giovedì 6 settembre 2012

Joseph Ratzinger - Rapporto sulla Fede (Parte terza)


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Questo libro, esaltato da alcuni – ed esecrato da altri – come il «manifesto» che chiudeva la fase tellurica del post-Concilio, è ormai entrato fra i testi di riferimento della storia della Chiesa.
Per la prima volta nella storia, un Prefetto dell'ex-Sant'Uffizio parlava «a cuore aperto», con lucido e coraggioso realismo, affidando le sue riflessioni sulla fede oggi a un giornalista.
Seppure uscito nel 1985 (l'anno stesso in cui si apriva il Sinodo per i vent'anni dalla fine del Vaticano II), colpisce di questo libro la sua bruciante attualità, utile per comprendere presente e futuro della cristianità ora affidata alle cure del nuovo pontefice Benedetto XVI. Lo propongo ai lettori di questo blog ad un mese dalla apertura dell'Anno della Fede.

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 CAPITOLO OTTAVO
UNA SPIRITUALITA' PER OGGI

 CAPITOLO NONO
LITURGIA TRA ANTICO E NUOVO

 CAPITOLO DECIMO
SU ALCUNE "COSE ULTIME"


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 CAPITOLO OTTAVO
UNA SPIRITUALITA' PER OGGI

La fede e il corpo
Riconosciuti o no che siano, i "messaggi delle apparizioni mariane" fanno problema anche
perché sembrano andare in una direzione poco omogenea a certa "spiritualità post-conciliare".
Mi interrompe: "Ribadisco che non amo i termini pre o post-conciliare; accettarli significherebbe
accettare l'idea di una frattura nella storia della Chiesa. Nelle "apparizioni" c'è spesso un
coinvolgimento del corpo (segni di croce, acqua benedetta, appello al digiuno), ma tutto questo è
in pieno nella linea del Vaticano II che ha insistito per l'unità dell'uomo, dunque per
l'incarnazione dello Spirito nella carne".
Quel digiuno al quale accenna sembra essere addirittura in una posizione centrale per molti di
quei "messaggi".
"Digiunare significa accettare un aspetto essenziale della vita cristiana. Occorre ritrovare
l'aspetto anche corporale della fede: l'astensione dal cibo è uno di questi aspetti. Sessualità e
nutrimento sono gli elementi centrali della fisicità dell'uomo: ora, al declino della comprensione
della verginità ha corrisposto il declino della comprensione del digiuno. E questi due declini
sono entrambi legati a una sola radice: l'attuale oscuramento della tensione escatologica, cioè
verso la vita eterna, della fede cristiana. Essere vergini e saper periodicamente rinunciare al cibo
è testimoniare che la vita eterna ci attende, anzi è già tra noi, che "la scena di questo mondo
passa" (1 Cor 7,3 1). Senza verginità e senza digiuno la Chiesa non è più Chiesa, si appiattisce
nella storia. E per questo dobbiamo :guardare come a un esempio ai fratelli delle Chiese
ortodosse dell'Oriente, grandi maestre - anche oggi - di autentico ascetismo cristiano".
Ma, osservo, se le "forme corporali" di espressione della fede sembrano scomparse tra la base
cattolica (sopravvivendo, forse, in ristrette élites di claustrali), è anche per orientamento della
Chiesa istituzionale: venerdì, vigilie, quaresime, avventi e altri " tempi forti " sono stati mitigati
da provvedimenti susseguitisi in questi anni e provenienti da Roma.
"È vero, ma l'intenzione era buona - dice -. Si trattava di eliminare dei sospetti di legalismo, delle
tentazioni di trasformare la religione in pratiche esterne. Resta confermato che digiuni, astinenze
e altre " penitenze " devono continuare a essere legati alla responsabilità personale. Ma è anche
urgente ritrovare espressioni comuni della penitenza ecclesiale. Oltretutto, in un mondo che in
tante sue parti muore di fame, dobbiamo ridare la testimonianza visibile e comunitaria di una
privazione dal cibo accettata liberamente, per amore".
Diversi rispetto al "mondo"
Per lui, comunque, il problema è più generale: "Anche qui dobbiamo riscoprire il coraggio del
non conformismo davanti alle tendenze del mondo opulento. Invece di seguire lo spirito
dell'epoca dovremmo essere noi a marchiare di nuovo quello spirito con l'austerità evangelica.
Noi abbiamo perduto il senso che i cristiani non possono vivere come vive chiunque. L'opinione
stolta secondo cui non esisterebbe una specifica morale cristiana è solo una espressione
particolarmente spinta della perdita di un concetto base: la " differenza del cristiano "rispetto ai
modelli del mondo". Anche in alcuni ordini e congregazioni religiose si è scambiata la vera
riforma con il rilassamento della austerità tradizionale. S'è scambiato il rinnovamento con
l'accomodamento. Per fare un piccolo esempio preciso: un religioso mi ha riferito che la
dissoluzione del suo convento era cominciata - molto concretamente - quando si era dichiarata
"non più praticabile" la levata dei frati per la recita dell'ufficio notturno previsto dalla liturgia.
Ebbene, questo indubbio ma significativo "sacrificio" era stato sostituito con uno stare a guardare
la televisione sino a notte avanzata. Un piccolo caso, in apparenza: ma è anche di questi "piccoli
casi" che è fatto il declino attuale della indispensabile austerità della vita cristiana. A cominciare
da quella dei religiosi".
Continua, completando il suo pensiero: "Oggi più che mai il cristiano deve essere conscio di
appartenere a una minoranza e di essere in contrasto con ciò che appare buono, ovvio, logico per
lo "spirito del mondo", come lo chiama il Nuovo Testamento. Tra i compiti più urgenti per il
cristiano, c'è il recupero della capacità di opporsi a molte tendenze della cultura circostante,
rinunziando a certa solidarietà troppo euforica post-conciliare".
Dunque, accanto alla Gaudium et spes (il testo del Concilio sui rapporti tra Chiesa e mondo)
possiamo ancora tenere l'Imitazione di Cristo.
"Si tratta, ovviamente, di due spiritualità molto diverse. L'Imitazione è un testo che rispecchia la
grande tradizione monastica medievale. Ma il Vaticano II non voleva affatto togliere le cose
buone ai buoni".
E l'Imitazione di Cristo (presa, si intende, come simbolo di una certa spiritualità) è ancora tra le
cose buone "?
"Anzi: tra gli obiettivi più urgenti del cattolico moderno c'è proprio il recupero degli elementi
positivi di una spiritualità come quella, con la sua consapevolezza del distacco qualitativo tra
mentalità di fede e mentalità mondana. Certo, nella Imitazione c'è un'accentuazione unilaterale
della relazione privata del cristiano con il suo Signore. Ma in troppa produzione teologica
contemporanea c'è una comprensione insufficiente della interiorità spirituale. Condannando in
blocco e senza appello la fuga saeculi che è al centro della spiritualità classica, non si è capito
che c'era in quella " fuga " anche un aspetto sociale. Si fuggiva dal mondo non per abbandonarlo
a se stesso, ma per ricreare in luoghi dello spirito una nuova possibilità di vita cristiana e,
dunque, umana. Si prendeva atto della alienazione della società e - nell'eremo o nel monastero -
si ricostruivano delle oasi vivibili, delle speranze di salvezza per tutti".
C'è da riflettere: vent'anni fa ci si diceva in tutti i modi che il problema più urgente del cattolico
era trovare una spiritualità " nuova ", " comunitaria ", "aperta", "non sacrale", " secolare ",
"solidale con il mondo". Ora, dopo tanto vagare, si scopre che il compito urgente è ritrovare un
aggancio con la spiritualità antica, quella della "fuga dal secolo".
"Il problema - replica - è ancora una volta quello di un equilibrio da ritrovare. A parte legittime,
anzi preziose, vocazioni monastiche o eremitiche, il credente è tenuto a vivere il non facile
equilibrio tra giusta incarnazione nella storia e indispensabile tensione verso l'eternità. È questo
equilibrio che impedisce di sacralizzare l'impegno terreno ma, insieme, di ricadere nell'accusa di
" alienazione "".
