sabato 1 settembre 2012

Martini: La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor

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Introduzione
Sono stato qualche giorno fa al santuario di Manoppello, in Abruzzi, nel centro Italia, dove è conservato un telo che pare sia quello della Veronica. Certamente è un'immagine straordinaria, perché non è dipinta e, vista alla luce da ogni parte, riflette il volto dolcissimo del Signore. Dopo la visita, mi hanno chiesto di lasciare un pensiero sul registro e ho scritto semplicemente: «Il Volto che contempleremo in eterno».
È il Volto che contempleremo in questi giorni, meditando il mistero della Trasfigurazione di Gesù.
Ci introduciamo cosi negli esercizi spirituali e mi rivolgo in preghiera allo Spirito Santo, chiedendogli di guidarci nel nostro cammino. In proposito richiamo due testi del Nuovo Testamento.
Il primo è dell'evangelista Matteo, là dove parla dell'apostolo consegnato nelle mani dei pagani (però la promessa di Gesù vale per tante altre occasioni): «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (10, 19-20). Queste parole mi confortano, mi assicurano che il Signore mi suggerirà quello che devo dirvi; non sarò infatti io a parlare, ma lo Spirito Santo parlerà in me. Vorrei che il testo di Matteo confortasse anche voi. Talora di fronte alla prospettiva di una settimana di esercizi, ci si domanda: cosa farò? Come passerò questi giorni? Proprio qui risuonano le parole di Gesù: non preoccupatevi per le vostre preghiere, vi sarà suggerito di volta in volta dallo Spirito Santo ciò che è giusto pensare, come adorare, lodare, ringraziare, chiedere perdono.
Il secondo testo che ci incoraggia lo traggo dalla Lettera ai Romani: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili: e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26-27).
«Ti ringrazio, Signore, perché tu conosci la nostra debolezza nel pregare, la nostra fatica, la nostra facilità a confonderci, a distrarci. Ti ringrazio perché il tuo Spirito mette in noi le attitudini, le parole, i gesti, i silenzi giusti. Ci affidiamo a te e allo Spirito Santo, per intercessione di Maria sotto la cui protezione ci poniamo per tutti i giorni dei nostri esercizi. E ci affidiamo pure alla preghiera della Chiesa, sapendo che noi siamo portati da quella preghiera, siamo soltanto una goccia del fiume di preghiera che scende verso il mare di Dio.»
Forse ricordate la splendida testimonianza del beato Cardinale Schuster sulla recita personale del breviario nei giorni in cui era affranto e privo di forze: «Allora chiudo gli occhi, e mentre le labbra mormorano le parole del breviario che conosco a memoria, io abbandono il loro significato letterale, per sentirmi nella landa sterminata per dove passa la Chiesa pellegrina e militante, in cammino verso la patria promessa. Respiro con la Chiesa nella stessa sua luce, di giorno, nelle sue stesse tenebre, di notte; scorgo da ogni parte le schiere del male che l'insidiano o l'assaltano; mi trovo in mezzo alle sue battaglie e alle sue vittorie, alle sue preghiere d'angoscia e ai suoi canti trionfali, all'oppressione dei prigionieri, ai gemiti dei moribondi, alle esultanze degli eserciti e dei capitani vittoriosi. Mi trovo in mezzo: ma non come spettatore passivo, bensì come attore la cui vigilanza, destrezza, forza e coraggio possono avere un peso decisivo sulle sorti della lotta tra il bene e il male e sui destini eterni dei singoli e della moltitudine». Parole che esprimono molto bene come la nostra è preghiera della e nella Chiesa.
Il titolo degli esercizi
A me piace dare a ogni corso di esercizi un titolo diverso, e in questa occasione ho scelto il seguente:
La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor.
Ne spiego l'origine.
Nel mese di giugno, trovandomi a Gerusalemme, ho fatto i miei otto giorni di esercizi sul monte Tabor, al fondo della pianura di Esdrelon. È un luogo paradisiaco: lì Gesù ha pregato di notte, lì si è trasfigurato, lì sono apparsi Mosè ed Elia, lì Pietro, Giacomo e Giovanni hanno voluto costruire tre tende, lì si è reso manifesto il raccordo di Gesù con il Primo Testamento e con la passione, la morte e la risurrezione. E allora mi sono lasciato attrarre da tale esperienza stupenda e ho pensato: devo continuare a meditare sull'evento del Tabor e invitare altri a farlo. Un evento importantissimo e caro in particolare alle Chiese orientali: per i monaci la Trasfigurazione è un'icona del cristiano, indica ciò che siamo chiamati a divenire. Per questo il titolo degli esercizi fa leva sulla Trasfigurazione di Gesù e sulla nostra trasformazione in lui. È un mistero bellissimo e grandissimo. In realtà, il vocabolo che traduciamo con «trasfigurazione» nel testo greco significa anche «trasformazione» o «metamorfosi», la metamorfosi di cui parla, per esempio, Paolo nella Lettera ai Romani (12, 2): «Trasformatevi rinnovando la vostra mente». La Trasfigurazione è segno, icona, appello a trasformarci in Cristo; ha un valore ascetico e spirituale assai grande, è un invito a trasfigurare la nostra vita.
Vi consiglio la lettura personale, in questi giorni, dei racconti della Trasfigurazione in Mt 17, in Mc 9 e in Lc 9; e la lettura di quel quarto racconto che si trova nella Seconda Lettera di Pietro (1, 16-19): «Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori».
Indicherò successivamente i brani collegati.
Natura, scopo, dinamica degli esercizi spirituali
È opportuno incominciare, per chiarezza, con una definizione sintetica della dinamica degli esercizi spirituali perché collocheremo in tale prospettiva la lettura e la contemplazione dei testi neotestamentari sulla trasfigurazione.
Gli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Lojola, a cui ci riferiamo, comprendono un momento di richiamo dei principi fondamentali dell'esistenza umana e cristiana; un momento penitenziale; un momento di ascolto della chiamata di Cristo; un momento di imitazione di Cristo fino alla morte e risurrezione. Il tutto nell'apertura alla grazia. Gli esercizi sono opera della grazia dello Spirito Santo: è lui che muove, è lui che prega in noi, che stimola. che ci fa da maestro. Chi detta gli esercizi è un umilissimo suggeritore di ciò che poi lo Spirito chiarisce nell'intimo dei cuori.
Con questa premessa è più facile svolgere ora una riflessione distesa e articolata sulla natura e lo scopo degli esercizi.
Sapete già che gli esercizi spirituali, come li prevede sant'Ignazio, si svolgono lungo l'arco di un intero mese. Personalmente ho fatto tre volte il Mese: all'inizio del noviziato, dopo l'ordinazione presbiterale per il terzo anno di noviziato, e infine nel 1989 in coincidenza con il mio decennio di episcopato.
Gli esercizi annuali durano invece abitualmente otto-dieci giorni, ma la natura è la stessa. Non si tratta di ascoltare alcune parole buone, alcune meditazioni, di leggere qualche passo della Bibbia, di pregare un po' di più. Lo scopo proposto da sant'Ignazio per il Mese di esercizi è di giungere a una scelta definitiva dello stato di vita, una scelta ispirata da Dio celibato o matrimonio, vita sacerdotale, vita religiosa o vita missionaria, vita nel servizio sociale, culturale, politico.
Costituiscono quindi un metodo per purificare il cuore e la mente, per sintonizzarsi con le scelte di Dio, così da decidere secondo la sua volontà e non secondo il nostro parere, la nostra emotività, le nostre ripugnanze o attrattive. È decisivo il lavoro di purificazione, per non lasciarsi trascinare da simpatie, antipatie, paure, entusiasmi facili, resistenze. Essendo un metodo di purificazione del cuore, gli esercizi sono utili anche quando la scelta definitiva è già fatta, non è più da mettere in questione, e tuttavia occorre riconfermarla o rinnovarla. Infatti le scelte per una vita pienamente consacrata a Dio o per la vita matrimoniale, restano sempre soggette a degrado, rischiano di impolverarsi e appesantirsi e vanno continuamente ripulite e rilanciate.
Ci chiediamo: in quale maniera gli esercizi portano a una scelta limpida e disinteressata? Sono tre i movimenti fondamentali.
- Il primo è quello di accettarsi e riconciliarsi con la propria storia magari nel pentimento, e però un pentimento che sia affidamento fiducioso a Dio. Talora senza accorgercene, siamo autocritici, scettici, sfiduciati, la nostra storia non ci piace oppure ha degli aspetti pesanti. Negli esercizi occorre anzitutto fare pace con noi stessi e con Dio, imparare ad accettarci come siamo. con le nostre povertà e fragilità.
- il secondo movimento ci mette a contatto con la vita di Gesù, per entrare nel mondo di Dio, nelle sue scelte, nel suo amore, nelle sue preferenze: come Dio misura le realtà di questo mondo? Come le giudica? Che cosa ritiene importante e che cosa ritiene senza valore?
- E ancora, gli esercizi ci abilitano a discernere i movimenti interiori: le emozioni, i sentimenti le inclinazioni pericolose, le resistenze, le paure, le desolazioni, le amarezze, le solitudini, le oscurità, gli sprazzi di luce, le intuizioni, il camminare nel buio. Ci aiutano a ordinarli, a chiarirli, a vederne il senso, a interpretarli, allo scopo di comprendere e scegliere ciò che Dio vuole da noi. È il cosiddetto discernimento degli spiriti, che per sant'Ignazio è nodale.
Un altro frutto o scopo degli esercizi dovrebbe essere quello della consolazione della mente, cioè l'illuminazione che trae fuori dalle piccolezze nelle quali ci impastoiamo giorno dopo giorno e ci permette di contemplare il piano meraviglioso di Dio, che abbraccia l'umanità intera, con le sue sofferenze e le sue speranze. La consolazione della mente di cui parlo è la visione intuitiva e complessiva dei misteri divini di salvezza, è quel respiro largo, profondo, che nasce in noi quando intuiamo che ogni cosa ha il suo posto nel piano di Dio, e l'abbiamo noi pure, con le nostre piccole o grandi prove, fatiche, sofferenze, oscurità. Spesso siamo concentrati, e giustamente, sull'uno o sull'altro problema, magari di carattere etico, ma il disegno di Dio è infinitamente più grande. Per Pietro, Giacomo e Giovanni la Trasfigurazione è stata proprio un'illuminazione che li ha liberati dalla paura delle contraddizioni, delle vie oscure per cui Gesù li stava guidando verso Gerusalemme; hanno compreso che era in gioco un mistero meraviglioso, la salvezza totale dell'universo, la gloria di Dio e dell'uomo.
Infine gli esercizi sono una scuola di preghiera. Ne parlerò spiegando il metodo della lectio divina e offrendo poi qualche suggerimento su come disporsi alla preghiera.
Ho evocato la natura, lo scopo e la dinamica degli esercizi e potremmo utilmente porci due domande.
In quale situazione inizio il cammino di questi giorni? Con quale stato d’animo, con quale preparazione, con quali luci dei Signore? Ciascuno ha una biografia diversa, ha trascorso l'anno in modo diverso, ha vissuto gioie, tentazioni, sofferenze diversissime.
E come vorrei uscire dagli esercizi? Che cosa mi piacerebbe aver chiarito, superato o almeno ordinato?
Rispondendo alle due domande, sarò in grado di comprendere quel «frutto speciale» che io - tu, ciascuno di noi - e non altri posso ricevere perché certamente Dio l'ha preparato per me.
La lectio divina
Ritengo fondamentale proporre per le vostre meditazioni personali la lectio divina e ne descrivo brevemente il metodo, che comprende tre gradini o passaggi.
La lectio consiste nel leggere e rileggere il testo, sottolineandone la dinamica, gli elementi portanti, le parole chiave, per capire che cosa dice il testo. La meditatio mette in rilievo i valori e i messaggi del brano e vuole rispondere alla domanda: che cosa dice a me, a noi, alla Chiesa? Infine la contemplatio: che cosa dico io a Gesù che mi parla nella pagina che ho letto? Qui inizia il colloquio con Gesù, che è il fine principale della preghiera: lo si adora, lo si loda, lo si contempla, chiedendogli, magari nel silenzio, di purificarci e di renderci simili a lui. Una preghiera che non sfocia nel colloquio è soltanto intellettuale.
Dunque la preghiera mentale meditativa e contemplativa, propria della lectio divina, consente di interiorizzare quanto si è letto e ascoltato, cosicché non scivoli via come l'acqua sulla roccia.
Ci sono evidentemente altri modi di pregare che si possono vivere bene negli esercizi. Penso alla preghiera vocale, come il Rosario, oppure alla bellissima preghiera di Gesù, nella quale la mente lascia posto al cuore, mentre si ripete, anche migliaia di volte, l'invocazione: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me peccatore».
Penso ancora al metodo molto facile che chiamo «corsa dietro motori»: quando siamo stanchi, incapaci di raccoglierci, possiamo prendere spunto per la preghiera dalla lettura di qualche pagina di un libro spirituale.
L’esercizio della lectio divina è comunque irrinunciabile e ne darò alcuni esempi. Vi chiedo in ogni caso di impegnarvi personalmente a praticare la lectio divina su tutti i testi che citerò, perché è il fondamento sicuro per vivere in pienezza questi giorni.
Come disporsi a pregare
Sant’Ignazio parla a lungo negli Esercizi spirituali di come prepararsi a entrare nella meditazione e nella preghiera. Mi ispiro dunque ai suoi insegnamenti.
Sono tre gli atteggiamenti importanti.
Anzitutto occorre circondare l'ingresso nella preghiera con un’anticamera di silenzio. Magari respirare a lungo, tranquillamente, ascoltare i rumori della natura, immergersi nel silenzio, così da non entrare nell'orazione di corsa, con fretta.
Dice sant’Ignazio: «Prima di entrare in preghiera, sedendo o passeggiando, far sostare un poco lo spirito e pensare dove si va e a che fare» (n. 239). Ricordo che quando ho fatto il terzo anno di noviziato con i miei confratelli Gesuiti, in Carinzia, a St. André, il padre maestro, un uomo di grande esperienza, dandoci gli esercizi cominciava sempre le meditazioni con queste parole: «Vor allem sich ruhig vor Gott werden lassen»: in primo luogo lasciarsi calmare, diventare tranquillo, quieto davanti a Dio.
Il secondo atteggiamento che immediatamente consegue è l'adorazione. È estremamente importante entrare in preghiera con un atto di adorazione, silenzioso o espresso a voce: «Mio Dio, io non sono nulla, tu sei tutto. Tu hai creato tutte le cose. Tu mi hai chiamato, piccolo essere e povero, a stare davanti a te. Tu mi fai il dono di parlare con te. Io ti adoro e mi riconosco indegno di stare alla tua presenza». Non di rado la nostra preghiera è fiacca perché non è stata preceduta da un'adorazione ben fatta: siamo entrati nella sfera di Dio svogliatamente, come certi ragazzi che entrano in chiesa correndo, guardando, toccando di qua e di là, incapaci di raccogliersi per pensare. Dobbiamo invece metterci in adorazione profonda e stupita del mistero inconoscibile di Dio, quasi prostrati per terra, dicendo: «Signore, io ti adoro, ti lodo, ti amo, ti riconosco come mio re, ti benedico. Tutto ciò che c'è di buono è da te. Parla, o Signore, che il tuo servo ti ascolta». Soltanto dopo potremo dedicarci all'ascolto della parola biblica.
Una terza e ultima annotazione raccomanda di entrare nella preghiera con un atto di offerta, espressa con la bocca e col cuore. «Signore, ti offro questo tempo, voglio che sia tutto solo per te, non che sia ripreso da me in alcun modo; te lo regalo, è tempo tuo, è tempo nel quale tu devi regnare, nel quale tu mi accompagni.» Come, passando per una stazione, prendiamo coscienza dei treni che partono e arrivano, così, entrando in noi stessi, noi prendiamo coscienza di tutte le nostre possibilità e le offriamo: «Gesù, ti, offro questo momento. Qualunque cosa sentirò - di aridità o di desolazione, di interessante o non interessante, di utile o apparentemente inutile non mi distrarrà da te che sei il Signore della mia vita e del mio tempo». È determinante questa offerta all'inizio di ogni meditazione. Si può anche formularla così: «In unione alla preghiera di Gesù e della Chiesa, ti offro, Padre, la mia preghiera. Vale poco, ma tu puoi riempirla con la tua grazia». Sant'Ignazio propone prima di ogni meditazione l'orazione preparatoria, che «consiste nel chiedere grazia a Dio nostro Signore affinché tutte le mie intenzioni, azioni e attività siano puramente ordinate al servizio e alla lode della sua divina maestà» (n. 46).
Naturalmente, offrendo noi stessi, possiamo offrire tutte le persone che conosciamo e amiamo, tutta la Chiesa, tutto ciò che si fa nel mondo per la gloria di Dio, in modo che tutto gli sia donato e reso degno di servizio esclusivo a Lui.
Quando dunque ci accorgiamo che la nostra preghiera è statica, perché non è impregnata di adorazione e di offerta, dobbiamo umilmente dire ancora una volta: «Signore, perdona la mia distrazione. Tu sai che sono qui solo per te, e desidero, voglio offrirti la povertà della mia preghiera».
Silenzio, adorazione e offerta sono tre semplici indicazioni che certamente ci aiuteranno a vivere la preghiera personale., Affidiamoci con semplicità alla Madonna, perché ci renda partecipi della sua preghiera e interceda affinché cresca in noi lo spirito di orazione e il fuoco dello Spirito Santo.


I MEDITAZIONE
Essere e tempo
All'inizio degli Esercizi, sant’Ignazio presenta una riflessione che intitola Principio e fondamento. In essa richiama le grandi verità costitutive dell'esistenza umana: «L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la sua anima» (Esercizi spirituali n. 23). Dio è il Creatore, noi siamo le sue creature, fatte per servirlo e ricercare la sua volontà come impegno più importante, superando tutte le passioni che ci potrebbero attrarre all'una o all'altra scelta, così da essere liberi e disponibili. Vorrei comunicarvi alcuni pensieri legati alla contemplazione del Principio e fondamento per ricordare due grandi parole che determinano tutto il nostro modo di concepire la realtà, da tenere distinte e unite, mentre spesso vengono confuse o identificate. In termini filosofici sono le parole essere e tempo o, se volete, metafisica e storia, oppure uno e molteplice. In termini biblici, creazione e alleanza. Esprimono due sguardi sulla realtà che sono complementari, fatti l'uno per l'altro; ma che insieme vanno distinti per non confondere i piani e commettere errori anche gravi di prospettiva.
È un po' un Principio e fondamento per il nostro tempo: riconoscere la verità dell'essere e del tempo, della creazione e dell'alleanza.
Prendiamo queste due coppie di termini - essere e tempo, creazione e alleanza, metafisica e storia -, e riferiamoci alla parola di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (17, 3).
Notiamo la duplice riflessione: conoscano te, l'unico vero Dio, il creatore, l'essere perfettissimo, la sorgente di ogni cosa, l'unico, l'indiviso, colui che ha in mano l'intera realtà del mondo, il padrone di ogni cosa; e colui che hai mandato, Gesù Cristo: evento storico, apparizione in un determinato tempo, suscitatore di energie in qualche maniera contingenti, cioè non necessariamente iscritte nella razionalità dell'atto creativo, bensì donate nella storia.
Due momenti, quindi, di conoscenza: l'essere e il tempo; l'unico vero Dio che non muta mai e colui che ha mandato, Gesù Cristo che nasce nel tempo.
Nella linea dell'essere
Nella linea dell'essere noi adoriamo l'unico e vero Dio. È la grande forza del monoteismo, ed è la forza conquistatrice del monoteismo islamico: l'unità di Dio.
L’unico vero Dio, Colui che è stato chiamato mysterium tremendum e mysterium fascinans, cioè mistero davanti al quale tremiamo e che insieme ci affascina perché non lo conosciamo, eppure ne siamo attratti. Questo è l'essere di Dio, di fronte al quale viviamo la riverenza profonda, riverenza che i musulmani esprimono chiaramente nella loro preghiera fatta per le strade, in piazza, in ogni luogo.
L’Essere perfettissimo, il Creatore, il Signore, l'Altissimo è dunque il nome di Dio. A lui si riferiscono le prime domande del Catechismo di Pio X che da bambini imparavamo a memoria: «Dio è l'Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra. Che cosa significa perfettissimo? Che cosa significa onnipotente? Che significa buono? ... ». E Dio nel suo essere immutabile, eterno, non conosce nessuna ombra, è tutto luce.
Ne conseguono gli atteggiamenti cui ho già accennato: l'adorazione di fronte al totalmente Altro; la riverenza dell'uomo che riconosce di essere un nulla davanti al Creatore che è tutto; il timore e tremore cosi spesso presenti nel Primo Testamento, al cospetto di un Dio inconoscibile che l'uomo teme di avvicinare. Da qui nasce l'obbedienza e l'osservanza della legge intesa come legge naturale, posta nel cuore di ogni uomo da Dio, che solo sa per cosa l'uomo è fatto. È quella razionalità della legge riconosciuta anche dalla modernità (ma la postmodernità la sta dimenticando), che si riferisce all'unico Dio Creatore e Signore, uguale per tutti.
Ci sono altri atteggiamenti che derivano dall'intendere Dio quale Essere supremo e perfettissimo, che regge e condiziona le sue creature. Ne richiamo tre. La gratitudine, la meraviglia di esistere: siamo dono di Dio, siamo dati a noi stessi da Lui; l'accettazione, molto nobile, del nostro limite, di tutti i limiti creaturali, in quanto hanno la loro radice in Lui; il servizio fedele.
La linea dell'essere non va mai perduta di vista, perché rimane sempre fondante e fondamentale.
Nella linea del tempo
La parola di Gesù nel vangelo di Giovanni che ho sopra richiamato è esplicita: «Che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo». Qui entriamo nella storia. Non soltanto Dio è l'Essere supremo: esiste una storia che ha il suo culmine in Cristo Gesù ed è stata preparata da una storia di salvezza che ha la sua origine in Abramo. Storia è ciò che teoricamente avrebbe potuto non essere, perché la storia è la libertà di Dio, è imprevedibile. È la libertà di Dio, è il suo amore senza limiti.
Ai nomi del Dio unico si aggiungono i nomi storici: Dio è Padre, Padre anzitutto di Gesù Cristo e Padre nostro in Gesù. E al termine creazione si oppongono, completandolo, i termini alleanza ed elezione. Elezione è un altro termine tipico della scelta storica di Dio: l'elezione di Abramo, l'elezione di un popolo.
Il concetto di elezione costituisce un'estrema difficoltà per l'uomo moderno ed è, a mio avviso, una delle motivazioni dell'antisemitismo: non si ammette che il Signore possa scegliere alcuni in favore di altri. Mentre l'illuminiamo razionale vuole l'uguaglianza di tutti e rifiuta le differenze, la storia è fatta dalla scelta di alcuni per altri; non privilegio chiuso, ma dono aperto che, se non è riconosciuto, genera invidia. Se leggiamo da questo angolo di visuale la storia di Giuseppe l'ebreo, ci accorgiamo che il dramma nasce dall'invidia per un figlio che sembra amato più degli altri. Lo stesso si verifica per il popolo ebraico: eletto per noi e respinto da chi non vuole che ci siano differenze nel piano di Dio. Di fatto il popolo ebraico viene eletto in vista dell'eletto Gesù e affinché tutti in Gesù siamo eletti.
Questo richiede appunto un concetto di storia della salvezza, di libertà di Dio, di azione libera di Dio nella storia che la modernità illuministica non ha. Richiede una percezione dell’opera dello Spirito Santo, opera che - per riferirci a noi - è tangibile negli esercizi. Non avrebbe senso cercare il proprio posto nella volontà di Dio, se non ci fosse una storia di salvezza. Gli esercizi partono dalla convinzione che Dio ha «per me» una chiamata, una missione, che ciascuno deve cercare attivamente; e lo Spirito Santo ci sta illuminando per trovarla. Siamo nella sfera dell'alleanza, dell'elezione, del dono gratuito dello Spirito.
Qui Dio assume il nome di Trinità: Padre, Figlio incarnato per noi e Spirito operante. La Trinità è colta prima nella storia e poi contemplata nella sua essenza; l'Essere di Dio è Trinità e noi lo scopriamo accettando il suo intervento nella storia. Un’accettazione non scontata: per i musulmani, ad esempio, non esiste storia di salvezza e Maometto è un semplice profeta che insegna gli immutabili comandamenti di Dio.
Non a caso la Terra Santa è un luogo significativo per la storia dell'umanità e perciò ho scelto di vivere gli ultimi anni della mia vita in questo paese, nel desiderio di dare testimonianza alla scelta storica di Dio. Egli poteva scegliere un'altra terra, ma la sua libera volontà ha scelto Israele.
Nella sua libera volontà ci sentiamo amati, scelti, eletti, chiamati a essere uno in Gesù. Tutto ritorna nell'unità di Dio con Gesù («Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te» - Gv 17, 21), ma passando per questa storia.
I comportamenti che sgorgano dai nomi storici di Dio sono non soltanto l'obbedienza, l'adorazione, la riverenza, il timore, il tremore, la gratitudine, la sorpresa di esserci: sono anzitutto la fede (accettiamo il piano di Dio), l'adesione, la fiducia (il piano di Dio è buono). Come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis, sgorga pure lo stupore, perché Dio inconoscibile e immenso si è fatto conoscere nel piccolo Gesù di Nazareth.
E se Gesù è l'eletto di Dio nella storia, noi siamo chiamati a imitarlo, a imitarlo nel silenzio, nel nascondimento, nella povertà, nel lasciare tutto per lui, dare tutto, perdere tutto per tutto ottenere. Nella razionalità della creazione ciò che conta è l'uso equilibrato dei beni della terra; nell'eccesso evangelico della storia il messaggio è,: «Va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri», un messaggio che va alla radice dell'uomo. L’uomo non è solo frutto di creazione, ma oggetto di alleanza, perché imiti Gesù; il nostro compito non è quindi semplicemente di adorare e di obbedire, è di essere in Gesù e di fare come ha fatto lui, di seguirlo.
Ho cercato di cogliere l'importanza e la pervasività di questa duplice linea interpretativa del mondo: essere e tempo, metafisica e storia, creazione e alleanza.
Se noi accettiamo questa duplicità, possiamo anche entrare nel senso della storia umana e delle sue tragedie, leggendole non come una serie di casualità fatali e drammatiche, tragiche e inevitabili, bensì come il modo con cui Dio ci purifica e, attraverso la somiglianza con Gesù crocifisso, ci porta nel suo amore e nella sua unità.
Ai nomi di Dio nella linea del tempo corrispondono, oltre ai nostri atteggiamenti, pure istituzioni libere e insieme necessarie: la Chiesa, con tutte le sue realtà sacramentali, spirituali, disciplinari ed ecclesiastiche. Essa è espressione della volontà storica di Dio di salvarci in Gesù fatto carne. Senza questo non la si coglie bene nella sua funzione. E non solo la Chiesa, ma la comunità umana unita. Perché ciò a cui tende l'alleanza è appunto tutta l'umanità redenta e riconciliata. Della sua redenzione e riconciliazione la Chiesa è il motore (colei che ne difende il progetto, lo custodisce e lo rilancia) e tuttavia essa è più ampia della Chiesa, in quanto è la realtà finale, la Chiesa diventata ormai Regno, pienezza che abbraccia tutte le nazioni.
Occorre dunque tenere insieme la dimensione metafisica e quella storica, evitando di riferirsi solo all'una o all'altra. Ciò avviene per esempio quando non si vuole ammettere alcuna regola educativa che non sia un uso regolato e proporzionato delle cose; mentre regola educativa è anche il sacrificio, la rinuncia, l'offerta. Oppure quando si dimentica che al di sotto di tutto c'è la creazione, e si pone la croce o la mortificazione quale unica regola educativa. Qui c'è l'eccesso dall'altra parte, non c'è quell'equilibrio che appunto risponde alla creazione di Dio.
Noi abbiamo bisogno di molta illuminazione, proprio perché siamo chiamati a mantenere quell'equilibrio che poi si ripercuote nella pastorale, nell'educazione dei ragazzi e dei giovani, nell'educazione della gente. Non basta educare alla preghiera, dobbiamo educare anche alle buone maniere, alla giustizia, alla cortesia, alla buona educazione, all'onestà. L’onestà, però, senza capacità di perdono a un certo punto si infrange, senza la capacità anche di rinunciare a ciò che si ha a un certo punto diviene impossibile da mantenere e diventa avarizia, desiderio smodato, orgoglio.
In conclusione, «essere e tempo» è a mio avviso principio e fondamento di una lettura sintetica della realtà, a cui ci educano gli esercizi spirituali mediante un cammino di preghiera, a cui Gesù ha voluto educare i suoi discepoli sud monte Tabor, dove la gloria dell'essenza divina si è riflessa nell'umiltà del Gesù storico.
Ho cercato di comunicarvi alcuni pensieri che mi perseguitano da parecchi mesi, nel tentativo di capire, pur rimanendo al di fuori del giudizio, la complessità della situazione storica nella quale si trova la Chiesa oggi, con la fiducia che lo Spirito soltanto ci dona momento per momento la luce e l'equilibrio, ci indica il passo giusto da compiere. Non abbiamo in proposito alcuna teoria. Gli stessi matematici e gli stessi fisici hanno rinunciato a una teoria onnicomprensiva della realtà: ritengono che la realtà vada vista o secondo la linea quantistica o secondo la linea delle vibrazioni, ma non operano una sintesi. A maggior ragione non pretendiamo di possedere chiavi interpretative teoriche noi che siamo di fronte all'Essere misterioso di Dio, al Dio nascosto e insieme rivelato dal Figlio.
Questo apparente contrasto si ripercuote nella lettura della Bibbia. Vi offro un esempio: ogni giorno prego i Salmi guardando dalla mia finestra Gerusalemme. A volte nei Salmi essa appare come visione di pace, visione di promessa, di futuro. E mi domando: dov’è questa Gerusalemme? È la Chiesa, è la Gerusalemme celeste, siamo noi che viviamo la pace di cui parla il salmista; però non senza legame con questa città storica. Non posso abbandonare una delle due parti del dilemma: c'è la Gerusalemme storica, che persevera chiamata da Dio per entrare nella pace; e c'è la Gerusalemme celeste che già scende dal cielo e nel nostro cuore ci riempie di pace e, là dove viviamo la vita cristiana fervente, è già esperienza di pace definitiva. Leggendo i Salmi ci accorgiamo spesso che la mente oscilla tra l'una e l'altra realtà. Allo stesso modo non riusciamo a pensare alla Trinità senza oscillare tra l'unità di Dio e la trinità delle persone, perché il mistero supera il nostro intelletto e presiede a quella complessità che è il mondo, chiamata però all'unità piena nel Cristo risorto e glorificato, che riporterà tutto il regno al Padre. L’escatologia restituirà certamente l'unità; intanto noi viviamo ancora lacerati e spesso paghiamo cara questa lacerazione anche nella nostra pastorale, nel rapporto con le persone. Non sappiamo mai bene se è il momento della misericordia o il momento della giustizia più rigida, dell'esigenza legale; se é il momento di dire: ti comprendo, pazienza, o il momento di dire: questo non va.
È solo la grazia dello Spirito Santo che volta per volta ci aiuta a vivere con pace questi dilemmi.


