturali di una creatura come
l'uomo che, da origini imperfettissime, va verso la perfezione, va verso la sua realizzazione
completa. Accettare questa visione significa però rovesciare la struttura del cristianesimo: Cristo
è trasferito dal passato al futuro; redenzione significa semplicemente camminare verso l'avvenire
come necessaria evoluzione verso il meglio. L'uomo non è che un prodotto non ancora del tutto
perfezionato dal tempo, non c'è stata una "redenzione" perché non c'era nessun peccato cui
riparare ma solo una mancanza che, ripeto, sarebbe naturale. Eppure, queste difficoltà di origine
più o meno " scientifica " non sono ancora la radice della odierna crisi del " peccato originale ".
Questa crisi non è che un sintomo della nostra difficoltà profonda di scorgere la realtà di noi
stessi, del mondo, di Dio. Non bastano di certo, qui, le discussioni con le scienze naturali, come
ad esempio la paleontologia, anche se questo tipo di confronto è necessario. Dobbiamo essere
consapevoli che siamo di fronte anche a delle precomprensioni e a delle predecisioni di carattere
filosofico".
Difficoltà comunque giustificate, osservo, visto l'aspetto davvero "misterioso" del "peccato
originale", o come lo si voglia chiamare.
Dice: "Questa verità cristiana ha un aspetto di mistero ma anche un aspetto di evidenza.
L'evidenza: una visione lucida, realistica dell'uomo e della storia non può non scoprirne
l'alienazione, non può non rivelare che c'è una rottura delle relazioni: dell'uomo con se stesso,
con gli altri, con Dio. Ora, poiché l'uomo è per eccellenza l'essere-in-relazione, una simile rottura
raggiunge le radici, si ripercuote su tutto. Il mistero: se non siamo in grado di penetrare sino in
fondo realtà e conseguenze del peccato originale, è proprio perché esso esiste, perché lo
sfasamento è ontologico, sbilancia, confonde in noi la logica della natura, ci impedisce di capire
come una colpa all'origine della storia possa coinvolgere in una situazione di peccato comune".
Adamo, Eva, l'Eden, la mela, il serpente... Che dobbiamo pensarne?
"La narrazione della Sacra Scrittura sulle origini non parla alla maniera storiografica moderna
ma parla attraverso le immagini. È una narrazione che rivela e nasconde allo stesso tempo. Ma
gli elementi fondanti sono ragionevoli e la realtà del dogma va in ogni caso salvaguardata. Il
cristiano non farebbe abbastanza per i fratelli se non annunciasse il Cristo che porta la
redenzione innanzitutto dal peccato; se non annunciasse la realtà dell'alienazione (la " caduta ") e
al contempo la realtà della Grazia che ci redime, ci libera; se non annunciasse che per ricostruire
la nostra essenza originaria c'è bisogno di un aiuto al di fuori di noi; se non annunciasse che
l'insistenza sull'auto-realizzazione, sull'autoredenzione non porta alla salvezza ma alla
distruzione. Se non annunciasse, infine, che per essere salvati occorre abbandonarsi all'Amore".

* * *

CAPITOLO SESTO
IL DRAMMA DELLA MORALE

Dal liberalismo al permissivismo
C'è dunque - e sembra anch'essa grave - una crisi della morale proposta dal magistero della
Chiesa. Una crisi che, lo dicevamo, è strettamente legata a quella contemporanea del dogma
cattolico.
È una crisi che riguarda per ora soprattutto il mondo così detto " sviluppato ", in maniera
particolare l'Europa e gli Stati Uniti; ma si sa che i modelli elaborati in queste zone finiscono con
l'imporsi al resto del mondo, con la forza di un ben noto imperialismo culturale.
Comunque, stando alle parole stesse del Cardinale, "in un mondo come l'Occidente, dove denaro
e ricchezza sono la misura di tutto, dove il modello del mercato liberista impone le sue leggi
implacabili ad ogni aspetto della vita, l'etica cattolica autentica appare ormai a molti come un
corpo estraneo, remoto, una sorta di meteorite che contrasta non solo con le concrete abitudini di
vita, ma anche con lo schema base del pensiero. Il liberalismo economico si traduce sul piano
morale nel suo esatto corrispondente: il permissivismo". Dunque, "diventa difficile, se non
impossibile, presentare la morale della Chiesa come ragionevole, troppo distante com'è da ciò
che è considerato ovvio, normale, dal la maggioranza delle persone, condizionate da una cultura
egemone alla quale hanno finito per accodarsi, come autorevoli fiancheggiatori, anche non pochi
moralisti "cattolici"".
A Bogotá, alla riunione dei vescovi presidenti delle commissioni dottrinali e delle conferenze
episcopali dell'America Latina, il Cardinale ha letto una relazione che cercava di individuare i
motivi profondi di quanto sta avvenendo nella teologia contemporanea; compresa la teologia
morale alla quale, in quel rapporto, è stato dedicato uno spazio adeguato alla sua importanza.
Sarà dunque necessario seguire Ratzinger nella sua analisi per capire il suo allarme davanti a
certe strade imboccate dall'Occidente e, al suo sèguito, da certe teologie. E soprattutto sulle
questioni familiari e sessuali che intende attirare l'attenzione.
Una serie di fratture
Osserva dunque: "Nella cultura del mondo " sviluppato " è stato spezzato innanzitutto il legame
tra sessualità e matrimonio. Separato dal matrimonio, il sesso è restato senza una collocazione, si
è trovato privo di punti di riferimento: è divenuto una sorta di mina vagante, un problema e
insieme un potere onnipresente".
Dopo questa prima frattura, ne vede un'altra, conseguente: "Compiuta la separazione tra
sessualità e matrimonio, la sessualità è stata separata anche dalla procreazione. Il movimento ha
finito però coll'andare pure nel senso inverso: procreazione cioè, senza sessualità. Da qui
conseguono gli esperimenti sempre più impressionanti - dei quali è piena l'attualità - di
tecnologia, d'ingegneria medica, dove la procreazione è appunto indipendente dalla sessualità. La
manipolazione biologica sta procedendo allo scardinamento dell'uomo dalla natura (il cui
concetto stesso è contestato). Si tenta di trasformare l'uomo, di manipolarlo come si fa per ogni
altra Il cosa ": nient'altro che un prodotto pianificato a piacimento".
Se non sbaglio, osservo, le nostre culture sono le prime in tutta la storia in cui si realizzano simili
fratture.
"Sì, e al fondo di questa marcia per spezzare delle connessioni fondamentali, naturali (e non,
come dicono, solo culturali) ci sono conseguenze inimmaginabili che derivano dalla logica stessa
che presiede a un simile cammino".
