sabato 1 settembre 2012

Martini: Le virtù



PRESENTAZIONE
Nell'anno in cui l'invito della lettera per il piano pastorale ci guidava ad attendere con vigilanza colui che sta alla porta della nostra vita ogni giorno, e dunque a guardare all'oltre, ci soffermiamo nella catechesi quaresimale a riflettere e a pregare sul tema delle virtù.
Esse sono compagne quotidiane della vita delle creature umane e dei battezzati; dunque in apparenza non vi è uno stretto collegamento con il futuro promesso dal Signore nel suo morire e risorgere per noi.
Parlare del futuro da credenti comporta la scoperta che è indispensabile ad una vita cristiana coerente sviluppare delle abitudini buone; l'al di là infatti è già cominciato, come ci ha promesso con chiarissime parole il Signore prima di risuscitare Lazzaro (Gv 11, 23-27). E dunque colui che vuoI vivere da discepolo deve badare alla limpidità del suo cuore, allenare la sua intelligenza a comprendere se stesso, operare per acquisire quegli atteggiamenti che diventano spontanei per dono di Dio e per libera accettazione dell'uomo. Le virtù consentono la facilità dei giudizi, la chiarezza dei sentimenti, l'immediatezza delle scelte.
Una fede che aliena, quella cristiana? Qualcuno l'ha detto, qualche volta in quanto cristiani abbiamo meritato l'accusa, alcuni ripetono il giudizio senza molta attenzione ai fatti. Ad essere conseguenti rispetto all'esempio che il Signore Gesù ci ha dato, ci troviamo a smentire coi fatti queste ingiustificate prevenzioni circa un'attesa cristiana del futuro che ci farebbe cittadini di questa terra svagati, disattenti, senza decisione.
Ecco perché nell'anno del 'vegliate perché non sapete né il giorno né l'ora in cui ritorna lo Sposo ' (Mt 25, 13), siamo stati invitati a riflettere sulle virtù. Impariamo che, mentre è indispensabile che i cristiani ascoltino, contemplino, preghino le promesse di Dio circa la vita eterna, è altrettanto essenziale che siano attenti e spiritualmente laboriosi circa il 10ro presente.
L'oggi diviene allora il tempo che il Signore ci concede perché si prepari il futuro; e giacché ci fidiamo di Lui e delle sue promesse, è indispensabile che percorriamo il presente come veri figli di Dio, che sanno di avere una patria altrove, e proprio per questo vivono nella patria terrena con la capacità di distinguere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo.
E le virtù sono per i cristiani l'aiuto quotidiano a compiere con immediatezza e semplicità le scelte giuste, che dichiarano nei fatti ciò che costruisce per l'eterno.
A tutti i cristiani che vogliono essere persone che hanno tempo per Dio, per gli altri, per se stessi, sono dedicate queste pagine che parlano delle virtù. E chi, avendole ascoltate e pregate imparerà a praticarle, sarà beato, come ha promesso il Signore, come dice la Buona Novella.
+ Giovanni Giudici

LA PRUDENZA
Premessa
Vorrei iniziare questa nuova serie di catechesi quaresimali via-radio con un pensiero da una tra le tante lettere ricevute lo scorso anno, che mi testimoniavano come molti ascoltatori e ascoltatrici hanno veramente vissuto una profonda comunione nella fede tra loro e con il vescovo: "Abbiamo avuto la netta percezione che la parola di Dio ci raggiunge sempre con novità, ma che richiede uno sforzo non indifferente di ricerca".
Possiamo dunque invocare l'aiuto di Dio nella preghiera:
'Ti ringraziamo, Signore, perché anche in questo anno 1993 la tua Parola ci vuole raggiungere con novità e con forza. Rendici capaci dello sforzo non indifferente di ricerca, che cominciamo oggi'.
Anzitutto desidero spiegare brevemente il tema che ci siamo proposti: Le virtù del cristiano che vigila. Che senso ha parlare delle virtù? Che cosa significa dire: le virtù del cristiano che vigila?
* "La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete" (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1803).
Con il termine 'virtù' intendiamo dunque degli atteggiamenti abituali, non occasionali, che nel loro insieme descrivono un'immagine di uomo o di donna redenti da Gesù e operanti con efficacia nella storia.
Sarebbe lungo fare la storia di questo termine, ma è interessante notare che non compare quasi mai nell' Antico Testamento ebraico. La parola virtù viene dal mondo greco. Infatti la troviamo in quei libri della Bibbia che sono stati scritti in greco, come per esempio il libro della Sapienza:
"Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza" (8, 7). È l'unica occorrenza delle quattro virtù cardinali nelle Sacre Scritture, virtù che invece Platone e Aristotele avevano reso celeberrime perché indicano una visione armonica di tutte le qualità umane, la visione dell'uomo ideale secondo la mentalità filosofica dei greci.
Noi rifletteremo sulle virtù cardinali come atteggiamenti fondamentali che definiscono un progetto cristiano di uomo e di donna; esse, a partire soprattutto da sant' Ambrogio e in seguito da sant' Agostino e da san Tommaso, delineano la persona che agisce conformemente al Vangelo. Ma insieme a queste quattro virtù chiamate anche umane, considereremo pure le tre virtù cosiddette soprannaturali, divine: fede, speranza e carità. Tutte e sette insieme ci danno la perfetta figura dell'uomo santificato da Cristo Gesù, dell'uomo pienamente redento.
* L'espressione "virtù del cristiano che vigila" richiama, un po' estrinsecamente, il programma pastorale proposto nella Lettera Sto alla porta, dedicato al vigilare. Non si tratta però di un fatto occasionale. Noi consideriamo quelle sette virtù come proprie del cristiano vigilante, perché la pienezza umana a cui tendono è quella che ciascuno di noi raggiungerà nell'eternità di Dio, nella risurrezione della carne, nella visione beatifica, dove le nostre virtualità avranno una completa espansione.
Tutte le virtù che esercitiamo sulla terra sono in tensione verso l'eternità: qui vigiliamo nell'attesa che il Signore ci colmi dei suoi doni e cominciamo a vivere quegli atteggiamenti di fede, speranza, carità, di prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, che rappresentano l'anticipo della vita futura. Per questo sulla terra le virtù sono in cammino, in progresso, in crescita verso la pienezza della visione beatifica e, quando le verifichiamo presenti in noi, ci avvertono che ci troviamo nella giusta via per la patria eterna.
* Comprendiamo allora che una riflessione sulle virtù non ci aiuta semplicemente ad approfondire la nostra conoscenza catechetica o teologica, bensì ci permette di vivere meglio, di impegnar ci a essere più buoni, più giusti, più veri, perché ci appassionano al meraviglioso disegno che Dio ha su ciascuno di noi, disegno di espansione umana e divina.
Non a caso il Catechismo della Chiesa cattolica tratta delle virtù nella parte dedicata a "La vocazione dell'uomo"; esse devono appassionarci e farci innamorare di questa vocazione. "Il fine di una vita virtuosa" - scrive san Gregorio di Nissa - "consiste nel divenire simili a Dio".
* C'è un secondo vantaggio a riflettere sulle virtù. Non solo esse ci appassionano al disegno di Dio su di noi, ma ci aiutano a mettere ordine nella nostra vita, per chiarire ciò che è bene (virtù) e ciò che è male (vizio). I grandi atteggiamenti della vita secondo Cristo ci fanno distinguere - nella quotidianità personale, familiare, sociale, ecclesiale - i comportamenti positivi dai negativi, ci fanno discernere il meglio dal mediocre (non solo il bene dal male), l'autentico dal falso, dallo spurio, dal non genuino. L'operazione non è sempre facile, ed è proprio una buona dottrina sulle virtù quella che insegna a dire per esempio: questi giovani che stiamo educando sono su una strada autentica; oppure: questi ragazzi non vanno bene e dobbiamo cambiare metodo.
La virtù della prudenza
Parlando delle virtù come aiuto per il discernimento, siamo già entrati nella riflessione sulla prima delle quattro fondamentali virtù umane: la prudenza.
Lascio a voi la lettura e la meditazione di alcuni passi biblici:
Sap
7, 21-23; 9, 1-6.9-11; Mt 11, 25-27; 1Cor 2, 1-7.13-16; Gc 1, 5; 3, 13-17.
Alla luce di quei testi, io cercherò di rispondere a tre domande:
- che cos' è la prudenza?
- da dove deriva?
- quali frutti genera?
1. Che cos'è la prudenza?
In realtà, questa parola non suona tanto bene nel mondo attuale. Prudenza per noi significa essere cauti nella guida della macchina, osservare le regole stradali, stare attenti a non mangiare e a non bere troppo, ecc. Nella tradizione greca e patristica, e in quella biblica in cui è riflessa con altri nomi, la prudenza significa molto di più.
* Anzitutto evoca la sapienza, cioè la capacità di vedere alla luce di Dio i fatti e le azioni umane da compiere. Leggiamo, per esempio, nel Libro della Sapienza: "Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose" (7, 21). E, nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo dice: "Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non viene da questo mondo" (2, 6). E ancora: "Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare" (Gc 1, 5).
Prudenza è l'equivalente di sapienza: saper comprendere gli avvenimenti e le scelte umane da fare, alla luce del Signore.
* Prudenza vuol dire anche discernimento, capacità di distinguere, tra le azioni da programmare, ciò che porta a Dio e ciò che ce ne allontana, ciò che è secondo lo Spirito di Gesù e ciò che è contro tale Spirito. "L'uomo spirituale giudica ogni cosa" (1 Cor 2, 16). Il discernimento proprio di chi ha lo spirito della sapienza di Dio, distingue nei comportamenti quelli che rispondono al Vangelo da quelli che sono lontani da esso.
* Inoltre, prudenza significa senso di responsabilità, cioè agire facendosi carico delle conseguenze delle proprie azioni.
* Infine, la prudenza (che la Bibbia -lo ripeto - chiama spesso sapienza) esprime, nella tradizione biblico-patristica, un altro concetto che sarà ripreso da san Tommaso: quello del decidere con realismo e concretezza, del non tentennare, del non aver paura di osare. È ben diverso dal nostro concetto di prudenza che invita a esitare, a essere cauti!
Riassumendo: la prudenza, per la Bibbia e la tradizione, è sapienza che contempla alla luce di Dio gli eventi umani; discernimento che distingue tra ciò che porta a Dio e ciò che da Dio allontana; senso di responsabilità che si fa carico degli effetti delle proprie azioni; capacità di decidere ragionevolmente e coraggiosamente, senza paura di eventuali conseguenze negative a proprio danno. Infatti, e lo vedremo in seguito, la prudenza è congiunta con la fortezza e con il coraggio.
