sabato 1 settembre 2012

Martini: Ritrovare se stessi




PREMESSA
Questo libro del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano, è rivolto a chi credente o non, ritenga dimensione inalienabile della propria esperienza umana quell'interiorità che non cessa di interrogarsi e di riflettere.
I credenti vi troveranno nutrimento solido per una meditazione sul proprio itinerario quaresimale, perché la fede possa essere una fede matura, adulta, che si pone domande e insieme sa rendere ragione di se stessa.
Chi non crede, potrà essere invitato a confrontarsi con l'approccio cristiano a tematiche che sono per tutti di bruciante attualità: silenzio e preghiera sono realtà ricercate oggi da molti, comunque si voglia interpretare tale ricerca; la riconciliazione pare drammaticamente quale condizione irrinunciabile per la sopravvivenza delle persone e delle società; e così il riconoscimento, la denuncia e la lot
ta contro il peccato
- sia esso personale, strutturale o ideologico -, cioè contro tutto ciò che in qualunque modo degradi e umili la dignità dell'uomo.
1.
L'AMORE DI DIO PER L'UOMO
Per spiegare chi è Dio occorre riferirsi alla Bibbia, a quell'insieme di libri dell' Antico e del Nuovo Testamento - scritti nell' arco di oltre un millennio - che contengono l'unica Parola di Dio e l'esplicitazione del suo disegno di salvezza.
Ovviamente la Scrittura non tratta il problema dell'esistenza di Dio; piuttosto racconta qual è il volto del vero Dio. Non un Dio vendicativo, permaloso, esigente, che richiede dall'uomo ciò che l'uomo non può dare, e nemmeno un Dio lontano, che si disinteressa del mondo. Il Dio della Bibbia è ricco di amore e di misericordia, va in cerca dell'uomo che ha creato e che vuol rendere felice.
La vita, la morte, l'amicizia, il dolore, l'amore, la famiglia, il lavoro, le varie situazioni personali, la solitudine, i segreti movimenti del cuore, i grandi fenomeni sociali ed epocali, tutta questa vita umana ci viene consegnata dalla Parola di Dio scritta nella Bibbia in una luce nuova e vera.
Non a caso la Scrittura è l'insostituibile sorgente culturale della Chiesa, la sua prima espressione culturale privilegiata e perenne, il modulo di riferimento di ogni cambio culturale.
Vorrei quindi presentare il vero volto di Dio nei vangeli di Marco, di Giovanni e di Luca. I vangeli, prima di
essere scritti, si sono tramandati oralmente. Il termine «vangelo», nella versione greca, significa letteralmente «il lieto annunzio» che un messaggero porta, «la buona notizia», e questa buona notizia, portata e predicata da Gesù, è Gesù stesso, si identifica con la persona di Cristo come compimento delle promesse messianiche e intervento definitivo di Dio nella storia.
La designazione di «vangelo» per i manuali scritti da Matteo, Marco, Luca e Giovanni, che ha il suo inizio nel n secolo, vuole indicare la strettissima relazione che essi hanno con il messaggio di Gesù e degli apostoli.
Il  mistero di Dio nel vangelo secondo Marco
È interessante riflettere sul mistero di Dio nel vangelo secondo Marco; meglio ancora, vedere quale parte ha il senso di Dio nel cammino che Marco propone al catecumeno, cioè a chi si prepara ad abbracciare la fede.
Anzitutto notiamo quanto, di fatto, si parli poco di Dio in questo vangelo, quanto sembri scarsa l'istruzione su Dio.
Se consideriamo le menzioni, ci accorgiamo che in Marco il nome di Dio occorre 37 volte, contro 46 in Matteo e 108 in Luca.
Lo stesso accade per la menzione di
Padre: la parola ricorre 13 volte in Marco, ma appena cinque volte è riferita a Dio, mentre Giovanni ha centinaia di occorrenze del nome di Padre riferite a Dio; perché, evidentemente, una catechesi su Dio Padre fa parte dell'istruzione del cristiano illuminato.
Come mai questo silenzio su Dio? perché se ne parla poco?
Dobbiamo riportarci alla situazione concreta del catecumeno nella Chiesa primitiva. I catecumeni della Chiesa primitiva, soprattutto quelli a cui si rivolge il vangelo di Marco - provenienti in gran parte dal paganesimo -, avevano già un grande senso religioso. Non era loro estraneo il pensiero, la parola, il vocabolo, la menzione continua di Dio; come dice bene san Paolo parlando appunto dei pagani: «Ce ne sono molti che sono detti Dio, sia nel cielo che sulla terra, e ve ne sono molti tenuti per dèi, e molti Signori (kyrioi)..,» (1 Corinzi 8) 5). Tant'è vero che Paolo, entrando in Atene si irrita per la presenza continua di simulacri di divinità e chiama gli Ateniesi estremamente superstiziosi.
Il
catecumenato veniva dunque impartito a gente che, in fondo, Dio l'aveva in bocca anche troppo. Il problema non era tanto di educare al senso della divinità, ma di lottare contro una religiosità erronea.
Possiamo subito chiederci: è davvero peggiore la nostra situazione odierna di ateismo diffuso? Forse è più facile parlare del Dio vero in una situazione di ateismo che non in una situazione di superstizione dove il parlarne può essere travisato, stravolto.
Come veniva fatta al catecumeno, allora, l'istruzione su Dio?
Era compiuta probabilmente basandosi in gran parte sull' Antico Testamento, in particolare sui salmi.
Il libro dei Salmi educava il catecumeno al vero senso di Dio e la comunità primitiva - anche di cristiani provenienti dal paganesimo - leggeva sovente e conosceva benissimo i singoli salmi. Lo testimoniano le citazioni frequentissime che ne fa il Nuovo Testamento e che non sarebbero altrimenti spiegabili.
Vogliamo perciò scorrere brevemente i testi principali del vangelo di Marco - una quindicina circa - dove ci sono accenni diretti o indiretti a Dio, così da comprendere gli aspetti che vengono sottolineati perché ritenuti più importanti nel cammino iniziale verso Dio e verso l'intimità con il Signore Gesù.
L'iniziativa misteriosa di Dio
Chi è Dio? È colui che prende una iniziativa misteriosa: «Ecco, io mando il mio angelo davanti a te» (Marco 1,2). Dio non è nominato, ma è colui che prende una iniziativa misteriosa, non ben definita; qualcosa sta per succedere; Dio in qualche maniera ci viene incontro.
Egli è il Dio che viene. «Preparate la via del Signore» (1,3): Dio sta venendo. Questa indicazione, chiara e misteriosa insieme, su Dio che si muove di sua iniziativa verso noi, riappare più avanti: «(Gesù) vide aprirsi i cieli...» (1, 10). Il Padre che è nei cieli si fa presente alla nostra realtà, alla nostra esperienza, si mette in comunicazione con noi dal cielo.
E comunica con noi attraverso il Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (1, 11). E nel Figlio che noi capiremo qualcosa dell'inconoscibile mistero di Dio. Dio appare come mistero inconoscibile che, a un certo punto, prende una iniziativa misteriosa nei nostri confronti e ci viene vicino per scuoterci. Non è molto; ma è detto tutto ciò che può suscitare un senso di attesa, di preparazione.
Il catecumeno non è invitato a dire subito: «Dio è qui, Dio è questo o quello»; bensì a comprendere che Dio è colui che sta per prendere possesso della sua vita e gli va incontro con una misteriosa iniziativa.
Un Dio che perdona
«Gesù viene in Galilea predicando il Vangelo di Dio» (1,14); indirettamente sappiamo che Dio è il Dio del Vangelo.
«Si è avvicinato il Regno di Dio» (1, 15); Dio è il Dio del Regno. Si tratta di due indicazioni assai importanti: Dio ti porta una buona notizia la quale sta per cambiare la tua situazione; Dio sta per mettere le cose a posto, misteriosamente.
Dio quindi è colui che entra nella tua vita con un messaggio sconvolgente, pieno di letizia, e che viene a riordinare le cose della tua vita. Non si sa ancora ciò che Dio vuole, ma ci si prepara in piena disponibilità a una novità misteriosa che deve entrare nel nostro intimo.
Un altro accenno misterioso, del tutto indiretto, l'abbiamo più avanti: «Gesù al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» (1,35). Dio è colui che il Cristo prega. Gesù, presentato come Figlio modello, è in misteriosa unione con Dio; e noi, pur senza sapere molto di più, ci troviamo immersi in un' atmosfera di attesa, rispetto, riverenza, tensione per il mistero di Dio che, in Cristo, ci si sta rivelando.
Ancora, nel capitolo seguente: «...Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» (2, 7). La frase è proferita dagli avversari, ma serve per sottolineare che Dio è colui che può perdonare.
Da questi pochi accenni vediamo che viene operato un rovesciamento della mentalità pagana, per la quale Dio era l'essere a disposizione dell'uomo, sul quale l'uomo poteva mettere le mani, farselo propizio, chiedendo e ottenendo da Lui ciò che voleva; un Dio di fronte al quale l'uomo era in stato di attività manipolatrice.
Ora, invece, l'uomo è posto in stato di totale passività, di attesa, ascolto, riverenza, rispetto. E Dio che sta per fare, sta per mettere in opera il suo Regno.
Noi dobbiamo umilmente ascoltare senza capire, essere pronti ad andare là dove Egli ci vuole portare.
Dal capitolo 2 in avanti sono pochissime le menzioni su Dio perché è in opera Gesù, che si accinge a rivelarne il mistero nella sua persona; di conseguenza la catechesi su Dio non appare in primo piano. Una volta che l'uomo si è reso disponibile, incomincia la via della sequela del Figlio, che ci permette di purificarci da un falso modo di comprendere Dio, per arrivare a conoscerlo nella verità.
Un Dio buono e fedele
Ci sono, tuttavia, nei capitoli 11, 12, 13 del vangelo di Marco quattro menzioni di Dio che ricalcano temi biblico-anticotestamentari.
Esse ci permettono di constatare che nel vangelo marciano non si perdevano di vista alcuni temi fondamentali, quali punti di partenza per una catechesi del «Dio di nostro Signore Gesù Cristo».
Il primo tema fondamentale lo leggiamo nella risposta di Gesù: «Nessuno è buono se non Dio» (lO) 18), che rivela al catecumeno la bontà di Dio, l'unico buono da amare «con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le forze» come è detto in 12,
30.
Un altro passo di catechesi anticotestamentaria lo ritroviamo nel capitolo seguente: l'esortazione o indicazione: «abbiate fede in Dio» (11, 22). Notiamo che il testo greco è assai più misterioso perché dice: échete pistin Theou; cioè, capovolge la questione: chi è Dio? E colui che merita fede e fiducia, colui che merita totale abbandono: il catecumeno deve abbandonarsi al mistero di Dio che vuole agire in lui.
Ancora, un accenno anticotestamentario è nel capitolo 13; il Dio della creazione è ricordato in maniera molto indiretta: «Dall'inizio della creazione fino al giorno d'oggi» (13, 19).
I temi biblici del Dio Unico, Buono, Fedele, Creatore, Realtà suprema da amare, erano allora molto presenti; Marco ci dà, infatti, un modello di catechesi per gente che credeva in questi valori. Su di essi è costruita l'idea evangelica del Dio che viene, prende un'iniziativa piena di mistero, del Dio al quale bisogna abbandonarsi e che ci guida per mezzo del Cristo.
Un Dio a cui tutto è possibile
Infine, due testi basilari e rivelatori dell'identità di Dio in Marco.
Nel capitolo 14 la preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (v. 36).
Il Dio che sta dietro a questa rappresentazione dataci dalle parole di Gesù è colui a cui tutto è possibile (idea anticotestamentaria), il Dio che può allontanare il calice, ma che in realtà non lo fa. E il Dio al quale bisogna rimettersi totalmente perché ha su di noi disposizione completa e ci guida per vie misteriose, come ha guidato il Cristo.
Il catecumeno è invitato a passare da un'idea umanamente prefabbricata di Dio, in cui tutto è predisposto, in cui egli può appoggiarsi e ottenere ciò che vuole, facendo questo o quell'altro atto di culto, a un Dio che misteriosamente interviene e lo conduce con bontà e lo porta là dove Lui vuole attraverso l'iniziativa evangelica di salvezza che per l'uomo è sempre imprevedibile e sconcertante.
L'ultimo testo, in cui Gesù ci parla di Dio, è il più drammatico del vangelo. Sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (l5) 34). Come mai si chiude con questo brano la serie dei pochi accenni al mistero di Dio in Marco?