Già oggi, per lui, staremmo scontando "gli effetti di una sessualità senza più alcun aggancio col
matrimonio e con la procreazione. Ne deriva logicamente che ogni forma di sessualità è
equivalente, dunque è ugualmente degna". "Non si tratta certo - precisa - di fare del moralismo
arretrato, ma di trarre lucidamente le conseguenze dalle premesse: è infatti logico che il piacere,
la libido del singolo diventino il solo punto di riferimento possibile del sesso. Il quale, senza più
una ragione oggettiva che lo giustifichi, va cercando la ragione soggettiva nell'appagamento del
desiderio, nella risposta la più "soddisfacente" possibile per l'individuo agli istinti ai quali non si
può opporre un freno razionale. Ciascuno è libero di dare il contenuto che crede alla sua libidine
personale".
Continua: "è dunque naturale che si trasformino in " diritti " del singolo tutte le forme di
appagamento della sessualità. Così, per fare un esempio oggi particolarmente attuale, diventa un
diritto inalienabile (e come negarlo, con simili premesse?) l'omosessualità; anzi, il suo
riconoscimento pieno si trasforma in un aspetto della liberazione dell'uomo".
Ci sono però altre conseguenze di "questi scardinamenti della persona umana nella sua natura
profonda". Dice infatti: "Staccata dal matrimonio fondato sulla fedeltà di tutta una vita, da
benedizione (come è stata intesa in ogni cultura), la fecondità si rovescia nel suo contrario: una
minaccia, cioè, al libero appagamento del "diritto alla felicità del singolo". Ecco dunque che
l'aborto procurato, gratuito, socialmente garantito, si trasforma in un altro " diritto ", in un'altra
forma di " liberazione "
".Lontani dalla società o lontani dal magistero?"
Questo è dunque per lui lo scenario drammatico dell'etica nella società liberal-radicale, "
opulenta ". Ma come reagisce a tutto questo la teologia morale cattolica?
"La mentalità ormai dominante aggredisce alle fondamenta stesse la morale della Chiesa che -
l'osservavo - se resta fedele a se stessa rischia di apparire come un anacronistico, fastidioso corpo
estraneo. Così, per tentare di essere ancora " credibili ", i teologi morali dell'Occidente finiscono
col trovarsi davanti ad una alternativa: sembra loro di dover scegliere tra il dissenso con la
società attuale e il dissenso con il Magistero. A seconda del modo di porre la domanda è più
grande o più piccolo il numero di coloro che preferiscono quest'ultimo tipo di dissenso e che di
conseguenza si mettono alla ricerca di teorie e di sistemi che consentano compromessi tra il
cattolicesimo e le concezioni correnti. Ma questo divario crescente tra Magistero e " nuove "
teologie morali provoca conseguenze laceranti; anche perché la Chiesa, attraverso le sue scuole e
i suoi ospedali, ricopre ancora (soprattutto in America) importanti ruoli sociali. Ecco dunque la
pesante alternativa: o la Chiesa trova un'intesa, un compromesso con i valori accettati dalla
società alla quale vuole continuare a servire, oppure decide di restare fedele ai suoi valori propri
(e che, a suo avviso, sono quelli che tutelano l'uomo nelle sue esigenze profonde) e allora si trova
spiazzata rispetto alla società stessa".
Così, il Cardinale crede di constatare che "oggi l'ambito della teologia morale è diventato il
luogo principale delle tensioni tra Magistero e teologi, specialmente perché qui le conseguenze si
fanno immediatamente percepibili. Potrei citare alcune tendenze: talvolta i rapporti
prematrimoniali vengono giustificati, almeno a certe condizioni; la masturbazione è presentata
come un fenomeno normale nella crescita dell'adolescente; l'ammissione dei divorziati risposati
ai sacramenti è continuamente rivendicata; il femminismo anche radicale sembra guadagnare
terreno a vista d'occhio nella Chiesa, specialmente in alcuni ordini religiosi femminili (ma su
questo sarà necessario un discorso a parte). Perfino riguardo al problema dell'omosessualità sono
in atto tentativi di giustificazione: è accaduto addirittura che dei vescovi - per insufficiente
informazione o anche per un senso di colpa dei cattolici verso una "minoranza oppressa" -
abbiano messo a disposizione dei gays delle chiese per le loro manifestazioni. C'è poi il caso
della Humanae Vitae l'enciclica di Paolo VI che riafferma il "no" alle contraccezioni e che non è
stata compresa, anzi è stata più o meno apertamente respinta in vasti settori ecclesiali".
Ma, dico, non è forse proprio il problema della regolazione delle nascite che trova
particolarmente sguarnita la morale cattolica tradizionale? Non si ha l'impressione che il
Magistero si sia trovato qui senza veri argomenti decisivi?
Replica: "è vero che, all'inizio del grande dibattito in occasione della pubblicazione
dell'Enciclica "Humanae Vitae", nel 1968, il fondamento argomentativo della teologia fedele al
Magistero era ancora relativamente esile. Ma nel frattempo esso si è così ampliato attraverso
nuove esperienze e nuove riflessioni che la situazione comincia piuttosto a capovolgersi".
In che modo? chiedo.
"Per comprendere correttamente tutto il problema, dobbiamo dare uno sguardo al passato.
Intorno agli anni Trenta e Quaranta, alcuni teologi moralisti cattolici, partendo dal punto di vista
della filosofia personalista, avevano iniziato a criticare l'unilateralità dell'orientamento della
morale sessuale cattolica rispetto alla procreazione. Soprattutto, essi richiamavano l'attenzione
sul fatto che la trattazione classica del matrimonio nel diritto canonico a partire dai suoi " fini "
non rendeva pienamente ragione dell'essenza del matrimonio. La categoria " fine " è insufficiente
a spiegare il fenomeno propriamente umano. Questi teologi non avevano in nessun modo negato
il significato della fecondità nel complesso dei valori della sessualità umana. Essi le avevano
assegnato piuttosto un nuovo posto nella cornice di una prospettiva più personalistica nel modo
di considerare il matrimonio. Queste discussioni sono state importanti e hanno condotto ad un
significativo approfondimento della dottrina cattolica sul matrimonio. Il Concilio ha accolto e
confermato gli aspetti migliori di queste riflessioni. Ma proprio allora cominciò a manifestarsi
una nuova linea di sviluppo. Mentre le riflessioni del Concilio si basavano sull'unità nell'uomo di
"persona" e "natura", si cominciò a intendere il "personalismo" come contrapposto al
"naturalismo"; come cioè se la persona umana e le sue esigenze potessero entrare in contrasto
con la natura. Così, un personalismo esagerato ha condotto dei teologi a rifiutare l'ordinamento
interno, il linguaggio della natura (che è invece di per se stesso morale, secondo il costante
insegnamento cattolico), lasciando alla sessualità, anche coniugale, il solo punto di riferimento
nella volontà della persona. Ecco uno dei motivi del rifiuto dell'Humanae Vitae, della
impossibilità per certe teologie di rifiutare la contraccezione".