Potremo dunque anche chiamare la prudenza con un termine familiare al nostro cammino pastorale: vigilanza, stato di veglia dell'intelletto che
decide con assennatezza, concretezza e coraggio sulle azioni da compiere per servire Dio e per vivere il Vangelo.
2. Da dove deriva la prudenza?
* Così intesa, la virtù della prudenza viene dallo Spirito santo: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti" (cioè ai prudenti secondo il mondo) "e le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11, 25). È lo Spirito che ci rivela la prudenza cristiana. Mi piace ricordare in proposito una bellissima preghiera del Cardinale J .H. Newman per ottenere il dono della prudenza o della sapienza: "Guidami, dolce Luce; attraverso le tenebre che mi avvolgono guidami Tu, sempre più avanti! Nera è la notte, lontana è la casa: guidami Tu, sempre più avanti! Reggi i miei passi: cose lontane non voglio vedere; mi basta un passo per volta. Così non sempre sono stato né sempre ti pregai affinché Tu mi conducessi sempre più avanti. Amavo scegliere la mia strada, ma ora guidami Tu, sempre più avanti! Guidami, dolce Luce, guidami Tu, sempre più avanti!".
* La virtù della prudenza viene anche dall'esercizio del discernimento, dall'esercitarci a giudicare con oggettività secondo Dio. Porto un esempio: noi oggi siamo circondati dai mass-media (radio, televisione, giornali), e la prudenza è appunto quell'istinto che ci guida ad accendere o a spegnere la televisione, a guardare o a non guardare, a leggere o a tralasciare di leggere. Ci aiuta quindi a decidere in modo da non essere soffocati o aggrovigliati dai media. Inoltre la prudenza ci insegna a non accettare tutto, a vagliare le notizie, a esigere i riscontri, le fonti, ad aspettare le conferme. Ci guida, insomma, nel retto giudizio.
* Infine, la prudenza che ci è data dallo Spirito santo e dall'esercizio del discernimento, viene pure da una certa abitudine al silenzio, alla calma, evitando la precipitazione nei giudizi e nelle azioni. Spesso, soprattutto nel parlare, siamo molto imprudenti, molto insipienti e dissennati - che è tutto il contrario della prudenza -, perché non facciamo precedere alle parole un momento di silenzio, di sosta, di riflessione.
3. Quali frutti genera la prudenza cristiana?
Da quanto ho cercato di spiegare, dovremmo già intuire quali sono i frutti che fioriscono dalla prudenza cristiana.
Chi la vive, chi è sapiente nel senso evangelico, è sempre in pace con se stesso, riconciliato con la realtà; non facendosi illusioni, non resta mai deluso, perché sa valutare ogni cosa con realismo e con concretezza, sa prevedere e pensare prima di agire.
La prudenza genera dunque saggezza di vita, armonia, tranquillità d'animo e serenità, ordine, chiarezza, pace interiore e ci rende capaci di guardare a ciò che è essenziale.
Comunicare la parola
Vi affido alcune domande alle quali potrete rispondere rimeditando, nei prossimi giorni, su questa riflessione comune:
* Tra le sette virtù che abbiamo nominato, quale oggi mi appare più importante e perché?
* Per la mia vita personale, familiare, professionale, quali virtù considero più necessarie?
* Quali sono ai nostri giorni i difetti più vistosi contro la prudenza nel parlare, nel pensare e nell'agire? dove ci ha portato, per esempio, l'imprudenza nella gestione delle realtà sociali, civili, politiche? e quali circostanze, invece, favoriscono la prudenza? in quale modo possiamo educarci di più a esse?
* Come vivere un'etica della vigilanza, etica da me indicata in Sto alla porta (n. 22), dove affermo che la vigilanza fonda appunto un'etica del discernimento?
Conclusione
Infine, vi invito a cercare, in questa settimana, gli esempi di prudenza nella Sacra Scrittura, esempi di saggezza e di discernimento. Per aiutarvi, vi suggerisco la figura di Pietro così come è descritta nei capitoli 10-11 degli Atti. Pietro, prima di battezzare il pagano Cornelio, si impegna in una scelta difficile, perché deve entrare in casa di un pagano (la legge non glielo permette), preparandosi quindi ad affrontare il giudizio di chi la pensa diversamente. I capitoli 10-11 degli Atti descrivono bene i diversi momenti attraverso cui Pietro giunge a un giudizio prudenziale e coraggioso sul da farsi e osa: osa abbandonare la sua casa, seguire i soldati, superare la soglia della casa del centurione, predicare e battezzare. Egli ha esercitato la virtù della prudenza e del discernimento ascoltando lo Spirito santo che lo ispira mediante una visione, osservando la coincidenza di alcuni fatti umani e ricordandosi di alcuni episodi della vita di Gesù. Potremo allora imparare anche noi a vivere la virtù della prudenza.

 
LA GIUSTIZIA

Premessa
Riflettere sulle virtù equivale a riflettere sull'immagine di uomo e di donna che emerge dal Vangelo, in consonanza con la retta ragione. È dunque un modo di entrare nei problemi dell'etica a partire non dai singoli casi della vita, bensì dalla determinazione dei comportamenti fondamentali che rendono morale l'esistenza umana.
Le nostre conversazioni si collegano, dunque, strettamente a quelle che ho tenuto alla televisione nello scorso mese di gennaio, dal titolo: "V 0cabolario dell'etica". La differenza consiste nel fatto che allora affrontavo i problemi dell'etica soprattutto dal punto di vista della ragione, del buon senso, comune a credenti e a non credenti; adesso, invece, cerco di affrontarli basandomi sulla Scrittura. C'è comunque piena continuità tra la retta immagine dell'uomo elaborata dalla ragione umana e il progetto di uomo e donna che ci viene rivelato dal Vangelo.
Di tale progetto consideriamo oggi un'altra virtù cardine: la giustizia.
La giustizia umana
Secondo sant' Ambrogio, "la giustizia si riferisce alla società e comunità del genere umano", è qualcosa che regola i rapporti tra le persone. Noi tutti ci accorgiamo dell'importanza di questa virtù, per la quale si può addirittura morire: basta pensare a magistrati come Falcone e Borsellino, per avvertire tutta la drammaticità del tema della giustizia.
Se il termine "prudenza" - come abbiamo visto - occorre raramente nella Bibbia, il termine "giustizia" è uno dei più usati nell' Antico e nel Nuovo
Testamento. Tra i tanti possibili passi biblici ne cito qualcuno:
* "Non commetterete ingiustizia in giudizio: non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia" (Lev 19, 15).
* "Beato l'uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti. Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza dei giusti sarà benedetta. Onore e ricchezza nella sua casa, la sua giustizia rimane per sempre. Spunta nelle tenebre come luce per i giusti, buono, misericordioso e giusto. Felice l'uomo che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia. Egli non vacillerà in eterno: il giusto sarà sempre ricordato [...] Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua potenza s'innalza nella gloria. L'empio vede e si adira, digrigna i denti e si consuma. Ma il desiderio degli empi fallisce" (Sal 112). Nell' Antico Testamento la giustizia è il fondamento della vita comunitaria, è la virtù che promuove l'ordine positivo, costruttivo, benefico, dei rapporti degli uomini tra loro e con Dio: dire "giusto" equivale a dire "buono", "santo", "perfetto".
Il Nuovo Testamento eredita questo vocabolario:
* "Voi padroni date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo" (Col 4, 1).
* Ancora ricordiamo il versetto di Luca, in cui i genitori di Giovanni Battista vengono indicati come "giusti davanti a Dio" (1, 6): era la più grande lode che si potesse fare.
* L'evangelista Matteo sottolinea che Giuseppe era "uomo giusto" (Mt 1, 19) perché era perfetto in tutti i rapporti, con Dio e con gli altri.
Sollecitati dunque della lettura dei brani biblici, ci domandiamo: come virtù morale, umana, che cos'è la giustizia? e su che cosa si fonda?
* Conosciamo bene la definizione classica tramandata dall'antichità greca e latina: giustizia è dare a ciascuno ciò che gli appartiene. È allora quel valore sociale per cui si riconoscono i diritti di ogni persona, così come si vuole che siano riconosciuti e rispettati i propri. In certo modo, la giustizia ha a che fare con i diritti di ciascuno.
* Si tratta allora di capire - ed è il punto più importante di tutta la riflessione - perché qualcuno ha un diritto. Parliamo dei diritti personali, inalienabili, che non possono mai essere calpestati, per nessun motivo, per nessun guadagno, per nessun interesse.
Ogni uomo e ogni donna hanno, fin dal primo istante della loro esistenza, dei diritti nativi inconculcabili, perché ciascuno - di qualunque razza, colore, cultura, educazione, censo, età - è stato creato da Dio. E Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, quindi con dignità e diritti propri, che si fondano nella stessa forza della creazione.
Il fondamento della giustizia umana è la creazione divina. E dal momento che Dio ci ha amati, voluti, creati come soggetti di diritto inalienabile, chi offende tale diritto offende Dio stesso.
La giustizia ha quindi una dimensione divina e per questo è presa in considerazione anche da coloro che non sanno rendere ragione della sua fonte ultima. Nei secoli scorsi si è tentato di definire la giustizia prescindendo da Dio, fondandola magari su un contratto umano: io non compio questa azione nei tuoi riguardi affinché tu non la compia nei miei. Tuttavia, se non si ricorre al fondamento divino, non si riesce a definire chiaramente l'inalienabilità dei diritti.
La giustizia divina
Vogliamo ora chiederci che cosa la Bibbia aggiunge al concetto umano - potremmo dire filosofico - di giustizia. Abbiamo già sottolineato che la Scrittura ne parla nel senso comune umano; tuttavia essa la considera anche in un senso molto più largo.
Aggiunge al significato del termine "giusto", "giustizia", qualcosa di più positivo, di più creativo, che è incluso nel concetto di "giustizia di Dio", qualità per la quale Dio è fedele all'alleanza. Dio non solo rispetta i nostri diritti, ma salva noi suoi alleati allorché siamo ingiustamente oppressi, allorché il suo popolo è impoverito, ridotto in schiavitù. Il Signore ègiusto perché ristabilisce i diritti di coloro che gli sono alleati. Anzi - ed è qui dove la giustizia di Dio mostra la sua trascendenza rispetto a ogni giustizia umana - egli perdona e riabilita per amore, ricostruisce cioè nella pienezza della dignità anche chi avesse offeso i diritti divini.
