giovedì 6 settembre 2012

Joseph Ratzinger - Rapporto sulla Fede (Parte quarta)



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Questo libro, esaltato da alcuni – ed esecrato da altri – come il «manifesto» che chiudeva la fase tellurica del post-Concilio, è ormai entrato fra i testi di riferimento della storia della Chiesa.
Per la prima volta nella storia, un Prefetto dell'ex-Sant'Uffizio parlava «a cuore aperto», con lucido e coraggioso realismo, affidando le sue riflessioni sulla fede oggi a un giornalista.
Seppure uscito nel 1985 (l'anno stesso in cui si apriva il Sinodo per i vent'anni dalla fine del Vaticano II), colpisce di questo libro la sua bruciante attualità, utile per comprendere presente e futuro della cristianità ora affidata alle cure del nuovo pontefice Benedetto XVI. Lo propongo ai lettori di questo blog ad un mese dall'apertura dell'Anno della Fede.


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 CAPITOLO UNDICESIMO
FRATELLI MA SEPARATI

  CAPITOLO DODICESIMO
UNA CERTA "LIBERAZIONE"

CAPITOLO TREDICESIMO
PER RIANNUNCIARE IL CRISTO

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CAPITOLO UNDICESIMO
FRATELLI MA SEPARATI

Un cristianesimo più "moderno"?
Parliamo ora di ecumenismo, di rapporti tra le varie confessioni cristiane. Cittadino di un Paese
multiconfessionale come la Germania, Joseph Ratzinger ha scritto in proposito, in anni passati,
cose notevoli. Oggi, nella sua nuova posizione, il problema ecumenico non gli è di certo meno
presente.
Dice: "Lo sforzo ecumenico, in questo periodo della storia della Chiesa, è parte integrante dello
sviluppo della fede". Anche qui, però - e tanto più quanto più i temi sono importanti - c'è in lui
un bisogno di chiarezza. Osservava una volta: "Quando si è sulla via sbagliata, più si corre e più
ci si allontana dal traguardo". Per quanto è in lui, dunque, vigila, esercita la sua " funzione critica
" convinto che - come ovunque altrove - "anche in campo ecumenico equivoci, impazienze,
facilonerie allontanano la meta più che avvicinarla". È convinto che "le definizioni chiare della
propria fede servono a tutti, anche all'interlocutore". E che "il dialogo può approfondire e
purificare la fede cattolica, ma non può cambiarla nella sua vera essenza".
Comincio con una " provocazione ": "Eminenza, c'è chi dice che sia in atto un processo di
"protestantizzazione" del cattolicesimo".
La risposta, come al solito, accetta in pieno la battuta: "Dipende innanzitutto da come si definisce
il contenuto di "protestantesimo". Chi oggi parla di "protestantizzazione" della Chiesa cattolica,
intende in genere con questa espressione un mutamento nella concezione di fondo della Chiesa,
un'altra visione del rapporto fra Chiesa e vangelo. Il pericolo di una tale trasformazione sussiste
realmente; non è solo uno spauracchio agitato in qualche ambiente integrista".
Ma perché proprio il protestantesimo - la cui crisi non è certo minore di quella cattolica -
dovrebbe oggi attirare teologi e fedeli che sino al Concilio erano restati fedeli alla Chiesa di
Roma?
"Non è certamente una cosa facile da chiarire. Si impone tuttavia la seguente considerazione: il
protestantesimo è nato all'inizio dell'epoca moderna ed è pertanto molto più apparentato che non
il cattolicesimo con le idee-forza che hanno dato origine al mondo moderno. La sua attuale
configurazione l'ha trovata in gran parte proprio nell'incontro con le grandi correnti filosofiche
del XIX secolo. È la sua chance ed insieme la sua fragilità questo suo essere molto aperto al
pensiero moderno. Così può nascere l'opinione (proprio presso teologi cattolici che non sanno
più che fare della teologia tradizionale) che nel "protestantesimo " si possano trovare già
tracciate le vie giuste per l'intesa fra la fede e il mondo moderno".
Quali principi hanno qui maggiore attrattiva?
"Un ruolo di primo piano spetta ieri come oggi al principio della Sola Scriptura. Il cristiano
medio di oggi deriva da questo principio che la fede nasce dall'opinione individuale, dal lavoro
intellettuale e dall'intervento dello specialista; ed una simile visione gli sembra più "moderna" ed
"evidente" che non le posizioni cattoliche. Da una simile concezione deriva logicamente che il
concetto cattolico di Chiesa non è più realizzabile e che si deve cercare un nuovo modello da
qualche parte, nel vasto ambito del fenomeno "protestantesimo"".
Dunque ritorna in ballo, come di consueto, l'ecclesiologia.
"Sì. Perché per il moderno uomo della strada è assai più comprensibile un concetto di chiesa che
in linguaggio tecnico si direbbe "congregazionalista" o di "chiesa libera" (Freechurch). Ne
consegue che la chiesa è una forma che può variare, a seconda di come gli uomini organizzano le
realtà della fede, così che corrisponda il più possibile a ciò che la situazione del momento sembra
esigere. Ne abbiamo già parlato, ma vale la pena di ritornarci: è quasi impossibile per la
coscienza di molti, oggi, capire che dietro una realtà umana sta la misteriosa realtà divina. Che è
il concetto cattolico di Chiesa, come sappiamo; e che è assai più arduo da accettare di quello ora
delineato; il quale del resto non è neppure semplicemente quello "protestante", ma si è venuto
formando nel quadro del fenomeno "protestantesimo"".
Alla fine del 1983 - anno in cui ricorreva il quinto centenario della nascita di Martin Lutero -,
visto l'entusiasmo di qualche celebratore cattolico, le male lingue hanno insinuato che oggi il
Riformatore potrebbe insegnare le stesse cose di allora, ma occupando indisturbato una cattedra
di un'università o di un seminario cattolico. Che ne dice il Prefetto? Crede che la Congregazione
da lui diretta inviterebbe ancora il frate agostiniano per qualche "colloquio informativo"?
Sorride: "Sì, credo proprio che si dovrebbe parlare con lui molto seriamente e che ciò che egli ha
detto allora anche oggi non potrebbe essere considerato come "teologia cattolica". Se fosse
diversamente, non ci sarebbe bisogno del dialogo ecumenico, che cerca appunto un dialogo
critico con Lutero e si studia di vedere come si possa salvare ciò che vi è di grande nella sua
teologia e di superare in essa ciò che non è cattolico".
Sarebbe interessante sapere su quali argomenti farebbe leva contro Lutero la Congregazione per
la Dottrina della fede per intervenire anche oggi.
La risposta non esita: "A costo di essere noioso, penso che ci appoggeremmo ancora una volta al
problema ecclesiologico. Alla disputa di Lipsia, il contraddittore cattolico di Martin Lutero gli
dimostrò in modo irrefutabile che la sua " nuova dottrina " non si opponeva soltanto ai papi ma
anche alla Tradizione così come chiaramente espressa dai Padri e dai Concili. Lutero fu costretto
ad ammetterlo e dichiarò allora che anche dei Concili ecumenici avrebbero sbagliato. In questo
modo, l'autorità degli esegeti fu collocata al di sopra dell'autorità della Chiesa e della sua
Tradizione".
Dunque, in quel momento si realizzò lo " strappo " decisivo?
"In effetti credo che quello fu il momento decisivo, perché in questo modo si abbandonava l'idea
cattolica di una Chiesa interprete autentica del vero senso della Rivelazione. Lutero non poteva
più condividere quella certezza che nella Chiesa riconosce una coscienza comune superiore
all'intelligenza e alle interpretazioni private. Così la relazione fra la Chiesa ed il singolo, fra la
Chiesa e la Bibbia era radicalmente mutata. Su questo punto quindi la Congregazione dovrebbe
parlare con Lutero, se egli vivesse ancora; o detto meglio: su questo punto noi parliamo con lui
nei dialoghi ecumenici. Del resto questo problema sta in modo considerevole al fondo anche dei
nostri colloqui con teologi cattolici: la teologia cattolica deve interpretare la fede della Chiesa;
ma là dove essa passa direttamente dall'esegesi biblica ad una ricostruzione autonoma del
teologo, si fa qualcosa di diverso".
Qualcuno ci ripensa
Cardinal Ratzinger: continuiamo nella "provocazione", continuiamo dunque ad esaminare le
insinuazioni delle male lingue.... Per esempio: c'è chi dice che, in questi anni, l'ecumenismo è
stato spesso a senso unico. Scuse e richieste di perdono spesso, intendiamoci, giustificatissime -
da parte cattolica; ma, da parte protestante, riaffermazione delle proprie ragioni e scarsa
propensione (almeno in apparenza) a riesaminare criticamente origini e vicende della Riforma.
"Può essere in parte vero - risponde -. L'atteggiamento di certo ecumenismo cattolico
postconciliare è stato segnato da un certo masochismo, come da un bisogno un po' perverso di
riconoscersi colpevoli di tutti i disastri della storia. Parlando tuttavia della situazione tedesca, che
conosco dall'interno, devo dire di essere amico di protestanti davvero spirituali. Avendo una vita
cristiana veramente profonda, queste persone hanno anche la profonda consapevolezza della
colpa di tutti i cristiani nelle divisioni che li lacerano. C'è davvero, anche da parte protestante, un
nuovo interesse nei riguardi di elementi fondamentali della realtà cattolica". Che cosa,
soprattutto, è oggetto di revisione da parte riformata?