Cercando punti fermi
Tra i sistemi etici che vanno creandosi in alternativa a quelli del Magistero non c'è, per lui,
soltanto il "personalismo estremizzato". Davanti ai vescovi riuniti a Bogotá, e riferendosi al
dibattito della teologia morale nell'Occidente, Ratzinger ha delineato le linee di altri sistemi che
giudica inaccettabili: "Subito dopo il Concilio si cominciò a discutere se esistessero norme
morali specificamente cristiane. Alcuni arrivarono a concludere che tutte le norme si possono
trovare anche fuori dell'etica cristiana e che, di fatto, la maggior parte di quelle cristiane è stata
presa da altre culture, in particolare dalla antica filosofia classica, la stoica in particolare. Da
questo falso punto di partenza si arrivò ineluttabilmente all'idea che la morale sia da costruire
unicamente sulla base della ragione e che questa autonomia della ragione sia valida anche per i
credenti. Non più Magistero, dunque, non più il Dio della Rivelazione con i suoi comandamenti,
con il suo decalogo. In effetti, ci sono oggi moralisti "cattolici" i quali sostengono che quel
decalogo, sul quale la Chiesa ha costruito la sua morale oggettiva, non sarebbe che un "prodotto
culturale" legato all'antico Medio Oriente semita. Dunque, una regola relativa, dipendente da
un'antropologia, da una storia che non sono più nostre. Torna qui, dunque, la negazione dell'unità
della Scrittura, si riaffaccia l'antica eresia che dichiarava l'Antico Testamento (luogo della
"Legge") superato e respinto dal Nuovo (regno della "Grazia"). Ma per il cattolico la Bibbia è un
tutto unitario, le Beatitudini di Gesù non annullano il decalogo consegnato da Dio a Mosè e, in
lui, agli uomini di ogni tempo. Invece, stando a questi nuovi moralisti noi, uomini " ormai adulti
e liberati ", dovremmo cercare da soli altre norme di comportamento".
Una ricerca, dico, da fare con la sola ragione?
"In effetti, come avevo cominciato a dire. Si sa invece che per la morale cattolica autentica ci
sono azioni che nessuna ragione potrà mai giustificare' contenendo in se stesse un rifiuto di Dio
Creatore e dunque una negazione del bene autentico dell'uomo, sua creatura. Per il Magistero ci
sono sempre stati dei punti fermi, dei pali indicatori che non possono essere sradicati o ignorati
senza spezzare il legame che la filosofia cristiana vede tra l'Essere e il Bene. Proclamando invece
l'autonomia della sola ragione umana, staccati ormai dal decalogo, si è dovuto andare alla ricerca
di nuovi punti fermi: dove agganciarsi, come giustificare i doveri morali se questi non hanno più
radice nella Rivelazione divina, nei Comandamenti del Creatore?".
E allora?
"E allora, si è giunti alla cosiddetta "morale dei fini" - o, come si preferisce dire negli Stati Uniti
dove è soprattutto elaborata e diffusa -, delle "conseguenze" il "consequenzialismo": niente è in
sé buono o cattivo, la bontà di un atto dipende unicamente dal suo fine e dalle sue conseguenze
prevedibili e calcolabili. Resisi conto però degli inconvenienti di un tale sistema, alcuni moralisti
hanno cercato di ammorbidire il "consequenzialismo" nel "proporzionalismo": l'agire morale
dipende dalla valutazione e dal confronto fatti dall'uomo tra la proporzione dei beni che sono in
gioco. Ancora un calcolo individuale, insomma, questa volta della "proporzione" tra bene e
male".
Ma, osservo, mi pare che anche la morale classica facesse riferimento a figure del genere: alla
valutazione delle conseguenze, al peso dei beni in gioco.
"Certamente. L'errore è stato il costruire un sistema su ciò che era solo un aspetto della morale
tradizionale la quale non dipendeva certo - alla fine - dalla valutazione personale dell'individuo.
Ma dipendeva dalla rivelazione di Dio, dalle " istruzioni per l'uso " da Lui inscritte in modo
oggettivo e indelebile nella sua creazione. Dunque la natura, dunque l'uomo stesso in quanto
parte di quella natura creata, contengono al loro interno la loro moralità".
La negazione di tutto questo porta, per il Prefetto, a conseguenze devastanti per il singolo e per la
società intera: "Se dalle società del benessere dell'Occidente, dove questi sistemi sono apparsi
per la prima volta, ci spostiamo ad altre aree geografiche, troviamo che anche nelle convinzioni
morali di certe teologie della liberazione sta spesso sullo sfondo una morale "proporzionalista": il
"bene assoluto" (e cioè, l'edificazione della società giusta, socialista) diventa la norma morale
che giustifica tutto il resto, compresi - se necessario - la violenza, l'omicidio, la menzogna. È uno
dei tanti aspetti che mostrano come, scardinandosi dal suo aggancio in Dio, l'umanità cada in
balìa delle conseguenze più arbitrarie. La "ragione" del singolo, infatti, può di volta in volta
proporre all'azione gli scopi più diversi, più imprevedibili, più pericolosi. E ciò che sembrava "
liberazione " si rovescia nel suo contrario, mostra nei fatti il suo volto diabolico. In effetti, tutto
ciò è già stato descritto con precisione nelle prime pagine della Bibbia. Il nucleo della tentazione
per l'uomo e della sua caduta è racchiuso in questa parola programmatica: "Diventerete come
Dio" (Gen. 3,5). Come Dio: cioè liberi dalla legge del Creatore, liberi dalle stesse leggi della
natura, padroni assoluti del proprio destino. L'uomo che desidera continuamente solo questo:
essere il creatore e il padrone di se stesso. Ma ciò che ci attende alla fine di questa strada non è
certo il Paradiso Terrestre".

* * *

CAPITOLO SETTIMO
LE DONNE, UNA DONNA

Un sacerdozio in questione
Il discorso sulla crisi della morale è, per il Cardinale, strettamente legato a quello (oggi
attualissimo nella Chiesa) sulla donna e il suo ruolo.
Il documento della Congregazione per la dottrina della fede che ribadiva il "no" cattolico
(condiviso da tutte le Chiese dell'ortodossia orientale e, sino a tempi recentissimi, dagli
anglicani) al sacerdozio femminile porta la firma del predecessore del card. Ratzinger. Questi
però vi ha contribuito come consulente e, a una mia domanda, lo definirà "molto ben preparato,
anche se come tutti i documenti ufficiali presenta una certa secchezza: va diritto alle conclusioni
senza potere motivare tutti i passi che vi conducono con l'ampiezza che sarebbe necessaria".