La sfida delle sètte
Insistenza escatologica, fuga dal mondo, appelli esasperati al "cambiamento di vita", alla
"conversione", coinvolgimento del corpo (astensione dall'alcol, dal tabacco, spesso dalla carne,
"penitenze " di vario tipo) contrassegnano quasi tutte le sètte che continuano a espandersi tra gli
ex-fedeli delle chiese cristiane "ufficiali". Il fenomeno assume di anno in anno dimensioni
sempre più imponenti: esiste una strategia comune della Chiesa per rispondere a questa
avanzata?
"Ci sono singole iniziative di vescovi e episcopati - risponde il Prefetto -. Certamente dovremo
stabilire una linea di azione comune tra le Conferenze episcopali e i competenti organi della
Santa Sede e, nella misura del possibile, con altre grandi comunità ecclesiali. Va comunque detto
che, in ogni tempo e luogo, la cristianità ha conosciuto frange di spiriti religiosi esposti al fascino
di questo tipo di annuncio eccentrico, eterodosso".
Ora, però, queste "frange" sembrano trasformarsi in fenomeno di massa.
"La loro espansione - dice - segnala anche vuoti e carenze del nostro annuncio e della nostra
prassi. Per esempio: l'escatologismo radicale, il millenarismo che contrassegna molte di queste
sètte, può farsi strada anche grazie alla sparizione di questo aspetto del cattolicesimo autentico in
molta pastorale. C'è in queste sètte una sensibilità (che in loro è estremizzata, ma che in misura
equilibrata è autenticamente cristiana) ai pericoli del nostro tempo, e quindi a una possibilità
della fine imminente della storia. La valorizzazione corretta di messaggi come quello di Fatima
può essere un nostro tipo di risposta: la Chiesa, ascoltando il messaggio vivo del Cristo dato
attraverso Maria al nostro tempo, sente la minaccia della rovina di ciascuno e di tutti e risponde
con una penitenza, una conversione decise".
Per il Cardinale, tuttavia, la più radicale risposta alle sètte passa attraverso "la riscoperta della
identità cattolica: occorre una nuova evidenza, una nuova gioia, se posso dire una nuova
"fierezza" (che non contrasta con l'umiltà indispensabile) di essere cattolici. Bisogna poi
ricordare che questi gruppi riscuotono favori anche perché propongono alla gente, sempre più
sola, isolata, incerta, una sorta di " patria dell'anima ", il calore di una comunità. È proprio quel
calore, quella vita che purtroppo sembrano spesso mancare presso di noi: là dove le parrocchie,
questo nucleo di base irrinunciabile, hanno saputo rivitalizzarsi, offrire il senso della piccola
chiesa che vive in unione con la grande Chiesa, là i settari non hanno potuto sfondare in modo
significativo. La nostra catechesi, poi, deve smascherare il punto su cui insistono questi nuovi "
missionari ": l'impressione, cioè, che la Scrittura sia letta da loro in modo " letterale " mentre i
cattolici l'avrebbero indebolita o dimenticata. Questa letteralità è spesso il tradimento della
fedeltà. L'isolamento di singole frasi, di versetti, è sviante, fa perdere di vista la totalità: letta nel
suo insieme, la Bibbia è davvero " cattolica ". Ma occorre che questo sia mostrato attraverso una
pedagogia catechetica che riabitui alla lettura della Scrittura nella Chiesa e con la Chiesa".

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CAPITOLO NONO
LITURGIA TRA ANTICO E NUOVO

Ricchezze da salvare
Cardinal Ratzinger, vogliamo parlare un poco di liturgia, di riforma liturgica? È un problema tra
i più dibattuti e spinosi, è uno dei cavalli di battaglia della anacronistica reazione anti-conciliare,
dell'integrismo patetico alla Lefebvre, il vescovo in rivolta proprio a causa di certi aggiornamenti
liturgici in cui crede di sentire odore di zolfo, di eresia...
Mi ferma subito per precisare: "Davanti a certi modi concreti di riforma liturgica e, soprattutto,
davanti alle posizioni di certi liturgisti, l'arca del disagio è più ampia di quella dell'integrismo
anticonciliare. Detto in altre parole: non tutti coloro che esprimono un tale disagio devono per
questo essere necessariamente degli integristi".
Vuol forse dire che il sospetto, magari la protesta per certo liturgismo post-conciliare sarebbero
legittimi anche in un cattolico lontano dal tradizionalismo estremo? In un cattolico, cioè, non
malato di nostalgia ma disposto ad accettare interamente il Vaticano II?
"Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia - risponde - ci sono, come di consueto, modi
diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell'uomo con Lui. Il discorso liturgico
non è marginale: è stato proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede
cristiana".
I gravosi compiti romani impediscono a Joseph Ratzinger (per motivi di tempo ma anche di
opportunità) di continuare come vorrebbe la pubblicazione di articoli scientifici e di libri. Ma, a
conferma dell'importanza che dà all'argomento liturgico, una delle poche opere che ha pubblicato
in questi anni è Das Fest des Glaubens, la festa della fede. Si tratta appunto di una raccolta di
brevi saggi sulla liturgia e su un certo "aggiornamento" di fronte al quale si dichiarava perplesso
già dieci anni dopo la conclusione del Vaticano II.
Tiro fuori dalla borsa quel ritaglio del 1975 e leggo: "L'apertura della liturgia alle lingue popolari
era fondata e giustificata: anche il Concilio di Trento l'aveva avuta presente, almeno a livello di
possibilità. Sarebbe poi falso dire, con certi integristi, che la creazione di nuovi canoni per la
Messa contraddice la Tradizione della Chiesa. Tuttavia, resta da vedere sino a che punto le
singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano II siano state veri miglioramenti o non,
piuttosto, banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario,
sconsiderate".
Continuo a leggere da quell'intervento di Joseph Ratzinger, allora professore di teologia ma già
prestigioso membro della Pontificia Commissione Teologica Internazionale: "Anche con la
semplificazione e la formulazione meglio comprensibile della liturgia, è chiaro che deve essere
salvaguardato il mistero dell'azione di Dio nella Chiesa; e, perciò, la fissazione della sostanza
liturgica intangibile per i sacerdoti e le comunità, come pure il suo carattere pienamente
ecclesiale". "Pertanto - esortava il professor Ratzinger - ci si deve opporre, più decisamente di
quanto sia stato fatto finora, all'appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi,
all'infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la
vogliono abbassare a un livello fumettistico. Anche le riforme già eseguite, specialmente
riguardo al rituale, devono essere riesaminate sotto questi punti di vista".
Mi ascolta, con l'attenzione e la pazienza consuete, mentre gli rileggo queste sue parole. Sono
passati dieci anni da allora, l'autore di una simile messa in guardia non è più un semplice
studioso, è il custode dell'ortodossia stessa della Chiesa. Il Ratzinger di oggi, Prefetto della fede,
si riconosce ancora in questo brano?
"Interamente - non esita a rispondermi -. Anzi, da quando scrivevo queste righe altri aspetti che
sarebbero stati da salvaguardare sono stati accantonati, molte ricchezze superstiti sono state
dilapidate. Allora, nel 1975, molti colleghi teologi si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi,
dalla mia denuncia. Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi hanno dato ragione,
almeno parzialmente". Si sarebbero cioè verificati ulteriori equivoci e fraintendimenti che
giustificherebbero ancor più le parole severe di sei anni dopo, nel libro recente che citavamo:
"Certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre,
tale da dare i brividi...".
La lingua, per esempio ...
Per lui, proprio nel campo liturgico - sia negli studi degli specialisti che in certe applicazioni
concrete - si constaterebbe "uno degli esempi più vistosi di contrasto tra ciò che dice il testo
autentico del Vaticano II e il modo con cui è stato poi recepito e applicato".
Esempio sin troppo famoso, si sa (ed esposto al rischio di strumentalizzazioni), è quello
dell'impiego del latino, sul quale il testo conciliare è esplicito: "L'uso della lingua latina, salvo
diritti particolari, sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, n. 36). Più avanti, i
Padri raccomandano: "Si abbia ( ... ) cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche
in lingua latina, le parti dell'Ordinario della Messa che spettano ad essi" (n. 54). Più avanti
ancora, nello stesso documento: "Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia
conservata nell'Ufficio divino la lingua latina " (n. 101).