Perché in esso abbiamo il culmine della rivelazione: il Dio che viene presentato nel vangelo, a cui tutto è possibile, che ha in mano ogni cosa e al quale noi ci affidiamo totalmente, non è obbligato a fare ciò che noi attendiamo e può anche esteriormente abbandonarci come ha abbandonato il suo Figlio. E chiaro che nelle parole di Gesù c'è pure un forte senso di speranza, tuttavia non bisogna dimenticare che sono parole di abbandono. Dio ha lasciato il Cristo in una situazione di amarezza, di desolazione esteriore, di derelizione umana come se l'avesse effettivamente abbandonato.
Il catecumeno
è sollecitato a riflettere attentamente: guarda che la via per cui ti metti non è facile, non è una via in cui Dio ti assicurerà, di successo in successo, una riuscita già da te programmata; ti metti nelle mani di un Dio misterioso che è buono, che vuole di te il meglio, però non a modo tuo.
Il  volto di Dio nel vangelo secondo Giovanni
Il punto di partenza e di arrivo della predicazione giovannea .
1. Il punto di partenza della predicazione giovannea lo leggiamo nel Prologo del suo vangelo che, a differenza di quello di Marco, è scritto per il cristiano che ha già compreso il senso della fede, ha già compiuto un cammino di sequela di Gesù. La predicazione di Giovanni è una disciplina spirituale che aiuta a riconoscere le implicazioni serie, derivanti dalla presenza del Verbo tra noi.
Egli infatti ci racconta le origini, ciò che era al principio, che spiega ogni cosa e dà la ragione di tutto quanto esiste. Ci racconta il senso del mondo dovuto a Colui che è il Logos, la Parola, il Verbo di Dio, perché Logos significa anche «senso».
Nel Prologo Giovanni pone in relazione l'origine del mondo con la venuta di Gesù sulla terra: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1, 14), e la sua è la sintesi della penetrazione più alta sul mistero della pre-esistenza di Gesù nel Nuovo Testamento.
Il termine Logos, che fa da protagonista nell'azione del dramma racchiuso nei 18 versetti del Prologo, è davvero disperante, perché ha molteplici significati: la mente, la ragione, il conto della spesa, e molte altre cose disparate. C'è da domandarsi perché mai Giovanni abbia scelto questa parola invece di sceglierne altre più precise. Per esempio, se voleva indicare la «parola di Dio», perché non ha scelto rema, che forse era il termine più adatto per indicare espressamente la parola creativa di Dio? Se voleva indicare la «sapienza», perché non ha scelto sophia o altre parole analoghe? Ci troviamo invece di fronte a una vera e propria ridda di significati; mi sembra tuttavia non inutile prendere in considerazione i principali, senza pretendere di col. locarci sul piano esegetico, bensì su quello della meditazione esistenziale.
Per un greco il significato più evidente, che egli recepiva dal diffuso contesto filosofico, era quello di
logos
delle cose, cioè la ragione ultima d'essere della realtà.
Gli esegeti, di solito, non insistono su tale significato e sostengono che la derivazione del logos giovanneo sarebbe piuttosto di tipo sapienziale, o in genere anticotestamentaria. Di fatto, però, è impossibile immaginare che un cristiano di Efeso di quel tempo, sentendo parlare del logos in senso assoluto, non pensasse alla ragione ultima delle cose, al perché del mondo, e non cominciasse di qui la sua riflessione.
Elenco, quindi, cinque fondamentali significati: ragione d'essere della realtà; parola creatrice: Dio creò tutto con la parola; sapienza che presiede alla creazione, sapienza ordinatrice; parola illuminante e vivificante; parola rivelatrice: il Figlio di Dio viene tra noi in Gesù (s'incarna) ed è Gesù che rivela il Padre.
Mi sembra che Giovanni veda l'intera serie di questi significati come se fossero ordinatamente infilati l'uno
nell'altro; noi possiamo prenderli in considerazione uno dopo l'altro, in modo da ricostruire il disegno giovanneo.
- Logos è la ragione ultima delle cose, la, ragione ultima della mia esistenza così com' è in Dio.
E certamente un primo messaggio, forse implicito, ma evidentissimo, da cui si deve partire.
La mia esistenza - e tutta la situazione umana
- ha una ragione, ha un significato in Dio.
-
Logos è la parola creatrice, e il significato ultimo di tutta la realtà, di tutte le cose, della mia situazione umana, sta nella dipendenza da Dio. Dipendenza da riconoscersi nella lode e nella riverenza. Se la ragione ultima di ogni cosa è una parola creatrice di Dio, il senso di dipendenza totale da Dio, da riconoscersi con riverenza e lode, è il primo atteggiamento sul quale gli altri si posono costruire e senza il quale nessuna disciplina spirituale può essere costruita.
- Logos è la sapienza ordinatrice: presso Dio è la ragione ultima non solo dell' essere delle cose, ma dell'essere «qui e adesso». Tutte le situazioni dell'esistenza, tutto ciò che gégonen («è avvenuto») e avviene ora, ha un senso nella sapienza ordinatrice di Dio. Questa considerazione è amplissima e chiarificatrice, perché a partire da essa nessuna situazione umana è priva di senso, anche la più strana apparentemente; sia la mia situazione di uomo, sia la situazione dell'umanità e del mondo, sia la situazione della Chiesa: tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. Se manca tale fiducia, si rimane preda dello spavento che ci prende di fronte all'impressione del disordine illimitato.
- Logos è phos (luce) e zoé (vita). Malgrado le oscurità della situazione presente dell'uomo, malgrado la tragedia umana che ci circonda, malgrado le prove della Chiesa e le situazioni quasi assurde nelle quali si trova il mondo e possiamo trovarci anche noi, esiste al fondo di tutto uri «vangelo», che assicura esserci una ragione luminosa e vivificante di tutte queste cose, se solo sappiamo coglierla e lasciarci trasformare da essa.
-
Logos è Gesù Cristo tra noi che ci parla del Padre. Le parole di Gesù, che ascoltiamo nella Scrittura, e la sua stessa realtà personale costituiscono il senso luminoso ed edificante, di tutta l'esperienza umana come noi la percepiamo. E questo lo sfondo sicuro - e necessario su cui si innesta tutta la costruzione successiva. Senza la fiducia di fondo nella sapienza creatrice, che regola le situazioni presenti e si manifesta in Cristo come «vangelo», non c'è speranza di fare meglio, non c'è speranza di cambiare se stessi e non c'è speranza per il mondo. La nostra speranza, infatti, sta tutta nel radicarsi di ogni cosa nella ragione ultima, che è la creazione divina e la presenza tra noi di Gesù Cristo, il quale rivela le parole di Dio e crea una situazione di verità e di grazia nel mondo: Gesù «pieno di grazia e di verità» (1,14).
Questo è dunque l'atteggiamento da assumere di fronte al vangelo di Giovanni: un atteggiamento ispirato al senso che tutto da Dio dipende e a Dio va, e che la nostra azione può inserirsi in maniera sensata, ragionevole, giusta in tale movimento, qualunque sia la nostra condizione presente.
2. Nel desiderio di cogliere il punto di arrivo della predicazione di Giovanni, dobbiamo sapere che nel suo vangelo (che è il vangelo dei simboli, delle similitudini e delle figure), la seconda,parte (capp. 13-21) manifesta la prima (capp. 1-12). E soprattutto nei discorsi dal cap. 13 al cap. 17 -là dove si dice di Gesù: «Adesso non parli più in parabole, non parli più in similitudini» - che dobbiamo cercare e trovare il senso dei segni che precedono. Tra i discorsi prendo come punto di riferimento il testo di Giovanni 15, 15: «Non vi chiamo più servi ma vi ho chiamati amici». Qui viene espresso concretamente il punto di arrivo della disciplina spirituale a cui Giovanni sottopone il discepolo: il Verbo è ricevuto tra noi nell'intimità misteriosa dell'amicizia.
Il termine «amico» è raro nel Nuovo Testamento: lo si usa per indicare situazioni profane della vita. Giovanni è l'unico evangelista che con il termine philos, philein designa il rapporto con Cristo; perciò può essere interessante approfondirne il significato e domandarci quali siano in Giovanni le figure di amici del Signore, che egli concretamente ci mette davanti per mostrare in maniera plastica dove ci vuole condurre.
Ci accorgiamo allora che il quarto vangelo ci presenta una galleria di ritratti di amici del Signore, che approfondiscono ciascuno un aspetto dell'intimità col Verbo tra noi.
Ho individuato soprattutto sei nomi.
- Il primo che ci viene presentato è «l'amico dello sposo», cioè Giovanni Battista (3,29), che gode per la prossimità dello sposo. Gode, pur se non ne vede chiaramente la presenza manifestata, pur se resta fuori dalla porta, perché, come egli afferma, «io devo diminuire e lui crescere» (3,30) C'è qui un aspetto importante dell'amicizia con Gesù, che sarebbe utile paragonare con la figura di Nicodemo. Mentre Nicodemo è tutto preoccupato di sé, della propria situazione, della propria raggiunta rispettabilità, Giovanni è colui che gode perché l'altro si afferma: l'altro cresce e lui diminuisce.

- Il
secondo esempio di amicizia è quello dei due discepoli di Giovanni che Gesù accoglie nel suo eremo: «Venite e vedete. Vennero e videro e stettero con lui tutto quel giorno» (1,38 ss.). È un altro aspetto dell'amicizia con Gesù: lo stare con lui, a lungo, volentieri, il godere con lui nella solitudine.

- La terza figura è duplice: Marta e Maria. Ciascuna rivela un aspetto particolare del rapporto dell' amicizia. Maria (contrariamente a ciò che ci presenta Luca) esprime il servizio amoroso: ella è colei che due volte unge i piedi di Gesù. Marta è quella che gli va incontro familiarmente, gli parla con franchezza e semplicità in un dialogo pieno di ascolto e fiducia.

- La quarta figura è Lazzaro, di cui è detto espressamente: on phileis, «quello che Gesù amava» (11, 3; 11,36), o philos, «l'amico» di Gesù (11, 11). Mentre negli altri casi si può vedere qualche esplicitazione dell'amore per Gesù (Giovanni gli prepara la via, i due discepoli amano stare con lui, Maria lo serve, Marta gli parla familiarmente), in Lazzaro è difficile cogliere quale sia l'aspetto dell' amicizia che viene sottolineato, perché Lazzaro non fa niente: non parla, non agisce, non si sa chi sia, non ha un carattere preciso. Forse la caratteristica tipica di questa amicizia è data dal fatto che Gesù fa tutto. In fondo il tratto più profondo dell' amicizia è lasciarsi scegliere: «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi» (15, 16). E si noti che questo testo segue immediatamente il v. 15, che contiene un passo fondamentale sull'amicizia. Lazzaro rappresenta, a mio avviso, la persona che è amata da Gesù perché Gesù così vuole, e che accetta la sua iniziativa.

- La quinta figura, tra tutte preminente, è il discepolo che ascolta e che fa strada: si tratta del «discepolo che Gesù amava», ricordato parecchie volte (13,23; 19,26; 21, 7; 21,20). Una figura che ha nel messaggio del quarto vangelo il valore di un punto di arrivo. Essa ci fa vedere come la strada di accoglienza del mistero dell'Incarnazione ci porti fino a quell'intimità col Signore descritta soprattutto nell'ultima cena e nella scena fina le del vangelo (cap. 21).

- Aggiungiamo, infine, una figura per la quale si usano gli stessi verbi philein e
agapan: Pietro.
Nel dialogo del capitolo finale (21, 15 55.) - che è forse il luogo neotestamentario dove sono ripetuti più vol
te i verbi philein e agapan -, Pietro è immagine dell'amore apostolico (mentre il «discepolo che Gesù amava» è piuttosto il tipo dell'intimità mistica col Signore, colui che ha capito profondamente il mistero del Verbo); cioè dell'amore che, avendo intuito il mistero, si dona al servizio apostolico, al servizio ecclesiale.
Concludendo, Giovanni ci spinge verso l'acquisizione di un'intimità col Signore davvero nuova, un'intimità, un rapporto che dev'essere coltivato, ma che in verità ci è preparato come dono da Dio stesso.
Dio è Padre
li mistero del Dio tra noi, del Verbo fatto carne, delineato da Giovanni si può cogliere facendo appello a tutte le nostre interiori forze di assoluto, di desiderio della trascendenza e di adorazione, che si riassumono nel desiderio di Dio.
A me preme sottolineare il messaggio di Gesù sul Padre perché tutto ciò che Gesù dice in questo vangelo ha un solo oggetto: Dio, il Padre, il Padre suo. A chi accetta che Dio solo è grande, il Figlio rivela il mistero. E quando gli viene chiesto: «Mostraci il Padre!» (14,8), Gesù risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (v. 9).