"C'è la riscoperta della necessità di una Tradizione, senza la quale la Bibbia è come sospesa in
aria, diventa un vecchio libro tra tanti altri. Questa riscoperta è favorita anche dal fatto che i
protestanti sono, assieme agli ortodossi, nel Consiglio Ecumenico di Ginevra, l'organismo che
raccoglie una grande parte delle Chiese e delle Comunità cristiane. Ora: dire " ortodossia
orientale " significa dire "Tradizione"".
"Del resto - aggiunge - questo accanimento sul Sola Scriptura del protestantesimo classico non
poteva sopravvivere e oggi è più che mai messo in crisi proprio dall'esegesi "scientifica" che,
nata e sviluppatasi in ambito riformato, ha mostrato come i vangeli siano un prodotto della
Chiesa primitiva; anzi, come la Scrittura intera non sia che Tradizione. Tanto che, rovesciando il
loro motto tradizionale, alcuni studiosi luterani sembrano convergere nell'opinione delle Chiese
ortodosse d'Oriente: non, dunque, Sola Scriptura ma Sola Traditio. C'è poi anche, da parte di
alcuni teologi protestanti, la riscoperta dell'autorità, di una qualche gerarchia (cioè di un
ministero spirituale sacramentale), della realtà dei sacramenti".
Sorride, come soprappensiero: "Sino a quando queste cose le dicevano i cattolici per i protestanti
era difficile farle proprie. Dette dalle Chiese d'Oriente sono state accolte e studiate con maggior
attenzione, forse perché si diffidava meno di quei cristiani, la cui presenza al Consiglio di
Ginevra si rivela dunque provvidenziale".
Dunque, c'è un muoversi anche da parte protestante; dunque, c'è un convergere su posizioni che
potrebbero un giorno rivelarsi comuni.
Ratzinger, da buon realista, è lontano da ogni ottimismo ingenuo: "Sì, c'è un movimento, quindi
un riconoscimento di infedeltà a Cristo da parte di tutti i cristiani, non solo da parte cattolica.
Resta però come limite finora invalicabile quella diversa concezione della Chiesa. A un
riformato riuscirà sempre difficile, se non impossibile, accettare il sacerdozio come sacramento e
come condizione indispensabile per l'eucaristia. Perché, per accettare questo, bisognerebbe
accettare la struttura della Chiesa basata sulla successione apostolica. Semmai - almeno per ora -
possono arrivare a concedere che quel tipo di Chiesa è la soluzione migliore; non che è l'unica,
l'indispensabile".
È ancora per questo concetto di Chiesa più " facile ", più " ovvio ", almeno secondo la mentalità
attuale che, là dove convivono protestanti e cattolici, sarebbero questi ultimi a rischiare di più di
passare sulle posizioni dell'altro. "Il cattolicesimo autentico - dice - è un equilibrio delicato, è un
tentativo di far convivere aspetti che sembrano contrastanti e che invece assicurano la
completezza del Credo. Il cattolicesimo, poi, esige l'accettazione di una mentalità di fede spesso
in radicale contrasto con l'opinione oggi dominante".
Come esempio, mi cita il rinnovato rifiuto di Roma a concedere "l'intercomunione", cioè la
possibilità per un cattolico di partecipare all'eucaristia di una Chiesa riformata. Dice: "Molti
cattolici stessi pensano che questo rifiuto sia l'ultimo frutto di una mentalità intollerante che
dovrebbe aver fatto il suo tempo. " Non siate così severi, così anacronistici! " ci gridano in tanti.
Ma non è questione di intolleranza o di ritardo ecumenico: per il Credo cattolico, se non c'è
successione apostolica non c'è sacerdozio autentico, dunque non può esserci nessuna eucaristia
sacramentale in senso vero e proprio. Noi crediamo che così sia stato voluto dal Fondatore stesso
del cristianesimo".
Una lunga strada
Si è già accennato, in modo indiretto alle Chiese ortodosse dell'Oriente europeo. Come
procedono i rapporti con loro?
"I contatti sono apparentemente più facili, ma in realtà presentano gravi difficoltà. Quelle Chiese
hanno un insegnamento autentico ma statico, come bloccato: restano fedeli alla Tradizione del
primo millennio cristiano, mentre respingono tutti gli sviluppi successivi, perché i cattolici
avrebbero deciso senza di loro. Per essi, in materia di fede può decidere solo un Concilio davvero
ecumenico, quindi allargato a tutti i cristiani. Pertanto non giudicano valido quanto è stato
dichiarato dai cattolici dopo la divisione: in pratica sono d'accordo con molto di quanto si è
stabilito, ma lo considerano limitato alle Chiese che dipendono da Roma, non normativo anche
per loro".
Almeno qui, l'ecclesiologia costituisce un problema meno insormontabile?
"Sì e no. Certo, hanno in comune con noi la nozione della necessaria successione apostolica; il
loro episcopato, la loro eucaristia sono autentici. Ma conservano anche questa idea profonda
dell'autocefalìa per la quale le Chiese, pur unite nella fede, sono al contempo indipendenti l'una
dall'altra. Non
riescono ad accettare che il vescovo di Roma, il Papa, possa essere il principio, il centro
dell'unità pur in una Chiesa universale intesa come comunione".
Dunque, chiedo, neppure con l'Oriente è ipotizzabile, a tempi non remoti, un inizio di riunione?
"Non vedo, a viste umane, come sia possibile un'unione completa, al di là di una praticabile (e
già praticata) fase iniziale. Questa difficoltà, però, è a livello teologico. Sul piano concreto,
vitale, le relazioni sono più facili: lo constatiamo dove cattolici e ortodossi sono a contatto (e
condividono magari la stessa persecuzione). Se le ecclesiologie restano divise per la teologia,
nella esistenza concreta le Chiese sperimentano un interscambio vitale, visto che c'è reciprocità
sacramentale e l'intercomunione (a determinate condizioni) è possibile, a differenza di quanto
avviene con i protestanti".
Gli anglicani si sono sempre considerati the bridge-church, la chiesa ponte tra mondo protestante
e cattolico; ci fu un tempo (e piuttosto vicino) in cui sembrò che si fosse a un passo dalla
riunione.
"È vero. Ma ora almeno una parte degli anglicani si è bruscamente riallontanata con le nuove
norme sui divorziati risposati, sul sacerdozio alle donne e su altre questioni di teologia morale.
Sono decisioni che hanno riaperto un solco non solo tra anglicani e cattolici ma anche tra
anglicani e ortodossi, che anche qui condividono in genere il punto di vista cattolico".
Qualcuno, dopo il Concilio, aveva annunciato che sarebbe bastato alla Chiesa cattolica mettersi
sulla via delle "riforme" per ritrovare l'unità con i fratelli separati. Ho qui invece un recente
documento sull'ecumenismo di parte protestante, viene dalle chiese italiane valdesi e metodiste.
Vi si legge: "Cattolicesimo e protestantesimo, pur richiamandosi allo stesso Signore, sono due
modi diversi di intendere e vivere il cristianesimo. Questi diversi modi non sono complementari
ma alternativi".
Che ne dice il cardinal Ratzinger?
"Dico che la realtà è purtroppo ancora questa. Non bisogna scambiare le parole con la realtà:
qualche progresso sul piano teologico, qualche documento comune non significano un
avvicinamento davvero vitale. L'eucaristia è vita e questa vita non possiamo finora condividerla
in presenza di un concetto di Chiesa e di sacramento così diverso. C'è qualche pericolo in un
ecumenismo che non si ponga in modo realistico davanti a questa difficoltà, per ora insuperabile
agli uomini. C'erano del resto anche dei pericoli - si intende - nella situazione preconciliare,
contrassegnata dalla chiusura e dalla intransigenza che lasciavano poco spazio alla fraternità".
"Ma la Bibbia è cattolica"
Qualche passo si è tentato di compierlo proponendo delle traduzioni della Bibbia fatte in comune
tra diverse confessioni. Che ne pensa Ratzinger di queste edizioni ecumeniche?
"Ho studiato solo la traduzione interconfessionale tedesca. È stata concepita soprattutto per l'uso
liturgico e per la catechesi. In pratica, è successo che la impiegano quasi soltanto dei cattolici,
non la usano invece molti luterani che preferiscono tornare alla " loro " Bibbia".
Sarebbe forse un altro caso di ecumenismo " a senso unico "?
"Il fatto è che anche qui non è lecito abbandonarsi a illusioni soverchie. La Scrittura vive in una
comunità e ha bisogno di un linguaggio. Ogni traduzione è anche, in qualche misura,
interpretazione. Ci sono passi (tutti gli studiosi sono ormai d'accordo) in cui a parlare più che la
Bibbia è il suo traduttore. Ci sono parti della Scrittura che esigono una scelta precisa, una presa
di posizione netta; non si può mescolare o tentare di nascondere le difficoltà con degli espedienti.
Qualcuno vorrebbe far credere che gli esegeti, con i loro metodi storicocritici, avrebbero trovato
la soluzione " scientifica ", dunque al di sopra delle parti. Mentre non è così, ogni " scienza "
dipende inevitabilmente da una filosofia, da una ideologia. Non può esserci neutralità, tanto
meno qui. Del resto, io posso ben capire perché i luterani tedeschi sono tanto attaccati alla Bibbia
di Lutero: essa, proprio nella sua forma linguistica, è la vera forza unificante del luteranesimo;
abbandonarla significherebbe di fatto toccare il nucleo dell'identità. Questa traduzione ha dunque
nella sua comunità un ruolo completamente diverso da quello che una qualsiasi traduzione può
avere presso noi cattolici. Grazie all'interpretazione che include, in un certo senso la traduzione
di Lutero ha limitato le conseguenze del principio del Sola Scriptura ed ha reso possibile una
comprensione comune della Bibbia, un "patrimonio ecclesiale" comune".