Scopo del colloquio col card. Ratzinger, dicevamo all'inizio, non era certo mettere in rilievo il
nostro punto di vista, bensì riferire quello dell'intervistato.
Tuttavia, personalmente - per quanto poco importi - troviamo un po' grottesco l'atteggiamento da
"vedovi" e "orfani" di chi rimpiange un passato tramontato per sempre e non siamo affatto
nostalgici di una liturgia in latino che abbiamo conosciuto solo nel suo ultimo, estenuato periodo
di vita. Tuttavia, leggendo i documenti conciliari si può capire ciò che vuol dire il card.
Ratzinger: è un fatto oggettivo che, anche solo limitandosi all'uso della lingua liturgica, balza
agli occhi il contrasto tra i testi del Vaticano II e le successive applicazioni concrete.
Non si tratta di recriminare ma di sapere, da una voce autorevole, come mai questo gap si sia
verificato.
Lo vedo scuotere il capo: "Che vuole, anche questo è tra i casi di una sfasatura - purtroppo
frequente in questi anni - tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo
culto, le vere esigenze pastorali del momento e le risposte concrete di certi settori clericali.
Eppure la lingua liturgica non era affatto un aspetto secondario. All'origine della frattura tra
Occidente latino e Oriente greco c'è anche una questione di incomprensione linguistica. È
probabile che la scomparsa della lingua liturgica comune possa rafforzare le spinte centrifughe
tra le varie aree cattoliche". Aggiunge però subito: "Per spiegare il rapido e quasi totale
abbandono dell'antica lingua liturgica comune bisogna in verità anche rifarsi a un mutamento
culturale dell'istruzione pubblica in Occidente. Come professore, ancora all'inizio degli anni
Sessanta potevo permettermi di leggere un testo latino a giovani provenienti dalle scuole
secondarie tedesche. Oggi questo non è più possibile".
"Pluralismo, ma per tutti"
A proposito di latino: nei giorni del nostro colloquio non era ancora conosciuta la decisione del
Papa che (con lettera in data 3 ottobre 1984, a firma del Pro-Prefetto della Congregazione per il
culto divino) concedeva il discusso " indulto " a quei preti che volessero celebrare la messa
usando il messale romano, in latino appunto, del 1962. e, cioè, la possibilità di un ritorno
(seppure ben delimitato) alla liturgia pre-conciliare; purché, si dice nella lettera, "consti con
chiarezza, anche pubblicamente, che questi sacerdoti e i rispettivi fedeli in nessun modo
condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza dottrinale del
Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970"; e purché la celebrazione secondo il
vecchio rito "avvenga nelle chiese e negli oratori indicati dal vescovo, non però nelle chiese
parrocchiali, a meno che l'ordinario del luogo lo abbia concesso, in casi straordinari". Malgrado
questi limiti e le severe avvertenze ("in nessun modo la concessione dell'indulto dovrà essere
usata in modo da recare pregiudizio all'osservanza fedele della riforma liturgica"), la decisione
del Papa ha suscitato polemiche.
La perplessità è stata anche nostra, ma dobbiamo riferire quanto il card. Ratzinger ci aveva detto
a Bressanone: pur senza parlarci della misura - che era evidentemente già stata decisa e della
quale di certo era al corrente - ci aveva accennato a una possibilità del genere. Questo " indulto
per lui, non sarebbe stato da vedere in una linea di " restaurazione " ma, al contrario, nel clima di
quel " legittimo pluralismo" sul quale il Vaticano II e i suoi esegeti hanno tanto insistito.
Infatti, precisando di parlare " a titolo personale ", il cardinale ci aveva detto: "Prima di Trento,
la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a
tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo
quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della
diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la
pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica,
cioè a un certo pluralismo liturgico. Purché, naturalmente, venisse riconfermato il carattere
ordinario dei riti riformati e venisse indicato chiaramente l'ambito e il modo di qualche caso
straordinario di concessione della liturgia preconciliare". Più che un auspicio il suo, visto che
poco più di un mese dopo doveva realizzarsi.
Lui stesso, del resto, nel suo Das Fest des Glaubens aveva ricordato che "anche in campo
liturgico, dire cattolicità non significa dire uniformità", denunciando che, "invece, il pluralismo
postconciliare si è dimostrato stranamente uniformante, quasi coercitivo, non consentendo più
livelli diversi di espressione di fede pur all'interno dello stesso quadro rituale".
Uno spazio per il Sacro
Per tornare al discorso generale: che rimprovera il Prefetto a certa liturgia d'oggi? (o, forse, non
proprio di oggi visto che, come osserva, "sembra stiano attenuandosi certi abusi degli anni
postconciliari: mi pare che ci sia in giro una nuova presa di coscienza, che alcuni stiano
accorgendosi di avere corso troppo e troppo in fretta". "Ma - aggiunge - questo nuovo equilibrio
è per ora di élite, riguarda alcune cerchie di specialisti mentre l'ondata messa in moto proprio da
costoro arriva adesso alla base. Così, può succedere che qualche prete, qualche laico si
entusiasmino in ritardo e giudichino d'avanguardia ciò che gli esperti sostenevano ieri, mentre
oggi questi specialisti si attestano su posizioni diverse, magari più tradizionali").
Comunque sia, ciò che per Ratzinger va ritrovato in pieno è "il carattere predeterminato, non
arbitrario, " imperturbabile -, " impassibile " del culto liturgico". "Ci sono stati anni - ricorda - in
cui i fedeli, preparandosi ad assistere a un rito, alla messa stessa, si chiedevano in che modo, in
quel giorno, si sarebbe scatenata la " creatività " del celebrante...". Il che, ricorda, contrastava
oltretutto con il monito insolitamente severo, solenne del Concilio: "Che nessun altro,
assolutamente (al di fuori della Santa Sede e della gerarchia episcopale, n.d.r.); che nessuno,
anche se sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia
liturgica" (Sacrosanctum Concilium n. 22).
Aggiunge: "La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori
di talento. La liturgia non vive di sorprese " simpatiche ", di trovate " accattivanti ", ma di
ripetizioni solenni. Non deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti
hanno pensato e detto che la liturgia debba essere "fatta" da tutta la comunità, per essere davvero
sua. È una visione che ha condotto a misurarne il " successo " in termini di efficacia spettacolare,
di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da
ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo
proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può
conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non
ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi".
Continua: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità:
anche per questo deve essere " predeterminata ", " imperturbabile ", perché attraverso il rito si
manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata " la vecchia
rigidità rubricistica ", accusata di togliere " creatività ", ha coinvolto anche la liturgia nel vortice
del " fai-da-te ", banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre misura".
C'è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare l'attenzione: "Il Concilio
ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia
assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva".
Mi sembra ottima cosa, dico.
"Certo - conferma -. è un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha
subìto una restrizione fatale. Sorse cioè l'impressione che si avesse una " partecipazione attiva "
solo dove ci fosse un'attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture,
stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il
silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l'ascolto
interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti".
Suoni e arte per l'Eterno
E qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica tradizionale dell'Occidente
cattolico alla quale il Vaticano Il non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a
incrementare "con la massima diligenza" questo che chiama "il tesoro della Chiesa"; e, dunque,
dell'umanità intera. Invece?
"Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo " accessibile a pochi ",
l'hanno accantonato in nome della " comprensibilità per tutti e in ogni momento " della liturgia
postconciliare. Dunque, non più " musica sacra " - relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle
cattedrali - ma solo " musica d'uso", canzonette, facili melodie, cose correnti".
Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare l'allontanamento teorico e pratico dal
Concilio "secondo il quale, oltretutto, la musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice
abbellimento accessorio". E, secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come "l'abbandono della
bellezza" si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di "sconfitta pastorale".