Mentre dunque la giustizia umana insegna a rispettare i diritti altrui, a
restituire i diritti lesi, quella divina, che viene da Dio e che Dio infonde nel nostro cuore, è più ampia, è salvifica, misericordiosa, perdona il peccatore, lo rialza, lo giustifica (come scrive san Paolo), lo fa ritornare giusto. L'amore divino fa giustizia al di là del dovuto e lo fa con misericordia.
Il Nuovo Testamento insiste molto su questa giustizia più grande:
* "Se la vostra giustizia non sarà più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" , come ho sopra citato (Mt 5, 20). * È una giustizia che si esprime nell'amore: "Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge" (Rm 13, 8).
* È una giustizia che si esprime nel perdono: "Amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano" (Mt 5, 44).
Questa è la mirabile costruzione umano-divina della giustizia, che cogliamo dalle parole di Gesù.
Comunicare la Parola
Mi sembra utile soffermarmi un po' a lungo sulle riflessioni che nascono da quanto abbiamo evocato a proposito della giustizia e che esprimo sotto forma di domande.
1. Nel Vangelo secondo Luca, Gesù afferma: "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (20, 25).
Che cosa significa dare a Dio ciò che gli è dovuto? come e quando darglielo?
La giustizia verso Dio è chiamata "virtù di religione", proprio per indicare che c'è una giustizia da esercitare verso Dio. Non però nel senso che possiamo davvero rendere a Dio in proporzione del nostro debito; infatti, essendo noi creature, tutto è suo, tutto dobbiamo a lui. La religione è una giustizia che sa di dover rendere a Dio - al di là dell'obbedienza pura e semplice - adorazione, lode, amore, fiducia, culto. La religione è un atto di giustizia che, non potendo colmare il suo debito, si esprime in atteggiamenti profondi, veri, come appunto la lode, il silenzio del cuore, l'ascolto, il ringraziamento.
* Provate a chiedervi: nelle preghiere quotidiane, ho coscienza di quanto debbo a Dio? ho coscienza di quanto sono ingiusto verso di lui quando lo dimentico? Perché ogni peccato, ogni dimenticanza di Dio è in qualche modo un'ingiustizia. Nelle mie preghiere, lo adoro, lo lodo, lo benedico, gli professo umiltà e amore? do tempo a Dio nella mia giornata?
* Ancora: do tempo a Dio nella mia settimana? partecipo alla Messa domenicale come un atto di giustizia verso Dio? Non dobbiamo credere che il nostro andare a Messa o il nostro pregare siano un piacere, una gentilezza che facciamo a Dio. Noi gli siamo debitori di tutto e, con alcuni atti di culto, riconosciamo la nostra creaturalità, i nostri sentimenti di gratitudine.
* Le comunità religiose dovrebbero in proposito ricordare che tutto questo si esprime per loro nella preghiera quotidiana, nella meditazione assidua, nel silenzio, nell'esercizio della lectio divina, nel modo con cui si assiste e si vive la liturgia quotidiana: rendendo lode, onore e gloria a Dio anche per coloro che non lo fanno.
2. Riprendiamo la prima parte del versetto lucano per chiederci: che cosa significa dare al prossimo ciò che gli è dovuto? quali gli ostacoli, i mezzi, lo stile? Abbiamo davanti un campo immenso, perché la giustizia tra gli uomini giunge a coprire tutte le nostre relazioni sociali. Chi è il prossimo di cui sono tenuto a rispettare i diritti? a chi debbo giustizia?
Evidenzio quattro cerchi concentrici, cominciando dal più ristretto.
* Il prossimo sono i genitori ai quali devo onore, riverenza, rispetto, obbedienza; sono i familiari ai quali devo fraternità, affetto, amore; sono coloro con i quali ho rapporti di incontro, di conversazione, di amicizia. Per questo cerchio, in realtà, non si può parlare di giustizia nel senso stretto, in quanto non è giustizia di scambio, bensì di risposta amorosa, fraterna. Tuttavia è fondamentale per l'esistenza.
* Nella vita sociale, il prossimo sono tutti coloro con cui ho rapporti di scambio: di contratto, di lavoro, di commercio, di associazione, di compravendita, di prestazioni reciproche.
Come rendo giustizia in questo tipo di rapporti?
* Un cerchio ancora più grande è quello della giustizia nella vita politica. Tale giustizia riguarda quanti hanno una responsabilità amministrativa, sociale, politica: amministratori, funzionari di enti privati e pubblici, responsabili di qualche realtà sociale, tutti i politici. Dalle deviazioni drammatiche che emergono in questi mesi, ci accorgiamo come sia importante questo campo della giustizia e come le deviazioni rompano il tessuto della società, quel tessuto base di fiducia sul quale si instaura la capacità di vivere insieme.
* C'è un quarto cerchio, dove il prossimo sono coloro verso cui ho una responsabilità più remota, perché sono lontani; e però si tratta di una responsabilità reale: i paesi del Terzo mondo, per esempio, rispetto ai quali i paesi del Nord devono fare giustizia. E poi ciascuno di noi, ogni gruppo sociale, ha una responsabilità verso l'ambiente, perché il problema tocca le generazioni presenti, ma anche quelle future, di cui siamo responsabili.
Dunque, il campo delle nostre responsabilità è largo: va dai luoghi dove la giustizia è più facilmente determinabile con criteri minuziosi, ai luoghi dove la giustizia ci responsabilizza per gli altri, per l'umanità intera, per il futuro dell'umanità.
Al riguardo vi suggerisco di rileggere le indicazioni offerte nella mia Lettera pastorale Sto alla porta, ai nn. 25-28.39-40.
Conclusione
Ricordiamoci sempre che la radice della giustizia è nella creazione voluta da Dio. È lui il garante ultimo di ogni giustizia; è lui che anzitutto fa giustizia a noi devianti, poveri, peccatori; è lui che ci perdona, ci riabilita, ci ama; e, in grazia della sua giustizia salvifica, siamo messi in grado di esprimere anche noi giustizia, bontà, amore, perdono verso tutti gli altri, siamo messi in grado di vivere qualcosa di quella giustizia del Regno che chiediamo ogni giorno nel Padre nostro: "Venga il tuo Regno!".

 
LA FORTEZZA

L'uomo che accetta di partecipare all'intimità di Dio, che si lascia attrarre nella comunione dell'infinito Essere divino, diviene così molteplice nelle sue virtualità e nelle sue operazioni da non potersi facilmente qualificare sotto l'una o l'altra categoria. Il santo è 'imprendibile', perché è estremamente ricco, vario, imprevedibile nei suoi atti di bontà, dal momento che partecipa alla vita di Dio.
Meditando sulle virtù cardinali e su quelle soprannaturali o divine, noi dunque ci proponiamo di fare un semplice tentativo - certo non esaustivo - per riordinare quell'oceano di ricchezze morali e spirituali che, grazie allo Spirito, fluisce nel cuore di chi si abbandona all'azione di Dio.
Oggi riflettiamo su un aspetto di questo oceano che investe il cristiano battezzato e obbediente alla Parola: l'aspetto della fortezza. Ma vi riflettiamo avendo presente la pochezza delle nostre parole nell' esprimere lo straordinario mistero dell'uomo rivestito di Cristo.
La virtù della fortezza
La virtù della fortezza riguarda l'esercizio della giustizia, la prosecuzione del bene: essa ci assicura di vivere e di compiere il bene in ogni situazione. "È la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene" (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1808). A noi il vocabolo 'fortezza' risuona antiquato e non lo usiamo nel linguaggio ordinario. Siamo tuttavia coscienti del fatto che il vocabolo indica una realtà molto attuale. Infatti, dire 'fortezza' significa parlare della paura e del coraggio: e tutti noi abbiamo momenti di paura, di ansia, di angoscia. Chi non soffre, nel compiere il bene, tentazioni di ripugnanza, di disgusto? chi non è a volte legato dalla timidità, soprattutto in situazioni pubbliche difficili? Spesso la paura ci impedisce di compiere ciò che sappiamo essere bene o giusto, oppure non ci permette di parlare. Noi preferiamo usare i termini "conformismo" e "rispetto umano"; ma si tratta, in realtà, di paura.
Sono tanti gli atteggiamenti contrari alla fortezza. Ne ricordo uno, perché è molto dannoso nei paesi dove regna la mafia: l'omertà, che è una forma di paura.
Il campo della fortezza è dunque molto ampio, perché di questa virtù c'è bisogno là dove si deve resistere a minacce, si devono superare le paure, si devono affrontare la noia, il tedio, il disgusto dell'esistenza quotidiana per riuscire a mettere in atto il bene.
Per questo è una delle virtù umane, morali fondamentali, che ogni persona onesta dovrebbe vivere.
In quale modo possiamo vincere le paure, superare il rispetto umano, mostrare coraggio?
Enuncio anzitutto cinque tesi, che poi riprenderò a una a una:
1. la fortezza suppone la nostra vulnerabilità; posso, cioè, essere forte e coraggioso perché sono vulnerabile.
2. La fortezza è riferita, in ultima analisi, all'ultima vulnerabilità dell'uomo: la morte. La fortezza è, appunto, la virtù che ci fa superare la paura della morte.
3. Di conseguenza, per il cristiano la fortezza si riferisce in maniera privilegiata al martirio: dare la vita, affrontare la morte per il sommo bene e per evitare il sommo male che è il peccato, la perdita della fede, il tradimento di Dio.
4. La fortezza non è semplicemente una forma di audacia, di spavalderia che fa stringere i denti in uno sforzo eroico. È, invece, un abbandonarsi in pace a Dio, sapendo che siamo deboli, fragili; è distensione del cuore, pace interiore.
5. La fortezza si esprime al meglio nel resistere, nel vivere la virtù cristiana della pazienza, e non nell'aggressività dell'attacco (si è forti perché si attacca). La grandezza d'animo del cristiano e la sua magnanimità si rivelano nella paziente fortezza.
1. La fortezza suppone la vulnerabilità
È importante premettere che noi possiamo essere forti, fermi, coraggiosi e resistenti solo a partire dal fatto che siamo fragili.
Ciascuno di noi è fragile corporalmente ed è vulnerabile psicologicamente. Abbiamo dentro di noi un fondo di timore, di paura, un senso di disagio e di difficoltà, per quanto ci sforziamo di nasconderlo. La vulnerabilità fisica e psicologica è parte della natura umana.
D'altra parte, se non ci sapessimo vulnerabili, non riusciremmo mai a essere coraggiosi, a crescere nella fortezza: saremmo spavaldi, millantatori. Forte è colui che sa di essere debole, che conosce la propria fragilità e ne prende coscienza.
Il primo gradino della fortezza cristiana non è di stringere i denti, bensì di prendere umilmente consapevolezza della propria debolezza.