A quel documento il Prefetto rinvia comunque per un riesame di una questione che, a suo avviso,
è spesso male impostata.
Parlando della questione femminile in generale (e dei suoi riflessi sulla Chiesa, in particolare tra
le religiose) mi sembra di avvertire in lui un rammarico singolare: "è la donna che sconta più
duramente le conseguenze della confusione, della superficialità di una cultura frutto di menti
maschili, di ideologie maschiliste che ingannano la donna, la scardinano nel profondo, dicendo
che in realtà vogliono liberarla".
Dice dunque: "A prima vista, le istanze del femminismo radicale a favore di una totale
equiparazione tra uomo e donna sembrano nobilissime, in ogni caso del tutto ragionevoli. E
sembra logico che questa richiesta di ingresso della donna in tutte le professioni, nessuna esclusa,
si trasformi all'interno della Chiesa in una domanda di accesso anche al sacerdozio. A molti,
questa richiesta di ordinazione, questa possibilità di avere delle sacerdotesse cattoliche pare non
solo giustificata ma innocua: un semplice, indispensabile adeguamento della Chiesa a una
situazione sociale nuova che si è verificata".
E allora, dico, perché ostinarsi nel rifiuto?
"In realtà questo tipo di " emancipazione " della donna non è affatto nuovo. Si dimentica che nel
mondo antico tutte le religioni avevano anche delle sacerdotesse. Tutte, tranne una: quella
ebraica. Il cristianesimo, anche qui sull'esempio "scandalosamente" originale di Gesù, apre alle
donne una situazione nuova, dà loro un posto che rappresenta uno degli elementi di novità
rispetto all'ebraismo. Ma di questo conserva il sacerdozio solo maschile. Evidentemente,
l'intuizione cristiana ha compreso che la questione non era secondaria, che difendere la Scrittura
(la quale né nell'Antico né nel Nuovo Testamento conosce donne-sacerdote) significava ancora
una volta difendere la persona umana. A cominciare, si intende, da quella di sesso femminile".
Contro un sesso "banalizzato"
La cosa, osservo, va ulteriormente spiegata: resta da vedere in che modo la Bibbia e la
Tradizione che l'ha interpretata intenderebbero " mettere al riparo " la donna escludendola dal
sacerdozio.
"Certamente. Ma bisogna allora andare a fondo della richiesta, che il femminismo radicale trae
dalla cultura oggi diffusa, di "banalizzare" la specificità sessuale, rendendo interscambiabile ogni
ruolo tra uomo e donna. Parlando della crisi della morale tradizionale, accennavo che alla radice
della crisi c'è una serie di rotture fatali: quella, ad esempio, tra sessualità e procreazione. Staccato
dal legame con la fecondità, il sesso non appare più come una caratteristica determinata, come un
orientamento radicale, originario della persona. Maschio? Femmina? Sono domande che per
alcuni sono ormai " vecchie ", prive di senso, se non razziste. La risposta del conformismo
corrente è prevedibile: "maschio o femmina che si sia interessa poco, siamo tutti semplicemente
delle persone umane". Questo in realtà è grave anche se sembra molto bello e generoso: significa
infatti che la sessualità non è più considerata come radicata nella antropologia, significa che il
sesso è visto come un semplice ruolo interscambiabile a piacere".
E dunque?
"Dunque, ne segue per logica coerenza che tutto l'essere e tutto l'agire della persona umana sono
ridotti a pura funzionalità, a puro ruolo: per esempio il ruolo del "consumatore" o il ruolo del "
lavoratore ", secondo i regimi. Qualcosa comunque che non riguarda direttamente il diverso
sesso. Non è un caso che, tra le battaglie di "liberazione" di questi anni, ci sia stata anche quella
per sfuggire alla "schiavitù della natura", chiedendo il diritto di diventare maschio o femmina a
piacere, per esempio per via chirurgica, ed esigendo che lo stato nella sua anagrafe prenda atto di
questa autonoma volontà dell'individuo. E non è un caso che le leggi si siano prontamente
adeguate a una simile richiesta. Anche se questo cosiddetto "cambiamento di sesso" non muta
nulla nella costituzione genetica della persona interessata. È soltanto un artefatto esteriore, con il
quale non si risolvono i problemi ma semplicemente si costruiscono delle realtà fittizie. Se tutto
non è che "ruolo" determinato dalla cultura, dalla storia e non specificità naturale inscritta nel
profondo, anche la maternità è una funzione casuale: e difatti certe rivendicazioni femministe
considerano " ingiusto " che alla sola donna tocchi partorire, allattare. E la scienza, non solo la
legge, corre in aiuto: trasformando un maschio in femmina e viceversa, come già abbiamo visto;
o staccando la fecondità dalla sessualità, mirando a far procreare a piacere con manipolazioni
tecniche. Non siamo forse tutti eguali? Dunque, se necessario, si combatta anche contro la "
ineguaglianza " della natura. Ma la natura non si combatte senza subirne le conseguenze più
devastanti. La sacrosanta eguaglianza tra maschio e femmina non esclude, anzi esige, la
diversità".
A difesa della natura
Dal discorso generale, vediamo di passare a quello che più ci interessa. Che cosa avviene quando
questi orientamenti entrano nella dimensione religiosa, cristiana?
"Avviene che la interscambiabilità dei sessi visti come semplici " ruoli " determinati più dalla
storia che dalla natura, che la banalizzazione del maschile e del femminile si estendono all'idea
stessa di Dio e da lì si allargano a tutta la realtà religiosa".
Eppure, sembra davvero sostenibile anche per un cattolico (e un Papa lo ha recentemente
ricordato) che Dio è al di là delle categorie della sua creazione; e dunque è tanto Padre che
Madre.
"Questo è corretto se ci poniamo da un punto di vista puramente filosofico, astratto. Ma il
cristianesimo non è una speculazione filosofica, non è una costruzione della nostra mente. Il
cristianesimo non è " nostro ", è la Rivelazione di Dio, è un messaggio che ci è stato consegnato
e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Dunque, non siamo autorizzati a
trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è
fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci. Ancor meno ci è lecito
sostituire Cristo con un'altra figura. Ma ciò che il femminismo radicale - talvolta anche quello
che dice di richiamarsi al cristianesimo - non è disposto ad accettare è proprio questo: il carattere
esemplare, universale, immodificabile della relazione tra Cristo e il Padre".
Se queste sono le posizioni contrapposte, osservo, il dialogo sembra bloccato.