II MEDITAZIONE
«Salì sul monte a pregare»
Ci avviamo ad affrontare la pericope della trasfigurazione. La leggeremo per intero nella versione lucana, anche se in questa meditazione e in seguito ci riferiremo liberamente. e non secondo un metodo strettamente scientifico, alle versioni dei sinottici. Per completezza richiamo comunque in sintesi le accentuazioni specifiche dei tre racconti.
Matteo, il cui vangelo è composto da cinque grandi discorsi come cinque sono i libri della Torah, i sacri libri della Bibbia che rappresentano il cuore del giudaismo, vede nel Tabor il nuovo monte Sinai e in Gesù il nuovo Mosè che dà la Legge, cioè il Discorso della montagna.
Marco, diversamente, legge nella Trasfigurazione semplicemente una epifania gloriosa del Messia nascosto, per mettere in luce il tema centrale della sua narrazione che è il paradosso di Gesù inviato di Dio e umiliato, incompreso, respinto dagli uomini.
Luca invece coglie nell'evento del Tabor primariamente un'esperienza della preghiera di Gesù, preghiera profonda, ardente, trasformante. Infine, la quarta testimonianza, quella della 2 Pt, vede nell'episodio un momento storico della glorificazione di Cristo in opposizione alle speculazioni gnostiche che prevedevano chissà quali apparizioni future. Il tema sottolineato non è la Trasfigurazione, bensì la voce risuonata sul monte santo, la voce del Padre che proclama Gesù suo Figlio prediletto. Soltanto Pietro parla di monte santo, e nella Scrittura il monte santo è il Sinai, oppure Sion, Gerusalemme.
La pericope della Trasfigurazione
«Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlarne con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui. Pietro disse a Gesù: "Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia". Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura. E dalla nube usci una voce, che diceva: "Questi é il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo". Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto» (Lc 9, 28-36).
Consideriamo anzitutto l'episodio nel suo insieme: collocazione nel contesto dei vangeli, brani evangelici a cui rimanda, importanza della pericope nella tradizione della Chiesa.
* La pericope della Trasfigurazione è al centro del Vangelo in tutti i sinottici. Segue immediatamente la confessione di Pietro, il primo annuncio della passione, le condizioni per seguire Gesù. Costituisce dunque un'unità con il racconto del riconoscimento da parte di Pietro di Gesù come il Cristo, è la risposta divina alla confessione dell'apostolo; è un punto cardine della narrazione evangelica. Da quel momento gli eventi precipitano verso la passione. Sembra addirittura che nella Chiesa antica si fosse pensato che l'evento del Tabor precedesse di quaranta giorni la passione. Non a caso la festa liturgica della Trasfigurazione si celebra il 6 agosto fin dal secolo VII del calendario bizantino e questa data è stata sempre mantenuta da tutta la Chiesa. Anzi, è una delle poche feste che cadono nelle stesso giorno sia per l'Oriente che per l'Occidente. Notate che ci sono quaranta giorni dal 6 agosto al 14 settembre, data della Esaltazione della Croce, quasi a significare che la Trasfigurazione prepara la proclamazione di Gesù crocifisso.
* Quali altri testi richiamano l'evento del Tabor? Di per sé in nessun brano Gesù si presenta sotto forma glorificata prima della risurrezione.
C'è tuttavia un testo molto simile al nostro e che, letto in parallelo, ne evidenzia più chiaramente la posizione centrale. È la pagina del Battesimo di Gesù: «In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si senti una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto"» (Mc 1, 9-1 1). Anche qui Gesù è in una condizione di gloria, diversa da quella ordinaria: si aprono i cieli, discende su di lui la colomba e la voce del Padre ricorda la voce della Trasfigurazione.
Un secondo racconto da leggersi in parallelo mi piace chiamarlo «la defigurazione» di Gesù, quando il suo volto appare triste come la morte: è la scena commovente del Getsemani. Sono presenti Pietro, Giacomo e Giovanni e il volto di Gesù, luminoso nella Trasfigurazione, si oscura (Mc 12, 32-42; Mt 26, 36-46 e Lc 22, 39-46). Certamente, e lo prova la tradizione iconografica, per noi è più facile contemplare il volto di Cristo sofferente e crocifisso che non quello di Cristo glorioso, perché più affine alla nostra esperienza di sofferenza. Ma i due volti si richiamano: in tanto comprendiamo il volto defigurato in quanto lo contempliamo come lo stesso che si trasfigura.
È utile collegare alla Trasfigurazione un terzo episodio, la conclusione dei vangelo di Matteo, dove Gesù afferma: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (28, 18). È una rivelazione più grande di quella del Tabor. Là il potere dato in cielo e in terra era velato; qui la sua potenza universale si rivela esplicitamente.
Da ultimo segnalo per la vostra lettura personale i racconti della risurrezione. Mt 28, 3, così come Mc 16, 5 e Lc 24, 4 parlano degli angeli avvolti in bianche vesti, che ricordano Gesù sul Tabor, con la veste bianca come nessun uomo potrebbe farla, a dire che la risurrezione è anticipata nella Trasfigurazione.
Partendo dalla nostra pericope è quindi possibile esplorare tanti altri passi evangelici.
* La Trasfigurazione sul monte ci parla di un mistero così sublime che si ha quasi paura ad avvicinarlo. Sarebbe necessario forse avere il cuore e la voce della Chiesa d'Oriente, che ha parlato a lungo di tale mistero, come ho sopra accennato.
Cito almeno un'omelia armena del V secolo, di un certo Eliseo, nelle cui parole si avverte tutto il commosso entusiasmo per lo stesso luogo fisico dove si situa l'evento: «[ ... ] vi parlerò dell'aspetto delizioso di quel monte. Ci siamo andati personalmente e l’abbiamo visto con i nostri occhi e non da soli e separatamente, ma con numerosi compagni. Parecchi di loro volevano trattenersi sul monte, non per la forza di un desiderio carnale, bensì per tenero amore di Cristo. Là infatti abita una moltitudine di fratelli ammirevoli, guidati più dallo spirito che dal corpo [i monaci che abitavano sul Tabor già nel IV-V secolo; sul monte si vedono i resti dei loro monasteri]. Se qualcuno considera quel luogo dal punto di vista della ricerca di godimenti corporali, esso già gli appare più grazioso di tante visioni di montagne. Innanzitutto perché è situato in una grande pianura della terra di Galilea, senz'altra montagna in prossimità. È circondato da sorgenti naturali di acqua, vi crescono frutti saporiti di varie specie [...]. L’ascesa per il sentiero che ha preso il Signore è molto diretta. Chi desidera fare l'ascesa per pregare salirà facilmente. Quando uno sale alla sommità reale del monte, gli appare chiaramente la piana intera nelle sue diverse parti. Tutta la varietà della regione presenta giustapposti villaggio a villaggio, podere a podere [oggi i kibbutzim ebraici hanno ricostituito lo stesso scenario, davvero bello a vedersi dalla cima] con diverse città in mezzo ad essi. La cima del monte poi è incavata, concava e c'è su di essa qualche raro albero, ma la terra è molto fertile.»
Così gli antichi amavano il luogo dove si è svolto l'episodio che vogliamo meditare.
Un episodio molto amato anche da Paolo VI, di cui desidero leggere due testi particolarmente significativi in proposito. Il primo è tratto dall'omelia che aveva preparato per l'Angelus del 6 agosto 1978, giorno in cui morì: «Quella luce che inonda il Cristo trasfigurato è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo "partecipi della natura divina" (2 Pt 1, 4)». Il secondo è tratto dal Pensiero alla morte: «Ecco mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce [pensa al Tabor]. In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa [del mondo] è un riverbero, è un riflesso della prima e unica Luce... un invito alla visione dell'invisibile Sole. quem nemo vidit umquam: unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, Ipse enarravit (Gv 1, 18). Così sia, così sia».
Comprendiamo di essere di fronte a una pericope che ci supera da ogni parte e ci mettiamo, umilmente, al servizio della Parola, lasciando che penetri nei nostri cuori.
«Signore, insegnaci a pregare!»
Ci riferiamo ora in particolare alle prime parole del racconto lucano: «Prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto» (Lc 9, 28b-29a). Questi versetti ci sollecitano a riflettere sul tema della preghiera, così nodale negli esercizi, e sulla preghiera di Gesù, nel desiderio di imparare da lui.
La preghiera era il respiro della sua vita, e perciò pregava sempre. Ha pregato tante volte sulle montagne della Galilea, passava le notti in preghiera: ha pregato in solitudine nella notte prima di chiamare gli apostoli (Lc 6, 12-16); ha pregato nella notte dopo la moltiplicazione dei pani (Mt 14, 23). E alla preghiera sul Tabor chiama come testimoni i tre discepoli più fidati, che saranno poi testimoni nel Getsemani.
Possiamo contemplarlo in preghiera mentre gli apostoli ne ammirano la devozione, la riverenza, l'adorazione. la concentrazione, la calma, il silenzio. D'un tratto ecco la luce che lo illumina completamente, con una luminosità senza paragoni. Forse gli apostoli gli ripetono la domanda che altre volte gli hanno posto e che facciamo nostra: «Signore, insegnaci a pregare! Noi vorremmo poter pregare come te». Di fatto Gesù rivela il mistero della preghiera pregando, e noi abbiamo molto bisogno di imparare a pregare, a entrare in quel mistero.
C'è un aspetto della preghiera che mi colpisce molto. Mi colpisce che sia l'espressione della prima alterità, del primo incontro con un «tu». Il pensiero moderno e contemporaneo ha superato il primato del soggetto individuale da cui tutto dipende, e ha riconosciuto che l'uomo è soggetto perché è interpellato ed è soggetto morale perché é di fronte al volto di un Altro. È un'acquisizione della teologia e della filosofia contemporanee - da Martin Buber, a Levinas, a Mancini e a molti altri -, ed è ormai accettata, in quanto fonda veramente una morale: l'essere di fronte all'altro, l'essere per l'altro. Siamo esseri morali e umani in relazione, e la prima relazione è quella con Dio, che è la più profonda, la più alta, la più coraggiosa, la più ardita perché non lo vediamo.
La preghiera, quindi, è l'espressione spontanea della nostra alterità di fronte a Dio e dell’alterità di Dio di fronte a noi. È a un «tu». Alcuni anni fa ho promosso a Milano una «Cattedra dei non credenti» sul tema: La preghiera di chi non crede, nella convinzione che la preghiera è ben più profonda dell'intelligenza teoretica della fede. Anche chi brancola nel buio, sente il bisogno di rivolgersi a un «tu». Nella preghiera ci definiamo come creature, partner di Dio, figli o chiamati a essere figli, persone fornite di dignità inalienabile.
Pur se la preghiera può assumere forme molto semplici, talora banali, ripetitive, pesanti, tuttavia nel suo mistero è l'essere dell'uomo davanti all'Essere, é davvero qualcosa di formidabile.
In questi giorni di ritiro non ci viene chiesto un esercizio di preghiera perfetta, bensì di lasciarci trascinare dalla preghiera di Gesù sul monte Tabor.
Vogliamo inoltre, e giustamente, fare memoria degli insegnamenti di Gesù e dei suoi esempi concreti.
Gli insegnamenti sono affidati specialmente a Mt 6, 5-13: non moltiplicare le parole, non pregare ostentatamente, perdonare. Notiamo l'accento posto nei versi 5-6 sulla solitudine e, in Mt 7, 7-11, sulla perseveranza. Insegnamenti che ritroviamo in Lc 11, 1-13, dove si riprendono passi di Matteo esortando alla fiducia, perché saremo esauditi grazie alla nostra insistenza, e in 18, 1-5 - la parabola della vedova importuna e del giudice iniquo - che invita alla perseveranza e alla fiducia. Notiamo che anche l'evangelista Giovanni invita alla confidenza: «Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io lo farò» (14, 14); «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo concederà» (15, 16).
Gli insegnamenti di Gesù sono molto semplici: non ostentazione, solitudine, perseveranza nel chiedere, fiducia, perdono delle offese. Il tutto riassunto nel Padre Nostro, che è al centro del Discorso della montagna (Mt 6, 9-13) e vi invito a pregarlo personalmente fermandovi qualche momento su ogni parola, come suggerisce sant'Ignazio.
Sottolineo a questo punto alcuni esempi della preghiera di Gesù, lasciando a voi di contemplarli con la grazia dello Spirito Santo.
- Gesù prega perdendosi tutto nell'abbandono fiducioso al Padre, prega rivolgendosi sempre al Padre e vuole che lo imitiamo.
- Prega con profonda riverenza, espressa per esempio nel suo buttarsi a terra al Getsemani. Ha un atteggiamento di grande adorazione, un senso vivo della propria umiltà come uomo di fronte a Dio.
- Vive la preghiera con la certezza assoluta di essere esaudito. Viene alla mente il passo di Gv 11, là dove esclama, prima della risurrezione di Lazzaro: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto» (vv. 41 b-42 a).
- Ancora, prega lodando e benedicendo il Padre, come attestano le splendide parole in Mt 11, 25-26: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te».
San Paolo inizia tante sue lettere con la formula di benedizione: «Benedetto sia Dio, Padre ce Signore nostro Gesù Cristo».
- Contemplando la preghiera di Gesù, possiamo imparare a porci di fronte a Dio consapevoli della nostra creaturalità. Egli parla al Padre come Figlio e insieme come uomo che tutto ha ricevuto dall'alto e perciò di tutto ringrazia.
- Infine ricordo la stupenda preghiera cosiddetta sacerdotale di Gesù, la più lunga riportata dagli evangelisti. Sono tre le intenzioni per cui prega.
È interessante che si rivolga al Padre anzitutto per sé: «Alzati gli occhi al cielo, disse: "Padre, è giunta l'ora. Glorifica il Figlio tuo [... ]. Glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse"» (Gv 17, l. 5). E noi possiamo dire così: Padre, glorifica il Figlio tuo. Glorifica il tuo Figlio che non è amato, è sconosciuto, disprezzato. emarginato. Dona anche a noi di glorificarlo.
Il secondo oggetto della preghiera sono i discepoli: «Padre, io prego per loro» (v. 9), perché li conservi nell'unità (Cf v. 11), perché non siano fagocitati dal mondo ma, pur rimanendo nel mondo, ne siano chiaramente distinti (Cf vv. 15-16).
È una preghiera straordinaria; e noi siamo chiamati a vivere nel mondo, ma comportandoci secondo valori e criteri diversi.
La preghiera di intercessione di Gesù si estende poi fino a noi: «Prego per quelli che per la parola dei discepoli crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa» (vv. 20-21). Il trovarci qui in comunione è già realizzazione della bellissima preghiera di Gesù.
Possiamo dunque confrontarci con gli insegnamenti e gli esempi di Gesù.
«Attraici, Gesù, nel tuo cuore, fa’ che la nostra preghiera sia una cosa sola con la tua, e questo per la tua gloria e per essere liberati dal maligno. Insegnaci a entrare nella tua coscienza di orante, nel tuo spirito di preghiera, affinché la nostra vita sia trasfigurata insieme alla tua e la luce che hai irradiato sul monte irradi almeno un poco dalla nostra vicenda quotidiana, a beneficio delle persone che amiamo e a servizio della Chiesa.»


III MEDITAZIONE
Le tentazioni del monte
Leggiamo nel vangelo di Marco: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli »(9, 2); e il vangelo di Matteo racconta: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (17, 1).
Il «monte» è un simbolo formidabile nella Bibbia: è il luogo dove solevano avvenire gli incontri con Dio, dove Mosè ha ricevuto la Legge e ha conosciuto più profondamente il mistero divino, dove Elia ha incontrato il Signore e ne ha ascoltato la voce. E noi, idealmente, ci troviamo sul monte, nel desiderio di incontrare Dio in maniera nuova, di penetrare più intimamente nel suo mistero.
Siamo «appartati», tratti fuori dal consorzio umano quotidiano mettendo da parte tutte le nostre attività. Ancora, siamo «soli»: ciascuno di noi è chiamato a vivere in solitudine la vocazione di questi esercizi.
«Signore, che ci hai voluti qui perché potessimo conoscerti meglio, lasciando la realtà di ogni giorno e accettando una solitudine contemplativa, aiutaci a vivere il dono che nasce dal tuo cuore, che sgorga dall'amore di Dio per noi.»
Nella solitudine abbiamo contemplato gli esempi di Gesù in preghiera, e ci accorgiamo di quanto sia distratto e superficiale il nostro pregare, sperimentiamo le nostre paure a restare con lui sul monte, in rapporto intimo col Padre, scopriamo che il peccato è resistenza alla luce che viene dal volto dei Risorto.
Sono le stesse resistenze che emergono nei tre discepoli sul Tabor, e vorremmo tentare di comprendere i versetti evangelici attraverso la lectio divina.
Sonno, confusione, paura:
le tentazioni dei monte
Luca annota: «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» (9, 32).
Il sonno è un aspetto misterioso della preghiera di Pietro e dei suoi compagni, e indica una caratteristica del nostro pregare. Non si tratta solo del sonno fisico che, pur se dobbiamo vincerlo e superarlo, non è troppo negativo. Ricordiamo che Teresa di Gesù Bambino soffriva di sonnolenza nella preghiera e nonostante questo offriva se stessa a Dio.
L’accenno del brano va più in profondità e qualifica la nostra preghiera come svogliata, pesante, perché ci accontentiamo dell’esteriorità, senza entrare col cuore nelle parole che esprimiamo e senza lasciarci coinvolgere. È spesso una preghiera che resiste a quella dedizione e a quell'abbandono propri della preghiera di Gesù. Nel sonno della preghiera dei discepoli viene fotografata la fatica, la ripugnanza a impegnarsi nel cammino della preghiera con perseveranza.
Ritengo importante riconoscere umilmente, durante gli esercizi, le nostre fragilità: «Signore, certe volte ho le ali ai piedi, il tempo passa rapidamente e penso che pregare sia facile. Ma quando desidero entrare in una preghiera perseverante e profonda, avverto che è lotta, lotta per conoscere e contemplare il tuo volto, e che sono incapace di sostenerla. Aiutami, Gesù, a vincere la mia mortalità e peccaminositá, a non rassegnarmi ad essa».
L’atteggiamento del sonno è menzionato di nuovo dall'evangelista Luca al capitolo 21, nel discorso escatologico, dove emerge che si tratta di una situazione di fondo: «State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo» (vv. 34-36).
Queste parole di Gesù descrivono quell'appesantimento che non permette di cogliere il senso di ciò che sta accadendo, che si lascia sorprendere dagli avvenimenti esteriori, magari negativi, dolorosi, e brancola nel buio; e vi oppongono la condizione di chi invece veglia e sta in piedi davanti al Figlio dell'uomo. Se siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo riconoscere che purtroppo il sonno è molto radicato in noi.
Diceva in proposito don Giuseppe Dossetti, uomo di grande preghiera: non andate a raccontare alla gente che la preghiera è facile, perché è lotta profonda con Dio, è lotta contro satana.
Di solito nei giorni di esercizi giunge il momento in cui prendiamo coscienza che il pregare urta contro resistenze ancestrali, profonde: il non fidarci di Dio, il non abbandonarci a Lui, il volere sempre cercare noi stessi, il nostro comodo, il nostro vantaggio. Mentre la preghiera, come ho già detto, è arrendersi a Dio, sacrificarsi e offrirsi gratuitamente a Lui. Viene alla mente l'affermazione dello scrittore russo
Solov'ev: «La fede senza le opere è morta e la preghiera è la prima opera».
Se non abbiamo mai sperimentato la ripugnanza, la fatica nell'orazione, significa che siamo rimasti a un livello assai superficiale, oppure che abbiamo pregato soltanto quando ne avevamo voglia.
L’evangelista Luca evidenze una seconda caratteristica dell'incapacità di pregare dei discepoli, espressa al capitolo 9 v. 33c: «Egli non sapeva quel che diceva». Il riferimento è alla proposta di Pietro: «Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Ella» (v. 33b).
Pietro e i suoi compagni sono mentalmente confusi, smarriti. Di fronte al mistero ineffabile di Dio che toccano così da vicino, non sanno come reagire, non capiscono che cosa significhi, non sono all'altezza dei doni spirituali che ricevono, non se ne rendono conto, non li sanno valorizzare. Chi è chiamato a una vocazione di dedizione al Signore al servizio della Chiesa nel celibato, a dare tutto per il Regno, riceve di fatto grandissimi doni che non sempre sa cogliere nella loro forza, per cui non si considera amato dal Signore, prediletto come lo è in realtà. E la tentazione di banalizzare questi doni è continua.
Un altro modo di banalizzarli è il pensare che siano nostri e ci siano dovuti, dimenticando che, essendo dono dall'Alto, possono venir meno. Talora per esempio vogliamo mantenere, possedere, prolungare artificialmente uno stato di preghiera gioioso, ricco di sentimenti, di parole, bello e luminoso; ma la devozione nella preghiera è pura grazia e possiamo restarne privi.
La terza difficoltà dei discepoli è la paura «ebbero paura» (Lc 9, 35). È la paura che Dio mi chieda troppo, quasi mi sopravvalutasse, quasi volesse qualcosa che non è alla mia portata; è la paura di penetrare nel mistero della volontà del Padre che ci può portare fino alla croce. Penso all'esperienza dell'aridità, della nudità e addirittura della sembianza di morte nella preghiera che ciascuno di noi fa quando si confronta con il proprio peccato e la propria nullità.
Sono queste le sottili tentazioni che prendono i discepoli di Gesù nel momento in cui si sentono chiamati a partecipare, sull'alto monte, alla sua preghiera, cioè a una preghiera profonda, intensa, spirituale, impegnativa. Le abbiamo considerate appunto nella lectio e meditatio di alcuni versetti dell'evangelista Luca.
* Suggerisco allora due piste di contemplatio per il nostro esercizio di preghiera personale.
- Anzitutto possiamo raccontare a Gesù il nostro desiderio di imparare a pregare come lui: come facevi a trascorrere in preghiera lunghe notti? Come hai passato la notte prima della chiamata dei discepoli (Lc 6, 12-16) e la notte di preghiera sul lago dopo la moltiplicazione dei pani (Mt 14, 23)?
È bello entrare in colloquio con lui che prega e contemplarlo, perché questa contemplazione ci purifica e ci nutre, mette in luce che la sua preghiera è davvero distante dalla nostra.
Sarebbe bello inoltre unirci spiritualmente agli apostoli nel cenacolo e ascoltare, nell'ultima preghiera di Gesù prima della passione, con quale tenerezza, con quale padronanza di sé, con quale riverenza e insieme con quale sicurezza si rivolge al Padre.
- In secondo luogo, suggerisco di contemplare gli apostoli nella loro fatica a pregare, e di chiedere a Pietro, Giacomo e Giovanni: che cos'era il sonno che vi opprimeva? Perché eravate confusi al punto di non sapere ciò che dicevate? Aiutatemi a capire le mie difficoltà nel pregare, insegnatemi a parlarne con Gesù.
«Gesù Signore, solo tu conosci la mia fatica nel pregare, quanta ne ho fatta in quell'occasione e in quell'altra. Eppure ti ringrazio, Signore, perché più di una volta mi hai introdotto nella preghiera, mi hai permesso di godere di momenti di luce.»
È molto utile raccontare a Gesù la nostra preghiera, la nostra pochezza, le nostre fatiche, i nostri desideri: «Gesù, tu sai che vorrei tanto pregare, vorrei tanto contemplare il tuo volto bellissimo e luminoso, come l'hanno contemplato visivamente alcuni santi. Donami di dimenticare tutto per restare sempre con te».
Ricordiamo però sempre che, se è giusto umiliarci della nostra povera preghiera e domandarne perdono, è importante prima di tutto fare compagnia al Signore che prega. Ricordo di aver trascorso molto tempo sul Tabor proprio ripetendo al Signore: Signore, come pregavi qui? Donami di capire come vi passavi il tempo in preghiera e rendimi partecipe di questo tuo mistero.
Rivolgiamoci anche alla Madonna, testimone della preghiera a Nazareth, di Gesù bambino e adolescente, affinché ci illumini sulla preghiera del suo Figlio e sulla nostra. Così, a poco a poco, entreremo nel dono di preghiera che il Signore ha in serbo per ciascuno di noi in questi esercizi.
Soli sul monte, solidali con tutti gli uomini
Abbiamo terminato la lectio divina e ora vorrei prolungare la meditazione a partire dalla solitudine sul monte con Gesù. Non è una solitudine disincarnata, perché portiamo in noi tutto un mondo, col desiderio e l'impegno di intercedere. Il nostro stare «in disparte», in silenzio contemplativo, non è in contraddizione con la domanda che mi sono posto: quale mondo c'è in noi oltre a quello della nostra personale biografia? Un duplice mondo: il mondo ecclesiale e il mondo sociale.
Anzitutto il mondo ecclesiale. Portiamo con noi le nostre parrocchie, i confratelli, il nostro decanato, la nostra diocesi. Portiamo con noi il presente, il futuro e il passato: le sofferenze, le gioie, le umiliazioni, le difficoltà, i peccati, gli eroismi, i santi della nostra Chiesa. Non possiamo separarci da queste realtà.
Portiamo con noi la Chiesa universale: il Papa, i vescovi, i presbiteri e i missionari, il cammino ecumenico delle Chiese, l'impegno di convergere insieme verso Gesù - cattolici, protestanti, ortodossi -, l'impegno per il dialogo interreligioso. Portiamo con noi speranze, paure, timori, e non possiamo prescinderne nella preghiera, pur senza menzionarli esplicitamente.
E poi c'è il contesto attuale del mondo socio~politico. Le tragedie del mondo sono le nostre, tragedie che hanno avuto un momento drammatico l'l1 settembre del 2001, con lo scoppio inaudito del terrorismo, a cui è seguita una stagione di violenze che non accenna a finire.
Definirei il problema nodale dell'universo umano con un interrogativo: come riuscire a convivere tra diversi, evitando di distruggerci a vicenda, anzi comprendendoci e aiutandoci? È il grande dilemma su cui sta o cade il futuro dell'umanità. Siamo diversi per religione, etnia, cultura - oriente e occidente, nord e sud, cristiani e islamici, cristiani e buddisti, europei e non europei, tribù africane - ed è difficile coabitare senza disprezzarci, o ignorandoci. È giocoforza imparare a coabitare per un comune amore, fermentandosi vicendevolmente e aiutandoci gli uni gli altri a diventare più autentici. Vorrei quasi dire che l'impegno per coabitare così è più importante dello stesso dialogo interreligioso ad alti livelli.
Comunque, ogni nostro personale superamento di barriere è superamento delle barriere che oggi minacciano di stravolgere l'esistenza degli uomini. Vivendo a Gerusalemme, sono testimone dei dolori e dei drammi che produce l'incapacità dei diversi a vivere insieme nello stesso territorio. E noi siamo chiamati a essere apostoli e ministri di riconciliazione, perché non camminiamo solo per noi stessi o per un nostro perfezionamento morale.
Un secondo elemento del contesto attuale va tenuto presente: il cosiddetto conflitto di interessi. La società si rivela sempre più incapace di gestire lo scontro fra gli interessi privati, di clan, di gruppo, di nazione e gli interessi generali del bene comune. È una minaccia che rischia di far crollare le civiltà. Del resto le guerre che abbiamo vissuto e da cui siamo circondati nascono da conflitti di interesse, dall'incapacità a capire che il bene comune è il più alto dei beni.
Il terzo elemento è l'incertezza crescente su come si deve resistere al male, è il dramma increscioso delle democrazie contemporanee e Giovanni Paolo II ne ha parlato più volte.
Resistere opponendo forza a forza? Resistere con la forza della legge? Che cosa significa il principio dell'apostolo Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12, 2 l)? Come è trasferibile questo principio in democrazia? E come si può introdurre il perdono cristiano nella legge umana?
Ho cercato di delineare il contesto ecclesiale e sociale per ricordarci che, mentre siamo sul monte con Gesù, dietro a noi c'è un mondo che attende; e noi possiamo renderlo migliore con tanti piccoli gesti di preghiera, di perdono, di amore, di sacrificio. Il Cristo trasfigurato ci chiama a medicare con il suo aiuto le malattie mortali di questa umanità.
«Ti consegniamo, Signore, le pesantezze e i peccati nostri e della Chiesa, sentendoci solidali con le pesantezze e i peccati di tutti gli uomini. Sii tu per noi forza che vince ogni paura, pace che supera ogni divisione, luce che dissipa le oscurità nostre e del mondo.»