In proposito ricordiamo alcune parole di Gesù:
* "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno" (Lc 12,32). 'Piccolo gregge ' è un gruppo di pecore inermi, vulnerabili, che si trovano in mezzo ai lupi.
* E l'apostolo Paolo riprende il concetto di fragilità quando dice: "Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio" (2Cor 4, 7).
2. La fortezza fa superare la paura della morte
La vulnerazione più grave cui l'uomo è esposto, è la morte. La paura della morte è dunque la madre di tutte le paure, perché si esprime anche riguardo a ciò che, in qualche maniera, anticipa la morte: dolori, disgrazie, malattie.
Noi rifuggiamo non solo da ogni messaggero della morte fisica, ma pure dai messaggeri della morte di noi come persone civili e sociali: ci ripugnano le umiliazioni, abbiamo paura delle accuse, delle calunnie, della carcerazione, della solitudine, degli abbandoni. E queste paure possono giungere fino al suicidio.
Ora, la fortezza è la capacità di guardare a tutti i tipi di "messaggeri" senza panico; non perché non siano dei mali (lo sono; e talora gravissimi,
umanamente definitivi), ma perché li consideriamo in vista di un bene più grande, di una certezza più grande, di una forza più grande di noi. San Paolo, dopo aver ricordato che "abbiamo questo tesoro in vasi di creta" , descrive le nostre forme di fragilità: "tribolati da ogni parte, sconvolti, perseguitati, colpiti". Ma noi resistiamo affinché "la vita di Gesùdi manifesti nel nostro corpo" (cf 2Cor 4, 7.8.11). Dunque, in noi opera la morte, però noi abbiamo fiducia in Dio.
La fortezza è una virtù molto importante per non turbarci nelle avversità e nemmeno di fronte alla morte; essa infatti ci consente di guardare all'aiuto di Dio, al bene che siamo chiamati a compiere, alla forza che ci viene donata dall'alto.
3. Il martirio
Il caso serio della fortezza cristiana è il martirio che, come dicono i più antichi Padri della Chiesa e poi anche sant'Ambrogio, va considerato come l'atto più tipico e specifico di questa fortezza cristiana.
La disposizione al martirio, tuttavia, non è propria solo di alcune persone in tempi di persecuzione: essa è implicita nelle promesse e rinunzie battesimali. Non c'è fortezza cristiana se, nella sua radice, essa non è disposizione a dare la vita per la fede.
È una verità che ci può spaventare, alla quale forse non abbiamo mai pensato. Comunque ci fa comprendere la serietà di rinnovare ogni anno, nella notte di Pasqua, le promesse battesimali. Promesse di aderire a Gesù, di rinunziare al male, di essere pronti a tutto per non rinnegare la fede e per non commettere un peccato grave. Per questo la fortezza cristiana (che viene a perfezionare quella umana) è una grazia, un dono che colma l'animo di pace proprio là dove la paura rischierebbe di smarrirsi.
È una grazia da implorare quotidianamente con umiltà, sapendo che non possiamo acquistarla puramente con le nostre forze, dal momento che siamo segnati dal peccato originale, dalla paura, dal compromesso, dall'egoismo. "Non ci indurre in tentazione", invochiamo nel Padre nostro; come a dire: "fa', o Signore, che io non entri in una situazione in cui potrei rinnegare la fede". Poi aggiungiamo: "ma liberaci dal male"; e il male più grande è il peccato: "fa' che io non rinneghi Te, sommo Bene, per nessuna cosa al mondo, per il timore di nessuna perdita, per l'attrattiva di nessun guadagno, qualunque fosse".
4. La fortezza come abbandono a Dio nella pace
Ho enunciato nella quarta tesi che la fortezza cristiana non è semplicemente una forma di audacia, non è un chiamare a raccolta tutte le forze psicologiche e morali per compiere un atto eroico.
È, anzitutto, un abbandonarsi in pace a Dio e alla sua vittoria, è distensione del cuore e pace della mente. Beati noi quando avremo imparato davvero che cos'è la fortezza cristiana!
Leggiamo nel libro dell'Esodo: "Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero: 'Voglio cantare in onore del Signore, perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere" (15, 1-2). Il canto, molto bello e che potreste pregare, esprime l'esultanza di un popolo che era pieno di paura, spaventato dalla propria inadeguatezza, assolutamente impreparato ad affrontare la moltitudine dell'esercito egiziano, di un popolo a cui però Mosè aveva detto: "Il Signore combatterà per voi e voi starete tranquilli" (Es 14, 14). Il popolo aveva creduto alle parole di Mosè e, dopo la vittoria, esulta e loda il Signore.
Dunque, la fortezza cristiana è tranquillità d'animo pur in situazioni che indurrebbero alla paura.
5. La fortezza come resistenza
L'ultima tesi, classica nella tradizione cristiana sulla fortezza, afferma che questa virtù si esprime al meglio non nell'aggressività o nell'attaccare, bensì nel resistere (in latino sustinère). San Tommaso, citando Aristotele, scrive: "È principalmente nel resistere alla tristezza che alcuni sono detti forti". Resistenza quindi alla tristezza, al tedio, all'accidia, che ostacolano il compimento del bene.
Infatti, oltre al caso serio del martirio, c'è la quotidianità, nella quale dobbiamo resistere nel nostro dovere, nel nostro lavoro, nel fare il bene malgrado tristezze, fatiche fisiche, psicologiche, malinconie, forse nostalgie di situazioni diverse. Dobbiamo resistere nel bene non solo quando ci so
no i nemici interni, come appunto la fatica e la frustrazione, ma pure quando i nemici vengono dall'esterno: incomprensioni, maldicenze, strumentalizzazioni, calunnie. E dobbiamo resistere nella pace, perché è questo il dono della fortezza.
La fortezza è allora molto necessaria oggi e tutti i giorni. È necessaria soprattutto in una società molle, flaccida, paurosa, in cui ci si spaventa di fronte alla prima difficoltà, nello studio, nel lavoro, nella vita coniugale, nella vita comunitaria. È virtù di tutti i giorni, perché non c'è bontà senza fortezza, non c'è giustizia senza questa capacità di resistere al logorio quotidiano. Proprio nella quotidianità si esprime la magnanimità del cristiano, la sua capacità di sopportare, per amore e con la grazia di Dio, situazioni pesanti e ingrate.
Comunicare la Parola
Vi offro due suggerimenti per un dialogo di fede e nella fede.
1. Quali sono i condizionamenti negativi e gli incentivi nel compiere la volontà del Padre con fermezza e costanza?
Il primo condizionamento negativo è quello di credersi forti, di mettere la propria fiducia solo in se stessi e non in Dio.
Tra i diversi incentivi per vivere con fermezza la volontà del Padre, segnalo la lectio divina, la meditazione sulla Scrittura, perché è una vera cura quotidiana della fortezza; in particolare vorrei segnalare la preghiera dei Salmi.
2. Come coltivare la virtù della fortezza di fronte agli insuccessi, alla sofferenza, alla morte?
Quale aiuto a rispondere, sottolineo che occorre prendere coscienza che la fortezza si mostra proprio di fronte agli insuccessi e alla sofferenza. Nelle situazioni facili, la fortezza è di tutti e non riusciamo a capire se l'abbiamo o meno: essa si mette in gioco davanti alle difficoltà.
Per vivere dunque la virtù della fortezza di fronte agli insuccessi della vita, vi consiglio tre atteggiamenti.
* Il primo, molto semplice, è di ringraziare Dio per i contrattempi che capitano, secondo l'antico adagio: "Ti ringrazio, mio Dio, perché le cose non vanno a modo mio". Ringraziarlo perché certamente lui sa il senso di quanto ci accade: un senso di bene, non di male.
* Il secondo atteggiamento è di cercare il significato della difficoltà, dell'intoppo, dell'intralcio: quale senso ha per me? che cosa il Signore vuole dirmi attraverso questo evento? come mai l'ha permesso? poiché lui mi ama, quale messaggio di amore mi trasmette?
* Infine, vi consiglio di contemplare il Crocifisso, perché la fortezza è dono dello Spirito santo che nasce dalla croce.
Conclusione
Abbiamo assoluto bisogno della virtù della fortezza in un tempo come il nostro in cui si cercano dappertutto le facili vie di uscita, i facili compromessi, le situazioni che sono più congeniali e si sfugge istintivamente da tutto ciò che comporta sacrificio, rinuncia, l'andare contro corrente. Ma senza la fortezza non c'è giustizia sulla terra; senza la fortezza nessuno farà il bene fino in fondo e la nostra società diventerà una società di scontenti e di frustrati. È questo il prezzo che si paga quando non c'è la fortezza. E la stessa salute psicologica viene minata dalla mancanza di fortezza. Perché chi è debole e, anziché chiedere a Dio il dono della fortezza, si lascia vincere dalla scontentezza, dalla divisione interne, o chi crede di essere forte e perciò è ancora più debole, finisce per logorare il suo fisico e la sua psiche.
In Dio solo è la nostra fortezza. Tu .sei la mia fortezza, il mio baluardo, il mio scudo di salvezza: tu solo, Signore!

 
LA TEMPERANZA

Che cosa significa "temperanza"?
Quando ero bambino mi chiedevo spesso, sentendo usare la parola "temperanza", che cosa volesse dire, e dal momento che per me (come per tutti i bambini, penso) era molto difficile temperare le matite senza rompere la punta, avevo finito col pensare quel sostantivo come la capacità di temperare bene le matite.
In questi giorni, sfogliando i vocabolari mi sono accorto che la mia idea di bambino non era tanto sciocca, perché in realtà "temperare" significa disporre bene qualcosa per il suo uso: temperare una matita è disporla in tutte le sue parti così da poterla usare bene. Più in generale, vuol dire combinare nel modo giusto le parti in un tutto che sia armonico e utile: per esempio, temperare i colori prima di mettersi a dipingere un quadro. "Tempera" o "tempra" è quel trattamento termico a cui si sottopongono le leghe metalliche o i cristalli, affinché abbiano una resistenza maggiore. "Temperamento" è la mescolanza delle doti di un individuo; si parla infatti di buono o di cattivo "temperamento". Il clima "temperato" è proprio delle regioni nelle quali il freddo e il caldo si accordano tra loro. Da qui comprendiamo il senso tecnico, laico, generale del termine "temperanza" , che è appunto la capacità di soddisfare con equilibrio e moderazione i propri istinti e desideri. Alla temperanza sono allora collegate molte altre virtù più facili da capire: dominio di sé, ordine e misura, armonia, equilibrio, autocontrollo; tutti atteggiamenti assai importanti.
Qual è la fonte della temperanza?