Gesù è presenza del Dio unico e inaccessibile a noi, cioè Dio fatto visibile e messo a nostra disposizione.
Naturalmente queste parole sono estremamente banali per chi non è passato attraverso il crogiolo del perfetto desiderio di Dio: esse rimangono qualcosa di cui non si vede il significato profondo. Ed è per questo che solo Giovanni tra gli evangelisti parla del Verbo fatto carne; gli altri più semplicemente parlano di Gesù uomo, che si mostra Figlio di Dio. Giovanni suppone una religiosità più matura e più pensata, che abbia acquisito il senso dell' assolutezza.
Quali sono le conseguenze della parola di Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre»? Le conseguenze sono che Giovanni può dire: «Abbiamo visto la sua gloria, gloria come dell'Unigenito del Padre» (1, 14). Ogni atteggiamento di Gesù, quindi, è rivelazione del Padre.
Possiamo allora contemplare tutta la vita di Gesù adorando il mistero del Dio tra noi, del Dio manifestato. Gesù che accoglie Nicodemo, è il Dio invisibile che ci accoglie come amico. Gesù che ai discepoli i quali gli chiedono: «Dove stai?» risponde fraternamente: «Venite e vedete», è l'Eterno, colui che desideriamo dal più profondo del cuore. Gesù, che trasforma le situazioni umane (l'imbarazzo di Cana come l'incapacità a muoversi del paralitico), è Dio, l'Eterno, il Trascendente, che si ricorda della nostra miseria e ci fa dono liberamente della sua potenza. Gesù che dissipa le tenebre del cieco nato, è Dio che illumina benevolmente il nostro cammino. Insomma Gesù è il «Dio tra noi», e nel suo volto contempliamo l'amabilità di Dio stesso.
Non soltanto Gesù si è fatto uomo, ma Gesù per me si è fatto uomo. Egli ci manifesta il volto del Padre, il
volto di Dio - quel Dio che vogliamo vedere - mostrandoci che è Dio per noi, che dà quanto ha di più caro per noi: ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, e da darlo come vita tra noi.
Qual è il senso della nostra situazione umana rivelatoci da Gesù, che è Dio tra noi e Dio per noi? Che noi siamo amati da Dio. Amati da Dio, qualunque sia l'oscurità e l'insignificanza della nostra situazione presente, malgrado la derelizione nella quale pensiamo di essere. E un messaggio trasformante che, pur non cambiando nulla all' esterno, cambia in realtà il significato del mio essere: benché mi senta abbandonato e disperso in un mondo senza senso, nel quale sembrano dominare il caso e la necessità, io sono amato da Dio: Dio si dà per me e dà per me quanto ha di più caro. Un messaggio che evidentemente si allarga.
Gesù è non solo Dio tra noi, ma ci chiama a essere noi in lui; ciascuno di noi è amato da Dio, è cercato, è accolto, è chiamato, è desiderato nella sua solitudine, laddove nessuno può aiutarci. Anzi, proprio la situazione umana della derelizione è riscattata dal Dio tra noi e con noi e per noi, ed è resa feconda di comunione tra noi in Gesù. Mi riferisco al testo di Giovanni 11, 51-52: «Gesù viene per radunare i figli di Dio dispersi», cioè per darci il senso di essere amati da lui sia come singoli derelitti sia come gruppo di uomini sbandati e raccolti in unità.
C'è ancora un aspetto del mistero del Verbo fatto uomo per me: il mistero del servizio, su cui ci soffermiamo.
Dio serve l'uomo
Nell'episodio della lavanda dei piedi Gesù rivela, attraverso un gesto, come Dio sia a servizio dell'uomo, ed è questo un mistero paradossale.
«Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava,
si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse alla vita. Poi versò dell' acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo". Gli disse Simon Pietro: "Non mi laverai mai i piedi!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo"» (Giovanni 13,2-9).

1. «Mentre cenavano». Giovanni non dice se si tratta di una cena pasquale: gli basta aver sottolineato che l'episodio si svolge durante una cena familiare, semplice, spontanea, amicale. La cena evoca l'atmosfera di fiducia, di intimità, di pace; ci si trova insieme perché ci si vuol bene e si desidera vivere un momento di serenità attorno a una tavola.

2.
«Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo».
Alla circostanza esteriore di serenità, fa da contrasto la menzione dell'inimicizia presente in quella scena di pace e di fiducia. Inimicizia significata dal diavolo e da Giuda. Il diavolo è colui di cui l'evangelista Giovanni ha già parlato molte volte chiamandolo «mentitore e omicida fin dal principio», colui che divide, mette contro, fa pensar male. E questo principio maligno è già entrato nel cuore di Giuda suscitando il desiderio, la scelta, la decisione di tradire Gesù.
Giuda è uno dei Dodici, un apostolo chiamato, privilegiato, amato dal maestro che gli ha dato ampiamente fiducia. Perché ci viene presentata una circostanza tanto dolorosa della cena? E vero che questo fatto non sarà più menzionato in seguito e il racconto si con
centrerà sul gesto di Gesù che lava i piedi a Simon Pietro, ma qui si vuol far capire al lettore che la lavanda dei piedi metterà il Maestro in ginocchio davanti a Giuda. In ginocchio, in atteggiamento umile e pieno di tenerezza di fronte a colui nel cui cuore c'è satana. La vicenda ha una colorazione tragica perché contrappone la bontà di Gesù alla crudeltà, alla durezza, alla chiusura dell' apostolo. È una scena in cui si giocano quindi tutte le grandi realtà della storia umana: l'amore, l'apertura, l'attenzione agli altri, e la chiusura, la cattiveria, la malvagità.
In piccoli gesti appena percettibili, in un' atmosfera casalinga, si evidenzia ciò che divide la storia umana e la sconvolge.

3.
«Gesù
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava». La consapevolezza di Gesù si riferisce a due realtà.
La prima è la coscienza piena di essere il Messia, Signore della storia, colui nelle cui mani sono i destini dell'umanità. Gesù sa che il Padre gli ha dato tutto nelle mani.
La seconda è la coscienza della sua origine divina e quindi, accennata implicitamente, della sua figliolanza divina: sapeva di essere venuto da Dio e sapeva che il termine della sua vita era Dio, il Padre, la gloria.
Gesù compie il gesto della lavanda avendo piena consapevolezza della sua origine, del suo termine, della sua responsabilità, della sua missione.
Questa consapevolezza è la coscienza autentica che uno ha di sé come valore, come forza, come dono.
Per essa e grazie a essa anche le azioni più piccole assumono un grande orizzonte e sono compiute con gioia, coraggio, entusiasmo.
Il contrario è la non consapevolezza che si esprime nel nervosismo delle azioni, nell'inquietudine della vita, nel disfattismo, nel fare le cose una dopo l'altra, per abitudine. Le azioni quotidiane che ne derivano, e anche le grandi, sono compiute senza voglia e si degradano.
Nell'esemplarità di Gesù viene toccato un punto nevralgico della persona umana. E Giovanni sottolinea che la chiara consapevolezza che Gesù ha di sé, dà valore alla passione. La passione ha valore non semplicemente perché, di fatto, Gesù è messo a morte ma perché è di fronte agli eventi consapevolmente e coscientemente: tutti i suoi gesti, piccoli e grandi, a cominciare dalla lavanda dei piedi sono portati, sostenuti dalla consapevolezza.
Potremmo dividere le donne e gli uomini di questo mondo in tre categorie:
- Coloro la cui consapevolezza è quasi nulla: ignorano la chiamata del Signore, la dignità della vita e la loro esistenza è sprecata ogni giorno nella pura banalità, senza ideali, senza slanci, senza orizzonti.
- Coloro la cui consapevolezza è falsa,
meschina oppure camuffata, e perdono il senso degli eventi, delle cose quotidiane. Per esempio, è consapevolezza falsa, camuffata quella di Pilato che, mentre Gesù è crocifisso con altri due, discute e litiga con i Giudei per l'iscrizione sulla croce (cfr. Giovanni 19, 17-22).
La passione di Gesù è piena di contrapposizioni tra il mistero che si compie nella dignità della sua consapevolezza e le miserie che, invece, per false o mancate consapevolezze umane, degenerano attorno alla croce.
- La
consapevolezza autentica
di Gesù ha un esempio mirabile nella consapevolezza di Maria nel Magnificat: «ha fatto in me grandi cose colui che è potente».
È la gioia di essere come si è per grazia di Dio, nelle realtà grandi come nelle piccole. Le piccole vengono vissute con orizzonti immensi, le grandi con la semplicità del bambino, del fanciullo.
4. «Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto». Il quarto momento è la descrizione del gesto, solennissima perché tutti i particolari vengono sottolineati: l'asciugatoio, il catino, l'acqua, il versarla, l'asciugare.
Ci pare di vedere Gesù mentre lo compie con una lentezza e con una dignità liturgica che lascia stupiti i discepoli, quasi senza parole, finché Pietro non prorompe nell' esclamazione di meraviglia.
«Venne dunque da Simon Pietro...». Pietro è ogni uomo che, di fronte al mistero di un Dio che lo ama fino a servirlo, si ribella. Riflettiamo sui tre momenti di domande e di risposte tra Gesù e Pietro.
5. «Signore, tu lavi i piedi a me?.. Non mi laverai mai i piedi!». Pietro rifiuta completamente il gesto di Gesù, per un motivo che noi riteniamo giusto e valido: dovrebbe essere lui a fare quel servizio al Maestro e non viceversa! Insieme, però, Pietro esprime un suo modo di capire Gesù: secondo lui, non dovrebbe agire in maniera tanto servile, umile, non dovrebbe abbassarsi fino a lavare i piedi dei discepoli. Penetrando di più nella sua coscienza, ci accorgiamo che in sostanza non accetta che Gesù sia servo, che si faccia servo, perché dovrebbe essere l'uomo il primo a servire Dio, e non il Signore a compiere il primo passo.
Questa resistenza dell' apostolo era emersa in forma più clamorosa nel momento in cui il Maestro aveva preannunciato la sua passione. Giovanni non riporta l'episodio e quindi trasferisce nel racconto della lavanda l'opposizione di Pietro messa in luce dagli altri vangeli: «Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: "Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai". Ma egli, voltatosi, disse a Pietro: "Lungi da me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini"» (Matteo 16) 21-23; cfr. Marco 8, 31- 9, 1). Pietro non vuole accettare che ci sia qualcuno che ami l'uomo così; esprime la reale difficoltà di ciascuno di noi a lasciarsi amare, la difficoltà di ritenere di dover qualcosa a qualcuno, a credere che Dio ami davvero tanto l'uomo.
La coscienza debole di Pietro, la sua consapevolezza ancora oscura di quali sono i suoi veri rapporti con Gesù, è la stessa che ci impedisce di vivere veramente lo spirito di fede, l'abbandono della fede, nella certezza che Dio ci ama infinitamente e che è sempre lui a compiere il primo passo verso di noi, a prendere l'iniziativa del dono.
Pietro, come ciascuno di noi, fa fatica a uscire dall' orgoglio dell' autosufficienza, quasi invincibile per l'uomo, non riesce ad accettare che sia il Signore a salvargli la vita, a darla per lui.
6. «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo». Adesso Pietro ha paura di perdere Gesù e vorrebbe addirittura essere lavato tutto.
È l'oscillare dell'uomo e della coscienza tra i due estremi: l'incredulità che Dio ci ami e che dia la vita per noi e una certa insicurezza di fondo. Quante volte noi abbiamo paura di non essere amati, di non essere graditi a Dio, quante volte dubitiamo che Dio accolga la nostra vita!
La coscienza debole del credente va da uno all' altro dei due estremi senza potersi fermare, e solo Gesù può medicare, correggere, guarire.
Egli incomincia con Pietro quella medicazione che continuerà per tutta la passione, fino alla morte: la morte, e soltanto essa, opererà la completa guarigione.
Qual è il modo con cui Gesù cura la consapevolezza debole di Pietro?
Anzitutto la cura gradualmente, non pretende di fare tutto subito: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gesù quindi dice a Pietro: fidati per adesso, accetta, io so di che cosa hai bisogno e ti porterò a comprendere il mistero del mio amore.
In secondo luogo Gesù cura la consapevolezza debole di Pietro aprendogli l'orizzonte della speranza: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». «L'aver parte con me» è l'eredità di Dio, del Regno, è la parola che nella Bibbia indica l'eredità dei santi, la pienezza delle promesse divine.
Ampliando gli orizzonti di Pietro alle grandi promesse divine, Gesù cerca di metterlo nella condizione di accettare il suo amore e così lo riconduce alla sobrietà della consapevolezza che non deve oscillare dalla depressione o dalla presunzione verso l'angoscia, bensì deve accontentarsi di ciò che sta sperimentando e di cui comprenderà gradualmente il senso.