IV MEDITAZIONE
Le tentazioni della pianura
Vogliamo soffermarci oggi sulle tentazioni della pianura, i difetti e i vizi della pianura, quelli che riguardano le realtà più quotidiane. Questa meditazione, insieme alla precedente, ci prepara anche a un momento importante degli esercizi, quello della confessione sacramentale, del riconoscimento delle proprie colpe davanti a Dio, che ci rinnova consentendoci di contemplare il volto risplendente di Gesù senza occhi accecati, senza paure e senza confusioni.
Mi sembra utile partire da una delle numerose icone della Chiesa d'Oriente che rappresentano la scena della Trasfigurazione. È l'icona di Teofane il Greco che risale al XV secolo ed è chiamata «Trasfigurazione di Novgorod». È molto bella.
In alto si vedono tre figure: Gesù completamente bianco come la luce, sfolgorante come il sole, alla sua destra e alla sua sinistra Mosè ed Elia. Si trovano su tre picchi rocciosi, dove è difficile rimanere, a dire che lo stare sulla montagna non è un adagiarsi sull'erba, bensì un resistere su picchi di roccia dura e arida; comporta quindi una fatica, un rischio, richiede coraggio ed equilibrio.
È pure significativo guardare i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. Colpisce che, oltre ad essere spauriti e intimiditi di fronte alla luce abbacinante di Gesù, sono addirittura sconvolti. Uno è precipitato all'indietro, rovesciato con la testa all'ingiù, e si copre la faccia con le mani. Sembra dirci: non capisco niente, è troppo per me, non mi raccapezzo, non riesco a guardare la gloria di Gesù. Probabilmente è l'apostolo Giacomo. In mezzo sta un altro, forse Pietro, che è invece piuttosto pensoso e si copre la bocca con la mano. Non guarda Gesù, ma riflette tra sé e sé: non so che cosa sta accadendo, il Signore mi sopravvaluta, mi chiama al di, là di ciò che posso comprendere. È quindi pieno di timore, pieno di paura. Mentre il terzo discepolo, Giovanni, ha più coraggio nel guardare Gesù, pur essendo ancora timoroso. È inginocchiato, riverente, ma con la mano sembra esprimere al Signore il desiderio di entrare nella sua luce.
Mi ha colpito il fatto che gli iconografi consideravano questa esperienza sublime e sconvolgente nello stesso tempo. E io penso che la resistenza dei tre discepoli fosse dovuta alle tentazioni della montagna, e insieme alle tentazioni e ai peccati della pianura. Si sentivano, in altre parole, attratti dalla carnalità, dalla mondanità; sono l'immagine di noi che, quando cerchiamo di entrare nella preghiera, ci accorgiamo della nostra povertà, carnalità e mondanità e abbiamo bisogno della grazia di Dio per essere purificati e illuminati.
Chiediamo allora al Signore di farci conoscere questi vizi della pianura, che sono dentro la nostra psiche e rendono prigioniero il nostro cuore, impedendoci anche soltanto di iniziare la salita sul Tabor. Quand'anche non fossimo coscienti di peccato grave, saremmo sempre sotto la schiavitù e la pesantezza di tali difetti. Guardiamoli perciò in faccia con molto coraggio.
E lasciamoci guidare di nuovo da Gesù, richiamando l'inizio del vangelo di Giovanni: «Mentre Gesù era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel sue nome». La gente si entusiasma, lo riconosce come un uomo straordinario, si sente attratta e tuttavia l'evangelista aggiunge: «Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo» (2, 23-25). La frase è misteriosa, ma ci fa pensare: «Signore, tu sai quello che c'è in ogni uomo, quello che c'è in me. Fammelo conoscere, perché possa comprendere la mia debolezza e affidarmi totalmente alle tue braccia misericordiose».
Vi propongo di leggere qualche brano evangelico che descrive in quale modo Gesù sa e rivela ciò che c'è nel nostro cuore.
«Dal cuore dell'uomo»
Anzitutto un passo di Matteo: «Poi riunita la folla, Gesù disse: "Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo!". Allora i discepoli gli si accostarono per dirgli: "Sai che i farisei sono scandalizzati nel sentire queste parole?". Ed egli rispose: "Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata. Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!". Pietro allora gli disse: "Spiegaci questa parabola '. Ed egli rispose: "Anche voi siete ancora senza intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e va a finire nella fogna? Invece ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l'uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l'uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l'uomo"» (1 5, 10-20).
Nel verso 10 c'è la questione del puro e dell'impuro, cioè di quelle cose che, toccate, rendono impura una persona. Gesù spiega alla folla: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo». Rovescia in tal modo la prospettiva: l'impurità non entra nell'uomo dal di fuori, bensì è dentro di lui e da dentro esce.
Particolarmente significativo in proposito è il verso 19: «Dal cuore infatti provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l'uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l'uomo». La vera impurità nasce dal cuore e da esso provengono le azioni malvagie: sono proprio i vizi della pianura, cioè quelle trasgressioni che sconvolgono il vivere sociale (omicidi, adulteri, prostituzioni, furti, falsa testimonianza) e il vivere religioso (le bestemmie). Tali trasgressioni vanno smascherate e superate prima dì salire sulla santa montagna; Pietro, Giacomo e Giovanni sono così sconvolti di fronte alla visione di Gesù luminoso perché hanno ancora dentro di sé pesantezze di questo tipo.
Notiamo che nel testo parallelo di Marco si parla addirittura di dodici tentazioni negative della pianura. L’elenco è più lungo e articolato che in Matteo in quanto, come sappiamo, quello di Marco é l'evangelo del catecumeno, di colui che ha la prima istruzione cristiana. È normale che nella prima istruzione ci si dilunghi sui vizi della pianura, propri del catecumeno prima di cominciare il cammino verso la fede, e nei quali all'inizio può ancora essere impigliato.
«Gesù soggiunse: "Ciò che esce dall'uomo questo sì contamina l'uomo [ci fa del male, ci rovina, ci insozza, ci sporca, ci rende peccaminosi]. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo » (Mc7,20-21).
Commento brevemente l'elenco di Marco.
Desideri disordinati
In questo elenco, che sarebbe interessante approfondire, c'è una sorta di ordine.
Anzitutto i peccati più visibili, esteriori, quelli che rovinano maggiormente e visibilmente la convivenza umana: fornicazioni, adulteri (che rovinano la vita di famiglia), furti, omicidi (che rovinano la vita sociale, il rapporto di fiducia tra le persone). Quattro peccati che corrodono, rompono il tessuto sociale della famiglia, della vita economica e della vita di relazione.
Seguono quattro tentazioni e atteggiamenti più interiori, che però sono in qualche maniera molto pericolosi, in quanto radice degli altri: cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia. Tutto quel desiderare malvagio, tutto quel gusto di ingannare gli altri, quella falsità interiore che poi si traduce in peccati esterni e, pur se non visibile, deturpa, rovina, devasta il cuore della persona.
Che cosa si intende per impudicizia? Mentre fornicazione e adulterio si riferiscono ai peccati sessuali esterni (rapporto sessuale con una persona non sposata e rapporto sessuale con una persona sposata), l'impudicizia si riferisce probabilmente alla sensualità non ben regolata, quindi a tutte le tentazioni di impurità che agitano il cuore, anche se non si manifestano chiaramente in fornicazione e adulterio; sono le più invisibili, le conosce chi le vive, ma scuotono dal di dentro l'ordine della purezza e della sensualità. Così come le cupidigie, le malvagità e l'inganno rompono già dal di dentro quella capacità di relazione fiduciosa, fedele, benevola, onesta. altruista che costituisce il rapporto umano.
Davvero Gesù conosce profondamente il cuore dell'uomo, sia nei vizi che rovinano la società al di fuori, sia nei vizi che rovinano la personalità al di dentro.
«Cupidigia» è un termine che la Bibbia usa molto sovente, e lo troviamo anche nel Decalogo («non concupire»): è il desiderio disordinato e abbraccia la totalità dei desideri irragionevoli. È il desiderio di possedere anche contro il bene degli altri, di essere assolutamente i primi, di vendicarsi. L’uomo è fatto di desideri, e possono essere ragionevoli e buoni, come il desiderio di Dio, il desiderio di servire gli altri, di vivere l'altruismo. Possono però essere desideri centrati su di sé. La cupidigia è il desiderio autoreferenziale, per cui uno desidera ad ogni costo ciò che fa comodo a lui, magari calpestando gli altri.
Il cuore indurito
Importante soprattutto è la terza serie di vizi elencati da Marco: «invidia, calunnia, superbia, stoltezza». Se i primi otto vizi riguardano per lo più una società disordinata e sfrenata, gli ultimi quattro toccano da vicino persino le comunità religiose, le parrocchie, le Chiese; sono atteggiamenti che rischiamo dolorosamente di fare nostri. È vero che nessuno di noi può dire: non cadrò mai nell'impurità, nella fornicazione, nell'adulterio. Quante volte invece succede! Tuttavia gli ultimi quattro vizi si riscontrano più frequentemente nella vita associata buona e sono rovinosi. Elencandoli per ultimi, Gesù ci fa capire quanto conosce il cuore dell'uomo. Li riprendo brevemente.
- L’invidia è il disgusto per il bene altrui ed è di casa pure nel mondo clericale: quel prete fa meglio di me, predica meglio di me, ha più seguito di me. E sorge così il disagio, la critica, la maldicenza. L’invidia è purtroppo un peccato molto comune e sottile, non palese come la fornicazione e l'adulterio; però inquina, è una specie di veleno che, quando entra in una comunità, la rovina.
Ricordo due esempi terribili. Secondo i vangeli della passione, Pilato capiva che gli avevano consegnato Gesù per invidia, perché faceva troppi miracoli, aveva troppo successo, parlava meglio di molti altri. Perfino un pagano come lui intuisce che si tratta di invidia. Il secondo esempio è la morte di Pietro a Roma. I documenti antichi sul martirio dell'apostolo sembrano indicare che fu denunciato alle autorità pagane per invidia di alcuni dei suoi.
Dei resto in ciascuno di noi scatta questo sentimento, quando vediamo un altro più lodato e più ammirato. Siamo fatti così, è la nostra debolezza; il rischio è che può portare a maldicenze. a calunnie, a denunciare l'altro, a parlarne male.
- E la calunnia, conseguenza diretta dell'invidia, inquina la comunione, in quanto è capace di creare sospetto e paura. Molti santi sono stati vittime della calunnia. Ricordo almeno il fondatore dei Missionari del Sacro Cuore, Daniele Comboni, recentemente dichiarato santo da Papa Giovanni Paolo II. Fu il primo arcivescovo dell'Africa centrale e ha dato inizio all'evangelizzazione di quel continente. Uomo di grandissime vedute e di un coraggio straordinario, incorse in gravi calunnie: di nutrire un affetto disordinato per una suora, di aver usato illegittimamente il denaro ricevuto per le elemosine e di altri comportamenti riprovevoli.
- La superbia. Mi ha colpito molto la definizione di un ragazzo a cui avevano chiesto che cos'è superbia e cosa vanità. Ha risposto: vanità è quando io continuo a dire: piaccio io a te? Superbia è quando dico: piaci tu a me? Il vanitoso ha bisogno di piacere agli altri, di essere lodato e sostenuto, è interessato al giudizio che viene dato su di lui perché pensa sempre di non essere all'altezza. E la vanità fa compiere molti errori. Il superbo é assai peggio, vive una forma esasperata di autoreferenzialità. Ritenendosi superiore, pretende che tutti lo riconoscano, non vuole essere giudicato da nessuno, giudica tutti e si mette al posto di Dio. Non a caso sant'Ignazio di Loyola, nella seconda Settimana degli Esercizi colloca la superbia al grado più alto dei vizi.
Nella Chiesa talora esiste questa superbia, questo gusto di essere padre-padrone, di piegare gli altri alla propria volontà, di far valere l'autorità magari in modi imperiosi. Purtroppo è diffusa in ogni ambito della convivenza umana la tentazione molto violenta e sottile di impadronirsi del potere, magari di un potere spirituale sulle anime, che porta a creare un gruppo di seguaci. Gesù invece ha sempre vissuto come colui che serve.
- Da ultimo Gesù elenca la stoltezza bene espressa da alcuni episodi biblici.
Uno è quello dei discepoli di Emmaus che, camminando con Gesù, gli raccontano quanto è avvenuto a Gerusalemme, lamentandosi perché le promesse del Maestro non si sono avverate. E Gesù dice loro: «O stolti e tardi di cuore a credere!» (Lc 24, 25). Dunque la stoltezza è non fare i conti con Dio, agire come se Dio non ci fosse.
Ne parlano spesso i Libri sapienziali e i Salmi a cominciare dal Salmo 1: «Beato l'uomo che non siede in compagnia degli stolti» (1, 1).
Ancora un altro esempio di stoltezza lo troviamo nella parabola di Luca al capitolo 12: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: farò così: demolirò tutti i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (vv. 16-20). Quest'uomo ha fatto i conti senza Dio, ha vissuto come se Dio non ci fosse. È un difetto grande del mondo di oggi: vivere facendo continuamente progetti, anche tecnologici, politici, dimenticando che la storia è nelle mani di Dio.
Gli elenchi dei vizi della pianura sono molti nella Scrittura. Viene alla mente un testo della Prima Lettera di Pietro (4, 1-4): «Poiché Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane, ma alla volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale». Enuncia per così dire il Discorso della montagna: essere morto con Cristo, vivere una vita come quella di Gesù, rompere del tutto col peccato. Successivamente richiama i difetti della pianura: «Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli». Sa bene che i suoi cristiani vengono da questo ambiente, hanno rotto con la mondanità che però sempre li minaccia.
Conclusione
Vorrei concludere con tre indicazioni.
- La prima. Nessuno di noi dica: queste cose non mi riguardano. La psicologia del profondo ci insegna che nei meandri del nostro cuore albergano tutti i vizi e domani possiamo cadere nell'adulterio, nella menzogna, nella calunnia, nell'invidia, addirittura nell'omicidio. Dobbiamo saperlo per non spaventarci e non smarrirci, dobbiamo sapere di avere in noi queste inclinazioni, che sono sempre alla porta anche se per grazia di Dio non abbiamo peccato.
- La seconda. Nessuno dica: mi accontento di tenere a bada i peccati e le tentazioni. Non basta, perché se non voliamo alto cadremo, se non ci sforziamo di salire sul monte con Gesù saremo sempre un po' schiavi dei nostri vizi. È legge spirituale inesorabile che se l'uomo non tende più in alto cade più in basso; la tensione spirituale è tipica di ogni cammino di ricerca evangelica.
Quante volte incontrando i diaconi negli anni del mio servizio episcopale a Milano dicevo loro: il celibato, la verginità per il Regno può essere vissuta solo in un clima di intensità spirituale, che permette di superare gli ostacoli e di non cadere nel tran tran quotidiano.
- La terza indicazione. Per questo siamo chiamati a contemplare il volto splendente di Gesù sul monte. Lui solo può darci le ali ai piedi con cui superare le tentazioni gravi e sottili che riguardano l'intenzione profonda del cuore, perché la sua grazia è strapotente.
Giustamente san Giovanni della Croce insegna che la purificazione attiva è insufficiente se non ci lasciamo trasformare, contemplando il volto del Crocifisso risorto, dalla purificazione passiva, attraverso le diverse forme di via purgativa che il santo descrive.
Potremo allora raggiungere la purezza profonda di cuore, il distacco dal desiderio di successo mondano, di essere applauditi, la vera umiltà.
Il Padre celeste ci renda degni di irradiare sul nostro volto la luce di Gesù trasfigurato e risorto.