Dice: "è divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si
scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all'utile. L'esperienza ha mostrato come il ripiegamento
sull'unica categoria del "comprensibile a tutti" non ha reso le liturgie davvero più comprensibili,
più aperte, ma solo più povere. Liturgia " semplice " non significa misera o a buon mercato: c'è
la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale,
storica". "Anche qui continua - si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della"
partecipazione attiva ": ma questa " partecipazione " non può forse significare anche il percepire
con lo spirito, con i sensi? Non c'è proprio nulla di " attivo " nell'ascoltare, nell'intuire, nel
commuoversi? Non c'è qui un rimpicciolire l'uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio
quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è
soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non
significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla " musica d'uso ":
significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né
dalle necessità pastorali".
Questo discorso sulla musica sacra - intesa anche come simbolo di presenza della bellezza "
gratuita " nella Chiesa - sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine
vibranti: "Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica " corrente " cade nell'inetto e diviene
essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche " città della gloria ", luogo dove sono
raccolte e portate all'orecchio di Dio le voci più profonde dell'umanità. La Chiesa non può
appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il
Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano".
Anche qui, però, come già per il latino, mi parla di una "mutazione culturale", anzi, quasi di una
"mutazione antropologica" soprattutto nei giovani, "il cui senso acustico è stato corrotto,
degenerato, a partire dagli anni Sessanta, dalla musica rock e da altri prodotti simili". Tanto che
(accenna qui anche a sue esperienze pastorali, in Germania) sarebbe oggi "difficile far ascoltare
o, peggio, far cantare a molti giovani anche gli antichi corali della tradizione tedesca".
Il riconoscimento delle difficoltà obiettive non gli impedisce una appassionata difesa non solo
della musica, ma dell'arte cristiana in generale e della sua funzione di rivelatrice della verità:
"L'unica, vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha
espresso e l'arte che è germinata nel suo grembo. Il Signore è reso credibile dalla magnificenza
della santità e da quella dell'arte esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute
scappatoie che l'apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano
le vicende umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a convertire, dunque a umanizzare
il mondo, come può rinunciare nella sua liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile
all'amore e insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non devono accontentarsi
facilmente, devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare del bello - dunque del vero -
senza il quale il mondo diventa il primo girone dell'inferno".
Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare che gli confessava
senza problemi di sentirsi un "barbaro". Commenta: "Un teologo che non ami l'arte, la poesia, la
musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non è secondaria, si
riflette necessariamente anche nella sua teologia".
Solennità, non trionfalismo
Ancora in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità di certe accuse di "
trionfalismo -, nel nome delle quali si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dell'antica
solennità liturgica: "Non è affatto trionfalismo la solennità del culto con cui la Chiesa esprime la
bellezza di Dio, la gioia della fede, la vittoria della verità e della luce sull'errore e sulle tenebre.
La ricchezza liturgica non è ricchezza di una qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche
dei poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto. Tutta la storia della pietà
popolare mostra che anche i più miseri sono sempre stati disposti istintivamente e
spontaneamente a privarsi persino del necessario pur di rendere onore con la bellezza, senza
alcuna tirchieria, al loro Signore e Dio".
Si rifà, come esempio, a ciò che ha appreso in uno degli ultimi suoi viaggi in Nord America: "Le
autorità della Chiesa anglicana di New York avevano deciso di sospendere i lavori della nuova
cattedrale. La giudicavano troppo fastosa, quasi un insulto al popolo, tra il quale avevano deciso
di distribuire la somma già stanziata. Ebbene, sono stati i poveri stessi a rifiutare quel denaro e a
imporre la ripresa dei lavori, non capendo questa strana idea di misurare il culto a Dio, di
rinunciare alla solennità e alla bellezza quando si è al suo cospetto".
Sotto l'accusa del cardinale sarebbero dunque certi intellettuali cristiani, certo loro schematismo
aristocratico, elitario, staccato da ciò che il "popolo di Dio" davvero crede e desidera: "Per un
certo modernismo neo-clericale il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai " tabù
sacrali ". Ma questo, semmai, è il problema loro, di clericali in crisi. Il dramma dei nostri
contemporanei è, al contrario, il vivere in un mondo sempre più di una profanità senza speranza.
L'esigenza vera oggi diffusa non è quella di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un
nuovo incontro con il Sacro, attraverso un culto che faccia riconoscere la presenza dell'Eterno".
Ma è sotto accusa per lui, anche quello che definisce "l'archeologismo romantico di certi
professori di liturgia, Secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio 1 Magno sarebbe da
eliminare come un'incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico
non hanno posto la domanda: "Come deve essere oggi?", ma l'altra: "Come era allora?". Si
dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere pietrificata in ciò che si faceva
nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la
Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con
attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre
migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non
serve, così come non serve la pura modernizzazione".
Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può essere ridotta al solo aspetto "
comunitario ": deve continuare ad esserci un posto anche per la devozione privata, seppure
ordinata al "pregare insieme", cioè alla liturgia.
Eucaristia: nel cuore della fede
Aggiunge poi: "La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l'unico
aspetto del "banchetto fraterno". Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per
commemorare l'ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il
sacrificio comune
della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione
sacramentale del sacrificio di Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli
uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l'eucaristia non è
priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi
drammaticamente urgenti come l'ammissione al sacramento dei divorziati risposati possono
perdere molto del loro peso opprimente".
Vorrei capire meglio, dico.
"Se l'eucaristia - spiega - è vissuta solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso
dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione
completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed efficacia in
sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente,
nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri".
All'eucaristia e al problema del suo "ministro" (che può essere solo chi sia stato ordinato in quel
"sacerdozio ministeriale o gerarchico" il quale, riconferma il Concilio, "differisce essenzialmente
e non solo di grado" dal "sacerdozio comune dei fedeli", Lumen Gentium, n. 10) il card.
Ratzinger ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione per la
fede. Nel "tentativo di staccare l'eucaristia dal legame necessario con il sacerdozio gerarchico",
vede un altro aspetto di certa " banalizzazione " del mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell'adorazione davanti al tabernacolo: "Si è
dimenticato - dice - che l'adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una
devozione "individualistica" ma della prosecuzione o della preparazione, del momento
comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera,
quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus
Domini. Anche su questa gli " archeologi " della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella
processione non c'era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al
sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare
alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato".
"Non c'è solo la messa"
Aggiunge: "L'eucaristia è il nucleo centrale della nostra vita cultuale, ma perché possa esserne il
centro abbisogna di un insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli effetti della
riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale solo sulla messa finisce per svalutarla,
perché è come situata nel vuoto, non preparata e non seguita com'è da altri atti liturgici.
L'eucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad essi rinvia. Ma l'eucaristia presuppone anche la
preghiera in famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica".
A cosa pensa in particolare?
"Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della cristianità, che portano sempre e di nuovo
nella grande corrente eucaristica: la Via Crucis e il Rosario. Dipende anche dal fatto che
abbiamo disimparato queste preghiere se noi oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle
lusinghe di pratiche religiose asiatiche". Infatti, osserva, "se recitato come tradizione vuole, il
Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità che ci rende docili e sereni e che dà un nome
alla pace: Gesù, il frutto benedetto di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo
cuore la Parola vivente e poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria è dunque
l'ideale dell'autentica vita liturgica. È la Madre della Chiesa anche perché ci addita il compito e la
meta più alta del nostro culto: la gloria di Dio, da cui viene la salvezza degli uomini".

* * *

 CAPITOLO DECIMO
SU ALCUNE "COSE ULTIME"

Il Diavolo e la sua coda
Tra le molte cose dettemi dal card. Ratzinger e anticipate nel servizio giornalistico che ha
preceduto questo libro, è un aspetto non centrale che sembra avere monopolizzato l'attenzione di
tanti commentatori. Molti articoli (con relativi titoli) sono stati dedicati non tanto alle severe
analisi teologiche, esegetiche, ecclesiologiche del Prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede, quanto, piuttosto, agli accenni (pochi capoversi su decine di cartelle) a quella realtà
che la tradizione cristiana indica con il nome di "Diavolo Demonio Satana".
Perché questo accentrarsi dell'attenzione dei commentatori su un tema che pure, ripetiamo, non
era affatto centrale nel discorso del Prefetto?