Affrontare il tema della temperanza dal punto di vista della tradizione cristiana, significa che il nostro discorso sull'etica diventa un discorso ascetico, spirituale, cioè un discorso sul cammino dell'uomo che, vincendo se stesso, va verso l'imitazione di Gesù, verso la somiglianza con Dio. Ci sono anche dei passi biblici che, nel contesto del dominio delle proprie passioni, parlano dell'imitazione di Cristo, della necessità di seguire lo Spirito che è in Gesù.
* Per esempio, san Paolo raccomanda ai Galati: "Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gai 5, 24-25).
* Oppure: "Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno; non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Rm 13, 12-14).
Dunque la temperanza è imitazione di Cristo, perché Gesù è modello di equilibrio, di dominio di sé: tutta la sua vita è ben regolata, come pure la sua passione e la sua morte. Gesù è temperante nello slancio, nella vivacità, nell'entusiasmo, nella creatività, nell'amore a tutte le creature; Gesù ama le persone, parla con amore degli animali, dei fiori, del cielo. In lui c'è quell'armonia che tiene insieme i desideri, gli istinti, le emozioni per farne un organismo ben unificato.
Anche nella vita dei Santi contempliamo questo splendore della temperanza: basta pensare a Francesco d'Assisi e alla sua passionalità santa, sempre regolata, al suo amore per tutte le creature, alla sua capacità di gioire.
Gesù e i santi ci testimoniano che temperanza non è sinonimo di freddezza, di rigidità, di insensibilità - come talora si pensa -, bensì è sinonimo di armonia, di ordine e perciò di creatività e di gioia.
Dove si esercita la temperanza?
Dopo aver visto qual è il significato del vocabolo "temperanza" e aver capito che questa virtù ha la sua fonte anzitutto nell'imitazione di Gesù, cerchiamo di rispondere alla domanda: Dove si esercita la temperanza? "La temperanza è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà" (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1809).
La temperanza si esercita quindi nelle realtà sopra menzionate: i beni creati, gli istinti, i piaceri, i desideri.
Mi sembra utile sottolineare cinque grandi aspetti o ambiti dell'esistenza in cui dobbiamo vivere la temperanza.
1. Temperanza come moderazione nel mangiare e nel bere. In questo caso, essa ha a che fare con l'astinenza, con il digiuno anche, con la cura della salute, con la dieta quando la si segue non per motivi di bellezza o di linea, bensì per mantenere sano il fisico. La temperanza si oppone evidentemente agli eccessi dell'alcool e della droga. Abbiamo visto che, nel brano della Lettera ai Romani, Paolo sottolinea la moderazione nel cibo e nelle bevande raccomandando di evitare gozzoviglie e ubriachezze.
2. Temperanza come controllo degli istinti sessuali. Sempre nella Lettera ai Romani, Paolo esorta a vivere "non tra impurità e licenze". È il discorso della castità, della custodia dei sensi, degli occhi, della fantasia e dei gesti; del buon uso della televisione, dell'attenzione alle letture, ai giornali, ecc.
All'opposto di tale temperanza stanno tutti i disordini sessuali, fino alle perversioni che causano poi i delitti.
3. Temperanza come equilibrio nell'uso dei beni materiali, in particolare del denaro. "Coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (1Tim 6, 9-10).
È tutto il tema dell'avarizia, della corruzione amministrativa e politica, che nasce dall'avidità personale o di gruppo. Ne abbiamo parlato a proposito della virtù della giustizia, ma ritorna adesso perché è la temperanza a stroncare le radici di quell'avidità che crea ingiustizia.
Sotto questo terzo aspetto, la temperanza riguarda anche il lusso, le spese sfrenate nel vestire, nella casa, nelle seconde e terze case, nei divertimenti; essa aiuta infatti a raggiungere la moderazione che conviene alla situazione di ciascuno e che non è eccedenza, ostentazione, sperpero.
4. La temperanza come giusto mezzo nella ricerca di onore e di successo. "Tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo" (1Gv 2, 16).
In questo senso, la temperanza è collegata con l'umiltà, la modestia, la semplicità del comportamento; ed è contraria all'arroganza, alla supponenza, al gusto sfrenato del potere.
5. L'ultimo aspetto è quello della temperanza come dominio dell'irascibilità. La temperanza ci aiuta (meglio: ci insegna) a dominare nervosismi, irritazioni, scatti d'ira, piccole e grandi vendette, magari anche nell'ambito della famiglia, dell'amicizia.
È la virtù che mantiene la persona in quell'equilibrio forte che è necessario per reagire bene al male, per rimproverare bene o ben punire quando occorre. Se invece manca il dominio dell'istinto dell'irascibilità, si rischia pure in famiglia di lasciarsi andare alle contese, alle impazienze gravi, ai dispetti o, al contrario, di lasciar fare tutto senza mai intervenire.
La temperanza è la via di mezzo, è il saper contemperare giuste esigenze di serietà e di severità con atteggiamenti di comprensione e di perdono.
Perché è importante la temperanza?
I cinque atteggiamenti che ho sottolineato permettono di comprendere come la temperanza tocchi tutta la vita quotidiana, e la tocchi per renderla serena e capace di vero godimento. Ad esempio, il dominio di séindotto e promosso dalla temperanza è sorgente di autentico godimento anche sensibile, di piccole gioie e soddisfazioni della vita. Mentre la sfrenatezza, l'intemperanza, il gusto di tutto vedere, di tutto sapere, è fonte di rigidità, di nervosismo e genera un'ottusità dei sensi che arriva poi alla noia togliendo la serenità e la pace.
Allora, la temperanza è importante perché rende la vita bella e armonica. Passando alla ragione contraria: la vigilanza su di sé è importante perché gli istinti, lasciati a se stessi, diventano distruttivi.
La Lettera di Paolo a Timoteo, sopra citata, parla di "rovina e perdizione" provocate dalle "bramosie insensate e funeste" e del fatto che ci si tormenta con molti dolori quando si cede il campo a tali bramosie. La ragione filosofica sta nel fatto che, a differenza degli animali che si autoregolano con precisione a motivo degli istinti, l'uomo deve imparare a regolare i suoi istinti con la ragione e la volontà. "Non seguire il tuo istinto e la tua forza, assecondando la passione del tuo cuore" (Sir 5, 2), non fidarti della forza travolgente del tuo istinto. Se parlassimo agli animali, potremmo dire tranquillamente: segui il tuo istinto. Ma l'uomo deve ricavare il suo comportamento dalla ragione, dalla riflessione, dalla ragione illuminata dalla fede.
L'impegno per agire così è chiamato anche ascesi, esercizio, allenamento: si tratta di un'autoeducazione della volontà, che parte dall'intelligenza e dalla ragionevolezza. E tutti sappiamo che è molto importante allenarci con sacrifici al dominio di sé, alle piccole rinunce. Là dove i ragazzi non vengono aiutati a rinunciare a qualche cosa, ma si concede loro tutto, non saranno mai allenati, educati al dominio di sé. Bisogna dunque imparare a compiere volentieri piccoli e spontanei sacrifici, perché questa è la grande lezione tradizionale della temperanza cristiana.
Comunicare la Parola
Vi suggerisco, infine, quattro domande per stimolarvi a riflettere ulteriormente sulla virtù della temperanza.
1. "Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera" (1Pt 4,7). Partendo dall'esortazione di Pietro potreste chiedervi: qual è il rapporto tra temperanza e preghiera? perché la temperanza aiuta la preghiera e l'intemperanza, la sfrenatezza, la golosità, la curiosità, la morbosità uccidono la preghiera? Spesso affermiamo di non saper pregare, ma dovremmo andare alle radici, cioè frenare anzitutto le passioni e gli istinti anche nelle piccole cose.
2. Come si pensa e si parla oggi della virtù della temperanza, sia in se stessa che nei cinque ambiti che ho indicato? che cosa pensa la gente, come la valuta, che ne dice? Proviamo a fare un'indagine e magari ci riconosceremo nei giudizi troppo faciloni della gente.
3. Quali danni vengono - nella vita personale, nelle famiglie, nella società - dalla mancanza di dominio di sé nei cinque ambiti su cui ci siamo fermati?
4. Come educarci ed educare - in famiglia, in Oratorio, in parrocchia al dominio di sé? come non dimenticare questa virtù così dimenticata?

 
LA FEDE

Le tre virtù teologali
Abbiamo riflettuto sulle quattro virtù cardinali - prudenza, giustizia, fortezza, temperanza - che sono caratteristiche di ogni uomo onesto; in altre parole, possono anche essere le virtù di un buon pagano.
Infatti, noi le troviamo nel pensiero filosofico di Socrate come è presentato da Platone e nei trattati di Platone e di Aristotele. Pensiamo, per esempio, che sant' Ambrogio ne parla appoggiandosi sugli scritti di Cicerone, mostrando così di non disdegnare affatto la grande sapienza pagana. Ora dobbiamo compiere un salto di qualità per considerare tre virtù - fede, speranza, carità - specificamente bibliche. Nella loro unità inscindibile ce le presenta san Paolo fin dalla sua più antica Lettera, quella ai
Tessalonicesi:
"Siamo continuamente memori davanti a Dio e Padre del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo" (1Ts 1, 3).
La triade, fissata ormai dalla Lettera paolina, la ritroveremo nel Nuovo Testamento, negli scritti dei Padri della Chiesa, nella catechesi.
Si tratta di tre atteggiamenti molti importanti e sempre collegati tra loro perché sono propri del cristiano. Evidentemente il discepolo di Cristo si qualifica anche per la sua prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, ma in quanto crescono sul terreno della fede, speranza, carità.
In qualche modo sarebbe stato forse meglio iniziare le nostre riflessioni a partire da queste tre tipiche virtù cristiane, ma abbiamo scelto di dare la precedenza a quelle virtù umane che gli stessi non credenti accolgono e desiderano vivere.
Sono pochi tre incontri per spiegare la fede, la speranza e la carità, dal momento che questa triade costituisce la risposta globale al Dio trinitario
che si rivela in Gesù Cristo; si tratta quindi di virtù legate alla rivelazione soprannaturale. Senza di essa non avrebbe senso la fede, che è il al Dio che si rivela; né avrebbe senso la speranza, che si appoggia alle promesse di Dio sulla vita eterna; né avrebbe possibilità di esistere la carità, che significa amare come Dio stesso ama.
Tre virtù che si appoggiano all'amore di Dio, alla manifestazione del suo amore per l'uomo in Gesù. Perciò sono chiamate teologali o divine: non soltanto perché si riferiscono a Dio, ma anche perché è Dio a renderle possibili, a offrirci la grazia di credere, sperare e amare. Esse hanno Dio come oggetto e insieme ci provengono dalla sua benevolenza, sono la vita divina in noi, la risposta che lo Spirito santo suscita in noi di fronte alla parola di Dio.