V MEDITAZIONE
La trasformazione di Gesù
Finora siamo rimasti un po' ai margini del mistero della Trasfigurazione. Abbiamo piuttosto riflettuto sulle difficoltà dei discepoli a coglierlo, sia che fossero le resistenze della montagna, sia che fossero i vizi della pianura. A questo punto dobbiamo finalmente prendere coraggio e guardare ciò che avviene sul monte, quindi rivivere il mistero della trasformazione di Gesù, sul quale la Chiesa ha riflettuto per secoli, mistero che ci introduce nei disegni di Dio. E faremo, come vi ho indicato nella metodologia generale, una lectio, leggendo i dati del testo, per poi procedere con la meditazione sui valori e sui messaggi (meditatio), cosi da entrare nella contemplatio, nel dialogo con Gesù che si manifesta nelle parole della Scrittura.
Rivivere il mistero
I vangeli di Matteo, Marco e Luca, considerati nel loro insieme, ci presentano, nell'episodio molto ricco e molto articolato del Tabor, cinque elementi: Gesù stesso, Mosè ed Elia, la menzione dell'esodo di Gesù a Gerusalemme, la nube luminosa, la voce dal cielo.
* Anzitutto Gesù. Cosa si dice di Gesù? Si dice che si trasforma: «Gesù si trasfigurò davanti a loro» (Mc 9, 2; d Mt 17, 2). Abbiamo già ricordato che il verbo greco significa di per sé «si trasformò» ed è tradotto con «si trasfigurò» a indicare la particolarità di tale trasformazione. L’evangelista Luca si esprime diversamente e parla del volto di Gesù: «Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto» (9, 29), cioè il suo volto divenne altro mentre pregava. Il mistero del Tabor è mistero di preghiera, in cui Gesù prega e insegna a pregare.
Il suo volto, continua Matteo, risplende come il sole. Durante i miei esercizi mi sono accorto che l'esperienza della luce sul Tabor è straordinaria, perché il sole risplende in maniera diversa più chiaramente che altrove: al mattino come rosso fuoco, a mezzogiorno risplende come luce quasi bianca, alla sera assume altre sfumature ancora. Ciò che gli apostoli hanno visto è appunto il trasformarsi del suo volto come il sole.
La trasformazione riguarda pure le vesti che diventano, dice Matteo, bianche come luce e risplendenti di un tale biancore, dice Marco, che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle tanto bianche. Luca aggiunge una notazione: «Videro la sua gloria».
Dunque Gesù si trasforma, il volto diventa altro, risplende come il sole, i vestiti sono bianchi come la luce, di una bianchezza sfolgorante, e appare nella sua gloria.
È un fatto del tutto nuovo, che gli apostoli non avevano mai sperimentato, ma che deve averli impressionati profondamente, per cui fanno quasi fatica a descriverlo. Gesù nella sua gloria effonde gioia, fiducia, letizia, sicurezza, serenità.
* Un secondo elemento dell'episodio. Sul monte ci sono, come abbiamo detto, Mosè ed Elia. Parlano con Gesù e sono anch’essi avvolti di gloria (cf Lc v. 31). È interessante la presenza di questi due personaggi, che non viene spiegata.
Forse ci saremmo aspettati altre figure bibliche: per esempio Isaia, profeta e scrittore molto noto (Elia non ha scritto nulla) o Davide, il grande re d'Israele. In realtà, Mosè ed Elia sono entrambi famosi per la teofania di Dio sul monte Sinai e inoltre rappresentano la Legge e i Profeti, concretamente tutto quanto nelle Scritture riguarda Gesù. La mente degli apostoli si allarga perciò dalla figura di Gesù alla totalità del Primo Testamento.
Ricordiamo in proposito l'ammonimento di Gesù ai due discepoli di Emmaus, delusi nelle loro speranze: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè a tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 2527). Ancora in Lc 24 (v. 44) avverte gli apostoli: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Un altro brano interessante, tratto dagli Atti degli Apostoli, riguarda l'incontro del diacono Filippo con l'eunuco etiope. Filippo, spinto dallo Spirito, lo raggiunge mentre, sul suo carro da viaggio, ritorna da Gerusalemme dove si è recato per il culto, e lo interroga: «Capisci quello che stai leggendo?». L’eunuco, che sta leggendo un passo del profeta Isaia, ne chiede a Filippo la spiegazione: «Di quale persona dice questo: "Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca'?». A partire dal brano di Isaia, Filippo gli annuncia allora «la buona novella di Gesù». Il messaggio dei profeti racchiude dunque in sé, anticipandolo, il messaggio di Gesù. Segue il battesimo: «Proseguendo lungo la strada, giunsero a un luogo dove c'era acqua e l'eunuco disse: "Ecco qui c'è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato?". Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell'acqua, Filippo e l'eunuco, ed egli lo battezzò» (cf At 8, 36.38). Entra in Gesù pienamente.
E che cosa fanno Mosè ed Elia? Si intrattengono con Gesù: «Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia che conversavano con lui»; «Apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù» (Mt 17, 3; Mc 9, 4).
In conclusione, la visione si allarga a Mosè ed Elia e ci fa intravedere in Gesù la sintesi del Primo Testamento.
* Il terzo elemento dell'episodio, l'esodo di Gesù, è presentato più specificamente da Luca: «Apparsi Mosè ed Elia nella loro gloria, parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 3 1). Sappiamo quanto il termine esodo sia carico di significato per gli ebrei: è l'uscita dall'Egitto, la liberazione del popolo, l'evento che ancora oggi ricordano nella Pasqua, l'evento fondatore della loro identità. Mosè ed Elia alludono all'esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme; c'è quindi una pienezza nella vita di Gesù che ancora non si è compiuta nella storia del popolo ebraico, ma che per lui si realizzerà a Gerusalemme.
È certamente un modo discreto di indicare la sua morte e risurrezione, il mistero pasquale quale compimento del disegno di salvezza.
* Un quarto aspetto. I tre discepoli, rimasti finora solamente in contemplazione di quanto è avvenuto, adesso vengono coinvolti nella nube: «Una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra» (Mt 17, 5). È interessante ed è qualcosa di simile al fenomeno che ancora oggi avviene sul Tabor. Siccome il monte si trova nella pianura di Esdrelon e fino al mare non c'è impedimento, pur essendo abbastanza lontano, talvolta arrivano delle nuvole dal mare e ci si trova immersi nella nebbia, che rimane tuttavia luminosa perché c'è il sole. È il fenomeno che i discepoli vivono: una nube luminosa. Essa indica lo Spirito Santo, quello stesso Spirito che, secondo il vangelo di Luca (1, 35), copre con la sua ombra Maria. I discepoli entrano nell'ombra santa che è lo Spirito.
Sempre Luca racconta che i tre furono pieni di paura (cf 9, 34); è una nube che da una parte è luminosa e dall'altra intimorisce.
* Il quinto elemento del racconto è la voce dal cielo.
Cosa dice la voce? L’espressione più completa è di Matteo: «Ed ecco una voce che diceva: "Questi è il Figlio mio prediletto, che ha tutto il mio favore. Ascoltatelo (17, 5). Marco riporta le stesse parole, senza l'aggiunta: «che ha tutto il mio favore» (9, 7). In Luca si legge: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (9, 35). E Pietro, dal canto suo, riporta l'insieme della frase senza l'esortazione «ascoltatelo» (cf 2Pt 1, 17-18).
Viene subito spontaneo il paragone (l'abbiamo già ricordato all'inizio) con la voce del Battesimo, voce del Padre, che scende dall'alto: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17); «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1, 11); «Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 22).
Qual è la differenza tra le due proclamazioni Ambedue concordano nel sottolineare che Gesù è il Figlio, il Figlio amato, il Figlio in cui il Padre si compiace. L’aggiunta nuova della Trasfigurazione è: «ascoltatelo». A dire: lui sta veramente presentando al mondo l'immagine del Padre.
Abbiamo riletto l'episodio nel suo nucleo centrale, che riguarda più direttamente Gesù, tralasciando altri particolari.
Passando alla meditatio ci domandiamo: quali valori ci comunica il brano, quale messaggio per noi?
Preannuncio della gloria
Il messaggio è talmente ricco che va elaborato a poco a poco. Ho pensato di esprimerlo considerando l'evento da tre punti di vista: dalla parte di Gesù, dalla parte degli apostoli, dalla parte della Chiesa.
1. Che cosa rappresenta la Trasfigurazione per Gesù? - È una promessa e un’anticipazione della sua gloria. Egli ha vissuto finora una vita molto umile, molto povera, quasi trascurata dagli altri; certamente ha compiuto miracoli e la folla gli è corsa dietro, ma a un certo punto si è ritirata perché le sue esigenze erano troppo alte. Gesù dunque sta vivendo un momento di solitudine, di abbandono da parte della gente. Ed ecco che il Padre interviene quasi a incoraggiarlo: è destinato alla pienezza della gloria. Per Gesù il momento della Trasfigurazione mostra quella gloria che è già in lui, pur se non è ancora manifestata.
- Inoltre per Gesù l'evento del Tabor è un sostegno di fronte alla passione che lo attende- è un aiuto alla sua umanità sapere che non sarà abbandonato nella sofferenza dei Getsemani, perché gli è dato sul monte di prevedere la sua risurrezione e ascensione.
- Da ultimo questo episodio è rivelazione della Trinità. Gesù appare come il Figlio, la voce del Padre lo dichiara Figlio e la nube dello Spirito lo copre della sua gloria.
Siamo di fronte a un testo nodale, chiave di tutti i vangeli, un testo di cui dovremmo sempre nutrirci per allargare i nostri orizzonti su Gesù. Noi siamo troppo tentati di lasciarci frammentare dalla quotidianità: facciamo una cosa, poi ne facciamo un'altra, magari cose buone, però banali e ripetitive, e ci lasciamo sbriciolare, logorare dalla piccolezza quotidiana. Persino i preti, i vescovi, i religiosi faticano ad alzare lo sguardo e a vedere l'insieme del mistero di Dio, incalzati dalle urgenze, dai problemi, dalle necessità. Gesù ci invita a contemplare il significato globale, a considerare come tutto ciò che si compie in lui rivela il Padre, rivela la gloria di Dio, la forza della risurrezione. È una rivelazione che ci permette di non rimanere schiacciati dagli avvenimenti, contenti perché una piccola cosa va bene, depressi perché un'altra va male. La visione di fede ci fa contemplare Gesù nei gesti quotidiani, perché in essi il Figlio manifestava il Padre, nella gloria dello Spirito. È la rivelazione trinitaria dell'agire della Chiesa e dell'agire di Gesù.
Concludendo: Gesù viene confermato nella sua missione. Certo la gente che lo ascoltava poteva pensare: davvero Dio è con lui? Se è con lui, non dovrebbe permettere che sia criticato e abbandonato. La risposta è nella voce dal cielo: questi è il mio Figlio prediletto, in lui mi sono compiaciuto. È una rivelazione che la vita umile di Gesù piace al Padre e rivela il Padre stesso.
2. Cerchiamo allora di richiamare il significato dell’episodio dal punto di vista degli apostoli.
- Potremmo dire che per loro l'evento è sorgente di una grande consolazione intellettuale. Anch’essi, come noi, venivano tentati di lasciarsi chiudere nelle critiche, nelle mormorazioni, in tutto ciò che costituiva la quotidianità, poco rilevante; sul monte sono invitati a leggere nelle piccole cose la grandezza del mistero di Dio che si rivela. Agli occhi della fede, nulla più nella nostra vita è banale, niente è mediocre, niente ci rende impazienti, perché cogliamo il senso profondo di tutto. E una consolazione intellettuale, nella quale si gode di capire il senso di tante prove, sofferenze, oscurità. Si comprende che tutto ha un senso.
- Un secondo significato per gli apostoli è che si sentono sostenuti nelle loro prove. Quando essi nel Getsemani vedranno Gesù soffrire, triste fino alla morte, si ricorderanno che di lui il Padre ha detto di compiacersi. La sua debolezza e la sua sofferenza sono per la vita, hanno un senso positivo.
E ancora i tre discepoli contemplano Gesù quale centro e vertice del disegno di Dio. È il culmine del Regno, è colui nel quale si riassume il significato di tutta la storia, di tutto l'universo. Tutto guarda a lui, tutto tende verso di lui, tutto si risolve e si sintetizza in lui.
- Inoltre gli apostoli comprendono che Gesù è il centro delle Scritture, porta a compimento Mosè e i Profeti (l'abbiamo ricordato parlando di Mosè e di Elia).
Per questo la Chiesa primitiva non ha mai abbandonato le Scritture ebraiche, benché sia stata una tentazione ricorrente. Marcione è stato uno dei primi a teorizzare l'opportunità di dimenticare il Primo Testamento, ritenendolo pieno di pagine oscure e incomprensibili. La verità terribile è che se la Chiesa si distaccasse dalle Scritture e dal popolo ebraico, taglierebbe le sue radici, perché la Chiesa non è se non l'ebraismo portato a compimento. Oggi, dopo tante persecuzioni e soprattutto dopo il tentativo nazista di sterminare gli ebrei, comprendiamo meglio che la Chiesa non può fare a meno del popolo ebraico, che è fondata su di esso, che siamo inseriti (come dice Paolo) in questa radice santa, che c’è una continuità inscindibile tra popolo ebraico e Chiesa.
Confesso che, se ho scelto, dopo aver concluso il servizio episcopale a Milano, di vivere a Gerusalemme, è proprio perché voglio esprimere il legame della Chiesa con Israele. Noi cristiani non possiamo staccarcene, non possiamo ignorarne l'esistenza, non possiamo dire: tutto comincia da noi. No, tutto comincia da loro; Gesù è un ebreo, è l'ebreo che riassume la pienezza del suo popolo e noi siamo, attraverso di lui, inseriti in questo popolo. Vorrei anche citare alcune frasi che scrisse Giovanni Paolo Il, per l'intervista con Vittorio Messori pubblicata nel 1994, a proposito delle sue relazioni con il mondo ebraico: « Torno col ricordo al periodo del mio lavoro pastorale a Cracovia. Cracovia, e specialmente il quartiere Kasimierz, conservano molte tracce della cultura e delle tradizioni ebraiche. A Kasimierz, prima della guerra, c'erano alcune decine di sinagoghe, in parte grandi monumenti della cultura. Come arcivescovo di Cracovia, ebbi intensi rapporti con le comunità ebraiche della città. Rapporti molto cordiali mi univano con il suo capo: essi sono continuati anche dopo il mio trasferimento a Roma. Eletto alla Sede di Pietro, conservo dunque nell'animo ciò che ha radici molto profonde nella mia vita. In occasione dei miei viaggi apostolici nel mondo cerco sempre di incontrare i rappresentanti delle comunità ebraiche. Ma un'esperienza del tutto eccezionale fu per me, senza dubbio, la visita alla sinagoga romana [... ]. Durante quella visita memorabile definii gli ebrei come fratelli maggiori nella fede. Sono parole che riassumono in realtà quanto ha detto il Concilio Vaticano II, e ciò che non può non essere una profonda convinzione della Chiesa [... ]. Questo straordinario popolo continua a portare dentro di sé il segno dell'elezione divina» (Giovanni Paolo Il, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, pp. 111- 112).
Il nostro rapporto con gli ebrei non è insomma uguale a quello con altre esperienze religiose, perché siamo parte spirituale di questo popolo. È un legame espresso mirabilmente nella scena del Tabor: Gesù, Mosè, Elia che parlano familiarmente; tutta la Scrittura ebraica parla di Gesù, della sua morte e risurrezione.
Dunque la nostra storia comincia da Abramo, non da Gesù. Da Adamo nella creazione di Dio ma, quanto alla elezione, da Abramo. E nella Eucaristia recitiamo: «Abramo, nostro padre nella fede». Non é poco.
- Infine l'episodio è per i discepoli una conferma della via umile del Vangelo. Le parole di Gesù nei vangeli sono molto esigenti: il Discorso della montagna, il perdono dei nemici, l'offrire l'altra guancia. l'essere misericordiosi con tutti, l'allietarsi di essere poveri piuttosto che ricchi. Ebbene, il racconto della Trasfigurazione insegna che Dio approva tutto ciò. Quel Gesù che ha pronunciato il Discorso della montagna è degno di essere ascoltato perché rivela la parola di Dio.
È la conferma divina della straordinarietà del cammino evangelico, cammino di povertà, di obbedienza, di misericordia, di perdono, di preghiera. Ed è insieme per i discepoli una promessa e una promessa della gloria eterna. Infatti Pietro esclama: «È bello stare qui!»; è la parola che diremo in paradiso, è la parola definitiva. Pietro avverte in qualche modo che «qui» è anticipata la vita eterna, perché conosce Gesù, conosce il Padre nella grazia dello Spirito, in una maniera nuova e straordinaria.
3. Quale messaggio per la Chiesa e per il cristiano? La Chiesa vede nella Trasfigurazione di Gesù il proprio cammino di trasformazione dell'esistenza umana: è chiamata a essere strumento della divinizzazione del mondo, per renderlo simile a Gesù glorioso; ha la missione di far compiere a tutti il cammino di Gesù. Una missione voluta da Dio, certa. approvata, sicura.
L’evangelizzazione consiste appunto nell'aiutare le persone a diventare come Gesù.
Per il cristiano - e lo vedremo meglio in seguito la Trasfigurazione è segno della trasformazione battesimale. Non c'è altro scopo nella vita che diventare come Gesù.
Verso la contemplatio
Vi offro qualche suggerimento per entrare in dialogo con Gesù. Siamo invitati a contemplare, a rileggere il brano e a chiedere di capirlo, a vivere in esso, ad abitare in esso, perché ci nutra, ci consoli e ci educhi.
Guardando la gloria di Gesù trasformato, possiamo ringraziare con Gesù il Padre: ringraziare per la Scrittura, per Mosè ed Elia, per la via stretta che il Signore ci ha mostrato, per la gloria che ci prepara. Sentiremo allora che Gesù ci riscalda il cuore e conferma la nostra fede, e ci aiuta a contemplare la Chiesa come l'umanità trasfigurata in Gesù.
Lasciamoci dunque attrarre dallo Spirito ne pregare, adorare, lodare, ringraziare, così che ne segua una dedizione senza limiti al cammino di Gesù verso Gerusalemme, per essere con lui, per morire e risorgere con lui nella pienezza della vita nuova.


VI MEDITAZIONE
La trasformazione battesimale

La vita della Chiesa, la liturgia e la patristica ci invitano a leggere nel mistero di Gesù Cristo trasfigurato la vicenda di ogni cristiano e la nostra personale. Dedichiamo dunque la nostra riflessione al tema della trasformazione battesimale.
Al riguardo ricordo che in molti Paesi del mondo si è vissuta e si vive una drammatica e straordinaria esperienza di quanto può valere il battesimo, perché tante persone hanno rischiato e rischiano la loro vita per aver chiesto di essere battezzate.
Divido la meditazione in due parti: il battesimo e la Trasfigurazione; la trasformazione battesimale in Rm 12 e in 1 Pt 1, 22-2, 3, così da avviarci alla lettura di passi battesimali dei Nuovo Testamento.
Il battesimo e la Trasfigurazione
Come leggiamo il nostro battesimo nell'episodio della Trasfigurazione? Contemplando tre simboli che la Chiesa greca ha valorizzato (il fulgore del volto di Gesù, la sua veste candida, la nube) e ascoltando la voce.
* Anzitutto il volto di Gesù. È utile richiamare i versetto nel testo greco: «kaì metemorphóthe émprosthen autón, kaì élampsen tò prósopon autoù hos o hélios», «e si trasformò Gesù davanti a loro e rifulse il volto di lui come il sole» (Mt 17, 2a). È la prima immagine.
Il verbo «rifulse» (élampsen) evoca subito che lo stesso verbo occorre ben due volte in 2 Cor 4, 6: «Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo». Il rifulgere del suo volto nella Trasfigurazione richiama la creazione della luce e richiama la luce del volto di Cristo risorto che si riflette sul nostro volto. Il battesimo è quindi l'illuminazione del volto. Premendo l'etimologia, possiamo dire che «viso», in italiano, è connesso alla parola «visione», che indica un modo di vedere la vita e non solo semplicemente un'apparizione. In inglese «vision» si riferisce a un maniera complessiva di leggere il reale, alla percezione positiva e programmatica di un cammino. Il battesimo è appunto l'apertura degli occhi, che permette di considerare la vita e la storia come presenza del regno di Dio.
* Continua il testo greco di Matteo: «tà dè himátia autoû eghéneto leukà hos tò phós», «e le vesti di lui divennero bianche come la luce» (17, 2b). Nella simbologia biblica le vesti bianche risplendenti indicano le opere del cristiano, le opere di cui parla lo stesso Matteo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli
uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (5, 16). Sono le opere luminose e inappuntabili dei santi, delle quali nessuno può dire male. Il battesimo trasforma sia la visione che le opere. Anche nell'Apocalisse la veste bianca è simbolo delle opere. Come esempio ricordiamo la Lettera alla Chiesa di Sardi: «Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti» (cioè non si sono resi colpevoli di opere malvagie e idolatriche); «essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti» (Ap 3, 4-5). E di nuovo in 6, 11: «Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo A numero dei loro compagni di servizio».
Il battesimo trasforma sia la visione che le opere, sia la mentalità che l'agire dei cristiano.
* Il terzo simbolo è la nube che avvolge i discepoli; entriamo così nell'azione dello Spirito Santo che prega, ama e loda nel battezzato, spingendolo a un continuo superamento di sé.
* Più importante ancora dei simboli è la voce del Padre: «Questi è il mio Figlio prediletto», che occorre in vari modi e rimanda a quella proclamata su Gesù nel battesimo in seconda persona: «Tu sei il mio Figlio prediletto».
Dunque nel battesimo il Padre dice a me: «Tu sei mio figlio prediletto». È la parola creativa del Padre su di me, che mi fa figlio come Gesù, che vede in me Gesù. Prima che io lo invochi «Padre mio, Padre nostro», Dio ha detto: «Figlio mio, io ti amo, tu sei per me Gesù».
Ecco il battesimo, che ci obbliga a vivere da figli: «Perché siate figli del Padre vostro celeste», dice Gesù nel Discorso della montagna (Mt 5, 45). Mi colpisce sempre molto questa parola e quando prego il Padre Nostro aggiungo: posso dire così, perché tu prima mi hai chiamato «figlio mio»; io dico: «Padre nostro, ti amo», perché tu mi hai detto: «Figlio mio, tu sei mio figlio, io ti amo».
Il battesimo è l'inizio di tutto il cammino cristiano dell'essere figli come Gesù. E la Lettera dell'evangelista Giovanni attesta che lo siamo realmente: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1). La trasformazione comporta il vivere da figli riconoscenti e affettuosi, non da servi diligenti. Ed è quindi superamento della legge, apertura alla lode, alla familiarità, all'intimità, all'amore profondo verso Colui che ci ha generato.
Nell'evento della Trasfigurazione pregustiamo la trasformazione cristiana che avviene nel battesimo.
La trasformazione battesimale in Rm 12 e in 1 Pt 1, 22-2, 3
Questa trasformazione battesimale viene espressa in diverse pagine del Nuovo Testamento.
* Cerchiamo di leggere attentamente le parole di Paolo nella Lettera ai Romani: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi [metamorphoûsthe è il verbo usato per la Trasfigurazione di Gesù: Gesù si è trasformato, anche voi trasformatevi] rinnovando la vostra mente» (12, 2a). Ritorna il concetto di visione, perché rinnovare la mente vuol dire rinnovare il modo di vedere la realtà. All'uomo che non crede in Dio, all'uomo mondano ed egoista, tutte le cose appaiono come oggetto della propria rapina, da desiderare anche contro il bene comune e di cui godere senza alcuna responsabilità; egli considera il mondo destinato al conflitto, alla decadenza, al disastro. La sua è una visione pessimistica, brutale, vendicativa. Chi invece ha la mente trasformata vede il regno di Dio all'opera nel mondo e legge tutto in maniera positiva, ottimistica, capace di giustificare il dono di sé e il servizio gratuito.
La novità battesimale - trasformatevi rinnovando la vostra mente -, è la conversione, la metánoia (dalla parola greca noûs che significa mente).
«Per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (v. 2b). Chi si è lasciato trasformare dal battesimo cerca la volontà di Dio, ciò che a lui è gradito, ciò che è perfetto e dà gioia, che riempie il cuore, che dà sicurezza, che allarga i polmoni, diffonde serenità. Ecco, la trasformazione battesimale.
Nella continuazione di Rm 12 troviamo molti esempi di trasformazione battesimale e vi suggerisco di leggerli e meditarli.
Sono dapprima esortazioni intese a vincere ogni mentalità individualistica: non datevi arie, siete parte di un corpo, lavorate insieme (cf vv. 3-8). Come è difficile vivere così nella Chiesa! P, davvero dono di grazia.
Segue l'elenco di ben venticinque atteggiamenti battesimali (cf vv. 9-20): carità, perdono, pazienza, zelo, ospitalità, preghiera e così via. L’ordine non è logico, è un ordine del cuore. Paolo «si spreca» nel delineare il quadro del battezzato, toccando tutti gli aspetti della vita relazionale.
* Nella Prima Lettera di Pietro leggiamo un altro modo di esprimere la trasformazione battesimale (1 Pt 1, 22-2, 3). «Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi sinceramente di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna.» Probabilmente il riferimento è alla formula battesimale: «Io ti battezzo nel nome dei Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». La parola di Dio rigenera non con una nascita naturale, bensì con una rigenerazione che permette di obbedire alla verità. di amarci sinceramente, intensamente, di vero cuore.
Prosegue il testo: «Poiché "tutti i mortali sono come l'erba e ogni loro splendore è come fiore d'erba. L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno". È questa la parola del Vangelo che vi è stato annunziato». La parola battesimale che vi ha rigenerato non può essere smentita da niente, rimane sempre, Dio non la ritirerà mai, siamo sempre suoi figli, qualunque cosa facciamo.
«Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore.»
Il battesimo dà il gusto di Gesù, il gusto della sua bontà, che fa crescere e fa desiderare di nutrirsi del latte spirituale che è il Vangelo, per crescere nella maturità cristiana fino alla pienezza dei doni di Dio.
Concludo ricordando che il battesimo è l'inizio del cammino, l'inizio in cui ci sentiamo dire dal Padre: «Tu sei mio figlio come Gesù, io ti amo e ti vedo come Gesù». Naturalmente il sacramento della cresima conferma tale figliolanza, che poi matura nell'ordinazione presbiterale ed episcopale e nel sacramento del matrimonio: «Tu sei il mio messaggero, tu sei il mio servitore, tu sei partecipe del sacerdozio del mio Figlio, tu sei il mio testimone». Questo «tu» ripetuto nei vari momenti della nostra vita, stabilisce un rapporto di sempre maggior intimità col Padre.
«Ti ringrazio, Padre, perché mi hai fatto tuo figlio senza mio merito, perché mi ami tanto, perché vedi in me Gesù, perché dimentichi le mie debolezze e vuoi che io sia simile al tuo Figlio.»
Lasciamoci guidare dallo Spirito Santo in una preghiera di contemplazione, di adorazione e di lode.