Che cosa significa il gesto della lavanda dei piedi? Anzitutto è certamente un gesto rivoluzionario, che rovescia i comportamenti abituali, i normali rapporti tra Maestro e discepoli, tra padrone e servi. Gesù dirà che ordinariamente il Maestro è onorato, servito e tuttavia,qui fa un gesto da schiavo.
È inoltre un gesto sconvolgente sul piano religioso perché leggendolo con la fede della Chiesa noi vi vedia
mo Dio che serve l'uomo. L'affermazione sembra blasfema e non si addice a ciò che pensiamo di Dio.
Eppure, colui che è venuto da Dio e ritorna a Dio, si pone in posizione di umilissimo servizio verso l'uomo e, anzi, verso l'uomo nemico, Giuda. Dio serve l'uomo che gli è avverso, che gli si oppone, e assume nei suoi confronti un atteggiamento indifeso, umile, disponibile.
Se l'episodio non ci fosse stato tramandato da un libro evangelico, l'uomo non avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile. Entriamo nel mistero del Dio rivelato, del Dio che si manifesta servendoci.
La lavanda dei piedi significa che il servire è azione divina e questo ha conseguenze incalcolabili sia dal punto di vista antropologico sia dal punto di vista ecclesiologico. Il servizio è divino, non il comandare, non il potere.
Che tipo di uomo, e di Chiesa, nasce dal gesto della lavanda dei piedi? Una figura che ci introduce nel mistero della prossimità: Dio si fa prossimo nel servire le realtà più umili, si fa prossimo come il buon samaritano. Questo mistero è la chiave del mistero della croce, della passione, di tutta la vita di Gesù, è la chiave del mistero della Chiesa.
La misericordia di Dio nel vangelo secondo Luca
Luca si preoccupa di insistere sul fatto che il Vangelo della grazia, della misericordia di Dio, non viene compreso.
Infatti, i farisei e gli scribi mormoravano perché a Gesù si avvicinavano tutti i pubblicani e i peccatori per
ascoltarlo: «Costui - dicevano - riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15,2). Mormoravano coloro che vivono le pratiche religiose e perciò si ritengono in possesso di diritti acquisiti rispetto al Regno di Dio; tuttavia tale opposizione alla parola di grazia di Gesù non viene espressa in forma diretta, bensì mediante allusioni, riferimenti vaghi, piccole frasi che contengono mezze verità e sono messe in giro, sottintesi. Dire una mezza verità, con dei sottintesi, è il modo con cui da sempre ci si mette contro il Vangelo della grazia.
Gesù non pronuncia una difesa; semplicemente ribadisce il messaggio della misericordia, perché la parola di Dio è luce e non ha bisogno di essere illuminata da altro.
Le parabole dei perduti e ritrovati
In Luca 15 leggiamo così le più note parabole: quella della pecora smarrita e ritrovata (vv. 4-7); quella della dramma perduta e ritrovata (vv. 8-10); e la parabola del figlio perduto e ritrovato (vv. 11-32).
Tutte e tre mostrano che c'è qualcosa di perduto (una persona, una cosa, un animale) e che Dio cerca ciò che è perduto con grande attenzione.
Dio vuole la salvezza di ciascuno di noi, anche di
uno solo. Chi sogna un cristianesimo con programmi preordinati di tipo cosmico, un cristianesimo che non può attardarsi nella ricerca di una pecora o di una dramma o di un figlio che ha lasciato la casa patema, difficilmente comprende e accoglie il Vangelo della grazia, Ancora, le parabole mostrano una sorta di accanimento da parte del pastore, della donna e del padre.
Il Dio della misericordia infatti si prende a cuore il singolo uomo come se fosse l'unico, quasi a dire: Tu sei importante per me, tu mi manchi, per te metto in questione la mia vita.
Infine, Gesù sottolinea la gioia del ritrovamento; ne fa il tema dominante, contrapposto alle lacrime della ricerca. Quando il pastore ritrova la pecora «se la mette in spalla tutto contento e va a casa, chiama gli amici e i
vicini», affinché si rallegrino con lui. La donna, ritrovata la dramma, «chiama le amiche e le vicine». TI padre dice ai servi: «Presto! Portate il vestito più bello e rivestite mio figlio, mettetegli l'anello al dito e i suoi calzari ai piedi, portate il vitello grasso e ammazzatelo, mangiamolo e facciamo festa. E cominciarono a far festa». Gioia, festa, banchetto, musica e danze sono collegate con il ritrovamento del perduto.
A chi viene proposto questo insegnamento di Gesù in parabole?
Gesù ha davanti agli occhi un uditorio di mormoratori invidiosi. I mormoratori, appunto, indicati in Luca 15, 1-2: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro"».
- I mormoratori invidiosi sono gente di casa, non estranei. I farisei sono pienamente di casa nella religione ebraica. Ritroviamo questa invidia domestica, espressa in maniera parabolica e drammatica, nella seconda parte del racconto del figliol prodigo là dove il figlio maggiore si ribella: «Il servo gli rispose: "E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché l'ha riavuto sano e salvo". Egli si arrabbiò, e non voleva entrare» (Luca 15,27-28).
- Gente di casa, che crede di conoscere il padre. TI fratello maggiore credeva di conoscere suo padre e si meraviglia di quello che fa: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29). Gente che crede di conoscere Dio e dice: Come mai si comporta così? È ingiusto, non doveva assolutamente farlo, non ha mai fatto così con me che lo conosco e che lo servo da tanti anni!
- Gente perbene: persone che presumono essere giuste e disprezzano gli altri.
È il quadro completo, presentatoci dal vangelo, delle persone a cui Gesù si rivolge. Potremmo caratterizzare l'uditorio dicendo che è gente dall'occhio cattivo. L'immagine la prendiamo dalla parabola degli operai mandati a ore diverse nella vigna (Matteo 20), là dove il padrone conclude il suo discorso all' «amico» che si è lamentato di aver lavorato tutto il giorno e di aver avuto la medesima paga degli altri: «Sei invidioso perché io sono buono?» (v. 15). Nel testo greco questo «invidioso» è «ofthalmós sou ponerós», il tuo occhio è cattivo.
Con la metafora dell'occhio cattivo possiamo quindi indicare il pubblico cui Gesù si rivolge.
Il Vangelo della grazia
Mettendoci ora dalla parte dei mormoratori, possiamo chiederci: il Vangelo della misericordia non diventa, alla fine, un evangelo della faciloneria, del permissivismo, del disimpegno etico?
Forse ci è capitato talora di ripetere le parole dei farisei o di ascoltare altri che esprimono timore verso un messaggio che mette in pericolo l'osservanza delle leggi, il rigore delle tradizioni, la sicurezza dottrinale e morale di un gruppo.
La domanda è seria e non dobbiamo lasciare che entri nel nostro cuore perché, in tal caso, non comprenderemmo più il Vangelo della grazia.
Offro tuttavia qualche riflessione in proposito:
- Dio non muta; qualunque siano le conseguenze da noi paventate, egli è il Dio della misericordia.
- I timori di fronte al suo Vangelo di grazia esprimono probabilmente la paura di sottoporsi a questo regime. Mi viene in mente Dietrich Bonhoffer che, per la sua tradizione protestante, poteva essere imputato di cedere al Vangelo della grazia e che ha sentito il bisogno di chiamarlo: «grazia a caro prezzo». Ci può essere in noi una nascosta ripugnanza ad accogliere Dio così com'è, a lasciarci invadere dalla sua misericordia, e preferiamo difenderci con la legge, con la giustizia, con il rigore etico del vangelo. Ci può essere in noi una comprensione solo parziale del Vangelo della grazia e per questo lo allontaniamo istintivamente.
- Il Vangelo della grazia ha, come corrispondente in chi lo riceve, lo stigma della gratuità. Non c'è niente di più esigente della gratuità, proprio perché non ha limiti a differenza del vangelo della legge - non sono obbligato, non sono il custode di mio fratello! -.
L'esigenza del Vangelo della grazia giunge a superare tutte le legalità e tutti i ruoli, perché ci tocca nel più intimo e ci invita al dono di noi stessi fino alla morte.
- Il Vangelo della grazia, quando non è accolto, lascia il morso dello scontento e della disperazione. Non forza nessuno a donarsi, a uscire dal proprio egoismo, ma lascia l'uomo libero di chiudersi nella propria disperazione, nel rifiuto totale e quindi di perdersi nella propria solitudine personale e di gruppo, nella difesa a oltranza, fino ad accorgersi che non c'era nulla da difendere.
La dignità della persona umana
Possiamo infine notare che Luca presenta l'episodio del ladro pentito e salvato da Gesù in croce come il culmine della misericordia di Dio, come il culmine dell' azione evangelizzatrice e redentiva di Gesù nella sua Passione. A noi sembra strano un tale spreco di sforzo evangelizzatore per ottenere un piccolo risultato, la salvezza di un solo uomo, eppure è, come abbiamo visto nelle tre parabole precedenti, il marchio di fabbrica del Dio del vangelo. Entrare nel mondo di questo Dio che ama, vuol dire cogliere la possibilità di avere a cuore la salvezza di tutti in maniera che nessuno venga trascurato, offeso, dimenticato, ma sia dato pieno valore a ciò che ciascuno rappresenta agli occhi di Dio.
La coscienza del valore che ha una persona umana è il riflesso dell' atteggiamento di Gesù, per il quale uno solo è come 99, come tutti. E ne scaturisce allora quella dignità della persona umana a cui la società civile non è abituata. Forse la si proclama a parole; tuttavia, comunemente, anche nelle civiltà più elevate, si guarda all'insieme, alla totalità, al gruppo e, per il singolo, si fa ciò che si può.
Nell'agire e nelle parabole di Cristo c'è una rivelazione del Dio vivo e nello stesso tempo una rivelazione dell'immagine di Dio impressa nell'uomo, della dignità di ogni uomo che non si può raggiungere senza una rivelazione. Per questo l'etica cristiana arriva a vertici molto esigenti, che la gente non comprende perché non riesce ad avere un'idea precisa della dignità assoluta dell'uomo in ogni fase della sua vita, a partire dal concepimento fino all'estrema debolezza della vecchiaia.
L'evangelista Giovanni non riporta l'episodio del ladro pentito e salvato; egli infatti contempla nel «costato trafitto» di Gesù la più perfetta parabola del Padre, la massima espressione dell' amore di Dio, misterioso e nascosto, per l'uomo peccatore, solitario, sofferente e dannato.
Il primato di Dio nella Chiesa
Dal primato dell' amore e della misericordia di Dio per l'uomo, per tutti e per ogni uomo, nasce nella Chiesa l'urgenza di ripartire sempre e di nuovo da Dio.
Ripartire da Dio richiede il coraggio di porsi le domande ultime, di ritrovare la passione per le cose che si vedono leggendole nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono.
Rispetto al cammino personale del credente significa non dare mai nulla per scontato nella fede, non cullarsi nella presunzione di sapere già ciò che invece è perennemente avvolto nel mistero; significa santa inquietudine e ricerca. Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l'aurora; vuol dire dunque vivere per sé e contagiare altri dell'inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come san Paolo fece con i Galati e con i Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte. Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; è il Mistero santo del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione, di pace.
Talora presumiamo di avere già raggiunto la perfetta nozione di ciò che Dio è o fa. Grazie alla Rivelazione sappiamo di Lui alcune cose certe che Egli ci ha detto di sé, ma queste cose sono come avvolte dalla nebbia della nostra ignoranza profonda di Lui. Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto «Dio» e danno l'impressione di sapere perfettamente ciò che Dio è e opera nella storia, come e perché agisce in un modo o nell' altro. La Scrittura, come abbiamo visto, è più reticente, più discreta e piena di mistero, preferisce il velo del simbolo o della parabola, nella consapevolezza che di Dio non si può parlare che con tremore e per accenni, come di «Qualcuno» che in tutto ci supera. Gesù stesso non toglie questo velo, lui che è il Figlio; ci parla del Padre per enigmi, fino al giorno in cui svelatamente ci parlerà di Lui.
Questo giorno non è ancora venuto, se non per anticipazioni che lasciano tante cose oscure e ci fanno camminare nella notte radiosa della fede.
Rispetto al nostro agire comunitario e sociale, ripartire da Dio significa mettere tutti i nostri progetti umani sotto la Signoria di Dio e misurarli solo sul Vangelo. Vuol dire confrontare tutto ciò che si è e che si fa con le esigenze del suo primato. Dio solo è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui è la misura che non passa, l'àncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall'Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque.