Aggiunge: "Dobbiamo avere il coraggio di ridire chiaro che, presa nella sua totalità, la Bibbia è
cattolica. Accettarla come sta, nell'unità di tutte le sue parti, significa accettare i grandi Padri
della Chiesa e la loro lettura; dunque, significa entrare nel cattolicesimo".
Una simile affermazione, azzardo, non rischia di suscitare la diffidenza di chi la consideri
"apologetica"?
"No - replica -, perché non è mia ma di non pochi esegeti protestanti contemporanei. Come, ad
esempio, di uno tra i discepoli prediletti del luterano Rudolf Bultmann, il professor Heinrich
Schlier. Questi, portando alle logiche conseguenze il principio della Sola Scriptura, si è accorto
che il " cattolicesimo " è già nel Nuovo Testamento. Perché già lì c'è il concetto di una Chiesa
vivente alla quale il Signore ha lasciato la sua Parola viva. Certamente non c'è, nella Scrittura,
l'idea che essa stessa sia un fossile archeologico, una raccolta disparata di fonti da studiare da
archeologo o da paleontologo! Con coerenza Schlier è così entrato nella Chiesa cattolica. Altri
suoi colleghi protestanti non sono arrivati a tanto ma la presenza della dimensione cattolica nella
Bibbia stessa non è ormai quasi più messa in discussione". E lei, cardinal Ratzinger (da ragazzo
o da giovane seminarista o magari da teologo) non è mai stato attratto dal protestantesimo, non
ha mai pensato di cambiare confessione cristiana?
"Oh no! - esclama -. Il cattolicesimo della mia Baviera sapeva far posto a tutto ciò che è umano:
alla preghiera ma anche alla festa, alla penitenza ma anche all'allegria. Un cristianesimo gioioso,
colorato, umano. Può anche essere che ciò avvenga perché mi manca il senso del "purismo" e
perché fin dall'infanzia ho respirato il barocco. Di fatto, pur con tutta la stima per amici
protestanti, semplicemente, sul piano psicologico, non ho mai avvertito un'attrattiva di questo
tipo. Neppure sul piano teologico: il protestantesimo poteva certamente dare l'impressione di una
" superiorità ", poteva sembrare avere una maggiore "scientificità". Ma la grande tradizione dei
Padri e dei maestri del Medio Evo era per me più convincente".
Chiese nella bufera
Lei è stato bambino, poi adolescente e giovane (aveva 18 anni nel 1945) nella Germania del
nazismo. Come ha vissuto, da cattolico, quel tempo terribile?
"Sono venuto su in una famiglia molto credente, praticante. Nella fede dei miei genitori, nella
fede della nostra Chiesa, ho avuto la conferma del cattolicesimo come roccaforte della verità e
della giustizia contro quel regno dell'ateismo e della menzogna che fu il nazismo. Nel crollo del
regime ho visto nei fatti che la Chiesa aveva intuìto giusto".
Ma Hitler veniva dall'Austria cattolica, il partito fu fondato e prosperò nella cattolica Monaco...
"Tuttavia sarebbe affrettato presentarlo come prodotto del cattolicesimo. 1 germi velenosi del
nazismo non sono il frutto del cattolicesimo dell'Austria o della Germania meridionale, ma
semmai dell'atmosfera decadente e cosmopolita della Vienna alla fine dell'impero, nella quale
Hitler guardava con invidia alla forza e alla risolutezza della Germania del Nord: Federico II e
Bismarck erano i suoi idoli politici. Nelle decisive elezioni del 1933 notoriamente Hitler non ha
avuto nessuna maggioranza nei Lànder cattolici a differenza di quanto avvenuto in altre regioni
tedesche".
Come spiega questo?
"Devo premettere innanzitutto che il nucleo credente della Chiesa protestante ha avuto un ruolo
di primo piano nella resistenza contro Hitler. Vorrei ricordare ad esempio la dichiarazione di
Barmen del 31 maggio 1934, con la quale la "Chiesa confessante" prese le distanze dai filonazisti
" Cristiani tedeschi " e compì così l'atto fondamentale di resistenza contro la pretesa totalitaria di
Hitler. Dall'altra parte il fenomeno dei " Cristiani tedeschi " mette in luce il tipico pericolo al
quale si trovava esposto il protestantesimo nel momento della presa del potere da parte dei
nazisti. La concezione di un cristianesimo nazionale, cioè germanico, anti-latino, offrì a Hitler un
punto di aggancio; così come la tradizione di una Chiesa di Stato e la fortissima sottolineatura
dell'ubbidienza nei confronti dell'autorità, che è di casa nella tradizione luterana. Proprio per
questi aspetti il protestantesimo tedesco, soprattutto il luteranesimo, fu all'inizio molto più
facilmente esposto all'aggressione di Hitler; un movimento come i " Cristiani tedeschi " non si
sarebbe potuto formare nell'ambito del concetto cattolico di Chiesa".
Ciò non toglie che anche i protestanti si segnalarono nella lotta al nazismo.
"Questo è fuori discussione. Proprio perché la situazione era così come l'ho descritta, da parte dei
protestanti era richiesto un coraggio più personale per intraprendere la resistenza contro Hitler.
Karl Barth ha espresso molto chiaramente questo stato di cose, rifiutandosi di prestare il
giuramento richiestogli nella sua funzione. Ecco perché proprio il protestantesimo ha potuto
vantare personalità di grande rilevanza nella resistenza. Si capisce però anche, da quanto ho detto
sopra, perché fra i comuni fedeli i cattolici si trovassero più facilitati a resistere nel rifiuto delle
dottrine di Hitler. Si vide anche allora ciò che la storia ha sempre confermato: come male
minore, la Chiesa cattolica può venire tatticamente a patti con sistemi statali anche oppressivi,
ma alla fine si rivela una difesa per tutti contro le degenerazioni del totalitarismo. Non può
infatti, per sua natura, confondersi con lo stato e si deve opporre a uno stato che costringa anche i
suoi fedeli in una sola visione. E quanto ho constatato io stesso, da giovane cattolico, nella
Germania nazista".

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 CAPITOLO DODICESIMO
UNA CERTA "LIBERAZIONE"

Una "Istruzione" da leggere
Nei giorni del colloquio con il card. Ratzinger a Bressanone, non era ancora pubblica (sarebbe
stata presentata a settembre) la Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione che
pure era già pronta, portando la data del 6 agosto 1984. Era però già stata pubblicata - con
un'indiscrezione giornalistica - la riflessione in cui Ratzinger spiegava la sua posizione
personale, di teologo, attorno all'argomento. Era poi già preannunciata la "convocazione a
colloquio" di uno degli esponenti più noti di quella teologia.
Dunque, il tema "teologia della liberazione" aveva già invaso le pagine dei giornali; e le avrebbe
occupate ancora più dopo la presentazione della Istruzione. E bisogna pur dire che sconcerta
come molti dei commenti - anche i più ambiziosi, anche quelli pubblicati dalle testate più illustri
- abbiano giudicato il documento della Congregazione senza averlo letto se non in qualche sintesi
incompleta, magari sospetta di partito preso. Inoltre, quasi tutti i commenti si sono occupati solo
delle implicazioni politiche del documento, ignorandone le motivazioni religiose.
Anche per questo, la Congregazione per la fede ha poi deciso di rifiutare ulteriori commenti,
rinviando a un testo tanto dibattuto quanto misconosciuto. Leggere la Instructio: è quanto noi
stessi siamo stati pregati di chiedere al lettore, quali che siano poi le sue conclusioni.
Ci è sembrato invece importante mettere qui a disposizione il testo che - pur pubblicato con
quella che dicevamo una "indiscrezione giornalistica" -, è divenuto ormai di dominio pubblico,
rispecchia fedelmente il pensiero di Joseph Ratzinger (in quanto teologo: non, dunque, in quanto
Prefetto della Congregazione per la fede) e non è di facile reperimento per il lettore non
specialista. Questo testo può servire a comprendere il pensiero personale del card. Ratzinger su
un tema così spinoso e attuale. Qui più che mai, per il Prefetto, "difendere l'ortodossia significa
davvero difendere i poveri ed evitare loro le illusioni e le sofferenze di chi non sa dare una
prospettiva realistica di riscatto neppure materiale".
Segnaliamo inoltre quanto l'Instructio afferma sin dalla introduzione: "Questa Congregazione per
la dottrina della fede non intende qui affrontare nella sua completezza il vasto terna della libertà
cristiana e della liberazione. Essa si ripropone di farlo in un documento successivo che ne
metterà in evidenza, in maniera positiva, tutte le ricchezze sotto l'aspetto sia dottrinale che
pratico". Solo una prima parte, dunque, di un discorso che va completato.
Inoltre, "il richiamo" contenuto nella prima parte, quella "negativa", "non deve in alcun modo
essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e
con autentico spirito evangelico alla " opzione preferenziale per i poveri ". La presente Istruzione
non dovrebbe affatto servire da pretesto a tutti coloro che si trincerano in un atteggiamento di
neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell'ingiustizia.
Al contrario, essa è dettata dalla certezza che le gravi deviazioni ideologiche denunciate
finiscono ineluttabilmente per tradire la causa dei poveri. Più che mai, è necessario che numerosi
cristiani, di fede illuminata e risoluti a vivere la vita cristiana nella sua integralità, si impegnino
nella lotta per la giustizia, la libertà e la dignità dell'uomo, per amore verso i loro fratelli
diseredati, oppressi o perseguitati. Più che mai la Chiesa intende condannare gli abusi, le
ingiustizie e gli attentati alla libertà, ovunque si riscontrino e chiunque ne siano gli autori e
lottare, con i mezzi che le sono propri, per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo,
specialmente nella persona dei poveri".