Gusto del pittoresco, curiosità divertita per quello che molti (magari anche tra i cristiani)
considerano come una sopravvivenza folkloristica, come un aspetto comunque "inaccettabile per
una fede divenuta adulta"? O qualcosa di più, di più profondo, un'inquietudine mascherata dal
riso? Serena tranquillità o esorcismo che prende la forma dell'ironia?
Non tocca a noi rispondere. A noi tocca semmai registrare il fatto oggettivo: non c'è argomento
come quello del "Diavolo" che risvegli subito il rimescolio frenetico dei mass media della società
secolarizzata.
È difficile dimenticare l'eco - immensa e non soltanto ironica, anzi talvolta rabbiosa - suscitata da
un papa, Paolo VI, il quale, nell'allocuzione durante l'udienza generale del 15 novembre 1972
ritornò su quanto aveva detto il 29 giugno precedente nella basilica di san Pietro dove,
rifacendosi alle condizioni della Chiesa, confidava: "Ho la sensazione che da qualche fessura sia
entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio". Aveva poi aggiunto che "se tante volte nel vangelo,
sulle labbra di Cristo, ritorna la menzione di questo nemico degli uomini", anche per il nostro
tempo egli, Paolo VI, credeva "in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per
turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire alla Chiesa di prorompere
nell'inno della gioia, seminando il dubbio, l'incertezza, la problematica, l'inquietudine,
l'insoddisfazione".
Già a quei primi cenni si levarono nel mondo brontolii di protesta.
La quale esplose senza freni - durando mesi, nei media del mondo intero - in quel 15 novembre
1972 divenuto famoso: "Il male che è nel mondo è occasione e effetto d'un intervento in noi e
nella nostra società d'un agente oscuro e nemico, il Demonio. Il male non è soltanto una
deficienza, ma un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e
paurosa. Esce dal quadro biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero
chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio;
oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale fantastica delle cause
ignote dei nostri malanni".
Dopo una serie di citazioni bibliche ad appoggio del suo discorso, Paolo VI aveva proseguito: "Il
Demonio è il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo essere
oscuro e conturbante esiste davvero e agisce ancora, è l'insidiatore sofistico dell'equilibrio morale
dell'uomo, il perfido incantatore che in noi sa insinuarsi (per la via dei sensi, della fantasia, della
concupiscenza, della logica utopistica o dei disordinati contatti sociali) per introdurvi
deviazioni...".
Il Papa aveva poi lamentato l'insufficiente attenzione al problema da parte della teologia
contemporanea: "Sarebbe, questo sul Demonio e sull'influsso che egli può esercitare, un capitolo
molto importante da ristudiare della dottrina cattolica, mentre oggi poco lo è".
Sull'argomento, a difesa ovviamente della dottrina ribadita dal papa, intervenne poi la
Congregazione per la dottrina della fede con il documento del giugno 1975: "Gli enunciati sul
Diavolo sono un'affermazione indiscussa della coscienza cristiana"; se "l'esistenza di Satana e dei
demoni non è mai stata fatta oggetto di una dichiarazione dogmatica", è proprio perché sembrava
superflua, essendo quella credenza ovvia "per la fede costante e universale della Chiesa basata
sulla sua fonte maggiore: l'insegnamento del Cristo, oltre che su quell'espressione concreta della
fede vissuta che è la liturgia, che sempre ha insistito sulla esistenza dei demoni e sulla minaccia
che essi costituiscono".
A un anno dalla morte, Paolo VI volle ritornare ancora sull'argomento, in un'altra udienza
generale: "Non è meraviglia se la nostra società degrada e se la Scrittura acerbamente ci
ammonisce che " tutto il mondo (nel senso deteriore del termine) giace sotto il potere del
"Maligno", quello che la stessa Scrittura chiama " il Principe di questo mondo "".
Ogni volta, dopo le parole del Papa, furono grida, proteste: e curiosamente, soprattutto in quei
giornali e da parte di quei commentatori ai quali nulla dovrebbe importare della riaffermazione di
un aspetto di una fede che dicono di rifiutare nella sua totalità. In questa loro prospettiva, l'ironia
è giustificata. Ma l'ira, perché?
Un discorso sempre attuale
E stato così puntualmente, anche questa volta, dopo il nostro anticipo delle affermazioni su
questo argomento del card. Ratzinger. Diceva quel sommario delle sue parole, inserite nel
discorso su certa caduta della tensione missionaria, conseguente al fatto che alcuni autori portano
oggi quella che egli chiama "un'enfasi eccessiva sui valori delle religioni non cristiane" (il
riferimento del Prefetto era rivolto in quel momento in modo speciale all'Africa):
"Non sembra il caso di esaltare la condizione precristiana, quel tempo degli idoli che era anche il
tempo della paura, in un mondo dove Dio è lontano e la terra è abbandonata ai demoni. Come già
avvenne nel bacino del Mediterraneo al tempo degli apostoli, così in Africa l'annuncio del Cristo
che può vincere le forze del male è stato un'esperienza di liberazione dal terrore. Il paganesimo
innocente, sereno, è uno dei tanti miti dell'età contemporanea".
Ratzinger aveva poi continuato: "Checché ne dicano certi teologi superficiali, il Diavolo è, per la
fede cristiana, una presenza misteriosa ma reale, personale, non simbolica. Ed è una realtà
potente ("il Principe di questo mondo", come lo chiama il Nuovo Testamento, che più e più volte
ne ricorda l'esistenza), una malefica libertà sovrumana opposta a quella di Dio: come mostra una
lettura realistica della storia, con il suo abisso di atrocità sempre rinnovate e non spiegabili
soltanto con l'uomo. Il quale da solo non ha la forza di opporsi a Satana; ma questo non è un altro
dio, uniti a Gesù abbiamo la certezza di vincerlo. E Cristo il "Dio vicino" che ha forza e volontà
di liberarci: per questo il Vangelo è davvero "buona notizia". E per questo dobbiamo continuare
ad annunciarlo a quei regimi di terrore che sono spesso le religioni non cristiane. Dirò di più: la
cultura atea dell'Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demoni portata
dal cristianesimo. Ma se questa luce redentrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua
sapienza e con tutta la sua tecnologia il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione. Ci
sono già segni di questo ritorno di forze oscure, mentre crescono nel mondo secolarizzato i culti
satanici".
È nostro dovere di informatori segnalare che simili dichiarazioni sono (com'è ovvio) del tutto nel
quadro della dottrina tradizionale della Chiesa, quella stessa ribadita dal Vaticano II che di
"Satana", "Demonio", "Maligno", " antico Serpente ", " Potere delle tenebre ", " Principe di
questo mondo " parla in 17 passi e per ben cinque volte lo fa nella Gaudium et spes, il testo più "
ottimista " dell'intero Concilio. Eppure, in quel documento i Padri non esitano a scrivere, tra
l'altro: "Tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le Potenze delle
tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo e che durerà, come dice il Signore, fino
all'ultimo giorno" (G.S., n. 37).
Quanto alle religioni non cristiane, e al Cristo liberatore anche dalla paura, è ben vero che il
Vaticano II apre fortunatamente una nuova fase, di dialogo autentico, con le religioni non
cristiane ("La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa
considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che,
quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non
raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini", Nostra Aetate, n. 2).
Ma lo stesso Concilio, nel Decreto sull'attività missionaria, per tre volte nel testo e una volta in
una nota, ribadisce la dottrina tradizionale, che è direttamente biblica, come il Concilio stesso
ricorda con abbondanza di citazioni scritturali: "Dio ( ... ) inviò suo Figlio a noi con un corpo
simile al nostro, per sottrarre a suo mezzo gli uomini dal potere delle tenebre e di Satana (Col
1,13; Atti 10,38)" (Ad gentes, n. 3). "Cristo rovescia il regno del Demonio e allontana la
multiforme malizia del peccato" (Ad gentes, n. 9). "Siamo liberati grazie ai sacramenti
dell'iniziazione cristiana dal Potere delle tenebre"; e qui, "intorno a questa liberazione dalla
schiavitù del demonio e delle tenebre" come dice il testo, una nota ufficiale rinvia a cinque passi
del Nuovo Testamento e alla liturgia del Battesimo Romano (n. 14).