Ripartire da Dio vuol dire misurarsi su Gesù Cristo, rivelatore del Padre, e ispirarsi continuamente alla sua parola, ai suoi esempi, così come ce li presenta il vangelo. Vuol dire abbandonare al soffio dello Spirito il nostro cuore inquieto, perseverare nella notte dell'adorazione e dell'attesa. E questa la sola via per uscire dalla violenza dell'ideologia senza cadere nella condizione di naufragio del nichilismo, privo di etica e di speranza.
Il Dio con noi è il Dio che può aiutarci a trovare le vere ragioni per vivere insieme. Rispetto alle acque basse in cui sembra stagnare oggi la vita civile, sociale e politica del nostro Paese, partire da Dio significa trovare senso, slancio, motivazione per rischiare e per amare. Ripartire da Dio significa riconoscere di essere nel cuore di Dio per un'esperienza di fede e di amore vissuti: riconoscere di essere nati per imparare ad amare sempre di più, a osare di più, ad andare oltre i limiti delle nostre comodità e dei nostri peccati.
Ripartire da Dio significa farsi pellegrini verso di Lui aprendosi al dono della sua Parola, lasciandosi riconciliare e trasformare dalla sua grazia. Solo chi si riconosce amato dal Dio vivo, più grande del nostro cuore, vince la paura e vive il grande viaggio, l'esodo da sé senza ritorno per camminare verso gli altri, verso l'Altro che è Dio stesso.
Di fronte al Dio dell' amore e della misericordia, la Chiesa, come corpo di Cristo presente nella storia, è chiamata a rendere visibile una comunità che vive sotto il primato di Dio. Una comunità che, pur con i suoi peccati, le sue mancanze e i suoi ritardi, è destinata a mostrare ad una società frammentata e divisa, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali, competitive, commerciali e consumistiche, la possibilità di vivere una rete di relazioni fondate sul vangelo, gratuite, disinteressate, armoniche, capaci di perdono, di accoglienza, di mutua accettazione.
La Chiesa che è sotto il primato di Dio Padre universale sente il dovere, anzi il bisogno, di essere ospitale, paziente, longanime, lungimirante. Certamente rimangono valide le prescrizioni disciplinari e canoniche che stabiliscono che cosa è e che cosa non è compatibile con la piena appartenenza alla comunità cristiana, e però sentiamo che la Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci (cfr. Matteo 13,47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte specie di uccelli (cfr. Matteo 13,31-32). Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla storia, che spetta soltanto a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte non devono essere chiuse a nessuno che chiede sinceramente asilo.

 
2.
ASCOLTO E PREGHIERA
La preghiera dell'essere
È necessario avere della preghiera una visione ampia, totale e inesauribile: la preghiera è una realtà di cui nessun uomo ha scrutato i confini; è un' esperienza di cui nessun uomo ha varcato le ultime soglie. Siamo sempre in cammino, e più si va avanti più si scoprono orizzonti, più si cammina e più si avanza.
La preghiera, infatti, è essenzialmente un mistero e, come tale, viene da Dio creatore del cielo e della terra. Così ci spiega la bellissima esclamazione di sant'Agostino: «Ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te».
Da quando l'uomo è apparso sulla terra è incominciata la storia della preghiera; uomini e donne di diverse religioni si sono rivolti e si rivolgono in preghiera all'Essere supremo a cui danno nomi diversi. La preghiera è la risposta immediata che sale dal cuore della persona umana quando si mette di fronte alla verità dell' essere.
Questo può avvenire in molti modi. Per qualcuno può essere un paesaggio di montagna, un momento di solitudine nel bosco, l'ascolto di una musica che fa dimenticare la realtà che ci circonda, che ci libera dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, dalle cose che ci sollecitano continuamente; allora facciamo un respiro un po' più ampio del solito, avvertiamo qualcosa di indefinibile che ci muove dentro, ci sentiamo pienamente noi stessi e, quasi istintivamente, eleviamo una preghiera: Grazie, mio Dio.
Ciascuno di noi, penso, ha sperimentato nella propria vita l'uno o l'altro di questi momenti. Forse in una serie di circostanze felici si è trovato a esprimere il ringraziamento a Dio traendolo dal fondo del proprio essere: è la preghiera naturale, la preghiera dell'essere.
Ogni nostra educazione alla preghiera parte quindi da un semplicissimo principio: l'uomo che vive a fondo l'autenticità del suo esistere, prova spontaneamente l'esigenza di esprimersi attraverso delle parole, mute o pronunciate, rivolgendosi a Colui che l'ha creato. Sta a noi cercare di favorire quelle condizioni che ci mettono in stato di autenticità, di cercare dentro di noi la voce misteriosa di Dio per ascoltarla e risponderle, di ravvivare il senso di gratitudine per il dono della vita, della creazione, di quanto di bello e di buono esiste nel mondo.
Non sarebbe giusto trascurare l'educazione alla preghiera dell'essere, perché questa ci aiuta a comprendere che la preghiera è una realtà misteriosa, ma facilissima, che nasce «dalla bocca e dal cuore dei lattanti» (cfr. Salmo 8,3), che sgorga quando la persona - il bambino, l'adolescente, il giovane, l'adulto, l'anziano - si pone di fronte a sé in condizioni di distensione, di calma, di serenità, di pace.
Silenzio e ascolto
Il silenzio e l'ascolto sono due premesse che ci consentono di entrare nella preghiera.
Il silenzio aiuta infatti a mettere a tacere la nostra fantasia, il nostro essere, ad azzerare tutto ciò che può disturbare. Occorre entrare nella preghiera come poveri, non come abbienti, riconoscendo di non essere capaci di pregare. Un silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare.
L'uomo che ha estromesso dai suoi pensieri - secondo i dettami della cultura dominante - il Dio vivo che di sé riempie ogni spazio, non può sopportare il silenzio. Per lui, che ritiene di vivere ai margini del nulla, il silenzio è il segno terrificante del vuoto. Ogni rumore, per quanto tormentoso e ossessivo, gli riesce più gradito; ogni parola, anche la più insipida, è liberatrice da un incubo.
Ricordiamoci però che questo uomo, incapace di silenzio e di affidamento al Mistero, convive in ciascuno di noi, con proporzioni diverse, insieme all'uomo il cui cuore tende e anela all'Invisibile. Ciascuno di noi è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano il nostro giorno e persino la nostra notte; è insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde.
Chi vuole incontrare Dio deve lottare per assicurare al cielo della sua anima quel prodigio di «un silenzio di mezz' ora circa» di cui parla il libro dell' Apocalisse (8, 1).
Allora acquista la capacità dell'ascolto.
L'ascolto è una parola-chiave che caratterizza tutta la tradizione del popolo ebraico: «Ascolta, Israele!».
Considero tuttavia un brano del vangelo di Luca là dove è descritta la capacità di ascolto da parte di Maria di Betania.
Inquadro l'episodio nel suo contesto. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e «mentre erano in cammino, entrò in un villaggio. Una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizio Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta"» (Luca 10, 38-42).
È un racconto che sottolinea la centralità dell' ascolto: qui dell' ascolto della Parola, in generale dell' ascolto di Dio, dell' ascolto del suo Spirito. E notiamo che il brano segue immediatamente quello del cosiddetto buon samaritano, la parabola narrata da Gesù a chi gli domanda: «Chi è il mio prossimo?». E, alla fine, lo invita ad agire, a muoversi, a operare: «Va' e fa' anche tu lo stesso» (cfr. Luca 10, 29-37).
Perché non appaia che il «fare» sia un fare qualunque bensì un «fare» che nasce dal profondo, l'evangelista riporta subito dopo l'episodio dell' ascolto di Maria.
Possiamo dire che si tratta di un unico insegnamento. Il brano del buon samaritano e quello di Maria di Betania che ascolta Gesù, sono volutamente collegati per permetterci di cogliere l'unità del fare e dell'ascoltare. E infatti, nel capitolo 11 al v. 28, Gesù dice: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano». E 1'ascoltare e insieme l'osservare che costituiscono la pienezza dell'uomo.
Maria si siede ai piedi di Gesù, si mette pubblicamente alla sua scuola, ed è facile comprendere lo scandalo, la carica esplosiva di questo gesto di sedersi.
Proviamo a immaginare il mormorio della gente che c'è intorno: «Come, questa donna, invece di stare in cucina, va a scuola di teologia? Ma che cosa pretende? Che cosa crede di essere, che cosa vuole diventare, quali sono le sue ambizioni?». TI nervosismo dell' ambiente sbocca poi nelle parole di Marta.
Nessuno fino ad allora aveva parlato a Maria della bellezza della sua vita, della fortuna della sua condizione. Ascoltando le parole di Gesù si sentiva privilegiata e sentiva che erano importanti per lei, non soltanto in se stesse, e guardandosi dentro, pensava: «Queste parole dicono cose veramente grandi per me, cose a cui non avevo mai pensato, e mi fanno capire qualcosa di me stessa che è magnifico, splendido, semplice».
La ricchezza, il valore nutritivo dell' ascolto di Gesù, che Maria di Betania sta vivendo, è un ascolto che fa fremere, che coinvolge perché mi riguarda, mi spiega. Non è un ascolto passivo, una registrazione annoiata di una lezione. Maria di Betania sta realizzando in questo momento la definizione dell'umano. Che cos' è, infatti, essere uomini o donne? È scoprire il mistero di noi stessi nell'ascolto della Parola di uno, più grande di noi, che avendo fatto il nostro cuore, ce ne rivela i segreti.
Maria, è immagine dell'uomo che si autocomprende, che giunge all' autenticità, alla chiarezza del possesso cognitivo di sé mettendosi in ascolto della parola divina che ci rivela e, nello stesso tempo, ci riempie.
Il mistero dell' ascolto della donna di Betania è dunque una rivelazione - che noi siamo chiamati ad accogliere - della condizione umana. Dall'essere aperti al discorso di Dio, gratuito e benevolo, noi impariamo che siamo ascolto, dono, e ci realizziamo nella gratuità.
Marta, invece, ha perso il senso dell'ascolto e, di conseguenza, il senso del suo affannarsi; è preoccupata, ansiosa, tesa, incerta, impaziente, offensiva, pungente. E immagine di chi vive momenti di timore, di paura senza saper più donare un sorriso e senza sapere quale sia esattamente la sua identità.
Perché è l'ascolto di Dio la roccia della nostra certezza: «Tu, o Dio, roccia della mia salvezza» (Salmo 89) 27). La buona notizia consiste nel fatto che Dio ha una parola per me, e io posso ascoltarla, nel silenzio e nella pace; da tale ascolto sono nutrito, cresco nella fede e mi realizzo come persona; cresco insieme a tanti altri come Chiesa in cammino. E alla Chiesa in ascolto che Gesù dice: «Questa parte migliore non ti sarà mai tolta», attraverso l'affermazione con cui assicura Pietro: «Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (la Chiesa)» (Matteo 16, 18). Non prevarranno dal momento che è fondata sulla roccia della Parola e dell' ascolto.
Due momenti privilegiati di incontro con Dio
Un momento privilegiato di incontro con Dio ce lo ha segnalato Gesù stesso: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Matteo 6, 6).
Di questo segreto, che è il raccoglimento, facciamo spesso esperienza. Per incontrare Dio, dobbiamo ritirare le nostre forze dentro di noi e concentrarci, sottrarci, per così dire, all'esterno. Concentrazione infatti vuol dire avere un centro unico: se riusciamo a metterci così davanti al Signore, da noi si sprigiona una capacità incredibile. Ci pare persino di essere diversi, con una lucidità e una chiarezza mai sperimentate, e comprendiamo meglio la domanda: «Chi sono io?».
La spiritualità orientale - anche fuori dalla tradizione cristiana - ha trattato ampiamente il tema del raccoglimento. L'immagine che gli orientali usano solitamente per esprimerlo è quella della tigre, o della pantera, che prima di scagliarsi sulla preda si ritrae in se stessa per raccogliere il massimo della forza.
Io mi trovo spesso distratto da visite, udienze, incontri, telefonate, notizie: ma nel momento in cui riesco finalmente a raccogliermi, vedo più chiaramente ciò che Dio vuole da me, ciò che debbo fare, ciò che è veramente importante. E allora riprendo forza.
E un segreto quello del raccoglimento! Ho potuto, ad esempio, vedere che il santo Padre Giovanni Paolo II lo conosce e vive quotidianamente. Durante i viaggi faticosissimi che fa, quando è costretto a parlare continuamente, il Papa riesce sempre a trovare magari soltanto pochi minuti per raccogliersi in silenzio. Pare allora che si distacchi da tutto e da tutti perché rimane immobile, concentrato. Mi è capitato di notarlo mentre eravamo insieme in elicottero. Così pure al mattino, prima di incominciare una giornata intensa e faticosa, si ritira in cappella in assoluto silenzio e resta lì immobile. Credo che proprio per questa sua profonda interiorità egli sia pieno di forza quando parla.