Il bisogno di redenzione
Prima di passare a riprodurre il documento "Privato" del teologo Ratzinger, diamo intanto conto
sempre nel tentativo di situare la sua posizione su uno sfondo generale - di quanto è emerso nel
nostro colloquio a proposito del termine "liberazione" E uno scenario di portata mondiale.
"Liberazione - dice infatti il Cardinale - sembra essere il programma, la bandiera di tutte le
culture attuali, in tutti i continenti. Al seguito di queste culture, la volontà di cercare una
"liberazione" passa attraverso il movimento teologico dei diversi ambiti culturali del mondo".
Continua: "Come ho già osservato parlando della crisi della morale, la "liberazione" è la tematica
chiave anche della società dei ricchi, del Nord America e dell'Europa Occidentale: liberazione
dall'etica religiosa e, con essa, dai limiti stessi dell'uomo. Ma si cerca " liberazione " anche in
Africa e in Asia, dove lo sganciamento dalle tradizioni occidentali si presenta come un problema
di liberazione dal retaggio coloniale, alla ricerca della propria identità. Ne parleremo in modo
specifico più avanti. È " liberazione " infine in Sud America, dove la si intende soprattutto in
senso sociale, economico, politico. Dunque, il problema soteriologico, cioè della salvezza, della
redenzione (della liberazione, come appunto si preferisce dire) è divenuto il punto centrale del
pensiero teologico".
Perché, chiedo, questa focalizzazione, che peraltro sembra corretta anche alla Congregazione (le
prime parole della Istruzione del 6 agosto non sono forse: "Il Vangelo di Gesù Cristo è un
messaggio di libertà e una forma di liberazione")?
"Questo è avvenuto e avviene - dice - perché la teologia tenta di rispondere così al problema più
drammatico del mondo di oggi: il fatto cioè che malgrado tutti gli sforzi l'uomo non è affatto
redento, non è per nulla libero, conosce anzi una crescente alienazione. E questo appare in tutte
le forme di società attuale. L'esperienza fondamentale della nostra epoca è proprio quella della
"alienazione", cioè lo stato che l'espressione cristiana tradizionale chiama: mancanza di
redenzione. È l'esperienza di un'umanità che si è distaccata da Dio e in questo modo non ha
trovato la libertà, ma solo schiavitù".
Parole dure, ancora una volta, osservo.
"Eppure così è a una visione realistica, che non si nasconda la situazione. E del resto al realismo
che sono chiamati i cristiani: essere attenti ai segni del tempo significa anche questo, ritrovare il
coraggio di guardare la realtà in faccia, nel suo positivo e nel suo negativo. Ora, giusto in questa
linea di oggettività, vediamo che c'è un elemento in comune ai programmi di liberazione
secolaristici: quella liberazione la vogliono cercare solo nell'immanenza, dunque nella storia,
nell'aldiquà. Ma è proprio questa visione chiusa nella storia, senza sbocchi sulla trascendenza,
che ha condotto l'uomo nella sua attuale situazione".
Resta comunque il fatto, dico, che questa esigenza di liberazione è una sfida che va accettata;
non ha dunque ben fatto la teologia a raccoglierla per darle una risposta cristiana?
"Certo, purché quella risposta sia cristiana veramente. Il bisogno di salvezza oggi così avvertito
esprime la percezione autentica, per quanto oscura, della dignità dell'uomo, creato a immagine e
somiglianza di Dio. Ma il pericolo di certe teologie è che si lascino suggerire il punto di vista
immanentistico, solo terrestre, dai programmi di liberazione secolaristici. I quali non vedono, né
possono vedere che la " liberazione " è innanzitutto e principalmente liberazione da quella
schiavitù radicale che il "mondo" non scorge, che anzi nega: la schiavitù radicale del peccato".
Un testo da "teologo privato"
Da questo quadro generale, torniamo a quel "fenomeno straordinariamente complesso" che è la
teologia della liberazione che, pur tendendo a diffondersi un po' ovunque nel Terzo Mondo, ha
tuttavia "il suo centro di gravità in America Latina".
Torniamo dunque a quel testo "privato" di Ratzinger teologo, che ha preceduto l'Instructio
dell'autunno 1984. Le pagine seguenti (in corsivo) lo riproducono per intero. Data l'origine e la
destinazione strettamente teologica, il linguaggio non è sempre il più divulgativo possibile.
Crediamo comunque che valga la pena di superare qualche passaggio forse complesso per il
lettore non specialista: al di là, ripetiamo, delle valutazioni di ciascuno, questo testo aiuta a
situare il fenomeno " teologia della liberazione " nel più ampio scenario della teologia mondiale.
E chiarisce i motivi dell'intervento della Congregazione in una strategia già avviata e che prevede
altre "tappe".
ALCUNE OSSERVAZIONI PRELIMINARI
1) La teologia della liberazione è un fenomeno straordinariamente complesso: essa va
dalle posizioni più radicalmente marxiste fino a quelle che pongono il luogo appropriato
della necessaria responsabilità del cristiano verso i poveri e gli oppressi nel contesto di
una corretta teologia ecclesiale, come hanno fatto i documenti del Celam (la
Conferenza Episcopale Latino-Americana), da Medellín a Puebla. In questo nostro testo
si utilizza il concetto "teologia della liberazione " in una accezione più ristretta: una
accezione che comprende solo quei teologi che in qualche maniera hanno fatto propria
l'opzione fondamentale marxista. Anche qui esistono nei particolari molte differenze
nelle quali è impossibile addentrarsi in questa riflessione generale. In questo contesto
posso solo tentare di mettere in evidenza alcune linee fondamentali che, senza
disconoscere le diverse matrici, sono molto diffuse ed esercitano una certa influenza
anche laddove non esiste una teologia della liberazione in senso stretto.
2) Con l'analisi del fenomeno della teologia della liberazione diventa manifesto un
pericolo fondamentale per la fede della Chiesa. Indubbiamente bisogna tener presente
che un errore non può esistere se non contiene un nucleo di verità. Di fatto un errore è
tanto più pericoloso quanto maggiore è la proporzione del nucleo di verità recepita.
Inoltre l'errore non potrebbe appropriarsi di quella parte di verità se questa verità fosse
sufficientemente vissuta e testimoniata lì dove è il suo posto, cioè nella fede della
Chiesa. Perciò, accanto alla dimostrazione dell'errore e del pericolo della teologia della
liberazione bisogna sempre affiancare la domanda: quale verità si nasconde nell'errore
e come recuperarla pienamente?
3) La teologia della liberazione è un fenomeno universale sotto tre punti di vista:
a) questa teologia non intende affatto costituire un nuovo trattato teologico a fianco
degli altri già esistenti, come per esempio elaborare nuovi aspetti dell'etica sociale della
Chiesa. Essa si concepisce piuttosto come una nuova ermeneutica della fede cristiana,
vale a dire come una nuova forma di comprensione e di realizzazione del cristianesimo
nella sua totalità. Perciò cambia tutte le forme della vita ecclesiale: la costituzione
ecclesiastica, la liturgia, la catechesi, le opzioni morali.
b) la teologia della liberazione ha sicuramente il suo centro di gravità in America Latina,
però non è affatto un fenomeno esclusivamente latinoamericano. Non è pensabile
senza l'influenza determinante di teologi europei ed anche nordamericani. Ma esiste
anche in India, nello Sri Lanka, nelle Filippine, a Taiwan e in Africa, sebbene qui sia in
primo piano la ricerca di una "teologia africana " L'Unione dei teologi del Terzo Mondo è
fortemente caratterizzata dall'attenzione prestata ai temi della teologia della liberazione.
c) la teologia della liberazione supera i confini confessionali: essa cerca di creare, fin
dalle sue premesse, una nuova universalità per la quale le separazioni classiche delle
chiese debbono perdere la loro importanza.
I. Il concetto della teologia della liberazione e i presupposti della sua genesi
Queste osservazioni preliminari ci hanno frattanto già introdotto nel nucleo del tema.
Hanno però lasciato aperta la questione principale: che cos'è propriamente la teologia
della liberazione?
In un primo tentativo di risposta possiamo dire: la teologia della liberazione pretende
dare una nuova interpretazione globale del cristianesimo; spiega il cristianesimo come
una prassi di liberazione e pretende di porsi essa stessa come una guida a tale prassi.
Ma siccome secondo questa teologia ogni realtà è politica, anche la liberazione è un
concetto politico e la guida alla liberazione deve essere una guida all'azione politica.
"Nulla resta fuori dall'impegno politico. Tutto esiste con una colorazione politica", scrive
testualmente uno dei suoi più noti esponenti sudamericani. Una teologia che non sia
"pratica " ' vale a dire essenzialmente politica, è considerata "idealistica" e condannata
come irreale o come veicolo di conservazione degli oppressori al potere.
Per un teologo che abbia imparato la sua teologi . a nella tradizione classica e che
abbia accettato la sua vocazione spirituale, è difficile immaginare che si possa
seriamente svuotare la realtà globale del cristianesimo i . n uno schema di prassi sociopolitica
di liberazione. La cosa è tuttavia possibile, in quanto molti teologi della
liberazione continuano ad usare gran parte del linguaggio ascetico e dogmatico della
Chiesa in chiave nuova, in maniera tale che chi legge e chi ascolta partendo da un altro
retroterra, può ricevere l'impressione di ritrovare il patrimonio antico con l'aggiunta
solamente di qualche affermazione un poco "strana ", che però, unita a tanta religiosità,
non potrebbe essere così pericolosa.
Proprio la radicalità della teologia della liberazione fa sì che ne venga spesso
sottovalutata la gravità, perché non entra in alcuno schema esistente fino ad oggi di
eresia; la sua impostazione di partenza si trova al di fuori di ciò che può venir colto dai
tradizionali schemi di discussione.