VII MEDITAZIONE
Le dimensioni della trasformazione battesimale
È facile cadere nell'equivoco di ridurre la trasformazione battesimale alla dimensione etica e ascetica: mi sforzo di cambiare la mia vita e di comportarmi meglio con gli altri, di pregare di più. Certamente è importante la dimensione etica o ascetica, ma se ci limitiamo a questa tutto si riduce allo sforzo personale e a un certo punto ci si stanca. In realtà l'orizzonte è più vasto e possiamo parlare di quattro dimensioni della trasformazione battesimale.
La pienezza della nostra trasformazione
1. La prima dimensione è appunto la trasformazione etica, cioè dei costumi, del modo di vivere, di agire, di pensare, la trasformazione delle attitudini, degli atteggiamenti, dei sentimenti. Essere figlio di Dio significa avere nuovi atteggiamenti, nuove abitudini, nuovi costumi, usi, sentimenti, nuove reazioni. Lo abbiamo visto già in Rm 12, 2: «Trasformatevi rinnovando la vostra mente» per discernere ciò che piace a Dio, la sua volontà. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo», cioè: non agite come tutti gli altri che ricercano il proprio tornaconto, interesse, guadagno, comodità. Altra è la nostra via, l'unica che crea l'uomo vero. la donna vera, che forma quella civiltà dall'amore senza la quale la terra è «un'aiuola che ci fa feroci», un luogo di combattimento di belve.
2. C'è poi la trasformazione che chiamo mistica, o passiva, quella che avviene per riflesso della luce che brilla sul volto di Gesù. Non siamo più noi a darci da fare, ma ci preoccupiamo unicamente di lasciare brillare su di noi il volto di Gesù.
San Paolo ne parla in 2 Cor 3, 18: «E noi tutti, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore». È moto bello e confortante questo versetto, perché ci insegna che non siamo noi a darci da fare; è la gloria del Signore che si riflette in noi. Da un certo punto in avanti non conta più principalmente il nostro sforzo, la nostra ascesi, la nostra lotta contro le tentazioni, la nostra resistenza al male.
Così si spiega la forza dei santi. Non che avessero una dose di buona volontà molto più grande della nostra; hanno lasciato che Gesù si rispecchiasse in loro. È bello per esempio ciò che scrive santa Teresa di Gesù Bambino a proposito della sua «piccola via»: è Gesù che la porta, è Gesù l'ascensore che la fa salire, che la trasforma a immagine di sé.
Un’altra espressione della trasformazione mistica è l'identificazione, che Paolo descrive come propria esperienza in Fil 1, 2 1: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno». E aggiunge in Gal 2, 20: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me».
Noi non dobbiamo avere paura di tale esperienza, quasi fosse riservata ai santi. Senza di essa rischiamo di restare sempre nella palude, nella pianura, sempre con la nostra fragilità che non ci consente di elevarci al di sopra della mediocrità e di una certa onestà umana, importantissima, ma con la quale non si va molto avanti nel regno di Dio.
Non sarà dunque mia acquisizione la trasformazione cristiana, bensì sarà grazia.
3. Ricordo poi la dimensione escatologica. La trasformazione piena in Cristo si avrà alla manifestazione del regno di Dio, a cui dobbiamo guardare. Noi spesso teniamo gli occhi rivolti verso terra, come gli animali, e invece il nostro sguardo deve essere alto.
Cosi Paolo ammonisce la comunità di Filippi: «Molti, ve l'ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo» (può accadere anche ai cristiani di essere nemici della croce di Cristo, pur portandola in processione). «La perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.» t una religione carnale, che si accontenta di pratiche esteriori, di forme superficiali e in parte superstiziose. «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,18-21).
È la pienezza della nostra trasformazione simboleggiata sul monte della Trasfigurazione. Gesù darà una forma diversa (metaschematísei) al corpo della nostra umiltà conformandolo al suo corpo di gloria. E già ora dal cielo ci attrae e trasfigura.
La civiltà medievale e le civiltà antiche in genere avevano radicato il senso della vita eterna. Oggi viviamo in una civiltà che opera come se Dio non esistesse, come se la morte fosse la fine di tutto, e non a caso si cerca in tutti i modi di esorcizzarla. Proprio per questo non dobbiamo dimenticare la nostra meta e che ogni segno di malattia o di vecchiaia è un segno del bussare di Gesù alla porta del cuore. Il battesimo ci assicura che la nostra pienezza è nei cieli.
4. L’ultima dimensione é propria del presbitero, di colui che è chiamato ad avere responsabilità di altri.
Lo sottolinea un versetto della Lettera ai Galati: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi» (Gal4, 19).
L’esperienza di san Paolo è tipica del prete, il quale soffre talora i dolori dei parto, per far vivere Cristo Gesù in una persona. Questa intima sofferenza l'hanno patita tutti i santi che hanno avuto responsabilità di altri.
Ho esposto quattro dimensioni della trasformazione cristiana e mi sembra opportuno ritornare sulla prima, che è quella più ovvia: la trasformazione etica, del costume, degli atteggiamenti, delle reazioni, dei sentimenti, dei modi di fare.
L’etica delle beatitudini
Tralascio di riprendere le pagine del Nuovo Testamento dove si descrivono gli atteggiamenti del cristiano che ha rinnovato la sua vita secondo Cristo. Preferisco riferirmi al quadro più provocante, più completo, più organico della trasformazione della mente, del cuore e dei sentimenti in Cristo: il Discorso della montagna.
Evidenzio quattro aspetti del testo di Matteo (capitoli 5, 6 e 7), che partono tutti da una beatitudine e sono indicativi di molti altri.
1. «Beati i poveri in spirito.» È l'atteggiamento di chi non si monta la testa, non pretende di essere e di possedere chissà che cosa, di chi vive disinteressatamente. t un atteggiamento straordinario, in un mondo nel quale normalmente si vive per interesse: mi chiedi questo, ma che cosa mi dai in cambio? Cosa ne guadagno? Al contrario il battezzato è capace di disinteresse, e se ha un ministero nella Chiesa lo vive gratuitamente. Sappiamo infatti che sulla gratuità del ministero sta o cade la Chiesa. è chiaro che il ministro avrà un suo sostentamento, e tuttavia non compie il suo servizio per un guadagno o per accrescere il proprio potere. Gesù è esplicito: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).
La grande sorpresa per le popolazioni dei Paesi di missione viene dal capire che il missionario vive gratuitamente, non cerca niente per sé. Perché la gratuità è un riflesso di Dio, è un riflesso dell'essere divino che si dona gratuitamente a noi, senza aspettare niente in cambio.
Molto belle le esortazioni con cui si conclude l'insegnamento sull'elemosina, sulla preghiera e sul digiuno; per tre volte si ripete: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6, 4. 6. 18). A dire: non aspettarti gratificazioni al di fuori, non aspettarti lodi o riguardi particolari. Potrai forse averne, magari ne avrai in abbondanza, ma proprio perché non li hai cercati.
Questo è il modo di essere di Gesù e qualifica un modo di essere nuovo.
2. Un secondo frutto della trasformazione etica lo leggo nella beatitudine dei miti: «Beati i miti». Gesù stesso dirà: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 29). Miti sono quelli che non rispondono alla violenza.
È il comportamento evangelico di cui parla Gesù in Mt 5, 3 8: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle». Questo comportamento può apparire inattuabile, perché presuppone la disponibilità a perdere tutto. In realtà ci sono situazioni o condizioni nelle quali io posso esigere e chiedere qualcosa proprio per amore della giustizia, però al fondo ci deve essere nel cristiano la disponibilità a soffrire l'ingiustizia piuttosto che compierla, la disponibilità a perdonare.
Il cristianesimo non ci pone fuori della realtà, ci chiede ciò che è necessario per vivere umanamente in questo mondo. Gesù non insegna atteggiamenti estranei all'esistenza quotidiana; rivela come si può instaurare una civiltà dell'amore, una convivenza vivibile.
Sempre dal Discorso della montagna mi piace citare un altro versetto molto forte: «Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste» (5, 44-45).
La mitezza è la condizione battesimale di colui che è figlio.
Lo stesso Paolo, in una situazione di litigio comunitario, faceva appello a tale principio: «È già per voi una sconfitta avere liti vicendevoli! Perché non subire piuttosto l'ingiustizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?» (1 Cor 6, 7). Il cristiano può certamente possedere qualcosa e legittimamente difenderla. Sotto a questo principio di giustizia umana c'è però una giustizia più profonda e capace anche di cedere e di accettare l'ingiustizia, così che ne venga un bene maggiore.
Sono convinto che le conflittualità umane non saranno mai risolte se non ci si deciderà ad accogliere l'immagine di uomo nuovo presentata dal Discorso della montagna.
3. «Beati i misericordiosi», beato chi si occupa efficacemente degli altri, dimenticando se stesso. È una beatitudine più facile da comprendere. Molti giovani, anche non credenti, fanno del volontariato, donando il loro tempo agli altri.
La misericordia cristiana dona con gioia, perché parte dal Vangelo, da Gesù, dall'amore che Dio ha per noi. Così san Paolo, al termine del suo discorso a Mileto, afferma con parole incisive: «In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!"» (At 20, 35). E in Rm 12, 8 ammonisce: «Chi fa opere di misericordia, le compia con gioia».
4. La quarta beatitudine che vorrei ricordare è: «Beati i pacifici, beati gli operatori di pace», beati coloro che, contrariamente a quanto spesso si fa, non seminano zizzania o calunnia. Beati coloro che portano pace nelle comunità, che aiutano a superare le litigiosità quotidiane e vivono per questo un'esistenza pacifica e senza affanni. t lo stile di vita cristiana, è il comando di Gesù: «Non affannatevi» (Mt 6, 2 5), ed è forse il comando che trasgrediamo di più. Siamo sempre affannati per noi, per gli altri, per il futuro, per la paura di quanto può succedere. Ma Gesù continua: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno» (v. 33). Qui risulta nuovamente il nostro essere figli.
Le giuste previsioni sono lecite, non però quell'affanno che divora l'esistenza, non permette di pregare, di rilassarsi, di trovare pace con se stessi e di portare pace agli altri.
5. Oltre le quattro beatitudini che ho ripreso, desidero evocare la bellissima esortazione che leggiamo nel capitolo 7 di Matteo: «Non giudicate per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (vv. 1-2). Molte volte passiamo il tempo a giudicare, a misurare, a tagliare i panni addosso agli altri, e ciò è segno di spirito non cristiano.
È davvero possibile?
Mi piace concludere tentando di rispondere a una domanda che sorge in noi, sempre un po’ scettici e impazienti: davvero avviene questa trasformazione? E quando? Qualcuno di noi potrebbe pensare: le pagine evangeliche sono bellissime, ma se guardo la mia comunità, se guardo me stesso, vedo tutti i difetti, vedo divisioni, contese, contrasti, litigi. Qualcun altro si chiederà: come mai tante guerre, tante violenze, tante stragi? Dove sta di casa la trasformazione cristiana se il mondo va cosi male e la mia esperienza mi fa sentire quasi sempre più la pesantezza della vita che non la gioia e la libertà battesimale?
Vi offro qualche risposta agli interrogativi dello scettico e dell'incredulo che è in noi.
- In primo luogo, la trasformazione battesimale avviene perché avviene: ci sono i santi, quindi avviene. Quando sono stato in Kosovo ho visitato i luoghi delle memorie infantili di Madre Teresa di Calcutta, era figlia di una buona famiglia di Skopje, una brava ragazza, ben educata, che frequentava scuole di alto livello, e amava cantare, recitare. Una ragazza come tante altre. E il Signore l'ha trasformata attraverso il servizio ai più poveri. La trasformazione battesimale, che c'era già in sostanza, è divenuta in lei matura, luminosa, sfolgorante.
- Per lo più tuttavia la trasformazione avviene lentamente e senza che ce ne accorgiamo. Dobbiamo accettare i tempi lunghi, progressivi.
E avviene di solito senza che l'interessato lo noti. Anzi l'interessato nota di più le sue debolezze, quasi crescessero, le sue fragilità, le sue paure, le sue vigliaccherie e le sue meschinità. Chi lo incontra si accorge invece che c'è in lui un crescendo di pace, di equilibrio, di umanità.
Più difficile - e concludo - è rispondere alla domanda: la trasformazione avviene anche a livello collettivo?
Certamente avviene nella Chiesa attraverso la moltiplicazione dei santi. Avviene pure nella società, nel mondo, nella storia che Cristo ha redento col suo sangue?
Non si può negare che nel Vangelo si trovano frasi un po' enigmatiche e pessimistiche. Per esempio in Luca, alla fine della parabola della vedova importuna, Gesù pone una domanda a bruciapelo: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (1 8, 8). Dunque non è affatto detto che il mondo cresca per il meglio. Anzi varie pagine apocalittiche fanno pensare a un raffreddarsi della carità e a un moltiplicarsi dell'iniquità.
In ogni caso dobbiamo riconoscere che ci sono esempi di trasformazione molto chiari, e se facciamo attenzione li vediamo. Penso a com'erano considerati cinquant'anni fa gli handicappati, sempre chiusi in casa perché le famiglie se ne vergognavano. Oggi l'handicappato è entrato nella vita pubblica, nella scuola, ha un peso nella legislazione. t, un grandissimo progresso, è un segno dell'opera dello Spirito Santo.
Per quanto riguarda il tema della pace e della guerra, sappiamo benché l'Europa è vissuta per secoli tra guerre nazionalistiche. Dopo l'ultima guerra mondiale, si sono compiuti passi straordinari verso l'unificazione. La coscienza è molto mutata, sia nella Chiesa sia nella società. E, pur essendoci gravi ambiguità nei fenomeni pacifisti, l'Europa è un esempio di convivenza e mutua accettazione, indicata anche dalla rinuncia a battere moneta propria, che era prerogativa assoluta di ogni Stato.
Indubbiamente lo Spirito Santo è all’opera dietro questi fatti; l'importante è intuire le linee secondo cui lavora, che sono le linee del Discorso della montagna.
Se leggiamo gli eventi con la mente e con il cuore trasfigurati dalla grazia del battesimo, possiamo riconoscere la trasformazione personale e quella collettiva - con tanti vai e vieni, con sconfitte e resistenze -; la possiamo riconoscere in atto nella storia e ringraziarne Dio.


VIII MEDITAZIONE
La trasformazione eucaristica
Il tema su cui vogliamo meditare è un po' esigente: parleremo infatti della trasformazione eucaristica del cristiano. Il titolo mi è stato ispirato da un libro su Madre Teresa dove ho letto: «Oberata di problemi, assillata da innumerevoli richieste in tutti i campi dell'emarginazione, con oltre cinquemila suore sparse nei vari angoli della terra, non esitava a considerarsi la persona più felice dei mondo per il fatto di essere continuamente a contatto con Gesù servito nei poveri. La vita attiva diventava il naturale prolungamento dell'Eucaristia. Per lei la Messa durava tutta la giornata. Conduceva un esistenza eucaristica. Tutti i giorni Madre Teresa trascorreva quattro ore in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento. Poi. finita l'adorazione, si immergeva nella contemplazione di quel Dio che si è fatto piccolissimo a Betlemme, che si è annientato sulla croce, che si è fatto pane per lasciarsi mangiare; quel Dio che si è fatto corpo in ogni essere umano. Ecco la sua costante e viva contemplazione, vissuta con estrema serenità, sempre con quel misterioso sorriso sulle labbra». Ho incontrato parecchie volte Madre Teresa e ne ricordo il sorriso misterioso, velato da un po' di tristezza per tante sofferenze, ma capace di comunicare pace e serenità.
Noi dobbiamo diventare come lei «Eucaristia» e soprattutto per il prete è fondamentale imparare a relazionarsi al mistero eucaristico.
Tre i punti che desidero svolgere nella meditazione: l'Eucaristia e noi, l'Eucaristia e il Tabor, noi per l'Eucaristia?
L’Eucaristia e noi
Il primo punto è semplice. L’Eucaristia è il centro della storia umana: tutta la storia umana gira attorno ad essa, si svolge al ritmo dell'Eucaristia, va verso il suo compimento secondo un dinamismo eucaristico. Il Concilio Vaticano Il afferma che l'Eucaristia è la sorgente e il culmine dell'evangelizzazione, quindi sta all'inizio e alla sommità di tutto il lavoro della Chiesa. E’ una cosa di cui si può parlare senza fine, proprio in quanto connessa con i molteplici aspetti della vicenda umana.
D'altra parte l'Eucaristia ha pure una storia, o meglio molte storie, legate anche alla nostra biografia personale. E’ significativo che il Papa abbia raccontato più di una volta di sé e della propria biografia eucaristica. Ricordo per esempio alcune bellissime pagine dell'enciclica Ecclesia de Eucharistia e del volume Dono e mistero, pubblicato in occasione del suo cinquantesimo di Messa.
Sulla scia del Papa, ciascuno di noi può tracciare con gratitudine la propria biografia eucaristica: che cosa è stata per me? Quando ho incontrato l'Eucaristia, interiormente e non solo esteriormente? Come l'ho conosciuta: da bambino, forse nel servizio alla Messa, nella prima Comunione, nelle comunioni successive, nelle adorazioni, nelle processioni, nelle visite eucaristiche? Quali sono state le Eucaristie che maggiormente mi hanno trasformato o quelle che magari hanno generato in me dolore e resistenza? Quali vicende mi hanno avvicinato sempre di più all'Eucaristia?
E’ importante prendere coscienza di questa storia.
L’Eucaristia e il Tabor
Nei giorni che ho trascorso sul Tabor ho intuito con chiarezza come l'Eucaristia sia presente nell'evento della trasfigurazione.
E’ presente nello scambio misterioso di discorsi tra Gesù, Mosè ed Elia: «Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 30-31).
Sottolineo due parole chiave del verso 31.
* Anzitutto la parola compimento, che indica la pienezza del disegno di Dio, la pienezza dei tempi (ricordiamo Gal4, 4: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna»); e questa pienezza del disegno di Dio ne a storia umana è l'Eucaristia, che contiene in una estrema sintesi il mistero pasquale: passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù.
* l’altra parola chiave del verso 31 è esodo, vocabolo che ricalca la parola greca éxodos e che preferisco alla versione «dipartita». Due sono i motivi per cui si usa la parola «esodo».
- In primo luogo perché è il nome, la cifra per Israele del grande atto redentore di Dio. «Esodo» ricorda la schiavitù in Egitto, le piaghe d'Egitto, la notte di Pasqua, la fuga dal faraone, il passaggio del Mar Rosso. E’ dunque una parola chiave per la Scrittura. Nel Libro degli Atti degli Apostoli, Stefano descrive concretamente l'esodo dicendo: «Dio li fece uscire, compiendo miracoli e prodigi nella terra d'Egitto, nel Mar Rosso, e nel deserto per quarant'anni» (At 7, 36). E’ la ricchezza di eventi redentivi, che ancora oggi costituisce la memoria storica del popolo ebraico.
- C'è un secondo motivo per cui il verso 31 di Luca usa il termine «esodo»: il mistero pasquale, che ha la sua sintesi nell'Eucaristia, è il vero esodo di Gesù, è il suo partire, come risulta molto chiaramente nel vangelo di Giovanni: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo ai Padre, dopo avere amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (1 3, 1). Il suo passaggio al Padre mediante la morte e la risurrezione è sintetizzato nell'Eucaristia.
Gesù parla del suo esodo in altri momenti. Penso al discorso dell'ultima cena: «Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo e io vengo a te» (Gv 17, 11). Penso alle parole rivolte da Gesù a Maria Maddalena: «Vai dai miei fratelli e di' loro: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro"» (Gv 20, 17).
Possiamo dire che tutta la sua vita è stata esodo verso il Padre.
-Vorrei fare però un passo oltre. Il passare di Gesù attraverso la morte non è un destino fatale che gli capita addosso, ma è voluto.
Cito per esempio da Gv 10, 14~15: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore». E nei versi 17-18 ripete: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».
L’esodo di Gesù è voluto, è il suo proposito, la sua scelta, la sua decisione, la sua determinazione forte. Ciò appare nel vangelo di Giovanni e anche nei sinottici, specialmente nelle predizioni della passione. Per esempio in Luca: subito dopo la confessione di Pietro e subito prima del racconto della Trasfigurazione, Gesù dice: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno» (Lc 9, 22). Egli affronta a viso aperto il destino di morte, di rifiuto, di rigetto. E sempre in Luca (9, 44-45): «Mettetevi bene in mente queste parole: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini". Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento». L’esodo rimane per lungo tempo qualcosa di misterioso per i discepoli e lo è pure per noi, che facciamo fatica a entrare pienamente nel mistero eucaristico, che ci supera da ogni parte.
Soprattutto mi sembra importante citare nel capitolo 9 di Luca il verso 5 1, e lo leggiamo in greco per cogliere la pregnanza delle parole. E’ il versetto che abbiamo scelto come motto per il Sinodo diocesano di Milano, celebrato nell'arco di tre anni, dal 1992 al 1995. «Eghéneto dè en tô sympleroûsthai tàs heméras tês analémpseos autoû» («avvenne dunque che, nel compiersi i giorni della assunzione di lui, della salita di lui, del suo esodo, del suo andare verso il Padre») «kaí autòs tò pròsopon estérisen» («e lui la faccia indurì») « toû poreúesthai eis Ierousalém» («per andare a Gerusalemme»). E’ una decisione forte, sofferta, profonda quella di Gesù di guardare in faccia il suo destino a Gerusalemme e di andarvi per affrontare il mistero della sua morte.
* Siamo così giunti all'ultimo passaggio della nostra riflessione: il proposito di Gesù di dare la vita per noi è espresso in maniera piena e simbolicamente densa nell'istituzione eucaristica, il momento in cui esprime con parole, segni, gesti, questa sua volontà di offrirsi per nostro amore, per la nostra salvezza, di fronte al Padre, fino alle estreme conseguenze.
«Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione"» (Lc 22, 14-15). E’ la volontà ferma di Gesù. E ai versi 19-20: «Preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: 'Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo dopo avere cenato, prese il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi"». Parole, gesti, simboli, tutto si concentra.
Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, viviamo l'esodo di Gesù, l'uscita volontaria di Gesù da sé per noi, per nostro amore. Come dice Paolo: «Annunciamo la morte del Signore finché egli venga» (cf 1Cor 11,26).
A me pare sia questo il senso del sacrificio eucaristico: la volontà irrevocabile, irremovibile di Gesù di morire per la nostra salvezza. Una volontà, un proposito che comprende tutta la sua vita - nascita, vita nascosta, vita pubblica; predicazione, miracoli; e poi la passione, le torture, gli insulti, la flagellazione, la via della croce, la crocifissione, la morte, la risurrezione e l'ascensione al Padre - e che è reso sensibile, sacramentale, simbolo reale nell'Eucaristia, il simbolo semplicissimo del pane mangiato e del sangue versato per noi.
Nel mistero della Trasfigurazione sul Tabor è già previsto l'esodo che si compirà a Gerusalemme e quindi l'Eucaristia, tenerezza del Padre resa visibile nel Figlio che si fa nostro cibo.
Naturalmente l'Eucaristia è un mistero. Noi accumuliamo parole per esprimere qualcosa che è al di là dei nostro intendimento, chiedendo al Signore di trasformare in Eucaristia la nostra vita.
Noi per l'Eucaristia?
Abbiamo contemplato l'Eucaristia per noi. E che cosa facciamo noi per l'Eucaristia, cioè per Gesù che si dona irrevocabilmente nel mistero pasquale fino alla morte in croce?
1. Penso che innanzitutto non dobbiamo «fare» qualcosa - noi pensiamo istintivamente ai gesti del culto -, ma lasciarci amare. Di fronte all'Eucaristia dobbiamo lasciarci salvare, purificare da Gesù, lasciare che sia lui a fare tutto e ricevere la sua vita con gratitudine. Non temiamo di stare in silenzio, di non trovare nulla da dire, perché è lui che ci parla, che ci viene incontro con tutto il peso della sua decisione di amore che vuole riversare su di noi; insomma lasciamo che Gesù sia Eucaristia, salvezza, perdono, pietà, tenerezza, affetto, purificazione per noi. Lasciamo che Gesù sia Gesù.
Potremo allora vivere il culto spirituale e il culto eucaristico. Può apparire strano l'ordine in cui li pongo, perché di solito partiamo dal culto eucaristico. Talora infatti si crede più importante celebrare bene la Messa (per i preti), andare a Messa almeno la domenica (per la gente) e adorare il Signore nel Santissimo Sacramento. In realtà mi sembra che dall'Eucaristia ci venga anzitutto l'invito di Gesù a celebrare il nostro culto spirituale, con l'offerta dei nostro corpo.
2. Il culto spirituale. Ritroviamo qui il versetto rivelatore di san Paolo nella Lettera ai Romani (12, 1), che avevo semplicemente letto e non commentato: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. E’ questo il vostro culto spirituale».
L’Apostolo dice che il nostro culto è anzitutto offrire i nostri corpi, non celebrare bene la Messa. E i nostri corpi sono la nostra vita in tutta la sua fisicità, in tutta la sua estensione, il giorno e la notte, la giovinezza e la vecchiaia, la salute e la malattia, il successo e l'insuccesso, la gioia e il dolore, l'entusiasmo e la depressione. Tutto va donato quale sacrificio vivente, offrendoci a Dio come Gesù si è dato a noi e al Padre. Molte persone compiono, magari senza esserne consapevoli, questo culto spirituale quando vivono onestamente, amano la famiglia, vivono con serenità la fatica del lavoro o dello studio, si sacrificano, accettano con pazienza situazioni difficili e dolorose.
Sacrificio vivente, dunque, non semplicemente un rito; sacrificio santo, perché ci purifica, ci toglie dalle connivenze col male; e sacrificio gradito a Dio.
Anche il nostro ministero è culto a Dio e lo ricorda chiaramente san Paolo all'inizio della Lettera ai Romani: «Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il Vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi» (1, 9). Il culto dell'Apostolo è anzitutto e concretamente predicare il Vangelo. Leggiamo ancora in Rm 15, 16: «Mi è stata concessa da parte di Dio la grazia di essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l'ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano un'oblazione gradita». Predicando vive il suo culto spirituale affinché i pagani stessi possano offrirsi a Dio, con un'oblazione che è appunto l'Eucaristia vissuta.
Mi piace citare altri due brani. Il primo lo traggo dalla Lettera agli Efesini: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (5, 1-2). «Camminare nella carità» vuol dire vivere il culto spirituale, il culto della vita.
Il secondo brano lo troviamo nella Prima Lettera di Pietro, dove una serie di pensieri, ricchi di nuovi simboli, ritorna sul tema dell'offerta. «Stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale.» La prima metafora è quella del tempio: voi siete pietre del tempio di Dio, che ha la sua pietra angolare in Gesù. Il paragone però si allarga e si trasforma: «per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (2, 45). Ogni cristiano, dunque, è sacerdote; e su questo Pietro insiste nel verso 9: «Voi siete la stirpe eletta, a sacerdozio regale, la nazione santa».
Questa è dunque la prima conseguenza dell’Eucaristia: l'offerta della vita quotidiana, quella che facciamo ogni giorno nella preghiera mattutina: «Ti offro, Signore, nel cuore di Cristo, tutte le azioni, le preghiere, le sofferenze, le gioie di questo giorno». Questo è il nostro culto fondamentale. Che poi si esprime nella carità, nell'amore, in tutte le opere di misericordia.
3. Prendiamo così coscienza del valore del culto eucaristico. Anzitutto, celebrando e partecipando alla Messa. viviamo l'esperienza del mistero pasquale, riviviamo la morte e risurrezione di Gesù, ci disponiamo a lasciarla operare in noi, ad accettare le condizioni e le implicazioni di questo evento unico e rivoluzionario che è la Pasqua immessa nel tempo dell'uomo.
E, ancora, possiamo vivere con verità le pratiche che la Chiesa ha sviluppato nei secoli in relazione alla Messa. Ricordo le processioni eucaristiche; la devozione semplice e facile delle visite al Santissimo Sacramento; e, soprattutto, l'adorazione eucaristica, nella quale esprimiamo la lode, la gioia, l'entusiasmo, la riconoscenza. Essa è nata in Occidente da un bisogno istintivo di prolungare la celebrazione dei mistero. E non è soltanto una qualunque preghiera silenziosa davanti al tabernacolo. Deve partire dallo stato eucaristico di Gesù, dal suo essere immolato per noi, testimone del Padre fino alla morte, perfetto adoratore di Lui, distruttore degli idoli, fonte di comunione perfetta degli uomini fra loro e col Padre. Il Cristo adorato nell'Eucaristia è il Cristo che dona se stesso fino alla morte, per la redenzione dell'uomo, che fa di noi un popolo solo e ci chiama alla pienezza della pace messianica. E la contemplazione eucaristica deve nutrire in noi la capacità di offrire la vita.
Dal monte santo della Trasfigurazione, luogo d'osservazione privilegiato, chiediamoci in che misura viviamo questo culto spirituale, sacrificando noi stessi a Dio nel nostro corpo, in unione con la pietra angolare che è Gesù.