Mentre da soli siamo in grado di essere forti, giusti, prudenti e temperanti, non lo siamo di credere, di sperare e di amare se Dio non prende l'iniziativa, gratuita e libera, di infonderci questa triade di virtù.
Cerchiamo allora di rispondere a quattro domande: - che cos'è la fede?
- che cos'è la fede nella nostra vita?
- perché credere?
- quali sono le difficoltà nel cammino della fede?
Che cos'è la fede?
La fede è un bene così grande che è più facile spiegarla con esempi che con parole.
Essa è l'atteggiamento di Abramo che risponde "Eccomi" al Signore che lo chiama per metterlo alla prova (Gen 22, 1).
È l'atteggiamento di Mosè che risponde "Eccomi" a Colui che lo chiama dal roveto ardente (Es 3, 4).
È l'atteggiamento di Samuele che dice "Eccomi" al Dio che lo chiama nella notte (Sm 3, 4.10).
È, ancora, l'atteggiamento di Maria che all'angelo risponde: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,38). "Con la fede l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente" , dice il Catechismo della Chiesa cattolica citando la Costituzione conciliare Dei Verbum (n. 5).
È il nostro dire "sì" a Dio che si rivela, si presenta a noi e ci parla. Il verbo "credere" e il vocabolo "fede" ricorrono molto frequentemente nel Nuovo Testamento (Vangeli, Atti degli Apostoli, Lettere di Paolo, Pietro, Giacomo), perché la fede è la stazione di partenza, la prima sorgente della nostra adesione a Dio.
Mentre nell'Antico Testamento il "sì" dell'uomo si riferisce a diverse azioni divine (il Signore che salva, che chiama, che libera, che invita), nel Nuovo la fede si specifica nella salvezza che Dio ci propone in Gesù. È dunque un atto decisivo, fondamentale, con il quale ciascuno di noi accoglie, accetta la rivelazione del disegno salvifico in Cristo Gesù, morto e risorto, che ci dona lo Spirito. Questa è la Buona Notizia, il Vangelo, a cui rispondiamo dicendo: "lo credo", ed è perciò anche il contenuto del Simbolo che recitiamo nella Messa domenicale o nelle nostre preghiere personali. Noi sintetizziamo tutto questo proclamando, nel segno della croce, il nome "del Padre e del Figlio e dello Spirito santo", segno che caratterizza il credente cristiano.
Allora, "la fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio" - gli diciamo di "sì", ci fidiamo di lui - "e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità" (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1814).
Che cos'è la fede nella nostra vita?
La fede nella nostra vita è tutto, è il bene sommo; senza di essa non c'è in noi nulla di divino. Se non abbiamo la fede, restiamo immersi nel peccato, nell'incredulità, nella non conoscenza di Dio, nel non senso della vita. Con la fede, invece, cominciamo a esistere; per questo, quando siamo stati presentati al fonte battesimale, i nostri padrini alla domanda "che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?" hanno risposto: «la fede».
Noi professiamo la fede tutte le volte che nella Messa rispondiamo "amen", cioè "sì", "è così", "credo che è così".
Potremmo anzi dire di più: ogni nostra azione buona, ogni nostra azione morale, è fatta a partire dalla fede, perché noi operiamo il bene, perché noi viviamo le virtù umane nella fede in quel Dio che ci ha amato. La fede quindi permea le nostre giornate, il nostro respiro. Dalla fede nascono la preghiera, i comportamenti cristiani, la partecipazione alla Messa, la lotta per la giustizia. La fede è tutto in noi, è la sostanza che pervade tutte le cellule della nostra esistenza.
Perché credere?
Il Catechismo della Chiesa cattolica, nel numero sopra citato, afferma che noi crediamo in Dio "perché egli è la stessa verità". Vorrei esprimere questo concetto con due risposte parallele: una che riguarda il nostro intelletto, la nostra mente, e l'altra che riguarda la nostra volontà.
1. Anzitutto, dobbiamo credere poiché Dio è verità infallibile e questo Dio-verità ci ha parlato, dandoci dei segni che ci invitano a riconoscere la sua rivelazione: tutta la storia della salvezza, tutta la vita di Gesù - dottrina, miracoli, profezie, morte e risurrezione -, tutta la vita della Chiesa testimoniano che Dio ha parlato. Accogliendo l'invito a credergli, noi compiamo un atto di fede nella verità stessa di Dio, nella sua veracità e quindi abbiamo in Dio il fondamento della nostra fede.
2. Al di là delle ragioni che sollecitano la mente a credere, ci sono dei motivi che spingono il cuore alla fede. Crediamo perché è questo il bene maggiore dell'uomo, perché la fede ci rende partecipi della conoscenza di Dio, di ciò che lui conosce e di come lo conosce. Credere ci apre alla vita divina, ci fa entrare in comunione con il Signore, a cui possiamo dire: "Tu sei mio", ed egli può dirci: "lo sono tuo". Con la fede, cioè, ci leghiamo in strettissima unità con Dio Padre, Figlio, Spirito santo.
Infatti, la Chiesa è in stato di missione perché ritiene che credere è il sommo bene e vuole annunciare a tutto il mondo la possibilità di partecipare alla comunione con Dio.
Quali le difficoltà della fede?
Dopo aver cercato di comprendere che cos'è la fede nella Bibbia, nella mia vita e perché bisogna credere, vogliamo chiederci come mai vengono tante difficoltà nella fede.
Le difficoltà possono risiedere nell'intelligenza e nei sentimenti.
1. Ci sono difficoltà provenienti dall'intelligenza, dalla ragione, obiezioni contro la fede che improvvisamente ci assalgono e ci disturbano: è davvero ragionevole credere? come posso dire di sì a realtà che superano la mia comprensione?
In questo caso possiamo difenderci e combattere contro tali difficoltà studiando, informandoci, cercando di scioglierle una per una; insieme occorre praticare la pazienza, rimetter ci pazientemente di fronte alle grandi certezze che stanno alla base della fede. Perciò è estremamente importante leggere la Scrittura, il Vangelo, che ci pongono continuamente davanti quelle certezze che suscitano e nutrono la fede.
È chiaro che se un cristiano nutre poco la sua fede, a un certo punto essa rischia di morire di fame, illanguidisce e cede di fronte alle obiezioni: chi non partecipa alla catechesi, chi non approfondisce la Scrittura, sarà facilmente esposto alle difficoltà della fede di ordine intellettuale.
2. Anche il sentimento può giocarci. Per esempio, quando diciamo: non sento più niente, sono arido, il Signore non mi parla, non ascolta la mia preghiera, è diventato muto. Il cosiddetto silenzio di Dio, l'aridità o il deserto, possono creare grosse difficoltà.
Come vincerle?
Anzitutto vorrei ricordare un principio fondamentale: in queste difficoltà pratiche, di ordine sentimentale, la fede si purifica, non diminuisce. Quando entriamo nell'aridità o nell'oscurità, infatti, comprendiamo che Dio è 'altro' da noi, che non si identifica con in nostri sentimenti, con i nostri gusti, con le nostre immagini, ma è sempre al di là. Allora la fede diventa più autentica, più pura e, perseverando nel deserto, noi scopriamo il vero volto di Dio.
È necessaria dunque una grande perseveranza, è necessario un grande coraggio per resistere alle tentazioni contro la fede che nascono dal non sentire, dal non gustare; dobbiamo pregare insistentemente affermando risolutamente, con un atto di fede, la nostra fiducia in quel mistero di Dio che non è legato all'esperienza sensibile. Così la fede si solidifica, si irrobustisce.
3. Tuttavia, le difficoltà di fede possono essere causate da una volontà sbagliata. Allorché scelgo, per esempio, di operare contro i comandamenti, preferirei che Dio non esistesse e quindi sono pronto a prestare facilmente orecchio alle obiezioni sulla fede. Non poche obiezioni derivano purtroppo dal fatto che la nostra vita cristiana, i nostri comportamenti non sono conformi al Vangelo. Occorre dunque un cammino di conversione che ci porti a pensare e ad agire secondo la verità e l'esistenza di Dio. E il credere ci sarà molto più facile.
Comunicare la Parola
Vi propongo, per concludere, quattro semplicissime domande che vi aiuteranno a riflettere personalmente sulla fede.
1. Mi capita di pensare alla mia fede, all'importanza della fede nella mia vita? quando faccio il segno della croce, o recito il "Credo" o rispondo "Amen", penso davvero alla mia fede?
2. Sono convinto che ogni mio gesto buono è radicato nella fede e, quindi, che ogni opera buona che compio nasce dalla fede?
3. Che cosa mi aiuta maggiormente a credere? mi aiuta la preghiera, la lettura della Bibbia, la catechesi, la lettura di qualche testo che presenta la fede permettendomi di sciogliere alcune difficoltà, la conversazione con persone che credono, la partecipazione a un gruppo dove si prega e si vive la fede?
4. Qual è l'ostacolo più grande alla mia fede? le obiezioni di tipo intellettuale? l'aridità? il comportarmi in modo difforme dalla fede?
Come posso ovviare a questi ostacoli e superarli?
Chiediamo al Signore di accrescere la nostra fede, facendo nostra la bellissima preghiera di Charles De Foucauld:
"Padre mio,
io mi abbandono a te,
fa' di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me,
ti ringrazio.
Sono pronto a tutto,
accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me
e in tutte le tue creature.
Non desidero niente altro, mio Dio.
Affido l'anima mia nelle tue mani:
te la dono, mio Dio,
con tutto l'amore del mio cuore
perché ti amo.
Ed è un bisogno del mio amore
il donarmi,
il pormi nelle tue mani senza riserve,
con infinita fiducia,
poiché tu sei mio Padre".
È uno splendido atto di fede con cui questo grande cristiano, credente, mistico si abbandonava, pur nella sua oscurità e nel suo deserto, al mistero di Dio.


LA SPERANZA (*)
Premessa
Desidero iniziare la riflessione sulla speranza raccontandovi un'intuizione, molto semplice, che ho avuto trentaquattro anni fa, nel 1959, celebrando per la prima volta la Messa al Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Si tratta di una piccola cella e per entrarvi bisogna curvarsi a fatica. In quel luogo misterioso e affascinante si venera la pietra su cui è stato deposto il corpo di Gesù morto. Era il 13 luglio, anniversario della mia ordinazione sacerdotale, tra le quattro e le cinque del mattino. Ricordo ancora con grande impressione il pensiero che mi illuminava: tutte le religioni - dicevo a me stesso - hanno considerato il problema della morte, il senso di questo evento, e si sono chieste se esista qualcosa al di là di esso. E io sto celebrando nel posto in cui Cristo morto ha riposato e da dove è risorto vivo. Qui è la risposta unica, cristiana, alla domanda universale: che cosa si può sperare dopo la morte?