Per questo vorrei tentare di accostarmi all'indirizzo fondamentale della teologia della
liberazione in due tappe: prima occorrerà dire qualche cosa sui presupposti' che l'hanno
resa possibile; successivamente vorrei esplorare alcuni dei concetti basilari che
permettono di conoscere qualcosa della sua struttura
Come si è arrivati a quell'orientamento completamente nuovo del pensiero teologico
che trova espressione nella teologia della liberazione? Vedo principalmente tre fattori
che l'hanno resa possibile.
1) Dopo il Concilio si produsse una situazione teologica nuova:
a) si creò l'opinione che la tradizione teologica esistente fino ad allora non fosse più
accettabile e che di conseguenza si dovesse cercare, a partire dalla Scrittura e dai
segni dei tempi, orientamenti teologici e spirituali totalmente nuovi;
b) l'idea dì apertura al mondo e di impegno nel mondo si trasformò spesso in una fede
ingenua nelle scienze; una fede che accolse le scienze umane come un nuovo vangelo,
senza volerne riconoscere i limiti ed i problemi propri. La psicologia, la sociologia e
l'interpretazione marxista della storia furono considerate come scientificamente sicure e
quindi come istanze non più contestabili del pensiero cristiano;
c) la critica della tradizione da parte della esegesi evangelica moderna, specialmente di
Rudolf Bultmann e della sua scuola, divenne una istanza teologica inamovibile che
sbarrò la strada alle forme fino ad allora valide della teologia, incoraggiando così anche
nuove costruzioni.
2) La situazione teologica così mutata coincise con una situazione della storia spirituale
anch'essa modificata. Alla fine della fase di ricostruzione dopo la seconda guerra
mondiale, fase che coincise all'incirca con il termine del Concilio, si produsse nel mondo
occidentale un sensibile vuoto di significato al quale la filosofia esistenzialista ancora in
voga non era in grado di dare alcuna risposta. In questa situazione le differenti forme
del neomarxismo si trasformarono in un impulso morale e allo stesso tempo in una
promessa di significato che appariva quasi irresistibile alla gioventù universitaria. Il
marxismo, con gli accenti religiosi di Bloch e le filosofie provviste di rigore "scientifico" di
Adorno, Horkheimer, Habermas e Marcuse, offrirono modelli di azione con i quali si
credette di poter rispondere alla sfida della miseria nel mondo e, allo stesso tempo, di
poter attualizzare il senso corretto del messaggio biblico.
3) La sfida morale della povertà e dell'oppressione non si poteva più ignorare nel
momento in cui l'Europa e l'America del Nord avevano raggiunto un'opulenza fino ad
allora sconosciuta. Questa sfida esigeva evidentemente nuove risposte che non si
potevano trovare nella tradizione esistente sino a quel momento. La situazione
teologica e filosofica mutata invitava espressamente a cercare la risposta in un
cristianesimo che si lasciasse guidare dai modelli di speranza, in apparenza fondati
"scientificamente", delle filosofie marxiste.
II. La struttura fondamentale della teologia della liberazione
Quella risposta si presenta del tutto diversa nelle forme particolari di teologia della
liberazione, teologia della rivoluzione, teologia politica, eccetera- Non può quindi essere
rappresentata globalmente. Esistono tuttavia alcuni concetti fondamentali che si
ripetono continuamente nelle diverse variazioni ed esprimono intenzioni di fondo
comuni.
Prima di passare ai concetti fondamentali del contenuto, è necessario fare
un'osservazione sugli elementi strutturali portanti della teologia della liberazione.
Possiamo riallacciarci, a questo fine, a ciò che abbiamo già detto circa la situazione
teologica mutata dopo il Concilio.
Come già detto, si è letta l'esegesi di Bultmann e della sua scuola come
un'enunciazione della "scienza" su Gesù, scienza che doveva ovviamente essere
ritenuta valida. Il "Gesù storico" di Bultmann si presenta tuttavia separato da un abisso
(Bultmann stesso parla di Graben, fossato) dal Cristo della fede. Secondo Bultmann,
Gesù appartiene solo ai presupposti del Nuovo Testamento, permanendo però
racchiuso nel mondo del giudaismo.
Il risultato finale di questa esegesi consisteva nel fatto che veniva scossa la credibilità
storica dei Vangeli: il Cristo della tradizione ecclesiale e il Gesù storico presentato dalla
scienza appartengono a due mondi differenti. La figura di Gesù fu sradicata dal suo
collocamento nella tradizione per mezzo della "scienza", considerata come istanza
suprema, in questa maniera A un lato la tradizione si librava come qualcosa di irreale
nel vuoto, dall'altro si dovevano cercare per la figura di Gesù una nuova interpretazione
e un nuovo significato.
Bultmann quindi assunse importanza non tanto per le sue affermazioni positive, quanto
per il risultato negativo della sua critica: il nucleo della fede, la cristologia, rimase aperto
a nuove interpretazioni perché quelli che erano stati sino ad allora i suoi enunciati
originali erano scomparsi, in quanto dichiarati storicamente insostenibili. Nello stesso
tempo veniva sconfessato il Magistero della Chiesa perché considerato legato ad una
teoria "scientificamente " insostenibile e quindi privo di valore come istanza conoscitiva
su Gesù. I suoi enunciati potevano essere considerati solo come "definizioni frustrate di
una posizione scientificamente superata".
Inoltre Bultmann fu importante per lo sviluppo ulteriore di una seconda parola chiave.
Egli riportò in auge l'antico concetto di ermeneutica, conferendogli una dinamica nuova.
Nella parola "ermeneutica " trova espressione l'idea che una comprensione reale dei
testi storici non si dà attraverso una mera interpretazione storica; ma ogni
interpretazione storica include certe decisioni preliminari. L'ermeneutica ha il compito di
"attualizzare " la Scrittura in connessione con i dati che la storia, sempre mutevole, ci
presenta: una "fusione degli orizzonti" tra "'l'allora" e "l'oggi". Essa pone di conseguenza
la domanda: cosa significa "l'allora" al giorno d'oggi? Bultmann rispose a questa
domanda servendosi della filosofia di Heidegger e interpretò quindi la Bibbia in senso
esistenzialista. Questa risposta non riveste più alcun interesse; in questo senso
Bultmann è superato dall'esegesi attuale. Però è rimasta la separazione tra la figura di
Gesù della tradizione classica e l'idea che si possa e si debba trasferire questa figura
nel presente attraverso una nuova ermeneutica.
A questo punto sorge il secondo elemento, già menzionato, della nostra situazione: il
nuovo clima filosofico degli anni Sessanta. L'analisi marxista della storia e della società
fu considerata come l'unica a carattere "scientifico". Ciò significa che il mondo viene
interpretato alla luce dello schema della lotta di classe e che l'unica scelta possibile è
quella tra capitalismo e marxismo. Significa, inoltre, che tutta la realtà è politica e che
deve essere giudicata politicamente. Il concetto biblico del "povero" offre il punto di
partenza per la confusione tra l'immagine biblica della storia e la dialettica marxista;
questo concetto viene interpretato con l'idea di proletariato in senso marxista e giustifica
altresì il marxismo come ermeneutica legittima per la comprensione della Bibbia.
Secondo questa comprensione, poi, esistono e possono esistere solo due opzioni;
perciò, contraddire questa interpretazione della Bibbia non è che l'espressione dello
sforzo della classe dominante per conservare il proprio potere. Un teologo della
liberazione afferma: "La lotta di classe è un dato di fatto e la neutralità su questo punto
è assolutamente impossibile".
Da questo punto si rende impossibile anche l'intervento del Magistero ecclesiale: nel
caso in cui esso si opponesse a tale interpretazione del cristianesimo dimostrerebbe
solamente di essere dalla parte dei ricchi e dei dominatori e contro i poveri e i sofferenti,
vale a dire contro Gesù stesso, e, nella dialettica della storia, si schiererebbe dalla parte
negativa.
Questa decisione, apparentemente "scientifica" e "ermeneuticamente" ineluttabile,
determina da sé la strada dell'interpretazione ulteriore del cristianesimo, sia per quanto
riguarda le istanze interpretative che per i contenuti interpretati.
Per quanto riguarda le istanze interpretative i concetti decisivi sono: popolo, comunità,
esperienza, storia. Se fino ad ora la Chiesa - cioè la Chiesa cattolica nella sua totalità
che, trascendendo tempo e spazio, abbraccia i laici (sensus fidei) e la gerarchia
(magistero) - era stata l'istanza ermeneutica fondamentale, oggi lo è diventata la
"comunità". Il vissuto e le esperienze della comunità determinano la comprensione e
l'interpretazione della Scrittura.
Di nuovo si può dire, apparentemente in modo rigorosamente "scientifico", che la figura
di Gesù, presentata nei Vangeli, costituisce una sintesi di avvenimenti e interpretazioni
dell'esperienza di comunità particolari, dove tuttavia l'interpretazione è molto più
importante dell'avvenimento, che in sé non è più determinabile. Questa sintesi originaria
di avvenimento e interpretazione può essere sciolta e ricostruita sempre di nuovo: la
comunità "interpreta" con la sua "esperienza "gli avvenimenti e trova così la sua "prassi"
 Questa idea la si incontra modificata in modo alquanto diverso nel concetto di "popolo",
con il quale si' trasformò l'accentuazione conciliare dell'idea di "popolo di Dio" in un mito
marxista. Le esperienze del "popolo" spiegano la Scrittura. "Popolo" diventa così un
concetto opposto a quello di "gerarchia" e in antitesi a tutte le istituzioni indicate come
forze dell'oppressione. Infine è "popolo" chi partecipa alla "lotta di classe",- la "Iglesia
popular" si pone in opposizione alla Chiesa gerarchica.