Questo constatiamo per dovere di informazione oggettiva, ben consapevoli tuttavia del fatto che
è sempre rischioso (e talvolta fuorviante) andare raccogliendo citazioni isolate dal contesto.
Per quanto riguarda infine il riferimento di Ratzinger all'attualità ("crescono nel mondo
secolarizzato i culti satanici"), chi è informato sa bene che ciò che emerge nell'attualità ed appare
sui giornali è già inquietante, ma non è che la punta di un iceberg che ha le sue basi proprio nelle
zone del mondo più avanzate tecnologicamente, a cominciare dalla California e dal Nord Europa.
Tutte le precisazioni e le constatazioni che abbiamo fatto sono necessarie ma al contempo inutili,
ignorate come sono a priori da commentatori per i quali ogni accenno a queste realtà inquietanti
è "medievale". Dove Medio Evo, naturalmente, è inteso nell'accezione dell'uomo della strada,
che di quella "età di mezzo" ha ancora la visione imposta dai libellisti anticristiani e dai
romanzieri popolari del Settecento e dell'Ottocento europei.
" Un addio" sospetto
Joseph Ratzinger, forte anche dei suoi vastissimi studi teologici, non è uomo che si lasci
impressionare dalle reazioni né di giornalisti né di certuni "specialisti". Si legge in un documento
a sua firma questa esortazione tratta dalla Scrittura: "E necessario resistere, forti nella fede,
all'errore, anche quando si manifesta sotto l'apparenza di pietà, per potere abbracciare gli erranti
nella carità del Signore, professando la verità nella carità".
Non mette di certo al centro della sua riflessione il discorso sul Diavolo (ben consapevole che ciò
che è decisivo è semmai la vittoria che su di esso ha riportato il Cristo), ma un simile discorso gli
sembra esemplare perché gli permette di denunciare metodi di lavoro teologico che giudica
inaccettabili. Anche per questo carattere di "esemplarità" non sembri eccessivo lo spazio dato
all'argomento. Qui, del resto (lo vedremo) è in gioco anche l'escatologia, dunque la
fondamentale, irrinunciabile fede cristiana nell'esistenza di un'aldilà.
È certo per questo che uno dei suoi libri più noti - Dogma e predicazione - inserisce la trattazione
della dottrina tradizionale sul Demonio nei "temi basilari della predicazione". Ed è ancora per
questo, crediamo, che - già Prefetto della Congregazione per la fede - ha steso la prefazione al
libro di un suo collega nel cardinalato, Léon Joseph Suenens, intenzionato a ribadire la visione
cattolica di Satana come "realtà non simbolica, ma personale".
Mi ha parlato del celebre libretto con il quale un suo collega, docente di esegesi all'università di
Túbingen, ha voluto, sin dal titolo, dire "addio al Diavolo". (Tra l'altro - è un piccolo aneddoto
raccontandomi il quale ha riso di gusto - quel volume gli fu donato dall'autore in occasione della
festicciola tra professori per salutarlo dopo che il Papa lo aveva designato arcivescovo di
Monaco. Diceva la dedica sul libro: "Al caro collega professor Joseph Ratzinger, dire addio al
quale mi costa assai di più che dire addio al diavolo...").
L'amicizia personale con il collega non gli ha impedito allora né gli impedisce adesso di seguire
la sua linea di azione: "Noi dobbiamo rispettare le esperienze, le sofferenze, le scelte umane,
anche le esigenze concrete che si trovano dietro certe teologie. Ma dobbiamo però contestare con
estrema risolutezza che si tratti ancora di teologie cattoliche".
Per lui, quel libro scritto per congedarsi dal Diavolo (e che prende ad esempio di una serie intera
che da qualche anno giunge in libreria) non è "cattolico" perché "è superficiale l'affermazione
nella quale culmina tutta l'argomentazione: " Nel Nuovo Testamento il concetto di diavolo sta
semplicemente al posto del concetto di peccato, di cui il diavolo non è che un'immagine, un
simbolo"". Ricorda, Ratzinger, che "quando Paolo VI sottolineò la reale esistenza di Satana e
condannò i tentativi di dissolverlo in un concetto astratto, fu quello stesso teologo che - dando
voce all'opinione di tanti suoi colleghi rimproverò al Papa di ricadere in una visione arcaica del
mondo, di fare confusione tra ciò che nella Scrittura è struttura di fede (il peccato) e ciò che non
è che espressione storica, transitoria (Satana)".
Osserva invece il Prefetto (rifacendosi del resto a ciò che già aveva scritto da teologo) che "se si
leggono con attenzione questi libri che vorrebbero sbarazzarsi dell'ingombrante presenza
diabolica, alla fine se ne esce convinti del contrario: gli evangelisti ne parlano molto e non
intendono affatto parlarne in senso simbolico. Come Gesù stesso' erano convinti - e così
volevano insegnare - che si tratta di una potenza concreta, non certo di un'astrazione. L'uomo è
minacciato da essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché Egli solo, nella sua qualità di "
più forte ", può legare l'uomo "forte" per usare le stesse parole evangeliche".
"Biblisti o sociologi?"
Ma allora, se l'insegnamento della Scrittura sembra così chiaro, come giustificare la sostituzione
(oggi così diffusa tra gli specialisti) con l'astratto "peccato " del concreto "Satana"?
È proprio qui che individua un metodo utilizzato da molta esegesi e da molta teologia
contemporanee e che vuole respingere: "In questo caso specifico, si ammette - non può farsi
diversamente - che Gesù, gli apostoli, gli evangelisti erano convinti dell'esistenza delle forze
demoniache. Ma, nello stesso tempo, si dà per scontato che in questa loro credenza erano "
vittime delle forme di pensiero giudaiche di allora ". Ma, siccome si dà anche per scontato che
"quelle forme di pensiero non sono più conciliabili con la nostra immagine del mondo ", ecco
che per una sorta di gioco di prestigio ciò che si considera incomprensibile all'uomo medio di
oggi viene cancellato".
Dunque, continua, "ciò significa che per dire "addio al Diavolo" non ci si appoggia sulla
Scrittura (la quale, anzi, afferma proprio il contrario) ma si fa riferimento a noi, alla nostra
visione del mondo. Per congedarsi da questo e da ogni altro aspetto della fede scomodo al
conformismo contemporaneo non ci si comporta pertanto come esegeti, come interpreti della
Scrittura, ma come uomini del nostro tempo".
Da questi metodi discende per lui una conseguenza grave: "Alla fine, l'autorità sulla quale simili
specialisti della Bibbia basano il loro giudizio non è la Bibbia stessa, ma la visione del mondo
contemporanea al biblista. Il quale parla dunque come filosofo o come sociologo e la sua
filosofia non consiste che in una banale, acritica adesione alle sempre provvisorie persuasioni
dell'epoca".
Dunque, se ho ben capito, sarebbe il rovesciamento del tradizionale metodo di lavoro teologico:
non più la Scrittura che giudica il "mondo", ma il "mondo" che giudica la Scrittura.
"In effetti - dice -. È la ricerca continua di un annuncio che presenti ciò che già sappiamo o che
comunque sia gradito a chi ascolta. Comunque, per quanto è del Diavolo, la fede anche di oggi
ne confessa, come sempre ha fatto, la realtà misteriosa e insieme oggettiva, personale. Ma il
cristiano sa che chi teme Dio non deve temere niente e nessuno: il timore di Dio è fede, qualcosa
di ben diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Eppure, il timore di Dio è anche
qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore che non vuole vedere la serietà della
realtà. È proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma considerarle
con realismo".
Secondo il Cardinale, la pastorale della Chiesa deve "trovare il linguaggio adatto per un
contenuto sempre valido: la vita è una questione estremamente seria, dobbiamo stare attenti a
non rifiutare la proposta di vita eterna, di eterna amicizia col Cristo che viene fatta a ciascuno.
Non dobbiamo adagiarci nella mentalità di tanti credenti d'oggi, i quali pensano che basti
comportarsi più o meno come si comporta la maggioranza e per forza tutto andrà bene".