IX MEDITAZIONE
Conoscere intimamente Gesù
per seguirlo

La meditazione odierna si compone di due parti, indicate nel titolo: Conoscere intimamente Gesù per seguirlo. Ci proponiamo di riflettere dapprima sulla sequela, partendo dalla parola «ascoltatelo!». E’ una parola chiave nel racconto della Trasfigurazione e riportata identicamente dai sinottici.
Noi abbiamo già ascoltato Gesù nelle precedenti meditazioni. L’abbiamo ascoltato per esempio nel Discorso della montagna, là dove ci ha parlato della trasformazione etica del cristiano, che tende alla trasformazione mistica (identificarsi con lui, essere come lui) e a quella escatologica (vederlo in eterno come egli è). Serbiamo inoltre nel cuore la parola particolarmente forte e intensa dell'istituzione dell'Eucaristia.
Questo però non esaurisce il parlare di Gesù, che non è solo, diciamo cosi, generale - nel Discorso della montagna mette sul tavolo precetti, consigli che tutti sono chiamati a seguire (beati i poveri, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del domani). Oltre a queste parole, importantissime perché danno il quadro della vita battesimale, ne pronuncia di personali, per interpellare e scuotere ciascuno di noi, parole dette a me e a nessun altro. Ogni persona, infatti, ha una chiamata, una vocazione, una missione, un compito preciso.
«Seguimi!»
Possiamo allora richiamare alcune parole, che si riassumono nell'invito «seguimi!», e segnano l'esistenza, cambiano la vita delle persone a cui sono rivolte.
* Anzitutto il testo di Mc 1, 16-20: «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: "Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini". E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, mentre Rassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono».
* Notiamo che in Mc 2, 13-14 Gesù dà degli insegnamenti generali: «Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava». Ma subito dopo ascoltiamo una parola specifica: «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi". Egli, alzatosi, lo seguì».
* Le chiamate personali di Gesù non sono tuttavia sempre accolte immediatamente. Possono incontrare resistenza - come del resto incontra resistenza il Discorso della montagna -, ed è normale. Per esempio in Mt 8, 21-22 uno dei discepoli dice a Gesù: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre» e si sente rispondere: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti». E’ una frase molto forte e il discepolo capisce che il suo buon proposito si scontra con le esigenze della sequela.
Ancora, in Lc 9, 61-62: «Un altro disse: "Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa". Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio"».
Dunque ci sono delle resistenze, e talora occorrono anni per decidersi ad accogliere la chiamata del Signore.
Il giovane ricco
Il «seguimi» può addirittura incontrare un rifiuto, come accade nel racconto del giovane ricco (Mc 10, 17-22 e paralleli).
Egli pone al Maestro, mettendosi in ginocchio pieno di rispetto, una prima domanda sincera che nasce da una retta visione di fede: «Maestro buono, che devo fare per avere la vita eterna?». C'è in lui una disponibilità, un'apertura molto grande. Non è una persona qualunque, ha una grande rettitudine, sente l'esigenza del cuore umano di relazionarsi in maniera profonda con la verità di Dio.
Gesù gli risponde di osservare i comandamenti (cf v. 19). E il giovane replica: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (v. 20). Gesù, allora, «fissatolo, lo amò»: lo amava anche prima, ma qui esprime quell'amore personale che riflette l'infinito amore di Dio per ciascuno di noi. Per questo gli chiede una missione nuova: «Una cosa sola ti manca: va, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (v. 2 1).
Il giovane comprende benissimo che gli viene affidato un compito, che gli è chiesto non soltanto di dare quello che ha ai poveri, ma di condividere la sorte del Maestro, la sua vita di predicatore itinerante, contestato e respinto. L’invito di Gesù lo sconvolge e «se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (v. 22). Avrebbe potuto dire: «Ci penserò, rifletterò»; oppure: «Dammi la forza di seguire questa tua parola». Invece si chiude in se stesso perché ha molti beni. Quindi la tristezza ha invaso il suo cuore; ha intuito che, nonostante l'amore con cui Gesù l'ha fissato, egli non riesce a giocarsi per paura, per viltà, per pigrizia.
E’ un episodio drammatico che ci fa pensare. Ciascuno di noi ha molti beni, anche se non ha un conto in banca: sono i talenti che vorremmo esprimere, i progetti che facciamo, le amicizie, e, al fondo, la nostra autonomia, il voler disporre liberamente di noi stessi. Quando Gesù ci chiede di obbedire alla sua parola, tutto è messo in gioco, non per essere buttato a mare, ma per venire valorizzato nell'obbedienza alla parola dei Signore.
Domandiamo a Gesù la grazia di comprendere fino in fondo la serietà della parola con cui ci interpella.
Il paradosso del non-evento
Nella seconda parte di questa meditazione cerchiamo di scoprire qual è il segreto che permette di mettersi in gioco nella sequela di Gesù.
Scrive sant'Ignazio nella seconda Settimana degli Esercizi, prima di iniziare le meditazioni sui diversi misteri della vita del Signore: «Chiedere di conoscere intimamente il Signore, perché lo ami e lo segua di più» (n. 104).
E’ la «conoscenza intima» di Gesù che ci abilita a seguirlo, e tale conoscenza nasce dalla contemplazione prolungata e amorosa della sua esistenza fra noi. Purtroppo non possiamo ripercorrerla lungo tutto l'arco del suo svolgersi. Ho scelto allora di fermarmi con voi su un tempo che mi sembra parlare in modo particolare alla nostra quotidianità: i trent'anni della vita di Gesù a Nazaret.
Collocheremo ancora una volta la nostra contemplazione nella sfera di quella luce del Tabor che è il centro irradiante dei nostri esercizi - in relazione ad essa abbiamo già letto episodi evangelici fondamentali, come il battesimo di Gesù e il Discorso della montagna -, cosi come faremo nelle successive meditazioni, guardando Gesù nella sua passione (la terza Settimana degli Esercizi) e nella sua gloria di Risorto.
Due sono gli eventi legati a Nazaret. Il primo è l'incarnazione del Verbo, l'evento nel quale l'Essere si fa storia e che dà senso a tutta la storia umana. Il secondo evento di Nazaret è il non-evento, ossia il fatto che per trent'anni non succede nulla. Se il primo è certamente straordinario, il secondo ci interpella in maniera molto forte, perché tocca da vicino la nostra vita quotidiana.
Spesso, almeno finché abbiamo buona salute e lavoriamo, ci sentiamo incalzati da occupazioni e urgenze che a nostro parere sono importanti. Il tempo non basta mai. Se però guardiamo la vita di Gesù a Nazaret cercandovi fatti o azioni di qualche rilievo, essa ci può apparire insignificante, una vita in cui non si sa come arrivare a sera, in cui il tempo non passa mai. Nasce dunque la domanda: come armonizzare il tempo nella sua duplice valenza: il «tempo che non basta mai» e quello «che non passa mai»? E soprattutto: quale senso dare al tempo «che non passa mai», un'esperienza che anche a noi può capitare di vivere?
Vi propongo allora di contemplare lo scorrere dei giorni a Nazaret, guardando, ascoltando, mescolandosi alla vita, sentendo i rumori, i suoni, gli odori, le luci e i colori, come insegna sant'Ignazio.
Tre i momenti di riflessione: i personaggi, i testi biblici (pochi ma significativi), i nostri atteggiamenti.
I personaggi. Contempliamo anzitutto Maria e domandiamole in preghiera: «Tu, o Maria, che hai vissuto l'oscurità senza eventi di Nazaret, aiutaci a comprendere come l'hai vissuta giorno dopo giorno, ora dopo ora».
La vediamo mentre guarda con riverenza amorosa il Figlio; è il suo segreto, non conosciuto da molti, e vi si immerge senza aspettarsi nulla. Come una madre gioisce per il bambino che cresce, ella guarda il suo Figlio, che è portatore del mistero divino.
Quindi Maria contempla serenamente, tranquillamente, senza nervosismo, senza fretta, e attende, perché sa che qualcosa accadrà. Certamente prega molto, sia nei momenti dedicati alla preghiera sia mentre lavora; prega che venga il regno di Dio, prega ripetendo le parole del Magnificat e, pur se non le vede avverarsi, le ripete perché vive di fede.
Utilizzando un'espressione psicologica, possiamo dire che è presente al presente: vive il presente con semplicità, abbandono, senza pretese e senza lamenti. Non chiede nemmeno al Signore: fino a quando? Aspetta con attesa amorevole, godendo di quel piccolo e grande presente che ha: Gesù, il suo sposo, le sue occupazioni quotidiane. Il suo vivere così è già regno di Dio, salvezza in atto.
Contempliamo inoltre Maria evocando due testi del Vangelo. Dopo i racconti della natività a Betlemme, Luca annota: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (2, 19). Continua a osservare, conservare, meditare. E in 2,51 Luca ripete che, dopo il ritorno a Nazaret dal pellegrinaggio a Gerusalemme, la madre di Gesù «serbava tutte queste cose nel suo cuore». Non capisce del tutto gli eventi, ma li accetta.
Il secondo personaggio da contemplare è Giuseppe,uomo giusto, per il quale la volontà di Dio era sempre la norma, e uomo pio. Prega diverse volte al giorno secondo l'uso di ogni buon ebreo; lavora a Nazaret e probabilmente anche fuori. Ci sembra di vederlo mentre va avanti e indietro per costruire la cittadina di Sefforis, distante da Nazaret sei chilometri.
Compie insomma azioni semplicissime: prega, insegna il lavoro a Gesù, si affatica come tutti i carpentieri.
Anche Gesù vive così: prega nelle ore previste dalla tradizione ebraica, nella sinagoga al sabato e nelle festività; lavora, e il suo tempo non gli sembra sprecato in un'attività priva di significato pastorale ed evangelizzatore; obbedisce e, sicuramente, attende un segno. Noi siamo sconcertati al pensiero che non gli sia dato alcun segno nell'età in cui di solito si prendono decisioni importanti. Di fatto ci vorranno anni prima che giunga il segno della predicazione del Battista. Finché non viene, sta in pace.
Naturalmente non è del tutto monotona la vita del villaggio di Nazaret. Gesù vive le diverse esperienze della quotidianità: quella dei giorno e della notte, con la varietà delle luci, delle occupazioni, degli incontri; quella delle stagioni, con le differenze di vita che comportano; quella degli eventi locali - nascite, matrimoni, amicizie, malattie, funerali -; quella dei tempi sacri con i pellegrinaggi a Gerusalemme.
Vive dentro l'esistenza quotidiana nei suoi tempi e nei suoi spazi e la accetta.
I testi. Ricordo due testi del vangelo di Luca: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (2, 40); «Tornò a Nazaret e stava loro sottomesso [... ]. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (2, 51-52).
Interessante questo crescendo molto semplice, molto naturale e spontaneo.
Cresceva in sapienza presso gli uomini. E’ ragionevole immaginare che a Nazaret fosse stimato sempre più come un saggio, a cui si poteva ricorrere per consiglio, dal momento che sapeva dire le parole giuste. Soprattutto cresceva in sapienza di Dio, nel senso che imparava a cogliere la presenza di Dio in tutti gli eventi, e ciò anche grazie alla lettura regolare delle Scritture.
Cresceva in età. Strana questa annotazione, perché è abbastanza ovvia. A mio giudizio, l'evangelista vuole indicare che la giornata di Gesù aveva un senso. Cresceva davanti agli uomini, che vedevano il valore della sua vita, la sua bellezza. la sua umiltà e semplicità. Cresceva davanti a Dio, in quanto camminava verso il tempo stabilito, verso la pienezza del tempo, attendendolo con pazienza.
Cresceva in grazia. Davanti agli uomini, agli occhi dei quali diventava via via più amabile per le opere buone che compiva. Davanti a Dio, perché faceva sempre il suo beneplacito; cresceva quindi in grazia e in amore.
I testi aggiungono: «Era sottomesso», a dire che riconosceva le istituzioni umane, le rispettava, le onorava senza pretendere nessun privilegio.
Sarebbe bello interrogare Gesù, stando con lui in preghiera sul Tabor: come leggi ora quei trent’anni di esperienza così monotona e solitaria? Forse risponderebbe: sono lieto di avere vissuto quei trent'anni nei quali ho meditato a lungo sulla religiosità e sulla vita.
Di fatto molti discorsi pronunciati da lui più tardi sono probabilmente da riferirsi alle sue riflessioni ed esperienze giovanili, quando contemplava la natura, osservava gli eventi familiari e quelli sociali. penetrandoli con occhio amoroso e sagace.
Erano dunque anni di preparazione, non tempi morti. Pur se non aveva fretta di esprimersi, valutava tutto in silenzio: eccessivo peso delle osservanze esteriori, formalità nell'osservanza della Legge, fatica della gente, distanza dei farisei dal popolo, il valore della misericordia, della fedeltà, del perdono rispetto alle pratiche religiose esterne.
I nostri atteggiamenti. Infine sottolineo quattro atteggiamenti che, a partire dalla sua esperienza a Nazaret, Gesù sembra raccomandarci.
- Il primo è quello della presenza al presente. Noi siamo sovente protesi al futuro, a quanto verrà. Talora è necessario, e tuttavia l'ansietà per il domani non deve mai distoglierci dal presente, che allora può anche essere luogo di serena programmazione. C'è un imperativo molto saggio e ricco di contenuto nell'Imitazione di Cristo: «Age quod agis!». Scrivi, canta, leggi, mangia, gemi, prega, ma fa’ ciò che fai. E’ una ricetta di salute psichica, e sappiamo che gran parte delle nevrosi hanno origine dal non sapersi concentrare sul presente, rimuginando continuamente su ciò che è stato e su ciò che sarà.
Gesù stesso esorta a non affannarci per il domani perché a ogni giorno basta il suo affanno (cf Mt 7, 34). A Nazaret egli ha vissuto tale atteggiamento nell'abbandono totale all'ora dopo ora, al minuto dopo minuto, spogliandosi di ogni preoccupazione. Era infatti libero da tutto, anche se le ansietà sul futuro avrebbero potuto, almeno esteriormente, tentarlo: che cosa mai aspetti? Buttati, fatti valere.
Gesù vive nel silenzio la presenza al presente con pienezza e non con rimpianto.
- Il secondo atteggiamento è l'attesa serena. Siamo sempre in attesa di qualche cosa, dal momento che il nostro presente è aperto sull'avvenire, non chiuso in se stesso. Si tratterà di eventi o cambiamenti che desideriamo per la nostra vita o che dovremo affrontare; l'importante è saper attendere con pace. San Paolo ci esorta ad aspettare con amore la venuta di Gesù ed è questa l'attesa vera della nostra vita, che permea di serenità ogni nostra attesa.
- Il terzo atteggiamento raccomandato da Gesù è la pazienza, la capacità di sopportare i tempi lunghi senza esserne snervati. E’ una virtù poco esaltata, ma davvero preziosa e va domandata come grazia allo Spirito Santo.
- Da ultimo, dobbiamo avere la coscienza del dono di Dio che è l’oggi, del dono dei fratelli con cui camminiamo seguendo il Signore. Da tale coscienza sgorgano la gratitudine, la lode, la riconoscenza tutti atteggiamenti che sovente dimentichiamo, riservandoli per avvenimenti eclatanti o inattesi. La gratitudine per il presente che viviamo va invece coltivata in ogni momento.
Conclusione: il miracolo del presente
A modo di conclusione leggo alcuni brani di lettere scritte da una giovane ebrea Olandese, Etty Hillesum, morta a ventinove anni nelle camere a gas di Auschwitz il. 30 novembre 1943. Questa ebrea, non praticante, incontra gradualmente il mistero di Dio e tanto più lo adora quanto più entra nelle sofferenze del suo popolo.
Le lettere sono degli anni 1942-1943, quando Etty si trovava nel campo di Westerbork prima del trasferimento in Polonia. Scritte con un distacco, un umorismo, una serenità tali da stupire, mostrano come questa giovane donna ha vissuto il suo presente in una pace, una pazienza, un'umiltà incomparabili.
Scrive per esempio a un'amica: «Marietke, scriverai presto a Etty come stai? Sei allegra, sei triste, corri di qua e di là, stai tranquillamente a casa? E che dice Ernst, che dice Amsterdam, e papà Han che fa, e Kàte va a letto presto? Io cammino nel fango tra le baracche di legno, e allo stesso tempo cammino per i corridoi di quella che da sei anni è la mia casa; ora sono seduta a un tavolino disordinato in un piccolo ambiente rumoroso, ma sono anche seduta alla mia cara, disordinata scrivania. Molte persone mi dicono: "Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di vivere qui". Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente ogni cosa di "prima' (per me non è neppure un "prima"), e intanto la mia vita continua».
Interrompe la lettera e la riprende nel pomeriggio: «La mia anima è in pace, Maria, oggi mi sono state assegnate quattro baracche di malati, una grande e tre piccole; lì devo controllare se qualcuno ha bisogno che gli siano spediti viveri o bagagli da fuori. La cosa più bella è che ora ho libero accesso a quasi tutto il complesso dell'ospedale, e a quasi tutte le ore del giorno.
«Prendi queste poche parole come vengono, mia piccola Maria, qui non si riesce a scriver molto, le lettere che ti mando nei miei pensieri sono ben più lunghe di questa. Io sto bene e sono contenta, in fondo vivo qui proprio come ad Amsterdam, a volte non mi accorgo neppure di essere in un campo. E voi tutti mi siete tanto vicini che non mi mancate neppure. Jopie è un caro compagno. Di sera assistiamo al tramonto del sole, che si tuffa nei lupini violetti dietro il filo spinato. E probabilmente ritornerò ancora per la prossima licenza. Scrivi presto. Ciao!» (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 2001, pp. 65-66).
Le sue lettere sono davvero intrise di serenità del presente. Un presente di per sé terribile, drammatico, eppure da lei vissuto con pace e coraggio che traspaiono da ogni riga.
«Christine, sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno. Stamattina presto, la fila dei vagoni merci ha fatto il suo ingresso nel campo fangoso. Io stavo da una parte, e per una stretta apertura in alto, in un vagone, ho scoperto il cappello sgualcito e gli occhiali di mio padre, il cappello di mia madre e il magro viso di Mischa. E ora li accompagnerò nella loro via crucis, sono riconoscente di essere qui e di poter alleviare la loro vita in tante piccole cose sebbene in questo momento non ci sia proprio nulla da alleviare. Qui è una totale catastrofe. Nelle ultime ventiquattr'ore il campo è stato inghiottito da grandi ondate di ebrei. Ma devo dire che papà, la mamma e anche Mischa mi hanno sbalordita. E vero che papà è completamente indifeso, che in queste ore il suo colletto è diventato troppo, troppo largo e che la sua ispida barba grigia fa tanta pena. Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosuè. Ora stanno in una delle grandi baracche, un magazzino umano stipato al massimo dove per ogni tre persone ci sono due strette cuccette di ferro, nessun materasso per gli uomini, nessuna possibilità di riporre qualcosa da qualche parte, aria pesante, bambini che urlano, la peggior miseria immaginabile. Farò il possibile per aiutarli a superare queste difficoltà, personalmente mi sento molto forte e piena di coraggio anche se a volte tutto diventa buio e incomprensibile. [... ] Spero di trovare un letto stanotte, ogni millimetro quadrato è preso. La prossima volta scriverò di più. Prega un pochino per noi» (Ibidem, pp. 68-69).
Alla stessa Christine è indirizzata l'ultima cartolina, che Etty riuscì a buttare fuori del treno che la portava ad Auschwitz, prima di lasciare per sempre il territorio olandese, con la chiara consapevolezza del proprio destino: «Christine, apro a caso la Bibbia e trovo questo: "Il Signore è il mio alto ricetto". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall'Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty» (Ibidem, p. 149).
E’ quel miracolo del presente che la grazia può compiere anche in situazioni al limite dell'assurdo, e mostra come il regno di Dio viene proprio nelle circostanze più impensate.
Preghiamo la Madonna affinché ci ottenga di cogliere il miracolo di Dio in tutte le ore della nostra vita.


X MEDITAZIONE
Il silenzio del Padre
«O Dio Padre nostro, aiutaci a entrare nelle sofferenze di Gesù, nel suo cuore addolorato, trafitto, schiantato dai nostri peccati, per poter conoscere la sua misericordia, la sua bontà, e per crescere nel suo amore. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore, nella grazia dello Spirito Santo.»
Stiamo cercando, dal monte della Trasfigurazione, di contemplare qualche mistero della vita di Gesù. Il Tabor, come ho detto, è anche geograficamente in una posizione centrale, privilegiata per vedere da una parte Nazaret, dall'altra il lago di Tiberiade con le città dove Gesù predicava, poi la Samaria, la valle del Giordano, la via verso Gerusalemme. Ora meditiamo, proprio dal monte santo, sulla passione, e lo faremo secondo un'angolatura particolare: quando il Padre sembra tacere.
Le parole del Padre
Anzitutto ricordiamo che il Padre di Gesù parla nei vangeli. Poche le parole, ma decisive, incoraggianti e illuminanti. Parla al battesimo di Gesù e su Gesù: «Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17). Parla nella Trasfigurazione: «Questi è il mio Figlio prediletto, l'eletto. Ascoltatelo». Tutte parole di grande conforto per Gesù e per noi: ci manifestano la volontà di Dio, dichiarano che Gesù rappresenta veramente il mistero del Padre tra noi e che le sue parole (il Discorso della montagna, l'istituzione dell'Eucaristia) sono vere, da ascoltare, da prendere sul serio.
Pur se il IV vangelo non riporta né il racconto del Battesimo né quello della Trasfigurazione, Giovanni ricorda tuttavia una parola del Padre, pubblica e misteriosa. Quando si avvicinano gli ultimi momenti della sua vita a Gerusalemme, Gesù dice: «"Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire: Padre, salvanti da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica il tuo nome!". Venne allora una voce dal cielo: " L’ho glorificato e ancora lo glorificherò!' La folla che era presente e aveva udito diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: "Un angelo gli ha parlato". Rispose Gesù: "Questa voce non è venuta per me, ma per vol)2» (1 2, 27-30).
E’ dunque una voce del Padre che dà conforto a chi la sa capire, confermando e approvando la missione del Figlio.
Insieme alle poche voci esteriori che ho evocato, ne sottolineo una interiore del Padre, ripresa parecchie volte da Gesù nei discorsi che leggiamo nel vangelo di Giovanni. Per esempio in 5, 19-20: «Gesù riprese a parlare e disse: "In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati"». Stupendo l'intimo colloquio tra il Padre e il Figlio, e molto confortante. Gesù contempla il Padre e da lui impara ciò che deve fare.
Gesù non si sente solo: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che lo Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (8, 28-29).
Anche a noi capita di vivere talora un’esperienza simile, quando sentiamo che il Signore ci parla interiormente, ci conferma, ci incoraggia, ci sostiene. Viviamo cioè l'esperienza della consolazione, che è preziosa per la vita spirituale. Se non la provassimo almeno qualche volta, significherebbe che non siamo seriamente nella via di Dio.
Sant'Ignazio di Lojola nel libretto degli Esercizi dà molta importanza alle consolazioni e le descrive in maniera psicologicamente molto efficace. Cito dalle Regole per il discernimento degli spiriti: «Nelle persone che vanno intensamente purificandosi dai loro peccati, e che procedono di bene in meglio nel servizio di Dio nostro Signore, [... ] è proprio del cattivo spirito rimordere, rattristare, creare impedimenti, turbando con false ragioni, affinché non si vada avanti [il cattivo spirito che spesso ci tenta]. E’ proprio del buono spirito dare coraggio, forza, consolazioni, lacrime, ispirazioni e quiete, rendendo facili le cose e togliendo tutti gli impedimenti, perché si proceda avanti nel bene operare» (n. 315).
Davvero spesso ci accorgiamo di fare con slancio cose che sembrerebbero difficili e di sostenere sacrifici che mai avremmo pensato di saper compiere, perché siamo avvolti dalla consolazione interiore, che ci spinge a volare, a camminare di gran lena, a perdonare volentieri, ad aiutare gli altri con semplicità e spontaneità. E gli esercizi servono spesso per ritrovare il filone d'oro della consolazione, che magari si era nascosto sotto terra.
Leggo pure la Regola III, la cui descrizione è molto bella ed ampia: «Chiamo consolazione spirituale il causarsi nell'anima di qualche movimento intimo con cui l'anima resti infiammata nell'amore del suo Creatore e Signore», una crescita spontanea di amore, che non si sa da dove venga ma ci muove ad amare Dio, «e di conseguenza quando non riesce ad amare per se stessa nessuna cosa creata sulla faccia della terra, ma solo in relazione al Creatore di tutto». E’ grazia: uno si accorge che gli importa solo di Gesù e altre cose in relazione a Gesù. «Così pure c'è consolazione quando la persona versa lacrime che la spingono all'amore del suo Signore, o a causa del dolore dei suoi peccati, o per la passione di Cristo nostro Signore, o a causa di altre cose direttamente ordinate al suo servizio e lode.» Sono tutte le mozioni positive che ci fanno entrare nel mistero della pietà, della devozione, della facilità a pregare, ad adorare, a lodare. «Infine chiamo consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità e ogni tipo di intima letizia che sollecita e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, rasserenandola e pacificandola nel proprio Creatore e Signore» (n. 316).
Nel corso della nostra vita potremo leggere cento volte queste Regole e sempre le troveremo pertinenti al nostro cammino, ne saremo illuminati.
La consolazione dello spirito è una grazia da desiderare, è il colloquio interiore del Padre con noi, è Gesù che si fa nostro maestro.
Il Padre sembra tacere
Ci sono tuttavia momenti nei quali Dio sembra tacere. Nei vangeli il momento più drammatico in cui si vedono le conseguenze dei silenzio di Dio è rappresentato plasticamente nell'episodio del Getsemani, che corrisponde specularmente a quello della Trasfigurazione. Come ho sottolineato all'inizio degli esercizi, noi facciamo meno fatica a contemplare il santo volto dolente e sofferente di Gesù che il volto luminoso sul Tabor. La sofferenza infatti è un'esperienza più congeniale a noi, più vicina alla quotidianità.
Lascio a voi di leggere l'episodio del Getsemani in Mc 14,32-40.
Insieme vogliamo contemplare anzitutto i sentimenti negativi di Gesù: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni [i tre discepoli della Trasfigurazione] e cominciò a sentire paura e angoscia» (v. 33). E’ una descrizione terribile. Il Figlio di Dio sperimenta la paura, la paura che avevano provato i discepoli entrando nella nube. Qui la paura è assai più dolorosa, drammatica e dirompente, perché carica di angoscia. Mentre la paura nasce dalla prospettiva di un male imminente e inevitabile, l'angoscia è la ristrettezza del respiro propria di chi ha la percezione di una tragedia da cui non sa come uscire. Manca il respiro, si è come stritolati dagli eventi. Gesù vive questi sentimenti e le sue parole, durissime, ci stupiscono e ci smarriscono: «Disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte"» (v. 34). Mi stupisco sempre di questo «fino alla morte», cioè fino ad essere schiacciato dalla tristezza.
Immaginiamo allora il volto di Gesù, che nella Trasfigurazione era luminoso come il sole, e qui appare triste, sconsolato, tremante. E’ il volto di un uomo che sperimenta una terribile desolazione.
E il Padre non parla, tace, non interviene a rassicurarlo, a confortarlo. Gesù invece, prostrato a terra, si rivolge quasi disperatamente a Dio, cerca il colloquio con Lui, ripetendo a lungo, forse per un'ora o due, la parola che, nella formula più tenera, recitava nelle sue preghiere: «Abbà, papà mio!»; e continua: «Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (v. 36). Grida verso il Padre, invoca, chiede di essere liberato da questo calice, ma non riceve risposta. Nemmeno lo confortano i tre discepoli. che si sono addormentati: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola?» (v. 37).
Dunque la desolazione di Gesù è totale.
Sant'Ignazio negli Esercizi spirituali presenta puntualmente quegli stati di desolazione che prima o poi segnano il nostro cammino: «Chiamo desolazione tutto ciò che si oppone a quanto ho detto in precedenza sulla consolazione, ad esempio l'oscurità dell'anima, il suo turbamento [nervosismo, inquietudine, agitazione di passioni] l'inclinazione alle cose basse e terrene [tentazioni impure, fantasie, sensualità, golosità] l'inquietudine dovuta a vari tipi di agitazioni e tentazioni». Sono tutti moti interiori che portano l'anima - dice sant'Ignazio - a essere «sfiduciata, senza speranza, senza amore. E la persona si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore» (n. 317).
Pensiamo a santa Teresa di Gesù Bambino, che riferendosi all'ultimo anno e mezzo della sua vita, scriveva: non vedo più il cielo sopra di me, sono entrata in un tunnel, come se Dio non esistesse. E aggiungeva: mangio alla tavola degli increduli, sento in me le tentazioni del mondo contro la fede, mi pare che tutto sia illusione.
Gesù ha provato per noi questa desolazione, sapendo che inevitabilmente ci avrebbe toccato. Il Padre, tacendo, ha lasciato che il Figlio per amore nostro fosse avvolto da un tunnel oscuro.
Riprendo il testo di sant'Ignazio: «Come la consolazione è contraria alla desolazione, così i pensieri che nascono dalla consolazione sono opposti ai pensieri che nascono dalla desolazione», pensieri disfattisti, cinici, irritati, amari (n. 317). Chi è nella desolazione ha l'impressione, se prega, se celebra la Messa o vi partecipa, di ingannare se stesso e gli altri.
La vita spirituale è dunque intessuta di luci e di ombre, di consolazione e desolazione. Dalla consolazione sorgono allegria, serenità, scioltezza, spontaneità, dalla desolazione amarezza, pesantezza, non voglia, stanchezza, nevrosi, forme di blocco. Eppure la desolazione è un passaggio provvidenziale per la purificazione della nostra fede e per la nostra trasformazione in Cristo, nella misura in cui resistiamo. Viene alla mente la Regola V di sant'Ignazio: «In tempo di desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano il giorno precedente a tale desolazione o nella decisione che si aveva nella precedente consolazione. Perché, mentre nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, nella desolazione ci guida quello cattivo, con i consigli del quale non possiamo imbroccare nessuna strada giusta» (n. 318).
Ci sia di esempio Gesù nel suo mirabile continuare a parlare, anche dalla croce, con un Padre che tace.
Le parole di Gesù in croce
Una prima parola molto forte la leggiamo in Lc 23,34: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Gesù si rivolge al Padre, non tenendo in conto il suo silenzio.
Un’altra parola è in Lc 23, 46: «Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». La tendenza della desolazione sarebbe di fuggire, di scendere dalla croce, di rinnegare il Padre, ma Gesù vince la desolazione consegnandosi.
Un’ultima parola, terribile, è riportata da Marco e da Matteo, non da Luca. Mc 15, 33-34: «Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: "Eli, Eli, lamà sabactàni?", che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (cf Mt 27, 45~46). Un’espressione sconvolgente, che facciamo molta fatica a capire, e non a caso da due millenni teologia cerca di spiegarla.
Certamente va considerata nel contesto del Salmo 22 di cui è l'inizio, dove il salmista lamentandosi con Dio manifesta ugualmente fiducia: se mi lamento con Dio, vuol dire che mi ascolta, che c’è che è là per me.
In ogni caso è una parola drammatica: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché non mi parli più e non intervieni? Perché mi lasci morire così umiliato? Perché mi lasci sbeffeggiare così e non mi fai sentire in questo momento che sei mio Padre?
Gesù è nel buio più profondo e lo vive per noi, per aiutarci a capire che, anche quando siamo in questo buio, non tutto è perduto, anzi è l'inizio della salvezza.
Alcuni teologi, come Hans Urs von Balthasar, vanno oltre, ritenendo che qui Gesù sperimenta quella solitudine e quel distacco da Dio proprio del peccatore, sperimenta l'inferno. Si comprenderebbe allora la straordinarietà dell'angoscia di Gesù al Getsemani, il suo sudare sangue: senza avere peccato, vive l'esperienza di essere senza Dio, di non avere più contatto con Lui, di essere abbandonato. Come dice san Paolo, Gesù ci riscatta dal peccato e dalla maledizione (cf Gal 13, 3), assumendo la condizione del peccatore, che é lontananza da Dio. Con la differenza che il peccatore non si accorge della sua condizione, perché tutto preso dai beni effimeri del mondo.
A questo punto traggo una conseguenza per noi, che affido alla vostra meditazione: dobbiamo avere orrore del peccato, cioè di quel distacco da Dio che Gesù ha vissuto in maniera lacerante e dirompente. Non si comprende la gravità del peccato quando lo si intende come trasgressione della Legge, ma quando viene colto nella sua vera natura: lontananza da Dio, separazione dal Padre, rottura delle relazioni tra Figlio e Padre.
Concludo affidandovi tre indicazioni pratiche, che sant'Ignazio dà nelle Regole sulla desolazione (VI, VII, VIII).
Regola VI: «Visto che durante la desolazione non dobbiamo cambiare i primi propositi, gioverà molto reagire intensamente contro la stessa desolazione, restando per esempio più tempo nella preghiera, allungando gli esami e protraendo, secondo che sarà meglio, qualche tipo di penitenza» (n. 319). E’ il principio dell'agere contra, che ci permette di vincere la tentazione.
Regola VII: «Chi si trova nella desolazione consideri come il Signore lo lasci nella prova affidato alle sue forze naturali, perché resista alle molte agitazioni e tentazioni del nemico; infatti può fare ciò con l'aiuto divino che sempre gli resta, sebbene non lo senta chiaramente perché il Signore gli ha sottratto il suo grande fervore, l'intensità dell'amore e della grazia, pur lasciandogli la grazia sufficiente per la salvezza eterna» (n. 320). E’ una regola molto importante, perché ci assicura che tutto possiamo fare, con l'aiuto di Dio, anche se non lo sentiamo.
E infine la Regola VIII: «Chi si trova nella desolazione si sforzi di perseverare in quella pazienza, che è contraria alle vessazioni subite, e pensi che sarà presto consolato» (n. 32 1). Chi è in una galleria oscura, non ne vede la fine, ma poi scorge d'improvviso la luce. L’importante è resistere e sopportare con pazienza.
La nostra certezza è che Gesù ci guida attraverso le prove della vita. Abbandonandosi a Dio, ci fa capire che non c'è situazione tanto disperata che ci impedisca di essere salvati affidandoci con amore al Padre. Ci insegna che anche se Dio risponde col silenzio a nostre preghiere, ci è sempre vicino con la tenerezza di un Padre e non permetterà che nessuno dei suoi figli vada perduto. Gesù ha vissuto la gloria del Tabor per essere preparato al silenzio di Dio. E noi, meditando i racconti della passione, possiamo dire con lui: «Padre, si compia in me non la mia, ma la tua volontà. Dammi la forza di amarti anche quando taci, di resistere al maligno con la grazia del tuo Spirito. Dona a quanti passano per il tunnel tenebroso nel quale è passato il tuo Figlio Gesù la forza di resistere e di attendere».
Così la nostra preghiera si unirà alla preghiera sofferente di Gesù.