Da ultimo il concetto di "storia" diviene istanza ermeneutica decisiva. L'opinione,
considerata scientificamente sicura e irrefutabile, che la Bibbia ragioni in termini
esclusivamente di storia della salvezza (e quindi in modo antimetafisico) permette la
fusione dell'orizzonte biblico con l'idea marxista della storia che procede dialetticamente
come portatrice di salvezza; la storia è l'autentica rivelazione e pertanto la vera istanza
ermeneutica della interpretazione biblica. Tale dialettica viene appoggiata, talvolta, dalla
pneumatologia, cioè dalla concezione dell'azione dello Spirito Santo.
In ogni caso anch'essa vede nel Magistero che insiste su verità permanenti una istanza
nemica del progresso, dato che pensa " metafisicamente " e contraddice così la "storia "
Si può dire che il concetto di storia assorbe il concetto di Dio e di rivelazione. La
"storicità" della Bibbia deve giustificare il suo ruolo assolutamente predominante e
quindi deve legittimare allo stesso tempo il passaggio alla filosofia materialista-marxista,
nella quale la storia ha assunto il ruolo di Dio.
III. Concetti fondamentali della teologia della liberazione
Con ciò siamo giunti ai concetti fondamentali del contenuto della nuova interpretazione
del cristianesimo. Poiché i contesti nei quali appaiono i diversi concetti sono diversi,
vorrei, senza pretese di sistematicità, citarne alcuni.
Cominciamo dalla nuova interpretazione di fede, speranza e carità.
Rispetto alla fede, ad esempio, un teologo sudamericano afferma: "L'esperienza che
Gesù ha di Dio è radicalmente storica. La sua fede si converte in fedeltà". Si sostituisce
perciò fondamentalmente la fede con la "fedeltà alla storia". Qui si produce quella
fusione tra Dio e storia che dà la possibilità di conservare per Gesù la formula di
Calcedonia, anche se con un significato completamente mutato: si vede come i criteri
classici della ortodossia non siano applicabili all'analisi di questa teologia. Si afferma
dunque che "Gesù è Dio", aggiungendo però immediatamente che "il Dio vero è solo
quello che si rivela storicamente e scandalosamente in Gesù e nei poveri che
continuano la sua presenza Solo chi mantiene unite queste due affermazioni è
ortodosso...".
La speranza viene interpretata come "fiducia nel futuro" e come lavoro per il futuro; con
ciò la si subordina di nuovo al predominio della storia delle classi.
La carità consiste nella "opzione per i poveri", cioè. coincide con l'opzione per la lotta di
classe. I teologi della liberazione sottolineano con forza, di fronte al "falso
universalismo", la parzialità ed il carattere di parte dell'opzione cristiana; prendere
partito è, secondo loro, requisito fondamentale di una corretta ermeneutica delle
testimonianze bibliche. A mio avviso qui si può riconoscere molto chiaramente la
mescolanza tra una verità fondamentale del cristianesimo e una opzione fondamentale
non cristiana, che rende l'insieme tanto seducente: il discorso della montagna sarebbe
in realtà la scelta da parte di Dio a favore dei poveri.
Il concetto fondamentale della predicazione di Gesù è davvero il "regno di Dio". Questo
concetto si ritrova anche al centro delle teologie della liberazione, letto però sullo sfondo
dell'ermeneutica marxista. Secondo uno di questi teologi, il " regno " non deve essere
inteso spiritualmente, né universalisticamente nel senso di una escatologia astratta.
Deve essere inteso in forma partitica e volto alla prassi. Solo a partire dalla prassi di
Gesù, e non teoricamente, è possibile definire cosa significa il "regno", lavorare nella
realtà storica che ci circonda per trasformarla nel "regno di Dio".
Qui occorre menzionare anche una idea fondamentale di certa teologia postconciliare
che ha spinto in questa direzione. £ stato sostenuto che secondo il Concilio si dovrebbe
superare ogni forma di dualismo: il dualismo di corpo e anima, di naturale e
soprannaturale, di immanenza e trascendenza, di presente e futuro. Dopo lo
smantellamento di questi presunti "dualismi " ' resta solo la possibilità di lavorare per un
regno che si realizzi in questa storia e nella sua realtà politico-economica.
Ma proprio così si è cessato di lavorare per l'uomo di oggi e si è cominciato a
distruggere il presente in favore di un futuro ipotetico: così si è prodotto
immediatamente il vero dualismo.
In questo contesto vorrei menzionare anche l'interpretazione del tutto deviante della
morte e della risurrezione che dà uno dei leader delle teologie della liberazione. Egli
stabilisce innanzitutto, contro le concezioni "universaliste", che la risurrezione è, in
primo luogo, una speranza per coloro che sono crocifissi, i quali costituiscono la
maggioranza degli uomini: tutti quei milioni ai quali l'ingiustizia strutturale si impone
come una lenta crocifissione. Il credente partecipa tuttavia anche alla signoria di Gesù
sulla storia attraverso l'edificazione del regno, cioè nella lotta per la giustizia e per la
liberazione integrale, nella trasformazione delle strutture ingiuste in strutture più umane.
Questa signoria sulla storia viene esercitata ripetendo nella storia il gesto di Dio che
risuscita Gesù, cioè ridando vita ai crocefissi della storia. L'uomo ha assunto così il
potere di Dio e qui la trasformazione totale del messaggio biblico si manifesta in modo
quasi tragico, se si pensa a come questo tentativo di imitazione di Dio si è esplicato ed
ancora si esplica.
Vorrei solo citare qualche altra interpretazione "nuova" di concetti biblici: l'esodo si
trasforma in una immagine centrale della "storia della salvezza" il mistero pasquale
viene inteso come un simbolo rivoluzionario e quindi l'eucaristia viene interpretata come
una festa di liberazione nel senso di una speranza politico-messianica e della sua
prassi. La parola redenzione viene sostituita generalmente con liberazione, la quale a
sua volta viene intesa, sullo sfondo della storia e della lotta di classe, come processo di
liberazione che avanza. Infine è fondamentale anche l'accento che viene posto sulla
prassi: la verità non deve essere intesa in senso metafisico; si tratterebbe di "idealismo
". La verità si realizza nel la storia e nella prassi. L'azione è la verità. Di conseguenza
anche le idee che si usano per l'azione sono, in ultima istanza, intercambiabili. L'unica
cosa decisiva è la prassi. L'ortoprassi diventa così la sola, vera ortodossia.
Viene così anche giustificato un enorme allontanamento dai testi biblici: la critica storica
libera dalla interpretazione tradizionale che appare come "non scientifica " Rispetto alla
tradizione si attribuisce importanza al "massimo rigore scientifico" nella linea di
Bultmann. Ma i contenuti della Bibbia determinati storicamente non possono a loro volta
essere vincolanti in modo assoluto. Lo strumento per l'interpretazione non è, in ultima
analisi, la ricerca storica, bensì l'ermeneutica della storia sperimentata nella comunità,
cioè nei gruppi politici. Se si cerca di trarre un giudizio globale, bisogna dire che quando
uno cerca di comprendere le opzioni fondamentali della teologia della liberazione, non
può negare che l'insieme contenga una logica quasi inoppugnabile. Con le premesse
della critica biblica e della ermeneutica fondata sull'esperienza da un lato, e dell'analisi
marxista della storia dall'altro, si è riusciti a creare una visione d'insieme del
cristianesimo che sembra rispondere pienamente tanto alle esigenze della scienza
quanto alle sfide morali dei nostri tempi. E pertanto si impone agli uomini in forma
immediata il compito di fare del cristianesimo uno strumento della trasformazione
concreta del mondo, il che sembrerebbe unirlo a tutte le forze progressiste della nostra
epoca. Si può quindi comprendere come questa nuova interpretazione del cristianesimo
attragga sempre più teologi, sacerdoti e religiosi, specialmente sullo sfondo dei
problemi del terzo mondo. Sottrarsi ad essa deve necessariamente apparire ai loro
occhi come un'evasione dalla realtà, come una rinuncia alla ragione e alla morale. Però
d'altro canto, se si pensa quanto sia radicale l'interpretazione del cristianesimo che ne
deriva, diviene tanto più urgente il problema di che cosa si possa e si debba fare di
fronte ad essa. Solo se noi riusciremo a rendere visibile la logica della fede in una
maniera altrettanto cogente e a presentarla nell'esperienza vissuta come logica della
realtà, cioè come forza reale di una risposta migliore, noi supereremo questa crisi.
Proprio perché le cose stanno in questo modo (cioè proprio perché pensiero ed
esperienza, riflessione ed azione sono in egual misura sollecitati), tutta la Chiesa è qui
interpellata. La sola teologia non basta, il solo magistero non basta: poiché il fenomeno
"teologia della liberazione "segnala una carenza di conversione nella Chiesa, una
carenza in essa di radicalità della fede, soltanto un di più in conversione e in fede
renderanno possibili e risveglieranno quelle intuizioni teologiche e quelle decisioni dei
pastori, che corrispondono alla gravità del problema.
Tra marxismo e capitalismo
Questo che abbiamo riportato è dunque il quadro delle riflessioni e delle constatazioni sul cui
sfondo, secondo il teologo Joseph Ratzinger, va vista l'ormai celebre "Istruzione su alcuni aspetti
della teologia della liberazione".