Continua: "La catechesi deve tornare ad essere non un'opinione accanto a un'altra ma una
certezza che attinge alla fede della Chiesa, con i suoi contenuti che sorpassano di gran lunga
l'opinione diffusa. Invece, in non poca catechesi moderna la nozione di vita eterna si trova
appena accennata, la questione della morte è solo sfiorata e, la maggior parte delle volte, lo è
solo per interrogarsi sul come ritardarne l'arrivo o per renderne meno penose le condizioni.
Sparito in tanti cristiani il senso escatologico, la morte è stata circondata dal silenzio, dalla paura
o dal tentativo di banalizzarla. Per secoli la Chiesa ci ha insegnato a pregare perché la morte non
ci sorprenda all'improvviso, dandoci tempo per prepararci; ora è proprio la morte improvvisa che
viene considerata una grazia. Ma non accettare e non rispettare la morte significa non accettare e
non rispettare neppure la vita".
Dal purgatorio al limbo
Sembra, dico, che l'escatologia cristiana (quando ancora se ne parla) sia ridotta al solo " paradiso
", anche se questo nome stesso fa problema, lo si scrive tra virgolette; non mancano neppure qui
le voci per dissolverlo in qualche mito orientale. Saremmo tutti contenti - è ben chiaro - se nel
nostro futuro non fosse possibile altro che la felicità eterna. E in effetti, chi rilegge i vangeli vi
trova innanzitutto la buona notizia per eccellenza, l'annuncio consolante dell'amore senza fine e
misura di Dio. Ma, accanto a questo, nei vangeli troviamo anche la chiara indicazione che uno
scacco è possibile, che un nostro rifiuto dell'amore non è impossibile. Proprio perché " veri ", i
vangeli non sono testi al contempo consolanti e impegnativi, proposte rivolte a uomini liberi e
quindi aperti a diversi destini? Il purgatorio, ad esempio che fine ha fatto?
Lo vedo scuotere il capo: "Il fatto è che oggi tutti ci crediamo talmente buoni da non potere
meritare altro che il paradiso! Qui c'è certamente la responsabilità di una cultura che, a forza di
attenuanti e alibi, tende a sottrarre agli uomini il senso della loro colpa, del loro peccato.
Qualcuno ha osservato che le ideologie che oggi dominano sono tutte unite da un comune dogma
fondamentale: l'ostinata negazione del peccato, cioè proprio di quella realtà che la fede lega
all'inferno, al purgatorio. Ma nel silenzio attorno al purgatorio c'è anche qualche altra
responsabilità".
Quale?
"Lo scritturismo di origine protestante che è penetrato anche nella teologia cattolica. Per cui si
afferma che non sarebbero sufficienti e sufficientemente chiari i testi della Scrittura su quello
stato che la Tradizione ha chiamato " purgatorio " (forse il termine è tardivo, ma la realtà appare
subito creduta dai cristiani). Ma questo scritturismo, ho già avuto occasione di dirlo, ha poco a
che fare con il concetto cattolico di Scrittura, che va letta nella Chiesa e con la sua fede. lo dico
che se il purgatorio non esistesse, bisognerebbe inventarlo".
E per qual motivo?
"Perché poche cose sono così spontanee, umane, universalmente diffuse - in ogni tempo, in ogni
cultura - della preghiera per i propri cari defunti".
Calvino, il riformatore di Ginevra, fece frustare una donna sorpresa a pregare sulla tomba del
figlio e dunque, secondo lui, colpevole di "superstizione".
"La Riforma in teoria non ammette purgatorio, dunque non ammette preghiera per i defunti. In
realtà, almeno i luterani tedeschi nella pratica vi sono ritornati e trovano anche delle
argomentazioni teologiche degne di attenzione per darle un fondamento. Pregare per i propri cari
è un moto troppo spontaneo per soffocarlo; è una testimonianza bellissima di solidarietà, di
amore, di aiuto che va al di là delle barriere della morte. Dal mio ricordo o dalla mia
dimenticanza dipende un poco della felicità e dell'infelicità di chi mi fu caro ed è passato ora
all'altra sponda ma non cessa di avere bisogno del mio amore".
Però, il concetto di " indulgenza -, ottenibile per se stessi in vita o per qualcuno in morte, sembra
sparito dalla pratica e forse anche dalla catechesi ufficiale.
"Non direi sparito, direi indebolito, perché non ha evidenza nel pensiero attuale. La catechesi,
però, non ha il diritto di ometterne il concetto. Non ci si dovrebbe vergognare di riconoscere che
- in certi contesti culturali - la pastorale ha difficoltà a rendere comprensibile una verità della
fede. Forse questo è il caso dell' "indulgenza". Ma i problemi di ritraduzione in linguaggio
contemporaneo non significano certo che la verità di cui si tratta non sia più tale. E ciò valga per
molti altri aspetti della fede".
Sempre a proposito di escatologia, è però sparito il "limbo", quel luogo intermedio dove
andrebbero i bambini morti senza battesimo, dunque con la sola "macchia" del peccato originale.
Non ce ne è più traccia, ad esempio, nei catechismi ufficiali dell'episcopato italiano.
"Il limbo non è mai stata verità definita di fede. Personalmente - parlando più che mai come
teologo e non come Prefetto della Congregazione lascerei cadere questa che è sempre stata
soltanto un'ipotesi teologica. Si trattava di una tesi secondaria a servizio di una verità che è
assolutamente primaria per la fede: l'importanza del battesimo. Per dirla con le parole stesse di
Gesù a Nicodemo: " In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può
entrare nel regno di Dio "
(Gv 3,5). Si lasci pure cadere il concetto di " limbo " se è necessario (del resto, gli stessi teologi
che lo sostenevano affermavano al contempo che i genitori potevano evitarlo al figlio con il
desiderio del suo battesimo e la preghiera); ma non si lasci cadere la preoccupazione che lo
sosteneva. Il battesimo non è mai stato, non è né mai sarà cosa accessoria per la fede".
Un servizio al mondo
E qui, dal battesimo risaliamo al peccato e dal peccato allo scomodo argomento da cui eravamo
partiti.
Dice, per completare il suo pensiero: "Quanto più si capisce la santità di Dio, tanto più si capisce
l'opposizione a ciò che è santo: e cioè, le ingannevoli maschere del Demonio. Esempio massimo
di questo è Gesù Cristo stesso: accanto a Lui, il Santo per eccellenza, Satana non poteva
nascondersi e la sua realtà era costretta continuamente a rivelarsi. Per questo si potrebbe forse
dire che la sparizione della consapevolezza del demoniaco segnala una caduta parallela della
santità. Il Diavolo può rifugiarsi nel suo elemento preferito, l'anonimato, quando non risplende, a
svelarlo, la luce di chi è unito a Cristo".
Temo proprio, cardinal Ratzinger, che con simili discorsi l'aggrediranno ancora e ancor più
violentemente con l'accusa di "oscurantismo".
"Non so che farci. Posso solo ricordare che un teologo così " libero da pregiudizi ", così "
moderno " come Harvey Cox scrisse - ed era ancora nella sua fase secolarizzante, demitizzante -
che " i mass media (specchio della nostra società) presentando certi modelli di comportamento,
proponendo certi ideali umani, fanno appello ai demoni non esorcizzati che stanno in noi e
attorno a noi ". Tanto che, per Cox stesso, da parte dei cristiani sarebbe "necessario tornare a
chiare parole di esorcismo"".
Dunque, azzardo, la riscoperta dell'esorcismo come una sorta di "servizio sociale"?
Dice: "Chi vede con lucidità i baratri della nostra era vi vede all'opera potenze che si adoperano
per disgregare i rapporti tra gli uomini. Il cristiano può allora scoprire che il suo compito di
esorcista deve riacquistare quell'attualità che possedette agli inizi della fede. Il termine
"esorcismo" non deve evidentemente essere inteso, qui, in senso tecnico ma indicare
l'atteggiamento complessivo della fede che " vince il mondo " e ne scaccia il suo " Principe ". Il
cristiano sa - se giunge a scorgere davvero l'abisso - che è debitore di un servizio al mondo. Non
lasciamoci contagiare da quella mentalità corrente secondo la quale " con un po' di buona volontà
possiamo risolvere tutti i problemi ". In realtà, anche se non avessimo la fede ma fossimo
davvero realisti, ci renderemmo conto che senza l'aiuto di una forza superiore - che per il
cristiano è solo il suo Signore - siamo prigionieri di una storia insanabile".