Un secondo momento privilegiato per l'incontro col Signore è quello del dolore e della prova. Tra i moltissimi personaggi testimoni di tale esperienza, presentatici dall' Antico e dal Nuovo Testamento, pensiamo a uno dei primi in ordine cronologico, cioè a Giacobbe. Costretto a scappare di casa, si ritrova solo, non sa chi lo aiuterà e nemmeno quale sarà il suo futuro. L'angoscia e la solitudine lo opprimono, il dolore lo brucia.
A un tratto però intuisce che Dio è con lui e sente la Parola: «lo sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza... Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai» (cfr. Genesi 28, 10-22). Tutto questo accade perché Giacobbe ha compreso il segreto della prova, del dolore e ha saputo vivere il suo momento difficile davanti a Dio.
In genere, quando ci troviamo nelle difficoltà, ci lamentiamo, gridiamo, protestiamo. Se invece riuscissimo a raccoglier ci e a dire: «Signore, perché permetti questo? Che vuoi fare di me? Che cosa intendi fare della mia vita? Qual è la tua Parola su di me?», il nostro orizzonte si rischiarerebbe e sentiremmo che Dio è con noi anche nella prova.
«Chi sei tu, Signore?». «Io sono colui che non ti abbandonerà. Io ti proteggerò dovunque tu andrai».
È la risonanza di questa parola detta a noi, detta a me, che fa superare ogni paura. Allora non c'è più nessuna strada difficile, non c'è più solitudine né sofferenza fisica o morale che non si possano superare: e impariamo a pregare, troviamo il Signore, comprendiamo il nostro cammino.
Vorrei aggiungere che la preghiera, quando sgorga dal profondo del cuore, non solo è un' arma potente affinché si compia in noi e negli altri il disegno d'amore di Dio, la sua volontà salvifica, ma instaura una comunione autentica anche tra persone di fedi diverse. Pensiamo, ad esempio, agli Incontri «Domini e Religioni» che ormai da anni consentono a rappresentanti di tutte le religioni del mondo di trovarsi insieme a pregare per la pace.
Narra un midrash che «un certo giorno, in una piccola città, nei tempi in cui infuriava la violenza più cieca, i nazisti trucidarono in uno stesso luogo, nella stessa ora, cento ebrei, cento cattolici e cento musulmani. Ogni anno, in quella data ci si ritrova nel luogo dell'eccidio per commemorare l'evento. Il Borgomastro del paese tiene un discorso e tre sacerdoti, da tre diverse parti del campo, pregano in suffragio delle anime delle vittime. Il sacerdote cattolico prega secondo il suo rito, il sacerdote ebreo secondo il suo rito e il sacerdote musulmano secondo il suo rito.
Il saggio e santo Rabbi Meir, che sa tutto ciò che avviene in cielo, racconta che un giorno le trecento anime delle trecento vittime chiesero di presentarsi al Trono celeste. La loro richiesta venne raccolta ed essi si rivolsero così al Santo dei Santi: "Re dei Re, tu sai che noi siamo stati insieme vittime di uno stesso assassino, insieme siamo stati vittime di un'unica violenza e ora, quassù, l'anima di ognuno di noi è strettamente legata all'anima dell'altro. Se gli uomini vogliono ricordare ciò che in quel doloroso giorno avvenne, vogliamo che per noi sia detta un'unica preghiera! Le divisioni e le differenziazioni ancora esistenti sulla Terra, ci offendono e ci rattristano"» (A. Sonnino, Racconti chassidici dei nostri tempi, Assisi/Roma 1978,44).
Aveva detto bene il saggio e santo Rabbi Meir perché la vera preghiera non separa, ma unisce i cuori e opera una reale intesa.
Specificità della preghiera cristiana
È chiamata "cristiana" la preghiera che parte da Gesù Cristo.
Anche se talora può raggiungere delle forme quasi atematiche - Cristo risorto è presente senza che io lo contempli con gli occhi della fantasia -, fondamentalmente la meditazione cristiana è sempre mossa dallo Spirito ed è sempre collegata con Gesù, anzi è partecipazione alla preghiera di Gesù al Padre. Diciamo anzi, giustamente, che il seme della preghiera - poi andrà sviluppato - ci è datò nel sacramento del battesimo che ci rende cristiani.
La preghiera del discepolo di Cristo non è semplicemente la risposta alla realtà dell'essere che mi circonda o alla sensazione di autenticità che a volte sperimento in me: è lo Spirito di Cristo che prega in me. Il cristiano è invitato a cercare dentro di sé la voce dello Spirito che prega, per dargli spazio. Come scrive san Paolo: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». È lo Spirito che ci permette di gridare «Abbà, Padre!» (Romani 8) 26.15).
E lo scopo, il fine, il culmine della preghiera cristiana ci è indicato da Gesù che, nel momento dell' agonia del Getsémani, dice: «Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Oppure, dalla preghiera di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani affido la mia vita e il mio spirito!».
Si prega non nella speranza che Dio si pieghi ai nostri voleri, ma per potere sempre compiere la sua volontà, per consegnarci nelle sue mani con fiducia e con amore. Solo allora la preghiera è davvero espressione di una fede vera, matura.
La preghiera cristiana è quindi dedizione, azione, è l'essere crocifissi con Cristo, donati ai più poveri.
Ho citato san Paolo là dove afferma che noi non sappiamo che cosa sia conveniente domandare e, per questo, dobbiamo aprirei allo Spirito. C'è tuttavia una preghiera, quella insegnataci da Gesù, il "Padre nostro", che ci rivela come dev'essere ogni nostra preghiera (di lode, di ringraziamento, di supplica, di intercessione).
Il "Padre nostro"
Nel vangelo secondo Luca, gli apostoli chiedono a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni Battista ha insegnato ai suoi discepoli» (Luca 11, 1).
Osserviamo anzitutto che la domanda degli apostoli non nasce all'inizio del loro incontro con Gesù, bensì più tardi, quando si accorgono, quando vedono che Gesù prega, si ritira a pregare.
Analogamente, la nostra domanda sulla preghiera nasce quando vediamo altri pregare intensamente, quando nella preghiera comune ei accorgiamo che intorno a noi c'è una qualità di preghiera che ei affascina e vorremmo fare nostra.
Gesù rispose ai discepoli:
«Quando pregate dite così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male»
(Matteo 6, 9-13).
Preghiera semplicissima, che abbiamo imparato a recitare fin da bambini, eppure ricchissima. In essa c'è la scoperta della parola "Padre", Dio Padre come nuovo orizzonte della vita. E, dalla scoperta della paternità di Dio, ci porta a comprendere che il "Padre nostro" riassume il progetto di Dio su di noi.

Il testo è diviso chiaramente in due parti. Le parole sono elementari - nome, Regno, sia santificato, volontà, pane, peccati, tentazioni - e nello stesso tempo non sono completamente spiegabili e vanno quindi vissute come mistero.
Per esempio, che cosa significa pane quotidiano? TI termine greco, che traduciamo con "quotidiano", fa discutere da secoli gli esegeti: c'è chi traduce l'aggettivo con "oggi", chi con "domani". Forse il senso più ovvio è, appunto, "quotidiano", ma non ne abbiamo la certezza filologica.
Così pure è strana l'espressione: "sia santificato il tuo nome". E, ancora, "non ci indurre in tentazione", che può essere male interpretata, quasi che sia Dio a indurci in tentazione.
Di fatto, il "Padre nostro" contiene delle affermazioni allusive a tutta la realtà del regno di Dio; recita delle parole che danno una sintesi dell'insegnamento di Gesù e, per comprenderle a fondo, dovremmo rileggere buona parte del vangelo.
A noi, però, preme capire che cosa ha voluto insegnarci Gesù, quali sono i contenuti che Gesù vuole da ogni nostra preghiera.
1. Dire "Padre" non significa fare uno sforzo di immaginazione o avere una certa idea di Dio, bensì entrare nel modo di pregare di Gesù che sempre si rivolge a Dio chiamandolo "Padre". Vuol dire che l'invocazione "Padre" è l'atmosfera della preghiera, l'orizzonte nel quale la preghiera si compie. Tale orizzonte, che è suo, Gesù ce lo mette nel cuore, ce lo dona, ce lo comunica.
Dire "Padre", ci rende disponibili, fiduciosi, abbandonati, sicuri di essere ascoltati, ci fa superare paure e incertezze.
Con "venga il tuo Regno" esprimiamo l'augurio, l'ansia per la manifestazione di quella realtà che indichiamo con il nome "Regno" e che può essere espressa in mille altri modi: giustizia, fraternità, trionfo della vita, sconfitta della morte, situazione dove non ci saranno né lacrime né lutti, capacità di conoscerci e di amarci fino in fondo, pienezza del Corpo di Cristo realizzata nella Chiesa, unità vera tra tutti gli uomini e tutti i popoli.
Con questa espressione noi anticipiamo e attendiamo il progetto di Dio nella storia.
Il tuo Regno, non il regno di Dio che io mi immagino, ma quello che il Padre prepara, mi dona, mi mette nelle mani, mi fa realizzare giorno dopo giorno. Il progetto di Dio ha delle caratteristiche di pienezza, assolutezza, purità, chiarezza, luminosità, che possono essere soltanto sue. Noi le intuiamo quando cerchiamo di realizzarle, perché il Regno si concretizza nella figura del nostro progetto umano, nella nostra figura di Chiesa, di rapporti fraterni vissuti nella pienezza evangelica, nella nostra figura di costruzione del mondo nuovo. Ma è il tuo, o Padre! Noi lo accettiamo da te e tu ce lo riveli sempre più grande, sempre più elevato delle nostre richieste umane.
Nella dinamica tra il regno quale progetto che noi costruiamo quotidianamente, e il Regno che Dio ci dà e che è più grande del nostro progetto, la preghiera ci rende attivi. Ci fa disponibili, pronti all' eventuale conflitto che si potrebbe determinare tra il regno come lo vediamo noi e il Regno come Dio ce lo dona nella sua infinita e misteriosa sapienza. E il conflitto che si è realizzato, per esempio, nella preghiera di Gesù al Getsémani: «Padre, non la mia volontà, ma la tua si compia», venga non il mio regno, ma il tuo.
Quindi, l'espressione "venga il tuo Regno" ci forma allo spirito battesimale: con essa entriamo nella realtà vissuta del nostro Battesimo.
2. Ci domandiamo: ma che cosa occorre perché venga il Regno, perché il progetto di Dio si realizzi? che cosa occorre perché tale realizzazione sia efficace e possibile? A ciò risponde la seconda parte della preghiera.
Se avessimo composto noi il "Padre nostro" avremmo certamente scritto una lunga lista di condizioni esterne e interne. Gesù, invece, ne menziona tre.
Perché il Regno si realizzi, abbiamo bisogno di perseverare nell'oggi attraverso il pane quotidiano.
Abbiamo bisogno di molta misericordia e di perdono reciproco, mediante la capacità di accoglierci e il perdono che Dio dà alle nostre continue cadute e incapacità nella realizzazione del Regno.
Abbiamo bisogno del sostegno di Dio per non cedere alla tentazione quando viene la prova e il Regno sembra oscurarsi intorno a noi.
Nella prima parte del "Padre nostro" eravamo descritti come desiderosi anticipatori del Regno: "Venga, sia santificato, sia fatta la sua volontà"; nella seconda parte siamo descritti come poveri pellegrini del Regno.
3. Possiamo paragonare questi momenti della preghiera con i sentimenti che abbiamo nel cuore.
Abbiamo nel cuore, come parola fondamentale rivolta a Dio, l'appellativo di Padre e lo ripetiamo con fiducia, con abbandono, con tenerezza.
Recitando il "Padre nostro" potremmo sostare a lungo su questa semplicissima parola: Padre, come faceva santa Teresa di Gesù Bambino.
Abbiamo nel cuore, come desiderio fondamentale, la pienezza del progetto di Dio a cui la nostra vita è chiamata a dedicarsi, attraverso il Battesimo e la presenza in tutte le realtà di questo mondo, in ogni forma di servizio ai fratelli, alla Chiesa, alla società.
Abbiamo nel cuore un umile sentire di noi che ci fa domandare nella preghiera cose essenziali e adatte alla nostra debolezza.
Uniamoci a tutti i fratelli e le sorelle che, insieme con noi, soffrono particolarmente debolezza e povertà sulla via del Regno. Penso a coloro che sono vittime di violenza, a coloro che hanno una vita anche familiare faticosa, quasi al limite dell'intollerabile, ai numerosi malati. Al bisogno che tanta gente ha del pane quotidiano della speranza, di quel respiro di forza che permette di vivere la giornata accogliendola.