Aggiungiamo, che, durante il nostro colloquio, il Cardinale è più volte tornato su un aspetto
dimenticato in molti commenti: "La teologia della liberazione, nelle sue forme che si rifanno al
marxismo, non è affatto un prodotto autoctono, indigeno, dell'America Latina o di altre zone
sottosviluppate, dove sarebbe nata e sarebbe cresciuta quasi spontaneamente, per opera del
popolo. Si tratta in realtà, almeno all'origine, di una creazione di intellettuali; e di intellettuali
nati o formati nell'Occidente opulento: europei sono i teologi che l'hanno iniziata, europei - o
allevati nelle università europee - sono i teologi che la fanno crescere in Sud America. Dietro lo
spagnolo o il portoghese di quella predicazione si intravvede in realtà il tedesco, il francese,
l'anglo-americano".
Dunque, per lui anche la teologia della liberazione farebbe parte "della esportazione verso il
Terzo Mondo di miti e utopie elaborate nell'Occidente sviluppato. Quasi un tentativo di
esperimentare in concreto ideologie pensate in laboratorio da teorici europei. Per qualche aspetto,
pertanto, è ancora una forma di imperialismo culturale, seppur presentato come la creazione
spontanea delle masse diseredate. È poi tutto da verificare che influsso reale abbiano davvero sul
" popolo " i teologi che dicono di rappresentarlo, di dargli voce".
Osserva, continuando su questa linea: "In Occidente il mito marxista ha perso fascino tra i
giovani e tra gli stessi lavoratori; si tenta allora di esportarlo nel Terzo Mondo da parte di
intellettuali che vivono però al di fuori dei Paesi dominati dal Il socialismo reale ". Infatti, solo
dove il marxismo leninismo non è al potere c'è ancora qualcuno che prende sul serio le sue
illusorie " verità scientifiche "".
Segnala ancora che "paradossalmente - ma non troppo - la fede sembra essere più al sicuro
all'Est, dove è ufficialmente perseguitata. Sul piano dottrinale non abbiamo quasi alcun problema
con il cattolicesimo di quelle zone. Il fatto è che, là, per i cristiani non c'è certo il pericolo di
convertirsi alle posizioni di una ideologia imposta con la forza: la gente sconta ogni giorno sulla
sua pelle la tragedia di una società che ha tentato sì una liberazione, ma da Dio. Anzi, in alcuni
Paesi dell'Est, sembra emergere l'idea di una " teologia della liberazione", ma come liberazione
dal marxismo. Il che non significa certo che guardino con simpatia alle ideologie e al costume
prevalenti in Occidente".
Mi ricorda che "il cardinale primate di Polonia, Stefan Wyszynski, metteva in guardia
dall'edonismo e dal permissivismo occidentali non meno che dall'oppressione marxista. Alfred
Bengsch, cardinale di Berlino, mi diceva un giorno di vedere un pericolo più grave per la fede
nel consumismo occidentale e in una teologia contaminata da questo atteggiamento che non nel
comunismo marxista".
Ratzinger non teme di riconoscere "il marchio del satanico nel mondo con cui in Occidente si
sfrutta il mercato della pornografia e della droga". "Sì - dice - c'è qualcosa di diabolico nella
freddezza perversa con cui, in nome del denaro, si corrompe l'uomo approfittando della sua
debolezza, della sua possibilità di essere tentato e vinto. È infernale la cultura dell'Occidente,
quando persuade la gente che il solo scopo della vita sono il piacere e l'interesse privato".
Eppure, se gli si chiede quale - a livello di elaborazione teorica - gli sembri il più insidioso tra i
molti ateismi del nostro tempo, è ancora al marxismo che ritorna: "Mi sembra che il marxismo,
nella sua filosofia e nelle sue intenzioni morali, sia una tentazione più profonda che non certi
ateismi pratici, dunque intellettualmente superficiali. È che nell'ideologia marxista si approfitta
anche della tradizione giudeo-cristiana, rovesciata però in un profetismo senza Dio; si
strumentalizzano per fini politici le energie religiose dell'uomo, indirizzandole verso una
speranza solo terrena che è il capovolgimento della tensione cristiana verso la vita eterna. È
questa perversione della tradizione biblica che trae in inganno molti credenti, convinti in buona
fede che la causa di Cristo sia la stessa di quella proposta dagli annunciatori della rivoluzione
politica".
Il dialogo impossibile
E qui - con aria che mi è sembrata più sofferente che " inquisitoria " - mi ha di nuovo ricordato
quel "dramma del Magistero" che gli avvenimenti susseguenti alla pubblicazione dell'Istruzione
sulla teologia della liberazione avrebbero riconfermato: "C'è questa dolorosa impossibilità di
dialogare con i teologi che accettano quel mito illusorio, che blocca le riforme e aggrava la
miseria e le ingiustizie, e che è la lotta di classe come strumento per creare una società senza
classi". Continua: "Se, Bibbia e Tradizione alla mano, fraternamente, si cerca di denunciare le
deviazioni, subito si è etichettati come " servi ", "lacchè " delle classi dominanti che vogliono
conservare il potere appoggiandosi anche alla Chiesa. D'altronde, le più recenti esperienze
mostrano che rappresentanti significativi della teologia della liberazione si differenziano
felicemente (per la loro disponibilità alla comunità ecclesiale e al servizio reale dell'uomo)
dall'intransigenza di una parte dei mass-media e di numerosi gruppi di loro sostenitori,
prevalentemente europei. Da parte di questi ultimi ogni nostro intervento, anche il più pensato e
rispettoso, viene respinto a priori, perché si schiererebbe dalla parte dei "padroni". Mentre la
causa degli ultimi è tradita proprio da queste ideologie, che si sono rivelate fonte di sofferenza
per il popolo stesso".
Mi ha poi parlato dello sgomento provocatogli dalla lettura di molti dei teologi della liberazione:
"C'è un ritornello ripetuto senza tregua: " bisogna liberare l'uomo dalle catene dell'oppressione
politico-economica; per liberarlo le riforme non bastano, anzi sono devianti; quel che ci vuole è
la rivoluzione; ma il solo modo per fare la rivoluzione è bandire la lotta di classe ". Eppure,
coloro che ripetono tutto questo non sembrano porsi alcun problema concreto, pratico, sul come
organizzare una società dopo la rivoluzione. Ci si limita a ripetere che bisogna farla".
Dice ancora: "Ciò che è inaccettabile teologicamente e pericoloso socialmente, è questo
miscuglio tra Bibbia, cristologia, politica, sociologia, economia. Non si può abusare della
Scrittura e della teologia per assolutizzare, sacralizzare una teoria sull'ordinamento sociopolitico.
Questo, per sua natura, è sempre relativo. Se invece si sacralizza la rivoluzione
mescolando Dio, Cristo, ideologie si crea un fanatismo entusiastico che può portare alle
ingiustizie e alle oppressioni peggiori, rovesciando nei fatti ciò che in teoria ci si proponeva".
Continua: "Colpisce dolorosamente poi - in sacerdoti, in teologi! - questa illusione così poco
cristiana di potere creare un uomo e un mondo nuovi, non col chiamare ciascuno a conversione,
ma agendo solo sulle strutture sociali ed economiche. È il peccato personale che è in realtà alla
base anche delle strutture sociali ingiuste. E sulla radice, non sul tronco e i rami dell'albero
dell'ingiustizia che bisognerebbe lavorare se si vuole davvero una società più umana. Sono verità
cristiane fondamentali, eppure respinte con disprezzo come " alienanti spiritualiste ".

* * *

CAPITOLO TREDICESIMO
PER RIANNUNCIARE IL CRISTO

A difesa della missione
La teologia della liberazione "alla sudamericana" si estende dunque anche a parte dell'Asia e
dell'Africa. Ma qui, Ratzinger lo ha già osservato, " liberazione " è intesa soprattutto come uscita
dal retaggio coloniale europeo. "Si è alla ricerca appassionata - dice - di una corretta
inculturazione del cristianesimo. Siamo dunque di fronte a un aspetto nuovo dell'antico problema
del rapporto tra fede e storia, tra fede e cultura".
Per inquadrare i termini della questione, osserva: "è ben noto che la fede cattolica così come la
conosciamo oggi si è sviluppata innanzitutto su una radice ebraica e poi nell'ambito culturale
grecolatino al quale, a partire dall'ottavo secolo, si affiancarono in modo non secondario anche
l'elemento irlandese e germanico. L'Africa (la cui evangelizzazione in profondità è cominciata
solo negli ultimi due secoli) ha così ricevuto un cristianesimo che in 1800 anni si era sviluppato
in ambiti culturali diversi dai suoi. Questo cristianesimo vi è stato portato sin nelle sue piccole
forme di espressione. Inoltre, la fede le è giunta nel contesto di una storia coloniale, che oggi è
letta soprattutto come una storia di alienazione, di oppressione".
Non è forse vero? dico.
"Non esattamente per quanto riguarda l'attività missionaria della Chiesa. Molti (soprattutto in
Europa o in America più che in Africa) hanno dato e danno giudizi ingiusti, storicamente
scorretti, sui rapporti tra attività missionaria e colonialismo. Gli eccessi di questo sono stati
mitigati proprio dall'azione intrepida di tanti apostoli della fede, i quali hanno spesso saputo
creare oasi di umanità in zone devastate da antiche miserie e da nuove oppressioni. Non ci è
lecito dimenticare o addirittura condannare il sacrificio illuminato di una folla di missionari che
sono divenuti veri padri per i poveri loro affidati. lo stesso incontro tanti africani, giovani e
vecchi, che mi parlano con commozione di quei Padri della loro gente che furono certe
umanissime e insieme eroiche figure di missionari. Il loro ricordo non si è ancora spento tra
coloro che evangelizzarono e cercarono di aiutare in ogni modo, spesso a costo della vita. Si
deve anche a quei sacrifici - gran parte dei quali solo Dio conosce se è ancora possibile una certa
amicizia tra l'Africa e l'Europa".
Resta però il fatto che fu il cattolicesimo occidentale ad essere esportato in quelle plaghe.