"Sono infatti convinto - dice - che ciò cui porta il femminismo nella sua forma radicale non è più
il cristianesimo che conosciamo, è una religione diversa. Ma sono anche convinto (cominciamo a
vedere le ragioni profonde della Posizione biblica) che la Chiesa cattolica e quelle ortodosse,
difendendo la loro fede e il loro concetto di sacerdozio, difendono in realtà sia gli uomini che le
donne nella loro totalità, nella loro distinzione irreversibile in maschile e femminile; dunque
nella loro irriducibilità a semplice funzione, ruolo".
"Del resto - continua - vale anche qui quanto non mi stanco di ripetere: per la Chiesa, il
linguaggio della natura (nel nostro caso: due sessi complementari tra loro e insieme ben distinti)
è anche il linguaggio della morale (uomo e donna chiamati a destini egualmente nobili, entrambi
eterni, ma insieme diversi). È in nome della natura - si sa che di questo concetto diffida invece la
tradizione protestante e, al suo seguito, quella dell'illuminismo - che la Chiesa alza la voce contro
la tentazione di precostituire le persone e il loro destino secondo meri progetti umani, di togliere
loro l'individualità e, con questa, la dignità. Rispettare la biologia è rispettare Dio stesso, quindi
salvaguardare le sue creature".
Frutto anch'esso, per Ratzinger "dell'Occidente opulento e del suo establishment intellettuale", il
femminismo radicale "annuncia una liberazione, cioè una salvezza, diversa se non opposta a
quella cristiana". Ma ammonisce: "Tocca agli uomini e soprattutto alle donne che sperimentano i
frutti di questa presunta salvezza post-cristiana interrogarsi realisticamente se questa sta davvero
significando un aumento di felicità, un maggior equilibrio, una sintesi vitale, più ricca di quella
abbandonata perché giudicata superata".
Dunque, dico, a suo avviso le apparenze ingannerebbero: più che beneficate, le donne sarebbero
vittime della " rivoluzione " in corso.
"Sì - ripete -, è la donna che paga di più. Maternità e verginità (i due valori altissimi in cui
realizzava la sua vocazione più profonda) sono diventati valori opposti a quelli dominanti. La
donna, creatrice per eccellenza dando la vita, non " produce " però in quel senso tecnico che è il
solo valorizzato da una società più maschile che mai nel suo culto dell'efficienza. La si convince
che si vuole " liberarla ", " emanciparla ", inducendola a mascolinizzarsi e rendendola così
omogenea alla cultura della produzione, facendola rientrare sotto il controllo della società
maschile dei tecnici, dei venditori, dei politici che cercano profitto e potere, tutto organizzando,
tutto vendendo, tutto strumentalizzando per i loro fini. Affermando che lo specifico sessuale è in
realtà secondario (e, dunque, negando il corpo stesso come incarnazione dello Spirito in un
essere sessuato), la donna è derubata non solo della maternità, ma anche della libera scelta della
verginità: eppure, come l'uomo non può procreare, così non può essere vergine se non " imitando
" la donna. La quale, anche per questa via, aveva per l'altra parte dell'umanità valore altissimo di
" segno ", di "esempio"".
Femminismo in convento
Che ne è, chiedo, di quel mondo ricchissimo e complesso (spesso un po' impenetrabile agli occhi
di un uomo, soprattutto se laico), il mondo delle religiose cioè: suore, monache, consacrate di
ogni tipo?
"Certa mentalità femminista - risponde - è entrata anche nelle comunità religiose femminili.
Questo ingresso è particolarmente vistoso, persino nelle sue forme più estreme, nel continente
nordamericano. Hanno resistito piuttosto bene, invece, le claustrali, gli ordini contemplativi,
perché più al riparo dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e perché caratterizzati da uno scopo
preciso e non modificabile: la lode a Dio, la preghiera, la verginità e la separazione dal mondo
come segno escatologico. In grave crisi, invece, ordini e congregazioni di vita attiva: la scoperta
della professionalità, il concetto di "assistenza sociale" che ha sostituito quello di " carità ",
l'adeguamento spesso indiscriminato e magari entusiastico ai valori nuovi e sino ad allora
sconosciuti della moderna società secolare, l'ingresso, qualche volta senza alcun filtro, di
psicologie e psicoanalisi di ogni scuola nei conventi: tutto questo ha portato a laceranti problemi
di identità e alla caduta di motivazioni sufficienti a giustificare presso molte donne la vita
religiosa. Visitando in Sudamerica una libreria cattolica, ho notato che là (e non solo là!) i trattati
spirituali di un tempo erano ormai sostituiti da manuali divulgativi di psicoanalisi, la teologia
aveva fatto posto alla psicologia, magari la più corrente. Quasi irresistibile, poi, il fascino per ciò
che è orientale o presunto tale: in molte case religiose (maschili e femminili) la croce ha talvolta
lasciato il posto a simboli della tradizione religiosa asiatica. Sparite anche in diversi luoghi le
devozioni di un tempo per far posto a tecniche yoga o zen".
E' stato osservato come molti religiosi abbiano cercato di risolvere la crisi di identità
proiettandosi all'esterno - secondo la ben nota dinamica maschile -, cercando dunque
"liberazione" nella società, nella politica. Molte religiose, invece, sembrano essersi proiettate
all'interno (seguendo anche qui una dialettica legata al sesso), inseguendo quella stessa
"liberazione" nella psicologia del profondo.
"Sì - dice -, ci si è rivolti con grande fiducia a quei confessori profani, a quegli " esperti
dell'anima " che sarebbero psicologi e psicoanalisti. Ma costoro possono al massimo dire come
funzionano le forze dello spirito, non possono dire perché, a che scopo. Ora, la crisi di molte
suore, di molte religiose era determinata proprio dal fatto che il loro spirito sembrava lavorare
nel vuoto, senza più una direzione riconoscibile. Proprio da questo lavorìo di analisi è risultato
chiaro che l' "anima" non si spiega da se stessa, che ha bisogno di un punto di riferimento al di
fuori. È stata quasi una conferma "scientifica" della appassionata constatazione di sant'Agostino:
"Ci hai fatti per te Signore e il nostro cuore è inquieto sino a quando in Te non riposi". Questo
andar cercando e sperimentando, spesso affidandosi a "esperti" improvvisati, ha significato pesi
umani insondabili, comunque altissimi, per le religiose: sia per quelle che sono rimaste che per
quelle che hanno lasciato".
Un futuro senza suore?