Tutto questo non rischia di essere tacciato di pessimismo "?
"No di certo - risponde -, perché se restiamo uniti a Cristo siamo certi di ottenere la vittoria. Ce
lo ripete anche Paolo: " Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi
dell'armatura di Dio per potere resistere alle insidie del Diavolo... " (Ef 6,10 s.). Se guardiamo
alla cultura laica più moderna, attenta, ci accorgiamo come l'ottimismo facile, ingenuo si stia
rovesciando nel suo contrario: il pessimismo radicale, il nichilismo disperato. Può darsi dunque
che quei cristiani accusati sino ad ora di essere " pessimisti " debbano aiutare i fratelli ad uscire
dalla disperazione, proponendo loro l'ottimismo radicale - non ingannevole, questo - il cui nome
è Gesù Cristo".
Degli angeli da non dimenticare
"Del Diavolo - ha detto qualcuno - si finisce sempre col parlare troppo o troppo poco".
Denunciato il " troppo poco " di oggi, il Cardinale ci tiene a tornare sul rischio opposto del "
troppo ": "Il mistero dell'iniquità è da inserire nella prospettiva cristiana fondamentale, quella
della Risurrezione di Gesù Cristo e della vittoria sulle Potenze del Male. In un'ottica del genere,
la libertà del cristiano e la sua tranquilla sicurezza " che scaccia il timore " (1 Gv 4,18) assumono
tutta la loro dimensione: la verità esclude il timore e, per ciò stesso, consente di riconoscere la
potenza del Maligno. Se l'ambiguità è la caratteristica del fenomeno demoniaco, l'essenza del
combattimento del cristiano contro il Demonio consiste nel vivere giorno per giorno alla
chiarezza della luce della fede".
È stato poi notato che, per non squilibrare la verità cattolica, va ricordata ai credenti l'altra faccia
della verità che la Chiesa, in accordo con la Scrittura, ha sempre professato: l'esistenza cioè degli
angeli buoni di Dio, quegli spiriti che vivono in comunione con gli uomini con il compito di
aiutarli nella quotidiana lotta.
Siamo naturalmente anche qui nel regno dello "scandaloso" per una mentalità moderna che crede
di tutto sapere. Ma nella fede tout se tient, non si possono isolare o espellere mattoni del
complesso edificio: agli angeli misteriosamente " decaduti " e ai quali è stato concesso un oscuro
ruolo di tentatori, si affianca "la visione luminosa di un popolo spirituale unito agli uomini nella
carità. Un mondo che ha grande spazio nella liturgia dell'Occidente e dell'Oriente cristiani e del
quale fa parte la fiducia in quell'ulteriore prova di sollecitudine di Dio per gli uomini che è "
l'angelo custode " dato a ciascuno al quale si rivolge una delle preghiere più amate e diffuse della
cristianità. È una presenza benefica che la coscienza del popolo di Dio ha sempre colto come un
segno concreto e ulteriore della Provvidenza, dell'interesse del Padre per i suoi figli".
Ma il Cardinale sottolinea che "la Realtà opposta alle categorie del demoniaco è la Terza Persona
della Trinità, è lo Spirito Santo". Spiega: "Satana è per eccellenza il disgregatore, è il dissolutore
di ogni rapporto: quello dell'uomo con se stesso e quelli degli uomini tra loro. È dunque il
contrario esatto dello Spirito Santo, " Intermediario " assoluto che assicura il Rapporto sul quale
tutti gli altri si fondano e dal quale derivano: il Rapporto trinitario, per mezzo del quale il Padre e
il Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio nell'unità dello Spirito".
Il ritorno dello Spirito
Oggi, osservo, è in atto una riscoperta dello Spirito Santo, forse troppo dimenticato dalla teologia
occidentale. È una riscoperta non solo teorica, ma che coinvolge crescenti masse popolari nei
movimenti detti di "Rinnovamento carismatico" o "nello Spirito".
"È così - conferma -. Il periodo postconciliare è sembrato corrispondere ben poco alle speranze
di Giovanni XXIII che si riprometteva una "novella Pentecoste". Tuttavia, la sua preghiera non è
rimasta inascoltata: nel cuore di un mondo inaridito dallo scetticismo razionalistico è nata una
nuova esperienza dello Spirito Santo che ha assunto l'ampiezza di un moto di rinnovamento su
scala mondiale. Quanto il Nuovo Testamento scrive a proposito dei carismi che apparvero come
segni visibili della venuta dello Spirito, non è più soltanto storia antica, finita per sempre: questa
storia ridiventa oggi fremente di attualità".
Non è un caso - sottolinea a conferma della sua visione dello Spirito come antitesi al demoniaco
che "mentre una teologia riduzionista tratta il Demonio e il mondo degli spiriti cattivi come una
semplice etichetta, nel contesto del Rinnovamento è spuntata una nuova, concreta presa di
coscienza delle Potenze del male, beninteso accanto alla serena certezza della Potenza di Cristo
che tutte le sottomette".
Dovere istituzionale del Cardinale è però - qui come altrove - esaminare le possibili altre facce
della medaglia. Per quanto attiene al movimento carismatico, avverte: "Bisogna innanzitutto
salvaguardare l'equilibrio, guardarsi da un'enfasi esclusiva sullo Spirito che, lo ricorda Gesù
stesso, non " parla da se stesso" ma vive e opera all'interno della vita trinitaria". Una simile
enfasi, dice, "potrebbe portare ad opporre a una Chiesa organizzata sulla gerarchia (fondata a sua
volta sul Cristo) una Chiesa " carismatica ", basata soltanto sulla "libertà dello Spirito ", una
Chiesa che consideri se stessa come d'avvenimento sempre rinnovato".
"Salvaguardare l'equilibrio - continua - significa anche mantenere il giusto rapporto tra
istituzione e carisma, tra fede comune della Chiesa ed esperienza personale. Una fede dogmatica
senza esperienza personale resta vuota; una pura esperienza senza legami con la fede della
Chiesa è cieca. Alla fine, non è il " noi " del gruppo che conta, bensì il grande " noi " della
grande Chiesa universale; la quale, essa sola, può fornire il quadro adeguato per Il non spegnere
lo Spirito e tenere ciò che è buono secondo l'esortazione dell'Apostolo".
Inoltre, per esaurire il panorama dei "rischi" "occorre guardarsi da un ecumenismo troppo facile
per cui gruppi carismatici cattolici possono perdere di vista la loro identità e unirsi in modo
acritico a forme di pentecostalismo di origine non cattolica, in nome appunto dello " Spirito "
visto come opposto all'istituzione". I gruppi cattolici di Rinnovamento nello Spirito devono
dunque "più che mai sentire cum Ecclesia, agire in ogni caso in comunione con il vescovo, anche
per evitare i guasti che si presentano ogni volta che la Scrittura è sradicata dal suo contesto
comunitario: il fondamentalismo, l'esoterismo, il settarismo".
Dopo avere messo in guardia dai rischi, il Prefetto vede comunque favorevolmente l'irrompere
alla ribalta della Chiesa del movimento di Rinnovamento nello Spirito? "Certamente - conferma -
si tratta di una speranza, di un positivo segno dei tempi, di un dono di Dio alla nostra epoca. È la
riscoperta della gioia e della ricchezza del pregare contro teorie e prassi sempre più irrigidite e
rinsecchite nel razionalismo secolarizzato. lo stesso ne ho constatato di persona l'efficacia: a
Monaco, dal movimento mi sono giunte alcune buone vocazioni al sacerdozio. Come dicevo, alla
pari di ogni realtà affidata all'uomo, anche questa è esposta a equivoci, a fraintendimenti, a
esagerazioni. Il pericolo però sarebbe vedere solo i pericoli e non il dono offertoci dello Spirito.
La necessaria cautela non cambia dunque il giudizio positivo di fondo".