XI MEDITAZIONE
Gesù umiliato
Continuiamo a contemplare la passione di Gesù, che abbiamo iniziato a meditare soprattutto a partire dal Getsemani. Certamente la meditazione sulla passione si può fare in molti modi e suggerisco di utilizzarne oggi qualcuno.
Il più semplice è di leggere i fatti uno dopo l'altro: dal Getsemani all'arresto, ai processi giudaici, al processo romano, l'invio ad Erode, la flagellazione, la condanna a morte, la coronazione di spine, gli improperi dei soldati, il cammino verso il Calvario, la crocifissione, la morte e la sepoltura. Tutti misteri, incominciando dalla condanna, che si venerano ogni venerdì a Gerusalemme, con la Via crucis che si svolge per le strade della città, le stesse strade, più o meno, percorse da Gesù. Sempre a Gerusalemme, nella basilica dei Santo Sepolcro, si rivive ogni pomeriggio la passione, in una processione ricca di canti antichi in latino, che sosta davanti agli altari, dalla flagellazione fino alla tomba.
Ci sono altri modi di meditare la passione, per esempio esaminando gli attori del dramma: amici, nemici, persone indifferenti. E’ un microcosmo di personaggi, che hanno sentimenti diversi e violenti; agiscono l'uno contro l'altro o l'uno insieme all'altro, in uno scatenamento di invidie, di odi, di intolleranza, di slealtà, di connivenza. t veramente un processo alla cattiveria umana.
Noi ci proponiamo di contemplare Gesù umiliato, ricordando che, quando predice la sua passione e morte, si sofferma in particolare sulle umiliazioni.
Il rifiuto delle autorità
Leggiamo in Mc 8, 3 1: «E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi». Di solito si passa sopra a questa parola come se non significasse molto, ma in realtà è drammatica: gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi rappresentano ufficialmente il popolo, nell'ambito della teologia, del diritto, del culto, e sono quindi le persone alle quali si rende onore. Gesù non è soltanto riprovato da qualche nemico particolare, da qualche gruppo malvagio, da qualche banda di scatenati, bensì dalle autorità più rispettabili dei suo tempo. Continua il testo: «Poi venire ucciso [quindi deve essere eliminato, non deve vivere, non ne ha il diritto] e dopo tre giorni risuscitare»: notiamo che la predizione delle sue umiliazioni e della sua morte prevede anche una risurrezione, quale parte integrante del mistero pasquale.
* Un’altra predizione della passione è in Mc 10,32-34:«Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risusciterà"». Gli scherni, gli sputi, il supplizio vergognoso della flagellazione, rappresentano quelle umiliazioni che Gesù prevede e accoglie come parte del suo proposito di andare fino in fondo. Umiliazioni gravi e incisive per la vita di chi vive in un popolo provvisto di strutture, di autorità, di leggi che non si mettono in discussione. Gesù è messo in questione da queste autorità e da queste leggi.
Tutti i racconti della passione potrebbero essere riletti nella prospettiva di Gesù umiliato. Ho pensato di contemplare insieme con voi il luogo dove le umiliazioni raggiungono il loro culmine: la croce.
Umiliazioni sulla croce
Sulla croce Gesù è ormai un vinto, un impotente, uno di cui non si ha più paura, e perciò tutta la perfidia, la vigliaccheria umana si scatena. Prima avevano paura di attaccarlo apertamente, ma ora che non può più nuocere, tutti si scagliano contro di lui. E’ un segno tipico della vigliaccheria umana godere nell'umiliare i deboli.
* Significativo il testo di Mt27, 39-44: «E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: "Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!". Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! E’ il re di Israele, scenda dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!". Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo».
E in Mc 15, 29-32 leggiamo: «I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!". Egualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: "Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo. Anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano».
Luca aggiunge (23, 35-39): «Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso".
C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi é il re dei Giudei. Uno dei malfattori appeso alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!"».

Tenendo presenti le descrizioni degli insulti, vogliamo riprenderle per capire come si comportano le diverse categorie di persone.
Luca segnala che non tutti lo insultano: «Il popolo stava a vedere». Dunque la gente semplice trepidava, giudicando vergognoso ciò che accadeva, ma non poteva dire apertamente che i capi stavano sbagliando. Nel verso 48 di Luca viene annotato che, dopo la morte di Gesù, «tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto». E’ una dinamica interessante: il popolo, dapprima neutrale e perplesso, successivamente si pente.
Consideriamo poi coloro che invece si fanno beffe di lui. Anzitutto i passanti (cf Mt27, 39-40), alcuni dei passanti, che lo insultavano scuotendo il capo. L’espressione è presa dal Salmo 22, 8 («scuotevano la testa») e sta a dire: costui si è tanto vantato e adesso non sa far niente, è un povero illuso. E infatti gli ricordano le parole di uno dei capi di accusa: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso! Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce!». Si prendono gioco di quel potere che Gesù aveva mostrato nel compiere i miracoli. Un insulto che ferisce profondamente il cuore di Cristo e lo vedremo meglio meditando le parole dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli anziani.
I capi, come afferma Luca (23, 35), sono anche più duri: «Lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso" ». Irridono la sua bontà, la sua misericordia, il suo amore per noi e mettono addirittura in forse il fatto che abbia salvato altri. «Se è il Cristo di Dio, il suo eletto» (viene alla mente la voce dall'alto nel racconto del Battesimo e nell'evento del Tabor). Secondo i capi, Dio non può permettere che il suo eletto muoia in quel modo. E’ un attacco diretto all'azione di Dio in Gesù crocifisso, alla missione di Gesù, è il rifiuto dell'agire di Dio nel Figlio suo che va alla morte.
Anche Marco riporta lo stesso, invito a scendere dalla croce che leggiamo in Matteo: «Il re di Israele scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo» (15, 32). E’ una ferita mortale per Gesù che si trova nel terribile dilemma: se scende dalla croce forse crederanno, però andrebbe contro il disegno di Dio, presentando un'immagine di Dio incapace di solidarizzare col peccatore fino in fondo. Sulla croce mostra quindi che proprio perché è Figlio di Dio si lascia crocifiggere, affronta la drammatica serietà della croce che gli viene imputata come segno della falsità della sua vita, per restare solidale con l'uomo peccatore e amarlo fino alla morte.
Per Matteo proferiscono il terribile insulto anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani (27, 4243): «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! E’ il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo». Poi viene citato il Salmo (22, 9) e il Libro della Sapienza (2, 18): «Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!». E’ una sfida che mette in gioco la visione di Dio; ma Dio, che gli è Padre e gli vuole bene, non lo libera.
I soldati, dal canto loro, agiscono secondo i criteri di potere, di efficacia: «I soldati lo schernivano. e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso"» (Lc 23, 36~37). Sono pagani e non concepiscono che possa regnare con la povertà, l'umiltà, la mitezza, la pazienza e l'accettazione della morte. Se sei un re, devi avere il potere, devi difenderti, chiamare i tuoi soldati perché ti liberino; non credono che un re sia privo di potere.
Da ultimo guardiamo i due crocifissi con Gesù. Matteo e Marco si limitano a osservare che lo schernivano anche i ladroni crocifissi con lui. Probabilmente nella loro semplicità si erano detti: quest’uomo tanto potente forse ci salverà, dal momento che saremo giustiziati insieme a lui. Accorgendosi però che non salva nemmeno se stesso, si sentono traditi e lo beffeggiano. Tuttavia Luca annota che uno dei due ragiona diversamente: «Uno dei malfattori appesi alla croce lo
insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male"». Il «buon ladrone» intuisce ciò che né i sacerdoti né la gente capiscono, intuisce che Gesù realizza le profezie di Isaia: il giusto soffrirà. «E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"». Crede con una fede straordinaria che il Signore ha un Regno, un Regno non di questo mondo perché altrimenti non sarebbe sulla croce, e spera che quando vi entrerà si ricorderà di lui. E’ un peccatore, un malfattore; è il primo salvato. Infatti si sente rispondere: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23, 39-43). Quindi colui che fino in fondo ha condiviso le sofferenze di Gesù, senza pretendere di essere liberato ma anzi riconoscendo la propria colpa, riconoscendo misteriosamente che c'è un giusto trattato ingiustamente, viene perdonato e salvato.
Vi invito a rivivere i quadri della passione riprendendoli punto per punto, per chiedervi: Signore, che idea ho di te, della tua regalità, della tua divinità? Come mi sarei comportato? Come ti avrei apostrofato?
Conclusioni
Dalla nostra contemplazione traggo una conclusione espressa molto fortemente negli Esercizi di sant'Ignazio: non è un male l'essere umiliati, perché in tal modo partecipiamo alla sorte di Gesù. Quando qualcuno ci umilia, istintivamente ci ribelliamo, vorremmo difenderci, oppure restiamo confusi e smarriti. Ma Gesù, che ha scelto di passare per questa via, ci chiama a seguirlo e ci insegna a percorrerla con lui.
Accettare le umiliazioni è scandalo per la logica del mondo; fa parte del mistero del Vangelo, ed è quella verità proclamata nelle beatitudini.
In proposito mi rifaccio a un libro di un autore tedesco, Dietrich von Hildebrand, pubblicato negli anni Cinquanta: La Formazione in Cristo (ed. Morcelliana, Brescia 1952), in cui sono indicati i passi successivi di tale trasformazione. In un capitolo molto bello, intitolato La santa mansuetudine, von Hildebrand spiega che cos'è la mitezza. Leggo la prima pagina: «San Paolo pone la mansuetudine tra i doni dello Spirito Santo. Essa è una irradiazione della Carità soprannaturale e annovera tra i suoi presupposti, in particolar modo, la pazienza e la pace interiore.
«Appartiene a quelle virtù che possono fiorire in noi solo su fondamento della rivelazione. E non solo postula la conoscenza dello stato metafisico dell'uomo [l'uomo creato da Dio, opera delle sue mani, quindi necessariamente umile] ma ancora del mondo nuovo del soprannaturale, il fallimento di tutte le unità di misura puramente naturali, la luce nuova che emana dalle parole del Sermone della montagna per le quali il mondo naturale fu per così dire innalzato al di sopra dei suoi cardini. Essa presuppone anche che noi sappiamo come Dio, il Signore onnipotente, Creatore del cielo e della terra, sia l'Amore stesso, e che non è destinata alla vittoria definitiva l'energia naturale né la potenza, bensì l'umiltà e la mitezza del cuore. "Fece scendere dal loro trono i potenti ed esaltò gli umili" (cf Lc 1, 52). Dio non ha redento il mondo con la forza, ma con la morte sulla croce dell'uomo-Dio, e Gesù Cristo non ci ha comandato di diffondere nel mondo la sua Verità col fuoco e con la spada, ma di annunziarla come prigionieri del suo amore. La base etica da cui dobbiamo vincere il mondo è la carità umile e dolce. "Beati i mansueti perché essi possederanno la terra" (Mt 5, 5) ».
Spiega poi ampiamente che la mitezza non è semplice bonomia o arrendevolezza naturale, ma è una forza interiore formidabile. E’ la forza di Dio che vince il mondo.
Domandiamo la grazia di partecipare a questa forza, perché la virtù della mitezza evangelica che Gesù esprime in maniera eroica sulla croce, va vissuta quotidianamente.


XII MEDITAZIONE
Sotto il segno dell'amore
«Nella memoria della risurrezione gloriosa del Cristo tuo Figlio, donaci, Padre, di entrare nello spirito dell'ultima giornata di esercizi, godendo della gloria e gioia di Gesù, per poterla sentire dentro di noi e poterla testimoniare ad altri. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.
Tra poco, infatti, riprenderemo la vita quotidiana, con le sue fatiche e le sue banalità, ma portiamo con noi la luce taborica e, illuminati da essa, sappiamo che la vita di ogni giorno è, in realtà, luogo in cui si mostra la gloria nascosta di Gesù, è luogo in cui cresciamo nella fede speranza e carità, in cui il Regno viene e la volontà di Dio si compie.»
Nella quarta Settimana degli Esercizi di sant'Ignazio, la Settimana della risurrezione, siamo invitati a «osservare il ruolo di consolatore che assume Cristo, paragonandolo a quello degli amici che consolano altri amici» (n. 224).
Richiamo altri due impegni che caratterizzano quella Settimana.
Anzitutto, «chiedere grazia per rallegrarmi e godere intensamente per la grande gloria e gioia di Cristo nostro Signore» (n. 221). È una grazia non facile, ma essenziale al cristiano per partecipare alla gioia del Risorto che vive in mezzo a noi.
Il secondo impegno è di «considerare come la divinità, che sembrava nascondersi nella passione, appare e si mostra ora tanto miracolosamente nella santissima risurrezione, attraverso i veri e meravigliosi effetti di essa» (n. 223), contemplare la divinità che si mostra in Gesù.
Sono quattro gli spunti di riflessione che vi offro: l'importanza della consolazione; il Tabor come esperienza di consolazione; alcuni casi in cui il Risorto consola i suoi; infine, la vita cristiana sotto il segno della consolazione e della gioia.
L’importanza della consolazione
Abbiamo già detto che per sant'Ignazio la consolazione è un motore potente per camminare, per volare sulle vie della santità perché mette le ali ai piedi (cf Esercizi, Regola III, n. 316).
Pensiamo inoltre al bellissimo inno di san Paolo, che possiamo fare nostro: «Sia benedetto Dio, padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo» (2 Cor 1,3-6). L’Apostolo si sente consolato, vive forti esperienze di consolazione. Egli sa che non sono solo per sé, ma pure per i suoi, a cui pensa sempre, e sa che comunque, sia nella consolazione sia nella tribolazione, aiuta altri. Questo vale anche per la nostra azione pastorale.
La situazione dell'essere consolati da Dio è davvero tipica della vita cristiana. E se il Signore ci fa passare attraverso le prove è perché ne emerga consolazione e conforto.
La consolazione del Tabor
Il Tabor è certamente un'esperienza forte di consolazione per Gesù e per i discepoli. Lo è in quanto mostra il senso complessivo degli eventi di Gesù, collocandoli nel quadro del Primo Testamento e in quello del futuro esodo a Gerusalemme, quindi nel quadro della morte, risurrezione, ascensione, gloria del Signore.
È estremamente importante l'allargamento della visuale e spesso la consolazione può essere semplicemente un ampliamento di orizzonti. Quando ci concentriamo su un evento spiacevole, ne restiamo ipnotizzati e lasciamo dilagare la tristezza in tutto il nostro umore. Se invece allarghiamo le prospettive, leggendo l'evento quale momento di un cammino provvidenziale, torniamo a respirare e riprendiamo coraggio. La Trasfigurazione è appunto l'invito a guardare l'insieme dei misteri e a non farci bloccare da un piccolo o da piccoli episodi.
La Trasfigurazione sul Tabor contiene inoltre un anticipo e una promessa della risurrezione di Gesù, attraverso simboli e parole.
I simboli sono il volto di Gesù splendente come il sole e le vesti bianche come la luce. Simboli - e l'abbiamo già evocato - che rimandano espressamente all'angelo della risurrezione, presente presso la tomba in Mt 28, 3, il cui aspetto era «come la folgore» e le cui vesti «bianche come la neve». Splendore e candore sono il simbolo della vittoria sulla morte e della pienezza di vita. Gesù sul Tabor è già colui che sa vincere la morte.
L’anticipo della risurrezione appare anche nelle parole. La prima è «esodo» e indica il compimento della missione del Figlio di Dio, che morirà, risorgerà e ritornerà al Padre.
Una seconda parola è «gloria». Pietro nella Seconda Lettera sottolinea di essere stato testimone oculare di quell'evento straordinario in cui Gesù «ricevette onore e gloria da Dio Padre» (1,17). E nel racconto di Luca 9, 32 leggiamo che «videro la sua gloria», ossia la gloria definitiva che si manifesterà nella risurrezione.
Tutte le volte che riusciamo a dire: sto soffrendo, ma un giorno avrò il centuplo e il volto di Gesù mi si manifesterà nella pienezza del suo amore, sentiamo in noi la forza della consolazione e sperimentiamo quindi un anticipo di risurrezione.
Gesù risorto consola i suoi
Che cosa potevano aspettarsi gli apostoli dal Risorto? Non avevano la coscienza a posto: erano fuggiti, l'avevano abbandonato, si erano lasciati prendere dalla paura, qualcuno lo aveva tradito, quasi nessuno era sotto la croce. Forse immaginavano che, se Gesù fosse apparso, li avrebbe rimproverati e criticati.
Invece il Risorto, presentandosi a loro, non giudica il comportamento che hanno avuto, non critica, non condanna, non rinfaccia i ricordi dolorosi della loro debolezza, ma conforta e consola. Le uniche parole di rimprovero rivolte sia ai discepoli di Emmaus (Lc 24, 25), sia agli apostoli (Mc 16, 14), non si riferiscono al fatto che lo hanno abbandonato e che, dopo tante promesse, tante parole altisonanti (moriremo con te, verremo con te), si sono dimostrati inaffidabili; si riferiscono piuttosto alla loro poca fede. Avrebbero dovuto credere alle Scritture, alle sue parole e alla testimonianza di chi lo aveva visto risorto. Gesù, che vuole il bene di questi poveri apostoli tramortiti, smarriti, confusi, umiliati, interiormente sconvolti dalla certezza di essere cosi deboli, non tiene conto della loro fragilità, ma li consola e li rilancia.
Soffermiamoci su alcuni esempi di discepoli consolati.
Il primo è nel racconto di Gv 20, 11-16: Maria Maddalena che piange al sepolcro perché si è spezzato il legame terreno col Maestro. Gesù non la rimprovera, anche se le sue lacrime sono dovute a mancanza di fede, a incomprensione del mistero del Risorto. Delicatissimamente interpella la donna, entra nel dolore che vive a partire dalla sua situazione confusa: «Perché piangi? Chi cerchi?». Poi ascolta la risposta goffa e sbagliata: «Dimmi dove l'hai posto e io
andrò a prenderlo». Allora la chiama per nome: «Maria!», una parola che la ricolma di consolazione e le consente di riconoscerlo in verità e pienezza. L’agire di Gesù è un modello stupendo di consolazione che, passando sopra a tutti i difetti, coglie il meglio della persona. Egli sapeva che Maria lo amava e, pronunciandone il nome, risuscita la fiamma del suo amore.
Il secondo esempio riguarda i discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35). Mentre l'episodio della Maddalena rappresenta il passaggio dal pianto all'esultanza, quello dei discepoli di Emmaus rappresenta il passaggio dallo smarrimento alla chiarezza. I due non piangono, ma sono smarriti, delusi perché Gesù non ha ricostruito il regno di Israele; sono addolorati per la morte del Maestro e insieme sono sconvolti dalle notizie di alcune donne le quali affermano che
il Signore è vivo. Gesù prende occasione dalla loro delusione e dal loro sconvolgimento per spiegare le Scritture, scaldare il cuore e portarli di fronte alla mensa eucaristica. Anche qui con infinita pazienza, agisce positivamente, li illumina e fa cogliere il senso, l'unità, l'ordine, la coerenza, la logicità, la necessità dei testi sacri. È una sorta di lectio divina, che chiarisce e scalda il cuore. I due discepoli, senza capire chi era colui che parlava con loro, si dicevano con stupore: abbiamo ritrovato la pace, la serenità, il conforto, i blocchi che ci intristivano sono stati superati e quelle che sembravano disgrazie ora sappiamo leggerle come situazioni provvidenziali. Gesù compie una consolazione tipicamente biblica, che consiste nello spiegare, a partire dalle Scritture, la ragione di una storia, di una vicenda.
Ancora in Lc 24 il Risorto appare ai discepoli (vv. 36-42). È il passaggio dalla paura alla gioia. Essi infatti sono pieni di paura, l'ipotesi stessa che Gesù sia risorto li spaventa e quasi temono di essere respinti, di sentirsi dire: non vi conosco più, siete incoerenti, bugiardi, fanfaroni. Gesù, anche qui, non pronuncia nessuna delle parole che temevano. Con immensa pazienza si fa riconoscere: guardate, sono io, toccatemi, datemi da mangiare; si sforza di metterli a loro agio, presentandosi come uno di loro, vicino a loro, come amico.
Straordinaria infine la manifestazione di Gesù ai discepoli sul lago di Tiberiade e il colloquio con Pietro, dove il passaggio è dalla vergogna alla fiducia ( Gv 21, 1-19). Il Risorto non rimprovera nessuno: stando sulla riva del lago, consiglia come fare una buona pesca e riempie così il cuore dei discepoli di soddisfazione umana, quasi a sottolineare che è sempre disposto ad aiutarli. Già qualche anno prima Pietro l'aveva sperimentato sul lago di Tiberiade, allorché aveva gettato allargo le reti sulla parola del Signore.
Quando i discepoli tornano a riva, Gesù offre loro da mangiare, senza dire nulla, per non precipitare le cose, per far sì che abbiano modo di rifocillarsi e di riposare dopo avere faticato tutta la notte. È un tocco delicatissimo. Successivamente pone a Pietro per tre volte la domanda: «Pietro mi ami tu?», che permette implicitamente a Pietro di risalire dal suo tradimento, senza alcun rimprovero. Gli riconsegna anzi il mandato, rinnovando gli totalmente la fiducia:
«Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».
Questa è veramente consolazione regale: non approfittare dell'umiliazione altrui per schernire, schiacciare, mettere da parte, ma riabilitare, ridare coraggio, ridare responsabilità.
Per consolare così, penso che bisogna essere come Gesù, cioè avere in sé una grande gioia, un grande tesoro, perché allora è facile comunicarlo. Il Signore, che ha il tesoro della sua vita divina, fa calare la consolazione come balsamo, goccia a goccia. E noi nella certezza di essere in comunione con lui, possiamo far calare la consolazione goccia a goccia, senza rimproveri né presunzione.
Sotto il segno dell'amore
Infine, a modo di conclusione, vorrei affermare che tutta la vita cristiana è sotto il segno della consolazione e della letizia. Per questo nelle Regole per il discernimento degli spiriti della seconda Settimana, sant'Ignazio scrive: «È proprio di Dio e dei suoi angeli dare con le loro mozioni vera letizia e godimento spirituale, togliendo qualsiasi tristezza e turbamento inoculati dal nemico [è una regola fondamentale. Dio agisce dando letizia e gioia, rimuovendo tristezza e turbamento] mentre è proprio del nemico combattere contro tale letizia e consolazione spirituale, adducendo ragioni speciose, sofismi e continue falsità» (n. 329). In verità, è incredibile la serie delle sottigliezze, delle piccole menzogne, con cui satana cerca di toglierci la
gioia (preoccupazioni, previsioni, ansietà, turbamenti); tutto è utile a satana, e spesso riesce nei suoi intenti. Nostro compito è di combattere contro la tristezza che occupa il nostro cuore e il cuore di tanta gente, cercando di smontare le ragioni di depressione, di amarezza, di sconforto, di disperazione.
La vita cristiana e pastorale è dunque sotto il segno della consolazione e della letizia. E questo perché è sotto il segno dell'amore, che potremmo riferire come cifra conclusiva dei nostri esercizi.
Abbiamo riflettuto sull'insieme della storia e della realtà dell' universo utilizzando la duplice sigla «Essere e tempo». Ora sappiamo che l'Essere di Dio è Amore e il tempo è il luogo nel quale il Padre «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». L’universo perciò è fondato sull'Amore, sull'Essere che è Amore e sul tempo che è espressione di amore; l'universo è fondato su creazione e alleanza e se la creazione è un atto di purissimo amore, l'alleanza è un atto di amore folle, che esce da se stesso.
Mi piace leggere così anche il binomio esercizi-vita: espressione di amore, contemplazione dell'amore di Dio e desiderio forte di comunicarlo a tutti coloro che ci sono affidati e al mondo intero.
Rimettiamoci alla grazia dello Spirito Santo, perché ciò che abbiamo visto della luce del Tabor rimanga e illumini i nostri cuori, fino a che vedremo la più grande luce, la luce eterna, che è la pienezza della vita di Dio.