C'è un rapporto aggiornato e minuzioso sulle religiose del Ouébec, la provincia-stato del Canada
che parla francese. Un caso esemplare, quello québécois: si tratta infatti della sola zona del Nord
America che sin dagli inizi sia stata colonizzata ed evangelizzata da cattolici, che vi avevano
costruito un regime di chrétienté gestito da una Chiesa onnipresente. In effetti, ancora vent'anni
fa, all'inizio degli anni Sessanta, il Québec era la regione del mondo con il più alto numero di
religiose rispetto agli abitanti, che sono in tutto sei milioni. Tra il 1961 e il 1981 per uscite,
morti, arresto del reclutamento, le religiose si sono ridotte da 46.933 a 26.294. Una caduta,
dunque, del 44 per cento e che sembra inarrestabile. Le nuove vocazioni, infatti, si sono ridotte
nello stesso periodo di ben il 98,5 per cento. Risulta poi che buona parte di quell'1,5 superstite è
costituito non da giovani ma da " vocazioni tardive ". Tanto che, con una semplice proiezione,
tutti i sociologi concordano in una conclusione cruda ma oggettiva: "Tra poco (a meno di
rovesciamenti di tendenza del tutto improbabili almeno a viste umane), la vita religiosa
femminile così come l'abbiamo conosciuta non sarà in Canada che un ricordo".
Sono gli stessi sociologi che hanno preparato il rapporto che ricordano come in questi vent'anni
tutte le comunità abbiano proceduto a ogni sorta di riforma immaginabile: abbandono dell'abito
religioso, stipendio individuale, lauree nelle università laiche, inserimento nelle professioni
secolari, assistenza massiccia di ogni tipo di " specialisti ". Eppure, le suore hanno continuato a
uscire, le nuove non sono arrivate, quelle rimaste - età media attorno ai sessant'anni - spesso non
sembrano avere risolto i problemi di identità e in qualche caso dichiarano di attendere rassegnate
l'estinzione delle loro congregazioni.
L'aggiornamento, anche il più coraggioso, era certo necessario, ma non sembra avere funzionato,
proprio in quell'America del Nord cui in particolare si riferisce Ratzinger. Forse perché,
dimenticando l'ammonimento evangelico, si è cercato di mettere "vino nuovo" in "otri vecchi", in
comunità cioè nate in altri climi spirituali, figlie di una Societas christiana che non è più la
nostra? Dunque, la fine di una vita religiosa non significa la fine della vita religiosa che si
incarnerà in forme nuove, adeguate ai nostri tempi?
Il Prefetto non lo esclude di certo, anche se il caso esemplare del Québec conferma che gli ordini
in apparenza più opposti alla mentalità attuale e più refrattari alle modifiche, quelli di
contemplative, di claustrali "hanno al massimo registrato qualche problema ma non hanno
conosciuto una vera crisi", per stare alle parole dei sociologi stessi.
Comunque sia, per il Cardinale, "se è la donna che paga lo scotto maggiore alla nuova società e
ai suoi valori, tra tutte le donne le suore erano le più esposte". Ritornando ancora a quanto già
accennato, osserva che "l'uomo, anche il religioso, malgrado i problemi che sappiamo, ha potuto
cercare un rimedio alla crisi gettandosi sul lavoro, tentando di ritrovare il suo ruolo nell'attività.
Ma la donna, quando i ruoli inscritti nella sua stessa biologia sono stati negati e magari irrisi?
Quando la sua meravigliosa capacità di dare amore, aiuto, Sollievo, calore, solidarietà è stata
sostituita dalla mentalità economicistica e sindacale della "professione", questa tipica
preoccupazione maschile? Che può fare la donna, quando tutto ciò che più è suo è spazzato via e
giudicato irrilevante o deviante?".
Continua: "L'attivismo, il voler fare comunque cose "produttive", "rilevanti" è la tentazione
costante dell'uomo, anche del religioso. Ed è proprio questo orientamento che domina nelle
ecclesiologie (ne parlavamo) che presentano la Chiesa come un "popolo di Dio" indaffarato,
impegnato a tradurre il vangelo di un programma di azione che consegua dei "risultati" sociali,
politici, culturali. Ma non è un caso se la Chiesa è nome di genere femminile. In essa, infatti,
vive il mistero della maternità, della gratuità, della contemplazione, della bellezza, dei valori
insomma che sembrano inutili agli occhi del mondo profano. Senza magari essere pienamente
cosciente delle ragioni, la religiosa avverte il disagio profondo di vivere in una Chiesa dove il
cristianesimo è ridotto a ideologia del fare, secondo quell'ecclesiologia duramente maschilista e
che pure è presentata - e magari creduta - come più vicina anche alle donne e alle loro esigenze
"moderne".
E invece un progetto di Chiesa dove non c'è più posto per l'esperienza mistica, questa vetta della
vita religiosa che non a caso è stata tra le glorie e le ricchezze offerte a tutti, con millenaria
costanza e abbondanza, più da donne che da uomini. Quelle donne straordinarie che la Chiesa ha
proclamato sue " sante " e talvolta suoi " dottori ", non esitando a proporle come esempio a tutti i
cristiani. Un esempio che oggi è forse di particolare attualità".
Un rimedio: Maria
Alla crisi dell'idea stessa di Chiesa, alla crisi della morale, alla crisi della donna, il Prefetto ha da
proporre, tra gli altri, un rimedio che, dice, "ha mostrato concretamente la sua efficacia lungo
tutti i secoli cristiani. Un rimedio il cui prestigio sembra oggi essersi oscurato presso alcuni
cattolici, ma che è più che mai attuale". E il rimedio che indica con un nome breve: Maria.
Ratzinger è ben cosciente che qui - forse più che altrove - c'è difficoltà da parte di certi settori di
credenti a recuperare in pieno un aspetto del cristianesimo come la mariologia, che pure è stato
ribadito dal Vaticano II come culmine della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. "Inserendo il
mistero di Maria nel mistero della Chiesa - dice - il Vaticano Il ha compiuto una scelta
significativa che avrebbe dovuto ridare nuova lena alle indagini teologiche; le quali, invece, nel
primo periodo postconciliare hanno registrato per questo aspetto una brusca caduta. Quasi un
collasso, anche se ora appaiono segni di ripresa".
Commemorando, nel 1968, il 18° anniversario della proclamazione del dogma dell'assunzione di
Maria in corpo e anima alla gloria celeste, l'allora professor Ratzinger già osservava:
"L'orientamento, in pochi anni, è talmente mutato che oggi ci riesce difficile capire l'entusiasmo
e la gioia che allora regnarono nella Chiesa. Oggi si cerca magari di eludere quel dogma che
tanto ci aveva esaltati, ci si domanda se questa verità dell'Assunta - come tutte le altre verità
cattoliche su Maria - non procuri difficoltà con i fratelli protestanti. Quasi che la mariologia fosse
una pietra che ostacola il cammino verso la riunione. E ci domandiamo anche se, attribuendo il
posto tradizionale a Maria, non si minacci addirittura l'orientamento della pietà cristiana,
deviandola dal guardare solo a Dio Padre e all'unico mediatore, Gesù Cristo".