Ci sono poi coloro che mancano della prospettiva del Regno, che non credono a un progetto di Dio nella loro vita e perciò non hanno un futuro, non sanno dove dirigersi, non hanno niente che li attragga o che li spinga a impegnarsi per un domani migliore.
Impariamo a pregare per tutti, preghiamo con tutti, soprattutto con chi incontriamo ogni giorno e che vorremmo fare entrare nel nostro desiderio e, attraverso l'invocazione del Padre, renderli partecipi di questa stupenda preghiera e del senso della paternità di Dio che Gesù ci dona di vivere.
La preghiera del "Padre nostro", così come abbiamo cercato di comprenderla, ci ha mostrato come dev'essere ogni nostra preghiera.
- Rivolgerci con Gesù, nella grazia dello Spirito, al Padre, offrendogli ciò che siamo, tutta la nostra vita: è ciò che accade nell'Eucaristia in ogni celebrazione liturgica della Chiesa.
- Avere presente il mirabile disegno di salvezza di Dio, disegno nel quale si inserisce la nostra storia personale e che si è rivelato pienamente nel mistero pasquale di Gesù crocifisso e risorto. In tale disegno, la preghiera ha lo scopo, e lo ripeto, di condurci verso la carità operosa, perché Dio è mistero di Amore, di Carità.
- Credere che Dio esaudirà le nostre preghiere se fatte nel nome di Gesù, conformandoci, immedesimandoci nella sua condizione di Figlio e se hanno come richieste, come contenuti, i desideri del Regno, il desiderio di compiere la volontà del Padre, di lasciarci guidare dallo Spirito santo.
Scrittura e preghiera: la ''lectio divina"
L'ascolto di Dio, da parte del cristiano, significa in concreto l'ascolto della Parola contenuta nella Bibbia. TI contatto con questa Parola scritta porta, infatti, a una ricchezza di vita inaspettata. A me, che leggo la Scrittura da circa cinquant'anni, essa appare ogni volta così nuova da destarmi stupore e da creare quello shock dell'intelligenza e dell'emozione che suscita il senso dei valori umani e che mette a contatto con i valori stessi di Dio.
Assai opportunamente il Concilio Vaticano il, nella Costituzione dogmatica Dei Verbum, ha trattato a lungo di questo tema e sintetizzo il suo insegnamento in quattro punti:
- tutti i fedeli devono avere accesso diretto alla Scrittura;
- devono leggerla frequentemente e volentieri;
- devono imparare a pregare a partire dalla lettura diretta della Bibbia;
- al fine di conoscere Cristo Gesù, perché non lo si può conoscere al di fuori delle Scritture, e di conoscerlo in maniera eminente.
Diceva san Girolamo, e la Costituzione conciliare lo cita: «L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo».
Sono allora indispensabili dei mezzi concreti con cui il cristiano riesca ad accostarsi ai testi della Scrittura, al Nuovo Testamento in modo da confrontarli realisticamente con la sua esistenza.
Tra questi mezzi o metodi concreti, suggerisco quello patristico della lectio divina, chiamata "divina" appunto perché consiste nella lettura e nell' ascolto di un passo della Bibbia.
Tale "lectio divina" comprende alcuni gradini - lectio, meditatio, oratio o contemplatio - che, per maggiore utilità, sono solito allargare a sette aggiungendone quattro - consolatio, discretio, deliberatio, actio -.
- La lectio è il momento in cui si legge e rilegge una pagina dell'Antico o del Nuovo Testamento mettendone in rilievo gli elementi portanti. E un atteggiamento dinamico, è lo sforzo di cogliere, nel testo, i rilievi in modo che da "pianura" diventi un "panorama di montagna" con alcune parti in luce e altre in ombra. Sottolineando i verbi, i soggetti, gli oggetti i vari elementi acquistano valore insospettato. La lectio, nel quadro in cui noi la consideriamo, non è fine a se stessa ma si apre alla meditatio: va dunque fatta ogni volta per quel tanto che serve a passare oltre. Non così poco che la meditatio sia sterile e non così tanto da impedirne il dinamismo.
- La meditatio è la riflessione sui valori del testo, soprattutto sui valori permanenti. È un secondo modo di accostare il brano: non più per considerazione analitica dei soggetti, degli oggetti, dei simboli, dei movimenti interni ed esterni, ma dei valori che il testo veicola e porta con sé.
La meditatio va fatta con la mente e anche con l'affetto perché spesso i valori sono ricchi di risonanze, di sentimenti. Comporta il superamento della quantità verso la qualità, il superamento delle forme esteriori, delle, figure geometriche e sintattiche verso i loro contenuti, ed è quindi un passaggio importante. Quali valori esprime Gesù con questo modo di essere? Quali valori esprime Paolo e come posso fare per farli miei? TI mondo della meditatio è molto vario perché l'uomo si confronta dall'interno con la Parola e ne fa modello, proposta, regola di vita. C'è tuttavia un rischio ed è quello di prolungare la meditatio all'infinito, compiacendosi di aver capito i valori del testo, di averli ordinati e collegati con la propria vita. TI rischio è di credere di vivere quei valori semplicemente perché si è riusciti a coglierli bene, bloccando così il processo dinamico della preghiera e cadendo nell'autocompiacimento che, in realtà, è l'opposto della religiosità evangelica, pur se si nutre di parole del vangelo.
La meditatio è dunque un grandissimo valore da imparare, e magari ci si mette anni per impararla, però deve essere superata, a un certo punto, verso la contemplatio. La meditatio può essere fatta, in qualche maniera, anche da un non credente che si compiace dei valori profondi espressi dalla Scrittura.
- Con la contemplatio entriamo nella specifica preghiera cristiana che è "in spirito e verità".
E il passaggio dalla considerazione dei valori all'adorazione della persona di Gesù che riassume tutti i valori, li sintetizza, li esprime in sé e li rivela. E un momento orante per eccellenza in cui vengono dimenticate proprio le stesse cose che sono state molto utili per stimolare la coscienza. Si adora e si ama Gesù, ci si offre a lui, si chiede perdono, si loda la grandezza di Dio, si intercede per la propria povertà o per il mondo, per la gente, per la Chiesa.
Il centro e il riferimento della contemplatio è sempre la persona di Gesù, rivelatore del Padre.
Dal punto di vista più propriamente ontologico o di antropologia soprannaturale, la contemplatio è la disponibilità al dono infuso della carità. L'uomo cioè ènella situazione ideale per accogliere, coscientemente o almeno con piena disponibilità, il dono infuso dì carità, a lasciare vibrare in sé lo Spirito di santità.
La contemplatio è, dunque, in parte esercizio attivo, adorante, amante e in parte esercizio passivo, spazio dato allo Spirito di Cristo perché in noi adori, lodi, glorifichi il Padre. Il dono infuso di carità è germinalmente presente, come sappiamo, in ogni battezzato. Molto spesso però non ha spazio espressivo, uno spazio cioè corporeo, mentale, strutturale: la contemplatio è esattamente il momento in cui si dà spazio corporeo allo Spirito santo. Per questo possiamo anche chiamarla "conversione" dell'uomo che si rivolge totalmente a Dio, che lo sceglie costantemente, attratto da lui, che lo ama con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze elevate soprannaturalmente dallo Spirito.
È veramente il punto culminante delle varie tappe del dinamismo della preghiera ed è la norma, il riferimento delle tappe precedenti. In tanto la lectio è utile, la meditatio è importante, in quanto sfociano nella contemplatio che è vita in senso pieno: è la vita di Cristo che vive in colui che contempla.
Da aggiungere, a questo punto del dinamismo della preghiera, ci sarebbe solo l'esperienza infusa mistica, la percezione cioè cosciente dell'agire di Dio: l'unione con Dio a livelli mistici non è però necessariamente parte dell' organismo ordinario della vita cristiana. Vorrei, invece, dire qualcosa sul dinamismo esplicativo della contemplatio ed è per questo che ho indicato altri quattro gradini, anche se non sono un passo avanti perché tutto è già avvenuto.
- Consolatio. Noi facciamo fatica a determinare questo vocabolo mentre è realtà notissima al Nuovo Testamento. Paolo ne fa un uso molto grande, sia come verbo - parakaléo - sia come sostantivo - paraklesis - e addirittura lo prevede come un ministero: «Chi ha il ministero della consolazione - parakalon - attenda alla consolazione - paraklései -» (cfr. Romani 12,8). Consolazione è un appellativo di Dio, il Dio della pazienza e della consolazione (cfr. Romani 15,4; II Corinzi 1,3) e il Nuovo Testamento la considera come realtà fondante l'esperienza cristiana.
A noi sembra un sostegno aggiuntivo: il bisogno di essere consolati ci appare quasi un segno di debolezza, e questo è abbastanza strano se pensiamo che lo Spirito santo è qualificato come il Paraclito, il Consolatore.
Che cosa possiamo dunque intendere per "consolatio" come sviluppo ordinario della contemplatio? Possiamo intendere la gioia profonda, intima che viene dall'unione con Dio, il riverbero luminoso, gaudioso della comunione con Lui.
Pensiamo alla gioia che vediamo trasparire dagli occhi di persone particolarmente sante, quel non so che di pace, di serenità, di tranquillità anche nella sofferenza. E il gusto del culto di Dio, il rapporto con Dio vissuto con gaudio.
L'uomo giunto alla contemplazione sa che nessuna forza umana gli potrà strappare quella pace che è dono di Dio. Paolo esprime questa certezza gaudiosa quando esclama: «Chi ci separerà dall' amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... lo sono persuaso che né morte né vita, né,. angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall' amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore!» (Romani 8,35.38-39). La consolazione è la forza che sentiamo uscire, a distanza di duemila anni, dalle parole di Paolo. Ha molti altri nomi la consolatio: in certi periodi della storia della spiritualità è stata chiamata "fervore" oppure "devozione" (san Francesco di Sales), cioè prontezza gaudiosa e spontanea con cui l'uomo si dona a Dio. Da san Giovanni Eudes è stata chiamata "il regno di Gesù": la vita è il regno di Gesù che si sviluppa in noi.
Non dobbiamo perciò trascurare la consolatio. A volte, una certa cultura pseudo-spirituale ci fa credere che ciò che conta è fare il proprio dovere, essere leali e giusti. Ma l'uomo leale e giusto non può non esprimere quella pienezza di sé che è la forza e l'entusiasmo della gioia interiore!
Certo, si tratta di gioia spirituale nascosta nel profondo. Se spesso è velata e oscurata dalle prove, dall' aridità, dalle desolazioni, dalle tentazioni, dalla derelizione, dalla croce, tuttavia non a questo l'uomo è chiamato. Lo stadio a cui è chiamato è la luminosità di Cristo risorto e la consolazione è luminosità del Cristo risorto diffusa nell'esperienza. Non è fenomeno accessorio, pur se va distinta dai puri stati di entusiasmo naturale.
- Discretio o discernimento. La consolatio pone l'uomo in sintonia mirabile con i valori evangelici. E gusto interiore per Cristo, per l'essere con lui, per la sua povertà, per coloro che sono simili a Gesù nella sofferenza, per la sequela generosa della croce insieme a lui. Le grandi scelte di Cristo, il suo abbandono al Padre, il suo distacco, la sua dedizione all'uomo diventano valori connaturali nel momento della consolatio. Il discernimento è la capacità di scegliere, per interiore connaturalità, secondo e come Cristo. La sua relazione con la meditatio è molto stretta perché la meditatio fa emergere i valori di Gesù e la discretio li fa scegliere. Francesco d'Assisi incontra il lebbroso, vede in lui Cristo e, nell'impulso dello Spirito, lo bacia pieno di gioia, superando una fortissima ripugnanza naturale: è la discretio che gli ha fatto fare la stessa scelta di Gesù.
- Deliberatio è l'atto interiore con cui l'uomo si decide per le scelte secondo Cristo e necessariamente sfocia nell' actio.
- L'actio è il modo di vivere e di agire secondo lo Spirito di Cristo, è l'accogliere totalmente dentro di noi la coscienza apostolica, è l'averla integrata in noi stessi, l'aver fatto di questa scelta non soltanto un atto di volontà a cui conformarsi a fatica ma una realtà entrata in noi attraverso il dinamismo della preghiera.
In tal modo la preghiera non è più soltanto un pregare in vista del compiere meglio qualcosa: la preghiera è il fare emergere la scelta, il formare la propria vita a partire dalle scelte evangeliche interiorizzate.