"Oggi siamo ben consapevoli del problema. Ma allora, che cosa potevano fare i missionari, se
non cominciare con un catechismo, il solo che conoscessero? Non si dimentichi, poi, che tutti
abbiamo ricevuto la fede " dall'esterno -: essa ci viene dalla sua patria semita, da Israele,
attraverso la mediazione dell'ellenismo. E ciò che ben seppero i nazisti che cercarono di estirpare
il cristianesimo nell'Europa proprio per il suo carattere "straniero" ".
Un vangelo per l'Africa
Anche per lui, comunque, "restano oggi ben validi gli interrogativi di tanti nel Terzo Mondo, in
Africa soprattutto: "come può il cristianesimo diventare una nostra propria espressione? come
può entrare interamente nella nostra identità? in che misura la sua espressione culturale
precedente è obbligante? Il nostro Antico Testamento, più che la storia del popolo ebraico, non è
forse la storia dolorosa della nostra gente e delle sue forme religiose tradizionali? "".
Come giudica dunque il Cardinale le risposte che gli africani cominciano a dare a queste
domande?
Dice: "I problemi sono posti chiaramente, ma occorre dire che l'auspicata théologie africaine o
african theology è per il momento più un auspicio che una realtà. A uno sguardo attento si deve
anche dire che moltissimo di ciò che viene presentato come "africano ", in realtà è una
importazione europea e con le autentiche tradizioni africane ha molto minori relazioni che non la
tradizione cristiana classica. La quale, di fatto, si trova molto più vicina alle nozioni
fondamentali dell'umanità e al patrimonio di base della cultura religiosa umana in generale che
non le costruzioni tardive del pensiero europeo, spesso distaccate dalle radici spirituali
dell'umanità".
È una difesa, se ho capito, del valore " universale " della riflessione cristiana come è stata
compiuta in Occidente.
"Occorre riconoscere - precisa - che nessun itinerario può più portare a una situazione culturale
antecedente i risultati del pensiero europeo, diffuso da tempo nel mondo intero. D'altro lato,
bisogna anche riconoscere che non esiste la tradizione africana "pura" in quanto tale: essa è
molto stratificata e pertanto - a seconda dei vari strati e anche delle diverse provenienze - è
talvolta contraddittoria".
Ora, continua, "il problema di che cosa è autenticamente africano (ed è dunque da difendere
contro la falsa pretesa di universalità di ciò che è soltanto europeo) e il problema, viceversa, di
ciò che pur venendo dall'Europa è davvero universale; ebbene, questi problemi non sono affidati
soltanto al ragionamento degli uomini ma - come sempre anche al criterio della fede della Chiesa
che giudica tutte le tradizioni, tutti i patrimoni socio-culturali, i nostri come gli altrui. Inoltre,
bisogna guardarsi da scelte e decisioni affrettate: il problema non è soltanto teorico, per risolversi
ha bisogno anche della vita, della sofferenza, dell'amore di tutta la comunità credente. Tenendo
sempre presente il grande principio cattolico oggi dimenticato: non i singoli teologi ma la Chiesa
tutta intera è il soggetto della teologia".
Si sa di qualche inquietudine della Congregazione di Ratzinger per la creazione di una "Unione
Ecumenica" dei teologi africani, che raccoglie studiosi autoctoni di tutte le confessioni.
"L'Unione dei teologi cui si riferisce - dice pone in effetti qualche interrogativo: c'è qui il rischio
(oggi del resto riconoscibile anche in altre iniziative in diverse parti del mondo) che, nella ricerca
di una dimensione " ecumenica " venga dimenticato il valore della grande unità cattolica a favore
di circoscritte comunità culturali nazionali. Presso una simile Unione non è da escludere che. la
comunanza di ciò che sembra "africano" metta in ombra la comunanza di ciò che è cattolico.
Tutto questo malgrado l'Africa - lo ripeto - sia continente di tale complessità da non poter essere
rinchiuso in uno schema generale".
Da varie parti e da tempo - anche presso alcuni vescovi cattolici - si caldeggia l'ipotesi di
convocare un grande Concilio africano.
"Sì, ma questa idea non ha ancora una fisionomia precisa. Essa è stata diffusa inizialmente dalla
Unione dei teologi di cui parlavamo e ha nel frattempo trovato adesioni (sia pure con gli
opportuni ritocchi e precisazioni) anche presso alcuni vescovi. L'America Latina, con le riunioni
di Medellin e di Puebla, ha mostrato in concreto che il lavoro dei vescovi di un continente può
dare un contributo sostanziale alla chiarificazione di problemi fondamentali e a un corretto
adempimento dell'attività pastorale. Pertanto, sembra certamente possibile - a partire dalle
esperienze già compiute in altre zone - elaborare per l'idea del Concilio (o, più esattamente del
Sinodo) africano una figura giuridica e teologica che possa dargli senso pieno".
Quali i problemi che, per quanto attiene alla vasta e così viva zona africana, si trovano
soprattutto al centro dell'attenzione?
"Ci si muove per lo più nel campo della teologia morale, della liturgia, della teologia dei
sacramenti. Così, vengono discussi i modi del passaggio dalla poligamia tradizionale alla
monogamia cristiana. Inoltre, i problemi della forma di celebrazione del matrimonio e
l'introduzione delle tradizioni africane nella liturgia e nella pietà popolare".
Cominciamo con la poligamia. Qual è il problema al riguardo?
"È evidente che la conversione di poligami al cristianesimo comporta problemi difficili sia dal
punto di vista giuridico che umano. Al proposito, è importante non confondere la poligamia con
la libertà sessuale, così come viene intesa oggi nel mondo occidentale. La poligamia è
un'istituzione regolata a livello giuridico e sociale, in cui vengono stabilite delle modalità precise
di rapporto tra uomo, donna e bambini. Tuttavia per la fede cristiana si tratta di un modello
eticamente insufficiente, nel quale non si rende pienamente giustizia alla verità del rapporto
uomo-donna. Recentemente, però, è stata sviluppata (soprattutto da parte di teologi europei!) la
tesi secondo cui anche la poligamia potrebbe costituire un modello cristiano di matrimonio e di
famiglia. Di contro, i vescovi africani e la maggioranza dei teologi vedono molto bene che questa
non sarebbe una positiva "africanizzazione" del cristianesimo, ma piuttosto l'arrestarsi in una
fase dello sviluppo sociale superata dal vangelo".
E quanto agli altri problemi?
"Se, nel caso della poligamia, si tratta di una discussione con gruppi marginali, benché
aggressivi, è invece molto più serio il problema del legame tra la forma sacramentale del
matrimonio cristiano e la stipulazione del matrimonio secondo gli usi tribali. Se ne è discusso
ampiamente anche al Sinodo dei vescovi del 1980 e la ricerca di un'adeguata soluzione al
problema deve continuare. Sta prendendo poi sempre maggior rilievo il dibattito se il culto degli
antenati debba essere introdotto, in qualche sua forma, nella struttura cristiana della fede. La
venerazione dei santi e la preghiera per le anime del purgatorio creano in proposito dei punti di
contatto, che permettono un dialogo fruttuoso. Si discute anche in quale misura e in qual modo
elementi della tradizione locale possano entrare negli altri sacramenti, oltre che nel matrimonio".
" Uno solo è il Salvatore "
Abbiamo parlato dei missionari di ieri e di cattolicesimo già impiantato, pur con tutti i suoi
problemi. In questi anni di postconcilio, però, sembra che il dibattito abbia investito le ragioni
stesse dello sforzo attuale della Chiesa verso i non cristiani. Non è certo un mistero che una crisi
di identità, magari una caduta delle motivazioni, ha infierito con particolare crudezza tra i
missionari.
La sua risposta non è priva di preoccupazione: "è dottrina antica, tradizionale della Chiesa che
ogni uomo è chiamato alla salvezza e può di fatto salvarsi obbedendo con sincerità ai dettami
della propria coscienza, anche se non è membro visibile della Chiesa cattolica. Questa dottrina
che (ripeto) era già pacificamente accettata, è stata però eccessivamente enfatizzata a partire
dagli anni del Concilio, appoggiandosi a teorie come quella del "cristianesimo anonimo". Si è
così arrivati a sostenere che c'è sempre la grazia se uno - non credente in alcuna religione o
seguace di qualunque religione - si limita ad accettare se stesso come uomo. Secondo queste
teorie, il cristiano avrebbe in più soltanto la consapevolezza di quella grazia che, comunque,
sarebbe in tutti, battesimo o no. Sminuita l'essenzialità del battesimo, si è poi portata un'enfasi
eccessiva sui valori delle religioni non cristiane, che qualche teologo presenta non come vie
straordinarie di salvezza ma addirittura come vie ordinarie".
Questo, a che conseguenza ha portato?
"Simili ipotesi hanno ovviamente allentato in molti la tensione missionaria. Qualcuno ha
cominciato a chiedersi: " Perché disturbare i non cristiani inducendoli al battesimo e alla fede in
Cristo, visto che la loro religione è la loro via di salvezza nella loro cultura, nella loro parte del
mondo? ". In questo modo si è dimenticato tra l'altro il legame che il Nuovo Testamento instaura
tra salvezza e verità, la cui conoscenza (lo afferma Gesù in modo esplicito) libera e quindi salva.
o, come dice san Paolo: " Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità ". La quale verità, prosegue subito l'Apostolo, consiste nel sapere che
" uno solo è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù che ha dato se
stesso in riscatto per tutti " (1 Tim 2, 4-7). È quanto dobbiamo continuare ad annunciare - con
umiltà ma con forza - al mondo d'oggi, sull'esempio impegnativo delle generazioni che ci hanno
preceduti nella fede.