Eppure, mi dirà durante il colloquio, "se sempre il posto occupato dalla Madonna è stato
essenziale all'equilibrio della fede, oggi ritrovare quel posto è urgente come in poche altre
epoche della storia della Chiesa".
La testimonianza di Ratzinger è anche umanamente importante, essendo raggiunta attraverso un
cammino personale di riscoperta, di successivo approfondimento, quasi di piena "conversione "
al mistero mariano. Mi confida infatti: "Quando ero un giovane teologo, prima del Concilio,
avevo qualche riserva su certe antiche formule, come ad esempio quella famosa de Maria
numquam satis, "su Maria non si dirà mai abbastanza". Mi sembrava esagerata. Mi riusciva poi
difficile capire il senso vero di un'altra famosa espressione (ripetuta nella Chiesa sin dai primi
secoli quando - dopo una disputa memorabile - il Concilio di Efeso del 431 aveva proclamato
Maria Theotókos, Madre di Dio), l'espressione, cioè, che vuole la Vergine "nemica di tutte le
eresie". Ora - in questo confuso periodo dove davvero ogni tipo di deviazione ereticale sembra
premere alle porte della fede autentica - ora comprendo che non si trattava di esagerazioni di
devoti ma di verità oggi più che mai valide".
"Sì - continua - bisogna tornare a Maria se vogliamo tornare a quella "verità su Gesù Cristo, sulla
Chiesa, sull'uomo" che Giovanni Paolo II proponeva come programma alla cristianità intera,
presiedendo nel 1979 a Puebla la Conferenza dell'Episcopato latino-americano. I vescovi
replicavano all'invito del Pontefice proponendo nei documenti finali (quelli stessi che sono stati
letti da alcuni in modi incompleti) l'auspicio unanime di tutti i vescovi: " Maria deve essere più
che mai la pedagogia per annunciare il vangelo agli uomini d'oggi ". Proprio in quel Sud
America dove la tradizionale pietà mariana del popolo declina, il vuoto è riempito da ideologie
politiche. È un fenomeno che si riscontra un po' dovunque, a conferma dell'importanza di quella
che non è solo una devozione".
Sei motivi per non dimenticarla
Sei sono i punti nei quali - pur in modo assai sintetico e dunque necessariamente incompleto il
Cardinale vede riassunta la funzione della Vergine di equilibrio e di completezza per la fede
cattolica. Sentiamo.
Primo punto: "Riconoscere a Maria il posto che il dogma e la tradizione le assegnano significa
stare saldamente radicati nella cristologia autentica. (Vaticano II: " La Chiesa, pensando a lei con
pietà filiale e contemplandola alla luce del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più
profondamente nell'altissimo mistero dell'Incarnazione e si va sempre più conformando con il
suo Sposo ", Lumen Gentium n. 65). È del resto al servizio diretto della fede nel Cristo - non
dunque, innanzitutto, per devozione alla Madre - che la Chiesa ha proclamato i suoi dogmi
mariani: prima la verginità perpetua e la maternità divina e poi, dopo una lunga maturazione e
riflessione, il concepimento senza la macchia del peccato originale e l'assunzione al cielo. Questi
dogmi mettono al riparo la fede autentica nel Cristo, come vero Dio e vero uomo: due nature in
una sola Persona. Mettono al riparo anche l'indispensabile tensione escatologica, indicando in
Maria assunta il destino immortale che tutti ci attende. E mettono al riparo pure la fede, oggi
minacciata, in Dio creatore che (è tra l'altro uno dei significati della più che mai incompresa
verità sulla verginità perpetua di Maria) può liberamente intervenire anche sulla materia.
Insomma, come ricorda ancora il Concilio: " Maria, per la sua intima partecipazione alla storia
della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede" (Lumen Gentium n.
65)".
A questo primo punto, Ratzinger ne fa seguire un secondo: "La mariologia della Chiesa suppone
il giusto rapporto, la necessaria integrazione tra Bibbia e Tradizione. I quattro dogmi mariani
hanno la loro base indispensabile nella Scrittura. Ma qui vi è come un germe che cresce e dà
frutto nella vita calda della Tradizione così come si esprime nella liturgia, nell'intuizione del
popolo credente, nella riflessione della teologia guidata dal Magistero".
Terzo punto: "Nella sua persona stessa di fanciulla ebrea divenuta madre del Messia, Maria lega
insieme in modo vitale e inestricabile antico e nuovo popolo di Dio, Israele e cristianesimo,
Sinagoga e Chiesa. E' come il punto di giunzione senza il quale la fede (come oggi succede)
rischia di sbilanciarsi o sull'Antico Testamento o soltanto sul Nuovo. In lei possiamo invece
vivere la sintesi della Scrittura intera".
Quarto punto: "La corretta devozione mariana garantisce alla fede la convivenza
dell'indispensabile " ragione " con le altrettanto indispensabili " ragioni del cuore ", come direbbe
Pascal. Per la Chiesa l'uomo non è solo ragione né solo sentimento, è l'unione di queste due
dimensioni. La testa deve riflettere con lucidità ma il cuore deve essere riscaldato: la devozione a
Maria ("esente da qualunque falsa esagerazione ma anche da una grettezza di mente che non
consideri la singolare dignità della Madre di Dio ", come raccomanda il Concilio) assicura alla
fede la sua dimensione umana completa".
Continuando nella sua sintesi, Ratzinger indica un quinto punto: "Per usare le espressioni stesse
del Vaticano II, Maria è " figura ", " immagine ", " modello " della Chiesa. Allora, guardando a
lei, la Chiesa è messa al riparo da quel modello maschilista di cui parlavo che la vede come
strumento di un programma d'azione socio-politico. In Maria, sua figura e modello, la Chiesa
ritrova il suo volto di Madre, non può degenerare in una involuzione che la trasformi in un
partito, in un'organizzazione, in un gruppo di pressione a servizio di interessi umani, anche se
nobilissimi. Se in certe teologie ed ecclesiologie Maria non trova più posto, la ragione è
semplice: hanno ridotto la fede ad una astrazione. E un'astrazione non ha bisogno di una Madre".
Sesto e ultimo punto di questa sintesi: "Con il suo destino, che è insieme di Vergine e di Madre,
Maria continua a proiettare luce su ciò che il Creatore ha inteso per la donna di ogni tempo, il
nostro compreso. Anzi, forse soprattutto il nostro, dove come sappiamo - è minacciata l'essenza
stessa della femminilità. La sua Verginità e la sua Maternità radicano il mistero della donna in un
destino altissimo da cui non può essere scardinata. Maria è l'intrepida annunciatrice del
Magnificat; ma è anche colei che rende fecondi il silenzio e il nascondimento. È colei che non
teme di stare sotto la croce, che è presente alla nascita della Chiesa; ma è anche colei che, come
sottolinea più volte l'evangelista, " serba e medita nel suo cuore " ciò che le avviene attorno.