Il tema della speranza riguarda anzitutto il momento drammatico, di non ritorno, che è la morte: ecco a che cosa si riferisce la virtù, la forza della speranza. Al problema della morte nessuno può sfuggire; anche se poi l'arco delle attese di futuro diventa amplissimo, coglie tutta l'esistenza umana, il destino e le speranze dei popoli, del mondo inteso come unità. I molteplici interrogativi su ciò che sarà di me, di noi, dell'umanità, hanno a che fare con la speranza, perché sperare è vivere, è dare senso al presente, è camminare, è avere ragioni per andare avanti.
(*) Questa catechesi è stata tenuta dall'Arcivescovo nel Duomo di Milano, dove erano convenute migliaia di persone da tutta la diocesi.
Abbiamo speranza?
Il punto focale della nostra riflessione si riassume in una sola domanda: noi che siamo radunati insieme, abbiamo speranza? ho in me la speranza cristiana? oppure è soltanto una parola? la speranza cristiana abita davvero dentro di me?
Occorre rispondere seriamente, non avendo paura di riconoscere che, forse, la nostra speranza si riduce a un lumicino (e sarebbe già molto).
Un esegeta contemporaneo, Heinrich Schlier, descrive, partendo da san Paolo, gli effetti della mancanza di speranza nel mondo, in questi termini: "Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza" . E aggiunge che i sintomi della non speranza sono "la verbosità dei vuoti discorsi, l'esigenza costante della discussione, l'insaziabile curiosità, la sbrigliata dispersione nella molteplicità e nell'arruffio, l'intima ed esteriore irrequietezza" - noi diremmo: le varie forme di nevrosi - "la mancanza di calma, l'instabilità nella decisione, il rincorrersi di continuo verso sempre nuove sensazioni" .
Cercherò dunque di aiutarvi a rispondere alla domanda su che cosa sia la speranza, per verificare se e in quale misura ci abiti.
Che cos'è la speranza cristiana?
Da quando ho pensato di preparare la lettera pastorale Sto alla porta, ho continuato a riflettere sulla speranza cristiana e, più vi rifletto, più mi appare indicibile.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell'intimo dell'anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile.
Tuttavia desidero darvi un tentativo di definizione attraverso sei brevi tesi.
1. La prima tesi paragona la speranza cristiana con le speranze del mondo. Perché la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c'è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell'attenderlo.
La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza e anche dalla disperazione.
Ora - è la prima tesi - la speranza cristiana è qualcosa di tutto ciò, ed è diversa da tutto ciò: è diversa da ogni forma che il mondo chiama speranza, perché ha a che fare sì e no con le speranze di questo mondo.
2. La speranza cristiana viene da Dio, dall'alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena. Infatti essa non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli, dalle nostre previsioni, dalle nostre statistiche o inchieste, ma ci è donata dal Signore. Spesso dimentichiamo questa verità e consideriamo la speranza cristiana come "qualcosa in più", che si aggiunge alle altre cose.
Dunque, sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio che genera in noi la virtù, la nutre, l'accresce, la conforta.
Mentre la prima tesi paragonava la speranza cristiana con le speranze di questo mondo, asserendo che in qualche modo è uguale alle altre ma anche diversa, la seconda tesi ci dà la ragione della diversità: la speranza è da Dio soltanto, è fondata sulla sua fedeltà.
3. Dobbiamo allora comprendere qual è il contenuto, l'oggetto della speranza cristiana. Sappiamo che, essendo virtù divina, ci rende partecipi della vita di Dio, è un mistero ineffabile, inimmaginabile, inesplicabile, indicibile appunto. Scrive san Paolo, nella Lettera ai Romani: "Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?" (Rm 8, 24). In un'altra Lettera afferma che "mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano" (1Cor 2,9): mai cuore ha potuto gustare, dunque neppure il nostro cuore, che è il centro di noi stessi. La speranza è uno strumento conoscitivo di straordinaria lungimiranza, acutezza, lucidità. Neppure il nostro cuore può comprendere, con tutti i suoi sogni, aspirazioni e desideri, quel bene senza limiti che Dio ci prepara, che è l'oggetto della nostra speranza: qualcosa che è al di là di ogni attesa e di ogni desiderio, anche se li colma e li riempie in modo indescrivibile. Il contenuto della speranza cristiana è quello di cui Dio ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di lui.
4. La speranza cristiana ha però un termine, un punto di riferimento come suo oggetto: guarda a Gesù Cristo e al suo ritorno. A questo si appunta, perché ciò che Dio ci prepara, nel suo amore infinito, non è un'incognita: è Gesù, il Signore della gloria.
Noi speriamo che Gesù si incontrerà pienamente, svelatamente, in tutta la sua divina potenza di Crocifisso-Risorto, con ciascuno di noi, con la Chiesa, e ci farà entrare nella sua gloria di Figlio accanto al Padre: sarà il regno di Dio, la celeste Gerusalemme, la vita in Dio.
La nostra speranza è che vivremo sempre con lui, saremo con lui, nostro amore, e lui sarà con noi; saremo, come figli nel Figlio, nella gloria del Padre, nella pienezza del dono dello Spirito.
Questo è il termine della speranza cristiana.
5. Dobbiamo fare, tuttavia, un chiarimento importante. Il ritorno di Gesù, che noi speriamo, è anche un giudizio. È necessario sottolinearlo in questi giorni in cui si parla tanto di giustizia, di crisi. La manifestazione di Cristo Gesù sarà pure un giudizio, una "crisi" nel senso originario della parola greca, che significa appunto "giudizio". Quando Cristo apparirà, nell'ora voluta dal Padre, si verificherà per ogni uomo la decisione definitiva sulla sua vita, sarà per ciascuno di noi e per l'umanità intera il momento critico, la crisi per eccellenza, il giudizio finale.
Nella nostra vita terrena e nella vita delle nostre società ci sono spesso crisi, grandi o piccole, personali o familiari, economiche, sociali, politiche, congiunturali, strutturali. Ma tutte queste crisi, anche quando ci sembrano quasi totali, raggiungono sempre soltanto una parte dell'esistenza umana e ne lasciano intatti altri aspetti. Non si dà sotto il sole una crisi davvero totale; e dunque nessuna crisi dovrebbe turbarci, spaventarci, se non in relazione alla crisi provocata dalla manifestazione definitiva del Signore, l'unica totale, l'unica in cui il giudizio sarà irrevocabile e irresistibile.
Per questo san Paolo avverte di "non giudicare nulla prima del tempo finché venga il Signore, il quale metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio" (lCor 4, 5). In quel momento del giudizio e della crisi
finale, tutto ciò che è stato sepolto nelle profondità delle coscienze e tutto ciò che è stato rimosso di fronte agli altri o addirittura a noi stessi, sarà rivelato e consegnato al tribunale inappellabile della decisione divina. In pubblico sarà emanato il giudizio pieno e definitivo di ciascuno e di tutti: giudizio imparziale, vero, sicuro.
6. Se attendiamo il giudizio di Dio, come mai possiamo guardare a esso con speranza?
La risposta è semplice: perché ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui; come colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati; come colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo, che gli sono stati uniti nel banchetto dell'Eucaristia, che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono, che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell'Unzione dei malati.
La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l'animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti.
Gesù, nostra speranza, nostra salvezza, nostra redenzione, nostra certezza, ci sostiene nei cammini difficili della vita e ci permette di superare, giorno dopo giorno, le piccole e grandi crisi della quotidianità e della società. E noi camminiamo guardando a un termine di gioia perfetta, di giustizia piena, di riconciliazione totale in lui che, nell'Eucaristia, continuamente si offre per noi sull'altare unendoci alla sua misericordia e ci immerge nell'amore del Padre.
Domande per la riflessione personale
Dopo aver cercato di descrivere la speranza cristiana, il suo orizzonte, il suo termine e che cosa comporta di gioia e di vigilanza fin da ora, vi propongo quattro domande per la riflessione personale.
1. Noi cristiani, io stesso, il nostro tempo, la nostra società, abbiamo davvero speranza? siamo adeguati all'ampiezza della speranza cristiana? Se constatiamo di avere una speranza fioca, tenue, di orizzonte ristretto, già questo può diventare motivo di preghiera: Donaci, o Padre, la speranza, donaci il pane quotidiano della speranza; rimetti a noi i nostri peccati di poca speranza!
È importante esprimere al Signore il desiderio che lui infonda la speranza vera.
2. Quali sono, in me e intorno a me, nella società, i segni di mancanza di speranza? Ne abbiamo indicati alcuni citando l'esegeta Heinrich Schlier: ogni cedimento al malumore, al nervosismo, all'inquietudine, all'amarezza; ogni mancanza di calma, la verbosità di discorsi vuoti, la voglia di discutere sempre, la. curiosità, la dispersione nella molteplicità delle cose, l'instabilità di decisioni nella vita. Sono tutti segni di non speranza.
E, nella società, sono segni di mancanza di speranza la non chiarezza, la non obiettività, la non linearità, l'incoerenza, la disonestà. Talora, guardandoci intorno con occhio indagatore, ci sembra di scorgere dietro a tante forme di vita dei segnali dolorosi di disperazione nascosta, che attende di essere curata, lenita, medicata, guarita.
Quali sono, dunque, in me e intorno a me, i segni di mancanza di speranza?
3. Quali, al contrario, i segni positivi che vedo in me di speranza teologale? Non semplicemente segnali di buon umore, di buona salute (pur se sono doni di Dio), ma segni di vera speranza. Per esempio, quando nelle difficoltà non mi perdo d'animo; quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che ci viene incontro, ci purifica, ci ricopre con la sua misericordia; quando so guardare all'eternità, al giudizio di Dio con serenità. Ci sono in noi questi piccoli o grandi segni di speranza teologale? e quali i segni positivi che scorgo nella comunità, nella parrocchia, nella società?
4. Dove ho più bisogno di speranza? Dobbiamo porci questa domanda cercando di pregare sui punti deboli della nostra speranza, perché la speranza è vita e senza di essa non siamo cristiani, anzi non possiamo neppure essere persone umane capaci di sostenere il peso dell'esistenza. La speranza ci è necessaria come l'aria, come l'acqua, come il pane, come il respiro.
Signore, dona speranza a noi e alla nostra società che ne ha tanto bisogno!
Conclusione
Desidero concludere con una preghiera, bellissima, di un nostro carissimo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, nel settembre 1986:
"Signore Gesù, tu sei i miei giorni.
