lunedì 10 settembre 2012

L'unguento dolce della Misericordia



Riporto dal blog di Costanza Miriano.
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Vorrei evitare di tesserarmi anche io per lo sport nazionale – il tiro alla Chiesa – e lungi da me l’intento di criticare. Ma mi chiedo perché alcuni sacerdoti, non sta a me dire se siano la maggioranza o la minoranza, evitino di parlare ai fedeli di inferno, purgatorio, paradiso. Cioè della nostra destinazione ultima.
Ho troppo rispetto per loro per pensare che non ci credano, loro per primi, ai novissimi. Preferisco pensare che lo facciano per non allontanare, scandalizzare, anche un po’ per compensare quella che per lungo tempo è stata la tendenza opposta, cioè spaventare i fedeli con l’immagine di un Dio crudele e vendicativo, pronto a sbatterci all’inferno al primo sgarro.
Il colore spirituale degli ultimi tempi è invece, grazie a Dio, quello della misericordia, della tenerezza di un Dio che, tra tanti altri, Teresa di Lisieux, fatta da Giovanni Paolo II dottore della Chiesa, ci ha insegnato a conoscere (con santa Faustina, san Massimiliano Kolbe, Margherita Maria Alacoque, madre Speranza e tutti i santi dell’ultimo secolo).
Questo è un dono grandissimo che la Chiesa ci ha fatto, insegnarci a chiamare Dio “babbo”, abbà, come faceva Gesù, toglierci la paura, incitarci ad essere veramente liberi, e non schiavi del terrore delle pene.
Ma la misericordia ha ragione di esistere solo se qualcosa è stato perdonato. La misericordia non è indifferenza. Io posso apprezzare la misericordia solo se mi rendo davvero, profondamente conto di quello che meriterei. La misericordia non è dire “è tutto uguale, non fa niente quello che hai fatto”. Ha senso solo se ci si confronta onestamente col Vangelo, ci si rende conto di quanto se ne è lontani, e si comincia a temere il giudizio di Dio. Allora la misericordia è dolce come un unguento su una ferita.
Sono sicura che i sacerdoti che si inventano un’escatologia tutta loro – tipo “l’inferno è vuoto”, o “l’inferno è una metafora” – lo facciano con le migliori intenzioni. Ne sono certa onestamente. Quali cattive intenzioni potrebbero mai avere persone che dedicano a questo l’intera vita, rinunciando a tutto? Vogliono mostrare il volto amorevole di Dio. Ma mi chiedo se sia questo il modo giusto.
Me lo chiedo osservando i bambini, che sono molto seri quando si parla loro di morte e di destino ultraterreno. Mia figlia Lavinia se mi sfugge la locuzione “lo giuro” scoppia a piangere, per paura che io vada all’inferno (infatti ho espulso l’espressione dal mio vocabolario). Gesù ha detto che non si fa, e se lo fai sbagli, punto e basta.
Credo di dover imparare parecchio dalla serietà dei bambini, dai miei e da quelli degli altri. Domenica al battesimo della mia nipotina Teresa il parroco (il mio vecchio parroco, quello che mi ha fatto la dottrina da piccola) ha spiegato cosa stava facendo, stava introducendo Teresa alla vita dello spirito, facendola rinascere dall’alto, per opera dello Spirito Santo. I bambini lo ascoltavano rapiti, a bocca aperta. Percepivano che si stava parlando di cose grosse, percepivano la serietà del momento, e sono rimasti incantati.
Fino a quel momento la piccola Teresa era solo una figlia dell’uomo, destinata alla morte. Poi le è stato concesso di diventare figlia di Dio, e le è stata data la possibilità di salvarsi per sempre, e di arrivare alla felicità eterna. La quale non si conquista facendo la raccolta differenziata, comportandosi vagamente bene ed essendo bravi cittadini, ma solo entrando a far parte del corpo mistico di Cristo, colui che ci giustifica.
“Mi sono spiegazzato?” diceva sempre, a catechismo, il nostro don Ignazio quando le cose si facevano davvero molto serie, e bisognava aguzzare le orecchie. Ecco, questo era uno di quei momenti, e i bambini se ne sono accorti. Credo che anche i grandi potrebbero tornare bambini, in senso evangelico, se qualcuno in più avesse il coraggio di dire le cose come stanno. Credo, ma magari mi sbaglio.