                                         OMELIE


Omelia nella Messa di mercoledì 17 settembre 2003
La bellezza della Chiesa
«Carissimo, ti scrivo nella speranza di venire presto da te; ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che é la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, / fu giustificato nello Spirito, / apparve agli angeli, / fu annunziato ai pagani, / fu creduto nel mondo, / fu assunto nella gloria» (1Tm 3, 14-16).
La Lettera di san Paolo a Timoteo è un bell'esempio di amicizia fra un apostolo anziano e un presbitero giovane. Timoteo si appoggia a Paolo, che cerca di incoraggiarlo e confortarlo, perché è agli inizi del suo ministero ed è quindi facilmente preso dallo scoraggiamento, dalla paura, dal senso della solitudine. Paolo lo educa, con un affetto che nasce dall'amo del Signore che l'apostolo stesso sperimenta: « scrivo nella speranza di venire presto da te», vorrei esserti vicino per sostenerti; «ma se dovessi ritardare» non importa poi tanto, tu ormai sei adulto, sai che I Chiesa è il tuo sostegno.
A dire che il Signore ci guida a poco a poco partire dagli appoggi umani, che sono utili e belli importanti - a trovare sostegno e conforto nella Chiesa, in quella grande realtà uscita dal costato trafitto di Cristo, che è costituita da tutti i cristi sparsi nel mondo e nella quale troviamo il luogo dove abitare sereni e sicuri.
Ricordo che quando ero ragazzo mi ponevo la domanda: come si fa ad amare la Chiesa? La domanda era giusta, perché conoscevo la Chiesa solo come può conoscerla un bambino, battezzato e che ha fatto 1a prima Comunione. Ma la Chiesa l'ho amata a man a mano che ho investito in essa le mie energie, cercando di servirla e giocandovi la mia vita. Allora mi è diventata familiare e la riconosco come madre che mi ha generato, nutrito, sostenuto.
La amo anche perché manifesta la potenza di Dio. La Chiesa infatti è la casa voluta da Dio, l'edificio da lui piantato quale «colonna e sostegno della verità» scrive Paolo -, e in essa mi sento al sicuro. E’ una casa dove possono esserci talora invidie e calunnie. E tuttavia la Chiesa è più grande degli uomini, perché è la sposa di Cristo e con gli occhi della fede la vediamo come regno di Dio che viene.
Chi inizia l'esperienza di Chiesa può essere preso da paure e da timore, ma se persevera la scorge in tutta la sua verità e maternità.
E io prego per voi, nel desiderio che la conosciate sempre meglio come madre, come luogo in cui ci si sente a proprio agio; se un giorno venisse meno per voi un sostegno umano o un'amicizia troverete sempre in essa una dimora accogliente.
La sicurezza della Chiesa deriva soprattutto dal mistero della fede, da Gesù proclamato in essa, che Paolo chiama «il mistero della pietà», per ricordarci che è un mistero di Amore. Pietà infatti significa amore compassionevole per noi di Dio, che ci è vicino con tenerezza, ci capisce, ci comprende fino in fondo. E quindi il suo mistero non è soltanto di gloria o di fede, ma pure mistero dell'Amore paterno e materno del Signore per ciascuno di noi.
L’Apostolo esprime questo mistero in forma poetica, con un inno liturgico che canta il mistero di Gesù: «Si manifestò nella carne,/ fu giustificato nello Spirito, / apparve agli angeli, / fu annunziato ai pagani, / fu creduto nel mondo, / fu assunto nella gloria». E’ un'acclamazione stupenda ed è lo stesso mistero che celebriamo nell'Eucaristia, dove incontriamo Gesù incarnato, sofferente, crocifisso, morto, risorto, asceso al cielo, incontriamo la pienezza della Chiesa.
E’ stupendo per un prete poter dire: ho perseverato nella celebrazione dell'Eucaristia. Nel 2002 ho celebrato, da Arcivescovo di Milano, il cinquantesimo di sacerdozio e quando i giornalisti mi hanno chiesto quale fosse il ricordo più bello del mio ministero, ho risposto con sincerità: l'aver celebrato la Messa tutti i giorni.
Perché l'Eucaristia è la Chiesa vissuta, l'Eucaristia è appunto «il mistero della pietà».
Rendere gloria alla sapienza di Dio
«In quel tempo, il Signore disse: "A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: 'Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato: /vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!'.
E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: 'Ha un demonio '. E’ venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: 'Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicano e dei peccatori '. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli"» (Lc 7, 3 1-35).
La pagina del Vangelo riporta alla mente le lamentele di tanti parroci che negli anni del mio episcopato mi dicevano, con una vena di tristezza: abbiamo suonato una musica e la gente non ci ha seguiti, ne abbiamo suonata un'altra e non ci ha ascoltato!
Questo significa che la persona umana è fragile, Gesù stesso ha dovuto fare i conti con la nostra incoerenza e debolezza, e se ne è un po' lamentato: è venuto Giovanni Battista e non vi andava bene perché era troppo severo; sono venuto io, che vado in mezzo alla gente, e mi criticate. Davvero non vi va bene niente!
Di fatto, chi non vuole accettare che il Padre si manifesta nell'umiltà di Gesù, potrà sempre portare delle scuse. Occorre un salto di fede, necessario per riconoscere che in questo umile Gesù, nell'apparenza delle specie eucaristiche, nella modestia della sua Chiesa, dei suoi preti, dei suoi sacramenti, viene il regno di Dio e si manifesta la sua gloria.
Con ragione Gesù dice: «Alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli». Coloro che veramente conoscono la sapienza di Dio, gli rendono gloria e colgono che anche nella piccolezza della Chiesa è davvero all'opera il mistero della pietà, cioè il mistero di Dio che ci ama tanto e ci raggiunge in ogni momento.

Omelia nella Messa di giovedì 18 settembre 2003

Il dono spirituale
«Carissimo, nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. Fino al mio arrivo, dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento.
Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l'imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dedicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso.
Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano» (1Tm 4, 12-16).
Il primo testo liturgico, sempre dalla Prima Lettera di Paolo a Timoteo, contiene un avvertimento molto importante per i preti, là dove dice: «Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito [... ] con l'imposizione delle mani». Paolo suppone che persino la grazia del diaconato e del presbiterato - che pure è una grazia permanente - venga in qualche maniera a inaridirsi in colui che la riceve, sia come nascosta, sembri venir meno, e tuttavia è possibile rinnovarla e rivivificarla. Questo ammonimento è molto incoraggiante per tanti preti, perché li assicura che possono ricominciare dalla grazia dell'ordinazione data loro in pienezza, pur se talvolta non ne hanno sperimentato l'efficacia.
Significativo è in particolare l'elenco dei tre impegni affidati a Timoteo nell'attesa che arrivi san Paolo, impegni a cui deve comunque dedicarsi: la lettura, l'esortazione, l'insegnamento.
Cogliamo qui l'importanza della lectio divina, cioè della lettura orante e sistematica della Scrittura, da cui derivano l'esortazione e l'insegnamento. Ogni sacerdote deve dunque praticare la lectio prima di esortare e insegnare.
Compiere scelte coraggiose
La pagina evangelica è certamente sconcertante e coraggiosa, e non finiamo mai di capirla, stupendoci per quanto dice; nessuno di noi l'avrebbe scritta. E’ una pagina di conversione, ma il cammino che descrive è un po' anomalo.
«In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.
A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice".
Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da dirti.
Ed egli: "Maestro, di' pure" .
'Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?" Simone rispose: "Suppongo quello a cui ha condonato di più". Gli disse Gesù: "Hai giudicato bene".
E volgendosi verso la donna, disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi, Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco '.
Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi peccati". Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: "Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?". Ma egli disse alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va' in pace! (Lc 7,36-50).
Il cammino più logico di conversione è quello espresso nella nota parabola del figliol prodigo. Il figlio lascia la famiglia e va in un paese lontano, dove sperpera le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando si trova nel bisogno e nessuno gli dà da mangiare, si decide a tornare a casa dal padre e gli dice: mi pento,ho peccato contro il Cielo e contro di te. Sono propriamente gli atti del penitente.
Nel brano evangelico invece la donna non dice una parola, non confessa di aver peccato, di pentirsi, non promette di non peccare più. Il suo baciare i piedi di Gesù bagnandoli con le lacrime, l'asciugarli con i capelli, il cospargerli di olio profumato sono gesti che sgorgano dalla sua spontaneità. Ed è veramente coraggioso l'evangelista che ha saputo valorizzare così l'affetto di questa donna per Gesù.
E’ interessante il contrasto tra la figura della donna e la figura di Simone detto il lebbroso. Simone è un tipico fariseo, rigido e un po' presuntuoso, che vuole mettersi in vista invitando il Maestro a mangiare nella sua casa. Tuttavia non vuole compromettersi troppo e quando arriva non gli dà il bacio dell'ospitalità, non gli lava i piedi. Simone sta sulle sue, non si scioglie, e addirittura dubita di Gesù, non ha fiducia in lui, e pensa: se fosse un profeta, saprebbe che specie di donna è colei che lo tocca. Rappresenta in tal modo tutti coloro che accettano Gesù per metà, che non si giocano fino in fondo.
E’ bello contemplare questa donna che mette in gioco totalmente la sua reputazione, che rischia di essere respinta e cacciata fuori, che non si cura più di niente perché il cuore la guida. I gesti da lei compiuti, che Simone potrebbe interpretare negativamente e addirittura con malizia, sono interpretati da Gesù nella maniera migliore: ha molto peccato, perciò ama molto; viene lodata perché il suo grande amore e la totale fiducia che ha in lui hanno completamente rovesciato la sua vita e cancellato tutti i suoi peccati. «Va’ in pace»; non: «fa’ penitenza, non peccare più». ma: «va’ in pace», le dice Gesù.
La sua è una figura spontanea, simpatica, ardente, coraggiosa.
Possiamo inoltre notare nella pagina evangelica la delicatezza di Gesù nei riguardi di Simone. Prima di rimproverarlo, gli racconta una parabola e gli fa pronunciare una risposta giusta: amerà di più quello a cui è stato condonato di più. Lo tratta dunque bene e solo quando si è guadagnato la sua confidenza lo rimprovera: sono entrato nella tua casa e non mi hai dato l'acqua, non mi hai dato un bacio, non mi hai unto con l'olio. Il fariseo credeva di essere un uomo molto misurato, molto sicuro di sé, molto oggettivo, capace di equilibrio; a un tratto si riconosce povero, senza amore, senza coraggio, senza spontaneità, senza energia.
Il Signore ha guarito anche lui, perché anche a lui vuol bene.
Noi stiamo celebrando l’Eucaristia, nella quale Gesù ha giocato tutto se stesso per noi, ci ha molto amato; e proprio perché ci ha amato molto, ci sentiamo perdonati e a nostra volta ci mettiamo in gioco nell'Eucaristia.
Come il giovane Timoteo è chiamato a donarsi nella sua vita pastorale, non lasciandosi vincere dalla timidezza, dalla pusillanimità, dalla pigrizia, dalla voglia di nascondersi, cosi ci é chiesto di fare delle scelte coraggiose, di metterci in gioco in ogni giorno della nostra vita, dicendo: «Signore, disponi di me in tutto ciò che vuoi».
Allora il Signore si rivela a noi come colui che valorizza tutte le nostre intime possibilità e ci dona quella spontaneità, quella gioia, quella scioltezza, quella libertà di cuore che è cosi bella da ammirare nella donna del Vangelo, che supera, vince il proprio peccato con la pienezza del suo dono e del suo amore.

Omelia nella Messa di venerdì 19 settembre 2003

La buona battaglia della fede
«Carissimo, questo devi insegnare e raccomandare. Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno.
Certo, la pietà è un grande guadagno, congiunta però a moderazione!
Infatti non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo.
Al contrario coloro che vogliono arricchire cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori.
Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni»
(1 Tm 6, 2-12).
E’ ancora Paolo che, rivolgendosi a Timoteo, sottolinea le conseguenze negative derivanti dal non seguire le «sane parole» e «la dottrina secondo la pietà».
In maniera sintetica possiamo dire che le sane parole e la dottrina secondo la pietà consistono nel riconoscimento della gratuità di Dio, di quel Dio che per puro amore ci ama e ci perdona. Chi non la riconosce non è capace lui stesso di gratuità. Infatti la radice dei comportamenti negativi che turbano le comunità affidate a Timoteo (invidie, litigi, maldicenze, sospetti cattivi), è la mancanza di gratuità, il servirsi del Vangelo come fonte di guadagno.
Questa deviazione si è verificata varie volte nella storia della Chiesa, dando origine a molti mali. Paolo afferma con parole semplici ma molto pregnanti: «Coloro che vogliono arricchire cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione».
Parole che valgono per i preti, ma anche per la società; la rovina di tante persone, famiglie, nazioni è dovuta appunto alla bramosia del guadagno. Di qui ha spesso origine il cosiddetto conflitto di interessi, dove l'interesse proprio viene messo al di sopra del bene comune.
L’attaccamento al denaro è davvero la radice di ogni altro male.
Ma proprio perché non possiamo fare a meno del denaro chiediamo con insistenza al Signore di liberare il nostro cuore dal desiderio di ricchezza, da quell'attaccamento al denaro che ha fatto la rovina di Giuda e ha causato tanti mali nella Chiesa e nella società.
Successivamente Paolo esorta positivamente Timoteo a fuggire queste derive e tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. t la descrizione della vita di un buon prete che, non essendo attirato dal guadagno, serve la sua gente con disinteresse.
Particolarmente incisiva è l'esortazione seguente, e dovremmo sempre tenerla presente: «Combatti la buona battaglia della fede». Il cristiano è in una situazione di lotta, non di pace e nemmeno di armistizio, dal momento che il nostro nemico, cioè il diavolo, come leone ruggente va in giro per cercare chi divorare e come divorarci (cf 1Pt 5,8). Dobbiamo resistere saldamente nella fede con perseveranza e senza mai stancarci, combattendo la buona battaglia ed entrando nella tentazione e nella prova con la certezza di riportare la vittoria.

«C'erano con lui i Dodici e alcune donne»
«In quel tempo, Gesù se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8, 1-3).
Il breve testo di Luca ci ricorda che Gesù «andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio».
Leggendo il Vangelo, non si pensa che spesso in Israele il tempo atmosferico è inclemente; nella Galilea per esempio ci sono delle punte di caldo umido opprimente, oppure delle giornate di vento gelido e di pioggia battente. Eppure, nonostante questo contesto faticoso, Gesù non tralasciava mai di percorrere città e villaggi predicando il Vangelo. Anche oggi viene nelle nostre città, nei nostri villaggi e cerca persone che siano disposte, come lui, ad andare per città e villaggi a proclamare la buona notizia del regno di Dio.
Naturalmente egli aveva dei collaboratori, i Dodici e alcune donne che con i loro beni (abbiamo detto, commentando la prima lettura, che non possiamo in certa misura fare a meno del denaro) provvedevano ai bisogni suoi e degli apostoli.
La menzione delle donne ci ricorda che sono davvero preziose in ambito ecclesiale. Sappiamo quanto Giovanni Paolo Il abbia insistito nel sottolineare l’importanza e la dignità della donna nella Chiesa, soprattutto nella sua lettera apostolica Mulieris Dignitatem. E’ un invito per noi a saper valorizzare il genio e il carisma femminile nelle nostre comunità, ad approfondire la missione femminile come punto nodale di molti problemi che viviamo.
E mi piace concludere con una citazione dello stesso Giovanni Paolo II: «Alla luce di Maria, la Chiesa legge sul volto della donna i riflessi di una bellezza, che è specchio dei più alti sentimenti di cui è capace il cuore umano: la totalità oblativa dell'amore; la forza che sa resistere ai più grandi dolori; la fedeltà illimitata e l'operosità infaticabile; la capacità di coniugare l'intuizione penetrante con la parola di sostegno e di incoraggiamento»(Redemptoris Mater,46).

Omelia nella Messa di sabato 20 settembre 2003

Fino alla manifestazione di Gesù
«Carissimo, al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, / che al tempo stabilito sarà a noi rivelata / dal beato e unico Sovrano, / il Re dei regnanti e Signore dei signori, il solo che possiede l'immortalità, / che abita una luce inaccessibile; / che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. / A lui onore e potenza per sempre. Amen» (1 Tm 6, 13-16).
La lettera amicale di Paolo a Timoteo termina con una formula solennissima: «AI cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose [quindi invoca Dio a testimone] e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo».
Non è facile capire che cosa si intende per «conservare il comandamento». Dall'insieme della Lettera si può pensare che è chiesto a Timoteo di mantenere ferme le sue responsabilità di episcopo di fronte a una comunità difficile e di essere fedele alla dottrina della gratuità assoluta del dono di Dio e della misericordia senza limiti che ci salva e ci viene -incontro anche nel nostro peccato. Di fronte a possibili contraffazioni del messaggio, Paolo scongiura l'amico di mantenere ferma questa testimonianza. E insieme di mantenere ferma la sua vita al servizio di Dio, di fronte a qualsiasi circostanza, fosse pure il martirio. E’ una parola molto forte, ma sappiamo che Paolo stesso darà la vita per tale testimonianza. Nell'esortazione «ti scongiuro» è quindi implicito l'impegno di mettere tutta la propria vita a disposizione del Signore.
La richiesta pressante e cordiale dell'Apostolo al discepolo desidero ripeterla a ognuno di voi: conservate la bella testimonianza che avete offerto in questi giorni, conservate quella fede che avete approfondito nelle meditazioni, conservatela con la perseveranza della vostra vita.
Perseveranza fino al momento in cui Gesù si manifesterà: negli eventi significativi del nostro cammino, nelle sofferenze e nelle persecuzioni sopportate per lui, nel momento della nostra morte e, infine, in pienezza, nella vita eterna.
Le battute conclusive riportano un inno in sette versi, probabilmente antecedente alla Lettera, che proclama la grandezza di Dio. La manifestazione del Signore Gesù «al tempo stabilito sarà a noi rivelata / dal beato e unico Sovrano, / il Re dei regnanti e il Signore dei signori, / il solo che possiede l'immortalità, / che abita una luce inaccessibile; / che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. / A lui onore e potenza per sempre».
E’ un inno che eleva il nostro cuore al Dio invisibile e misterioso, eppure continuamente presente nella nostra esistenza, come lo sentiamo presente in questi giorni di esercizi.
Ascoltare la Parola con cuore buono
«In quel tempo, poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: "Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. Un’altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. Un’altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto". Detto questo, esclamò- "Chi ha orecchi per intendere, intenda!'. I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. Ed egli disse: "A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché / vedendo non vedano / e udendo non intendano". Il significato della parabola é questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8, 4-1 5).
La pericopa del vangelo secondo Luca ci consegna la prima e la più nota delle parabole. Probabilmente Gesù l'ha raccontata non all'inizio del ministero, ma quando a un certo punto la gente cominciava a interrogarsi: come mai questa Parola non ottiene il frutto che avremmo sperato? Come mai tanti non seguono più Gesù? E’ la domanda di noi oggi: perché la Chiesa non è molto ascoltata nel mondo? Perché i giovani che entrano in seminario poi lo lasciano e si allontanano?
La risposta della parabola è semplice: il Vangelo è capace di dare salvezza, il Vangelo è forza, la Parola seminata è buona, non tutti però la ricevono nel debito modo.
I semi caduti lungo la strada rappresentano chi l'ascolta superficialmente e presto la dimentica. I semi caduti sulla pietra sono coloro che, pur avendo accolto con gioia la Parola, non hanno radici e presto si stancano. Le radici sono soprattutto la grazia, la preghiera, la lectio divina; dove non ci sono, facilmente ci si scoraggia nell'ora della tentazione. La terza situazione è quella del seme caduto in mezzo alle spine, che raffigura chi, dopo avere ascoltato la Parola, si lascia fuorviare dal denaro, dal successo, da tutto ciò che costituisce la mondanità. Questo è un pericolo che rimane sempre, perché sempre siamo circondati dalle spine, che sono lo spirito mondano, lo spirito che ci porta a cercare le nostre comodità, il guadagno, lo star bene, l'evitare le fatiche, il soddisfare i nostri sensi. E per questo a poco a poco la Parola non ha più gusto, perde significato, si entra in uno stato di confusione e si arriva ad abbandonare tutto.
Mi pare tuttavia che Gesù racconti la parabola specialmente per sottolineare la quarta situazione e cioè per ricordarci che la Parola è efficace e, quando cade sulla terra buona e viene accolta e custodita con cuore buono e perfetto, produce frutto.
Domandiamo al Signore che custodisca il nostro cuore con la sua Parola e ci insegni a custodirla con la fedeltà alla lectio divina quotidiana.

Omelia nella Messa di domenica 21 settembre 2003
La liturgia di questa domenica ci propone tre letture su cui possiamo riflettere insieme brevemente.
Era necessario che Gesù fosse crocifisso?
«Dissero gli empi: / "Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo / ed è contrario alle nostre azioni; / ci rimprovera le trasgressioni della legge / e ci rinfaccia le mancanze / contro l'educazione da noi ricevuta. [... ] / Vediamo se le sue parole sono vere; / proviamo ciò che gli accadrà alla fine. / Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, / e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. / Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, / per conoscere la mitezza del suo carattere / e saggiare la sua rassegnazione. / Condanniamolo a una morte infame, 1 perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà"» (Sap 2, 12, 17-20).
La prima lettura è tratta dal Libro della Sapienza, prefigura la passione di Gesù e risponde a una domanda che ci viene rivolta tante volte: era proprio necessario che Cristo morisse? Era proprio predestinato il tradimento che l'avrebbe portato alla morte?
Di per sé non era necessario che Gesù morisse; ma é vero che la presenza di un uomo giusto in mezzo ai peccatori è sempre fonte di imbarazzo: «Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni». Gesù rappresenta la bontà infinita di Dio in mezzo a noi uomini cattivi, e perciò sarà messo a morte. Egli non cerca la morte e però l'accetta per amore di noi peccatori, per mostrarci l'incredibile amore di Dio che ci vuole perdonare e salvare. Possiamo dire che si è lasciato mettere in croce per renderci certi dei perdono di Dio.
Seminare giustizia e amore
«Carissimi, dove c'é gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni.
La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia.
Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?
Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri» (Gc 3, 16~4, 3).
«In quel tempo, Gesù e i discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.
Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà".
Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: "Di che cosa stavate discutendo lungo la via?". Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti".
E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato"» (Mc 9,30-37).
Il secondo testo, dalla Lettera di san Giacomo, è molto attuale e ci insegna che non ci sono guerre giuste, perché le guerre derivano dalle passioni che sono in noi, dai nostri vizi, dai nostri peccati, dalle nostre invidie. Ed è quindi nostra la responsabilità dei disastri, delle violenze e delle sofferenze causate dalla guerra.
Alla guerra, continua il brano, si oppone la sapienza che viene da Dio, una sapienza che è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia. Chi semina giustizia, bontà, amore, pazienza e perdono raccoglierà opere di pace.
Del vangelo di Marco sottolineo solo una parola illuminante di Gesù: «Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti» ;
Alla brama di primeggiare nell’avere, nel potere e nell'apparire egli sostituisce il desiderio di servire. Questa è la grandezza di Dio. Essendo amore, non afferma se stesso a spese dell'altro, ma lo promuove a sue spese; non si serve dell'altro, ma lo serve; non lo spoglia di ciò che ha, ma si spoglia, a suo favore, di tutto, anche di sé. Essere povero, umile e piccolo è la caratteristica propria di Dio che, divenuto Figlio dell'uomo, si è fatto ultimo di tutti e servo di tutti.
La vera grandezza del discepolo è diventare come il Maestro.
Preghiamo dunque in questa Eucaristia perché ci conceda la grazia di imitarlo e perché in tutto il mondo, e soprattutto là dove si soffre di più, si semini giustizia e amore, nascano frutti di pace.


Omelia nella Messa di lunedì 22 settembre 2003

Dopo la lettura della Lettera di Paolo a Timoteo, inizia nella liturgia quella dei Libro di Esdra, una nuova pagina della Scrittura, come per voi comincia una nuova pagina della vostra vita dopo l'esperienza degli esercizi.
«Nell'anno primo del regno di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola che il Signore aveva detto per bocca di Geremia, il Signore destò lo spirito di Ciro re di Persia, il quale fece passare quest'ordine in tutto il suo regno, anche con lettera: "Così dice Ciro re di Persia: il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giudea. Chi di voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo Dio; tomi a Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore Dio di Israele; egli è il Dio che dimora a Gerusalemme. Ogni superstite in qualsiasi luogo sia immigrato, riceverà dalla gente di quel luogo argento e oro, beni e bestiame con offerte generose per il tempio di Dio che è in Gerusalemme '. Allora si misero in cammino i capifamiglia di Giuda e di Beniamino e i sacerdoti e i leviti, quanti Dio aveva animato a tornare per ricostruire il tempio del Signore in Gerusalemme. Tutti i loro vicini li aiutarono validamente con oggetti d'argento e d'oro, con beni e bestiame e con oggetti preziosi, oltre a quello che ciascuno offrì volontariamente»
(Esd 1, 1-6).
Nel 538 a.C., l'anno seguente la conquista di Babilonia da parte dei Persiani, un editto del re Ciro autorizza gli Ebrei a tornare a Gerusalemme. Lo scriba Esdra ci parla anzitutto di questo proclama e del ritorno del popolo, della salita a Gerusalemme, che in ebraico si dice alia «Così dice Ciro re di Persia: il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra [... ]. Chi di voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo Dio; torni a Gerusalemme, che è in Giudea». E’ la stessa ansia del ritorno che negli ultimi decenni ha spinto a tornare nella città santa milioni di ebrei dalla Russia, dal Sud America, dal Sud Africa, dall'Etiopia e da tanti altri Paesi. Milioni di persone che hanno sentito il richiamo dell'alia.
Il testo prosegue (ed è la seconda parola che desidero sottolineare): «tomi a Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore, Dio di Israele». Questo tempio è stato ricostruito parecchie volte e Gerusalemme stessa sembra che sia stata distrutta e ricostruita ben ventisei volte; è dunque una delle città più sofferte e disperate del mondo. Eppure proprio in questa città, tanto segnata dal peccato umano, Gesù costruisce il suo tempio, che è lui stesso, il tempio non fatto da mano d'uomo, quello che dura sempre, nel quale siamo entrati, anzi di cui siamo parte, come ci ha detto la Lettera di Pietro sulla quale abbiamo riflettuto -in questi giorni. Noi siamo quel tempio che è Gesù, tempio indistruttibile, non eretto da uomini, eterno. Il tempio di Gerusalemme è allora soltanto un'immagine del tempio che è Gesù e che siamo noi.
«In quel tempo, Gesù disse alla folla: 'Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce.
Non c'é nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce.
Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere"» (Lc 8, 16-18).

La piccola parabola del Vangelo sembra banale, ovvia, addirittura insignificante: nessuno accende una lampada per coprirla con un vaso. Eppure sta a dire che nessuno fa un cammino spirituale, come l'avete fatto voi, per poi tenerlo nascosto. La parabola è per voi.
Avete in mano una lampada, avete una luce e questa luce dovrebbe illuminare tutti i luoghi dove vivete, la parrocchia, la Chiesa intera, perché, pur se è una luce modesta, è capace di rischiarare qualunque oscurità.
Accolga il Signore il nostro desiderio di essere luce dei mondo come Gesù, per la forza della Parola ascoltata e custodita con amore nel cuore.