Non ho altri che te nella mia vita.
Quando troverò un qualcosa che mi aiuta,
te ne sarò intensamente grato.
Però, Signore,
quand'anche io fossi solo,
quand'anche non ci fosse nulla che mi dà una mano,
non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene,
tu, Signore, mi basti,
con te ricomincio da capo.
Tu sei il mio desiderio!".

 
LA CARITÀ

Siamo giunti alla nostra ultima conversazione, l'ultima pennellata tra quelle con cui abbiamo cercato di delineare un poco l'immagine dell'uomo nuovo in Cristo, l'immagine del vero uomo secondo la Rivelazione. Un'ultima pennellata molto importante, perché dobbiamo riflettere su quella virtù che, come scrive san Paolo, "non avrà mai fine", che è "più grande di tutte le altre": la carità.
Non appena si menziona questa parola - carità, amore - si entra in un oceano nel quale è più facile annegare che dirne qualcosa. L'uomo, infatti, è creato per amare e noi viviamo soltanto se "bruciamo": "Amore è il Nome non familiare / di Chi con le sue mani tessè / l'intollerabile camicia di fuoco / che forza umana non può levare. / E noi viviamo, noi respiriamo / soltanto se bruciamo e bruciamo" (T. S. Eliot).
Ma che cosa significa che l'uomo è fatto per amare? Ci vengono subito in mente tutte le non comprensioni della parola 'amore', le tante forme di gelosia, di possesso dell'altro, che sono modi sbagliati di amare e anche le vere e proprie depravazioni dell'amore.
La domanda che vogliamo porci in proposito è allora la seguente: che rapporto c'è tra le diverse esperienze di amore umano - positive e negative - e la carità, l'amore cristiano? Che cos'è, in realtà, l'amore cristiano? Tento di rispondere attraverso cinque riflessioni progressive.
1. L'annuncio dell'amore di Dio in Gesù Cristo
Solo l'annuncio dell'amore di Dio in Gesù Cristo è il fondamento di una concezione cristiana dell'amore.
Quindi, il fondamento di tutto ciò che si dice sull'amore cristiano è l'annuncio dell'amore che è in Dio stesso (la Trinità) e che è in Gesù Cristo (l'Incarnazione). "Come il Padre ha amato me" (l'amore tra il Padre e il Figlio) "così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. E questo èil mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Gv 15, 9-12).
In questo testo contempliamo anzitutto l'amore nella Trinità, l'amore del Padre per il Figlio, amore che è la persona dello Spirito santo. E poi l'amore del Figlio per noi, a cui risponde l'amore nostro al Figlio ("rimanete nel mio amore"); da qui l'amore con il quale ci amiamo gli uni gli altri. Tutto però parte dall'amore di Dio espresso in Gesù Cristo.
È la prima affermazione fondamentale: non è possibile parlare di amore cristiano senza fare riferimento all'amore con cui Dio Padre ci ama in Gesù, nel dono dello Spirito.
2. Le tre forme concrete della carità
Sono dunque tre le forme concrete della carità, per quanto ci riguarda, o i tre significati della parola 'carità': l'amore di Dio per noi; l'amore di noi per Dio; l'amore di ciascuno di noi per il prossimo.
* L'amore di Dio per noi. Oltre al testo di Giovanni 15, ricordo altri due riferimenti: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3, 16); "In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi" (1Gv 4, 9).
* L'amore di noi per Dio. A chi gli domandava qual è il primo di tutti i comandamenti, Gesù rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" (Mc 12, 30).
* L'amore di ciascuno di noi per il prossimo. Continua Gesù: "E il secondo comandamento è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Me 12, 31). Ma, in Giovanni 15, aggiunge: "Come io vi ho amati". E, addirittura, ci chiede di "amare i nostri nemici" (Le 6, 27).
3. Le tre forme della carità sono una sola realtà
Queste tre forme della carità che spesso, magari per necessità di discorso, consideriamo un po' separatamente una dall'altra, sono in realtà strettamente collegate; ed è proprio tale unità che caratterizza l'amore nel senso cristiano.
Non ci può essere amore cristiano del prossimo senza l'amore preveniente di Dio, in Gesù, per noi. Se Dio ci ha amato per primo, a lui va come risposta il nostro amore.
D'altra parte, non c'è amore autentico per il Signore se non c'è amore per il prossimo. Riferendoci a quanto abbiamo detto nelle due ultime conversazioni, possiamo dire: non c'è fede, non c'è speranza se non c'è carità; e tuttavia la carità non supplisce alla mancanza di fede e di speranza.
4. Amore cristiano e amore umano
Veniamo dunque alla domanda iniziale: quale rapporto esiste tra l'amore cristiano nelle tre forme espresse (di Dio per noi, di noi per Dio, del nostro amore reciproco) e l'esperienza ordinaria delle diverse forme di amore umano che noi conosciamo ed esaltiamo? Per esempio, quando si parla di amore umano, viene in mente, come modello da esaltare, quello della madre per il figlio, un amore che raggiunge non di rado forme eroiche: un amore incondizionato, che tutto perdona, "tutto copre, tutto spera, tutto crede, tutto sopporta" , per usare i termini con cui san Paolo parla della carità (1Cor 13, 7). Abbiamo anche esempi straordinari di amore paterno, del padre per il figlio.
Un'altra esperienza umana straordinaria è quella dell'amore dello sposo per la sposa, della sposa per lo sposo: l'amore sponsale, coniugale, quello a cui intendiamo di solito riferirci quando usiamo la parola 'amore' senza aggettivi.
E poi conosciamo l'amore tra fratelli di sangue; l'amore di amicizia; le diverse forme di amore filantropico di cui, grazie a Dio, è piena la storia umana, anche al di fuori del cristianesimo e di ogni altra religione, perché si tratta di qualcosa che è insito nel cuore dell'uomo, connesso con il cuore umano.
Rispondere alla domanda, che continua a ricorrere nella storia della teologia e della riflessione filosofica, sul rapporto tra amore cristiano e amore in generale, è importante anche per aiutarci a distinguere tra le forme vere e le mistificazioni dell'amore umano, che sono moltissime. Se ci guardiamo attorno, vediamo subito le contraffazioni che vengono fatte passare per amore anche nei mass media, nei romanzi, nelle telenovelas.
Cercherò di dare una risposta duplice.
* In parte, possiamo dire che tutte le forme positive dell'amore umano assomigliano a quanto noi esprimiamo con il termine 'carità', nel senso di amore verso il prossimo; quindi la carità come dono di Dio, come virtù, la carità come atteggiamento teologico entra di fatto nelle diverse forme dell'amore umano autentico per vivificarle. Anzi, l'amore che nasce da Dio in Gesù Cristo, che nasce dalla contemplazione del Crocifisso ed è messo nel nostro cuore dallo Spirito santo, riempie di sé tutti i comportamenti positivi dell'uomo: la fede, la speranza, la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza, l'onestà, la sollecitudine verso gli altri, la pazienza, l'equilibrio degli affetti, la diligenza. La carità, cioè, ha a che fare non solo con tutte le esperienze di amore umano, bensì anche con ogni espressione positiva e autentica dell'essere dell'uomo e della donna.
* In parte, però, la carità si distingue dalle esperienze comuni, storiche, fenomenologiche, dell'amore tra gli uomini, perché è grazia, è dono dall'alto, scaturisce dalla fede e supera le connessioni umane, in particolare nel caso dell'amore per il nemico, del perdono gratuito. Per amare i nemici, per perdonare gratuitamente occorre qualcosa di più grande, che nasce solo dalla croce di Cristo.
Dunque, l'amore divino corregge anche e smaschera tutte le deviazioni dell'amore umano, che contrabbandano egoismo e ricerca chiusa di se stessi.
5. Dove si esercita e da dove nasce la carità
Siamo giunti al momento pratico, per così dire, della nostra riflessione.
* La carità cristiana si esercita nelle cose più semplici. Non dobbiamo aspettare né le grandi occasioni né i grandi sentimenti, come se la carità fosse una specie di apparizione divina nell'anima. Essa è in noi, invisibile, e ogni piccola circostanza è buona per esercitarla. Concretamente, possiamo fare semplici atti di amore di Dio, di amore per Gesù: "O Gesù, voglio amarti sempre di più"; "Padre ti offro il mio cuore, il mio amore"; "Spirito santo, vieni in me e accresci il mio amore". In questo modo esercitiamo la carità soprannaturale, divina.
E poi ci sono gli atti di amore del prossimo: un sorriso gratuito, un gesto di comprensione, di pazienza, di benevolenza: la carità è eccelsa per se stessa e rende sublimi le cose più piccole, più semplici.
* La carità, lo ripetiamo, nasce da Dio e va domandata anzitutto a Dio come dono: "Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor tuo amo il prossimo come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, che io ti ami sempre più".
La carità nasce dalla fede, dalla proclamazione dell'amore di Dio per noi; e la fede, a sua volta, nasce dalla parola di Dio, che la coltiva e l'accresce. È un mezzo meraviglioso e importantissimo leggere e meditare i libri della Scrittura, leggere e meditare i V angeli, capire il grande amore che Gesù ci ha mostrato nella sua vita, passione e morte.
La carità in noi si dilata nella misura in cui comprendiamo come Gesù ci ha amato e ci ama, come Gesù ha amato e ha trattato i piccoli, i poveri, i lebbrosi, i malati, le persone moleste, lontane, i nemici.
Domande per la riflessione personale
A partire da ciò che ho cercato di esprimere, voi stessi potrete rispondere a tre domande:
1. Amare Dio: che significa per il credente in Cristo?
2. Quali sono le difficoltà da superare per compiere gli atti della carità, come il perdonare, il condividere, il consolare, il correggere?
3. E come dobbiamo coltivare quel "di più" della carità di cui ho parlato nella Lettera Sto alla porta (cf nn. 41.45.47.48)?
Quel "di più" che va al di là della semplice filantropia, che nasce dall'amore eterno di Dio e punta verso l'eternità, verso il vero bene soprannaturale pieno delle persone che amiamo.
Mentre vi auguro la buona Pasqua, vi invito tutti al grande incontro del 15 maggio nello stadio di San Siro, incontro nel quale proclameremo la vita come il grande dono dell'amore di Dio, insieme alle comunità cristiane delle Chiese di Lombardia, a chiusura del Convegno "Nascere e morire oggi". Rendendo lode e grazie al Signore per la vita umana, affermeremo la dignità di ogni uomo, chiamato a partecipare alla vita di Dio, e invocheremo la forza dello Spirito per essere capaci di "onorare" ogni uomo e di costruire una nuova cultura della vita.