Creatura del coraggio e dell'obbedienza è (ancora e sempre) un esempio al quale ogni cristiano -
uomo e donna - può, deve guardare".
Fatima e dintorni
A una delle quattro sezioni della Congregazione per la fede (la sezione detta "disciplinare")
spetta il giudizio sulle apparizioni mariane.
Gli chiedo: "Cardinal Ratzinger, lei ha letto il cosiddetto " terzo segreto di Fatima ", quello fatto
pervenire a Giovanni XXIII da suor Lucia, la sola superstite del gruppo dei veggenti, e che il
Papa, dopo averlo esaminato, consegnò al suo predecessore cardinal Ottaviani, ordinandogli di
depositarlo negli archivi del Sant'Uffizio?".
La risposta è ìmmediata, secca: "Sì, l'ho letto".
"Circolano nel mondo - continuo - versioni mai smentite che descrivono i contenuti di quel "
segreto " come inquietanti, apocalittici, annunciatori di terribili sofferenze. Giovanni Paolo II
stesso, nella sua visita pastorale in Germania, è sembrato confermare (seppure con prudentì
perifrasi, privatamente, con un gruppo di invitati qualificati) i contenuti non certo confortanti di
quel testo. Prima di lui Paolo VI, nel suo pellegrinaggio a Fatima, pare avere accennato anch'egli
ai temi apocalittici del " segreto -. Perché non si è mai deciso di renderlo pubblico, anche per
evitare supposizioni azzardate?".
"Se finora non si è presa questa decisione - risponde - non è perché i Papi vogliano nascondere
qualcosa di terribile".
Dunque, insisto, " qualcosa di terribile " c'è, in quel manoscritto di suor Lucia?
"Se anche ci fosse - replica, evitando di spingersi troppo oltre -, ebbene, questo non farebbe che
confermare la parte già nota del messaggio di Fatima. Da quel luogo è stato lanciato un segnale
severo, che va contro la faciloneria imperante, un richiamo alla serietà della vita e della storia, ai
pericoli che incombono sull'umanità. È quanto Gesù stesso ricorda assai spesso, non temendo di
dire: " Se non vi convertite, tutti perirete " (Lc 13,3). La conversione - e Fatima lo ricorda in
pieno - è un'esigenza perenne della vita cristiana. Dovremmo già saperlo da tutta quanta la
Scrittura".
Dunque, niente pubblicazione, almeno per ora?
"Il Santo Padre giudica che non aggiungerebbe nulla a quanto un cristiano deve sapere dalla
Rivelazione e, anche, dalle apparizioni mariane approvate dalla Chiesa nei loro contenuti noti,
che non fanno che riconfermare l'urgenza di penitenza, di conversione, di perdono, di digiuno.
Pubblicare il " terzo segreto " significherebbe anche esporsi al pericolo di utilizzazioni
sensazionaliste del contenuto".
Forse anche implicazioni politiche, azzardo, visto che a quanto pare anche qui - come nei due
altri " segreti " - la Russia è menzionata?
A questo punto, però, il cardinale si dice indisponibile a spingersi oltre, rifiuta con fermezza di
entrare in altri particolari. D'altro canto, mentre si svolgeva il nostro colloquio, da poco il Papa
aveva proceduto a riconsacrare il mondo (con una menzione particolare all'Est europeo) al Cuore
Immacolato di Maria, giusto secondo l'esortazione della Madonna di Fatima. Ed è lo stesso
Giovanni Paolo II che, ferito dal suo attentatore un 13 maggio anniversario della prima
apparìzione nella località portoghese - si recò a Fatima in pellegrinaggio di ringraziamento a
Maria "la cui mano (dìsse) ha miracolosamente guidato il proiettile" e sembrando fare
riferimento ai preannunci che, attraverso un gruppo dì bambini, erano stati trasmessi all'umanità
e riguardavano anche la persona dei pontefici. Restando in tema, è ben noto che da anni, ormai,
un villaggio della Jugoslavia, Medjugorie, è al centro dell'attenzione mondiale per il rinnovarsi di
apparizioni che - vere o presunte che siano - hanno già richiamato milioni di pellegrini ma hanno
provocato anche dolorose polemiche tra i francescani che reggono la parrocchia e il vescovo
della diocesi locale. È prevedibile un intervento chiarificatore della Congregazione per la
dottrina della fede, suprema istanza in materia, naturalmente con quell'approvazione del Papa
indispensabile per ogni suo documento?
Risponde: "In questo campo, più che mai, la pazienza è un elemento fondamentale della politica
della nostra Congregazione. Nessuna apparizione è indispensabile alla fede, la Rivelazione è
terminata con Gesù Cristo, Egli stesso è la Rivelazione. Ma non possiamo certo impedire a Dio
di parlare a questo nostro tempo, attraverso persone semplici e anche per mezzo di segni
straordinari che denuncino l'insufficienza delle culture che ci dominano, marchiate di
razionalismo e di positivismo. Le apparizioni che la Chiesa ha approvato ufficialmente -
innanzitutto Lourdes e ancora Fatima - hanno un loro posto preciso nello sviluppo della vita della
Chiesa nell'ultimo secolo. Mostrano tra l'altro che la Rivelazione - pur essendo unica, conchiusa
e dunque non superabile - non è cosa morta, è viva e vitale. Del resto - al di là di Medjugorje, sul
quale non posso esprimere alcun giudizio, il caso essendo ancora sotto esame da parte della
Congregazione - uno dei segni del nostro tempo è che le segnalazioni di " apparizioni " mariane
si stanno moltiplicando nel mondo. Anche dall'Africa, ad esempio e da altri continenti, giungono
rapporti alla nostra sezione competente".
Ma, chiedo, oltre all'elemento tradizionale della pazienza e della prudenza, a quali criteri si
appoggia la Congregazione per un giudizio, davanti al moltiplicarsi di questi fatti?
"Uno dei nostri criteri - dice - è separare l'aspetto della vera o presunta "soprannaturalità"
dell'apparizione da quello dei suoi frutti spirituali. 1 pellegrinaggi della cristianità antica si
dirigevano verso luoghi a proposito dei quali il nostro spirito critico di moderni sarebbe talvolta
perplesso quanto alla "verità scientifica" della tradizione che vi è legata. Ciò non toglie che quei
pellegrinaggi fossero fruttuosi, benefici, importanti per la vita del popolo cristiano. Il problema
non è tanto quello della ipercritica moderna (che finisce poi, tra l'altro, in una forma di nuova
credulità) ma è quello della valutazione della vitalità e dell'ortodossia della vita religiosa che si
sviluppa attorno a questi luoghi".