Prima di concludere, desidero ribadire l'importanza della contemplazione senza la quale tutto diventa insipido, diventa esecuzione faticosa di precetti, volontarismo, moralismo. La mancanza di contemplazione ci impedisce di cogliere globalmente i vari aspetti dell' esperienza cristiana e di vivere realmente il "vieni e seguimi" di Gesù. Nella contemplazione l'uomo raggiunge il massimo di chiarezza e di forza, in essa il progetto-uomo si verifica e si va verificando progg:ssivamente, a mano a mano che si integra nelle azioni, nella cultura, nella espressione esteriore della persona.
Il passaggio dalla meditazione alla contemplazione è dunque un momento vitale e determinante dell' esperienza cristiana. Spesso la nostra esperienza cristiana è, al massimo, a livello meditativo, di riflessione, di bei pensieri ma ancora oscura su molti valori del dono di Dio fatto all'uomo. Tale è l'esperienza degli apostoli nel vangelo di Marco che vedono e non capiscono, che hanno occhi e non comprendono. Per questo ci si ritrova incerti, alle prese con continui ripensamenti e con desideri di evasione: perché non si ha come riferimento la contemplazione.
Le domande che possiamo porci, allora, devono essere su come pratichiamo la lectio e la meditatio, ma soprattutto se ci apriamo alla contemplazione, se la consideriamo fondamentale per il nostro cammino di fede.
Io credo che tutti noi abbiamo avuto dei momenti di vera contemplazione, nei quali abbiamo potuto discernere anche la consolazione di Dio.
L'invito è a riflettere su tali momenti e a valorizzarli giustamente, secondo i desideri del Signore.
Osservazioni importanti sulla "lectio divina"
Nell'accostarsi alla Bibbia mediante il metodo della lectio divina bisogna evitare il rischio di uno straripamento della lectio al di fuori dell' alveo della tradizione e della Chiesa. Capita infatti spesso che la Scrittura venga usata non semplicemente in funzione critica dei nostri idoli, ma pure in funzione di critica delle istituzioni, di una critica globale e priva di discernimento. Un altro rischio è di asservire il testo sacro a ideologie preesistenti (politiche, sociali, filosofiche), usandolo come prova o appoggio.
In questi casi la lettura della Bibbia tende a uscire dal contesto vitale in cui è nata e si è trasmessa.
E, ancora, si rischia di intendere sotto il nome di lectio una qualunque lettura della Bibbia, che sia in qualche modo unita con la preghiera. Non di rado si tende inoltre a fare della "teologia biblica" trattando temi dell'uno e dell' altro Testamento, o si cercano attualizzazioni a partire da un brano scelto a caso o presente nella liturgia. Tutto ciò fa parte della lectio, ma non la definisce nella sua caratteristica più profonda. Mi sembra quindi utile richiamare alcune parole del padre gesuita Francesco Rossi de Gasperis, in uno stimolante studio (Bibbia ed esercizi spirituali, Torino 1982, 33): «Lectio divina è la lettura continua» - preferisco dire "tendenzialmente" continua - «di tutte le Scritture, in cui ogni libro e ogni sua sezione viene successivamente letta, studiata e meditata, compresa e gustata mediante il contesto di tutta la rivelazione biblica, Antico e Nuovo Testamento. Per questa sua semplice adesione e umile rispetto dell'intero testo biblico, la lectio divina è una prassi di obbedienza totale e incondizionata a Dio che parla, dove l'uomo diventa un attento uditore della Parola (...). La lectio divina non fa una scelta di testi adatti a temi e argomenti già scelti e decisi in precedenza, in vista di bisogni o gusti già sperimentati o avvertiti dal lettore o dalla comunità che legge. Essa non adotta nemmeno il procedimento dei "temi biblici" preferendo invece tenersi al di qua di ogni selezione teologica del messaggio biblico. Essa comincia dalla Parola di Dio e la segue passo passo dal principio alla fine. La lectio divina suppone e prende sul serio l'unità di tutte le Scritture».
Se dunque la lectio divina viene vissuta nel suo dinamismo che, partendo dalle prin1e tre tappe - lectio, meditatio, contemplatio - si amplia e si apre alla consolatio, discretio, deliberatio e actio, può costituire un formidabile aiuto di fronte all' attuale sfida del mondo occidentale.
Un mondo in cui il mistero di Dio è quasi assente nei segni esteriori della vita e della società, un mondo interiormente arido, che soffoca la coscienza e non fa avvertire nell' esperienza quotidiana il gusto del Dio vero. Soltanto se alimentiamo la nostra fede in un contatto con la Parola, potremo passare indenni attraverso il deserto spirituale dell'Europa moderna.
Un esempio di "lectio divina"
Iniziamo a leggere il Salmo 23:
«Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo,
il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni».
È un salmo che abbiamo cantato tante volte nella liturgia delle Messe domenicali e feriali, eppure forse non lo conosciamo sul serio. Diceva di esso il grande filosofo francese Henri Bergson:
«Le centinaia di libri che ho letto non mi hanno procurato tanta luce e conforto quanto questi versi del Salmo 23: "Il Signore è il mio pastore: / non manco di nulla; / ...Anche se dovessi passare in un burrone di tenebre, / non temerei alcun male, perché tu sei con me"».
1. Nel momento della lectio rileggiamo il testo per metterne in rilievo gli elementi cercando di rispondere alla domanda: che cosa dice il salmo?

- Il Salmo 23 è sovente chiamato "il salmo del pastore", perché parla di un pastore, anzi del Signore sotto l'immagine del pastore, e ne sviluppa il simbolo.
A me pare tuttavia che quel titolo non sia adeguato e, in realtà, se notate bene le tre strofe, vi accorgerete che l'immagine del pastore è sviluppata soltanto fino al v. 4: «il tuo bastone e il tuo vincastro».
Dal v. 5 in avanti, è delineata un' altra immagine, quella dell' ospite che invita a cena: «Davanti a me tu prepari una mensa...».
Due sono quindi i simboli: il pastore e colui che ci invita a cena trattandoci regalmente e facendoci stare con sé.
Per questo ritengo più indovinato un altro titolo: "Perché tu sei con me", che esprime molto bene la tensione spirituale, psicologica, umana e teologica del salmo. "Perché tu sei con me" è un' affermazione che sta, quasi visivamente, a metà del canto, della preghiera del
salmista, e riassume tutto in una espressione di grande fiducia: tu sei con me.
E chiaramente un salmo di fiducia, e cercheremo di capire che cosa in pratica significa.
+ Dopo il titolo, vediamo di sottolineare i personaggi, i soggetti che agiscono nel testo. Sono due: il Signore e io, cioè colui che parla.
- Le azioni attribuite al Signore sono nove: egli è mio pastore; mi fa riposare; mi conduce; mi rinfranca; mi guida; è con me; mi dà sicurezza; prepara una mensa; cosparge di olio.
Nove designazioni che indicano la cura, la premura, l'attenzione, espresse con metafore, con parabole, con simboli: esse definiscono il Signore come Colui che si prende cura di me.
- Di fronte a questo soggetto principale, ci sto io che affermo di non mancare di nulla, di non temere alcun male, affermo che il mio calice trabocca; che sento la felicità e la grazia come compagne di vita, che voglio abitare nella casa del Signore.
Si tratta di un dialogo affettuoso, fiducioso, familiare tra il Signore e me: çhe cosa è lui, che cosa fa per me, che cosa io gli dico. E una preghiera semplicissima, che non chiede nulla, non ringrazia, non loda, ma proprio per questo è ricchissima; se poi volessimo esaminare la portata dei simboli che presenta, troveremmo una vastità di applicazioni, come dimostra la storia dell' esegesi del Salmo 23.
+ Possiamo ora rileggere le strofe dal punto di vista delle immagini. Abbiamo già parlato delle due fondamentali: il pastore e l'ospite, cioè l'immagine del pascolo e l'immagine della convivialità, dell'ospitalità a mensa.
Ciascuna di esse è sviluppata con altre che completano, arricchiscono il quadro.
- L'immagine del pastore - molto usata nella Bibbia fino al discorso di Gesù sul buon pastore, in Giovanni lO - viene specificata: «su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». E la sosta del gregge su pascoli verdi e presso acque tranquille. Chi ha visto le steppe della Palestina, sa come è difficile trovare un pascolo verde; quando un pastore riesce a scoprirlo, egli è davvero la gioia del gregge; chi ha provato la sete del deserto, può comprendere che cosa significa incontrare qualcuno capace di indicare dove c'è una sorgente d'acqua, magari nascosta sotto le pietre.
Quindi il pastore del salmo sa fare sostare il gregge nei luoghi giusti.
Inoltre sa far viaggiare: c'è infatti l'immagine del gregge in sosta su pascoli erbosi e c'è quella del gregge in movimento, guidato per sentieri giusti, per piste che portano a buon fine. In questo viaggio si può anche «camminare in una valle oscura» - pensiamo al deserto di Giuda e alle sue valli pietrose, incassate, dirupate, molto pericolose se di notte ci si perde o se, inciampando, si cade in qualche dirupo! -. Il pastore del salmo sa guidare pure in una valle oscura, di notte.
Le immagini si moltiplicano: quella del bastone e del vincastro. Probabilmente per bastone si intende una mazza corta e adatta a difendere il gregge dai lupi; il vincastro, invece, è quello che oggi è il pastorale del Vescovo, un bastone lungo ricurvo, su cui il pastore si appoggia, che serve per appendervi il sacco o per tastare il terreno, per tenere lontani i cani randagi. Una metafora molto pittoresca, che evoca tutto quanto il pastore fa per amore del gregge, per condurlo; ed è ciò che il Signore fa per noi.
- Seguono le immagini conviviali: «davanti a me tu prepari una mensa» (v. 5). Figuriamoci di essere sotto una tenda, su una stuoia stesa per terra, e sulla stuoia cibi
succulenti, che si prendono con le mani, si mette un poco di focaccia in una salsa e vi si intingono bocconcini di carne; figuriamoci di godere ore e ore in questa cena comune. Prima che la mensa abbia inizio, colui che ha invitato cosparge di profumo, «cosparge di olio il capo», come ha fatto Maria di Betania quando Gesù entra nella sua casa.
Sulla mensa c'è anche una coppa, un calice traboccante di vino spumeggiante, che dà gioia.
Le immagini conviviali sfociano, nel v. 6, nell'immagine della casa del Signore: «abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni»; la tenda ospitale diventa, a un certo punto, il tempio, la casa di Dio, dove si è veramente a casa.
+ Ho richiamato semplicemente qualche metafora, ma su ciascuna di esse ci si potrebbe fermare per chiarirne meglio il significato.
Che cosa vuol dire "acque tranquille"? Non soltanto pozze di acqua da cui si beve in pace e senza pericoli; in realtà, è evocato un cammino di pace, un cammino spirituale verso la pace interiore, dove ci si ristora alla fine di un viaggio pericoloso.
Che cosa vuol dire "valle oscura", tenebrosa? Non è soltanto un dirupo dove non arriva la luce, dove la notte è fonda; nella psicologia della persona umana, è piuttosto la paura del buio della morte, quella paura che affiora nella coscienza e che non si placa, a meno che non venga una voce dall' alto a portare la parola di conforto.
Invito ciascuno a ripensare e a gustare tutte queste immagini poetiche; pur se non possiamo cogliere la poesia e il ritmo propri del testo ebraico, tuttavia alcune assonanze risuonano un poco anche nella traduzione in lingua italiana.
2. Passando al gradino della meditatio, riformuliamo la domanda iniziale pensando a noi: qual è il messaggio del salmista per me, per noi? che cosa dice questa poesia religiosa oggi?
+ Incominciamo a cercare le parole chiave del messaggio, che a mio avviso sono quattro:
- non manco di nulla;
-
tu sei con me;
- mi dai sicurezza col tuo bastone e il tuo vincastro;
-
abiterò nella casa del Signore.
Ecco il messaggio: Signore, io non manco di nulla perché tu sei con me, mi dai sicurezza e abito nella tua casa.
+ Per poter dire sul serio queste parole, è necessario domandarci su chi cadono, e la risposta per me è ovvia: cadono oggi su cuori ansiosi, sulle nostre ansietà, sulle nostre paure, sulle nostre insicurezze.
Da alcuni anni seguo un gruppo di centinaia di giovani e di ragazzi - tra i 18 e i 25 anni - che partecipano al cammino cosiddetto del "Samuele" e cercano con grande disponibilità la volontà di Dio nella loro vita. E affinché compiano un cammino solido, io propongo ogni anno delle regole: per esempio, di astenersi dalla televisione o di fame un uso molto ridotto. Tra le altre c'è la IV regola che recita: bandire ogni forma di ansietà su di me e sul futuro.
Ebbene, per tantissimi di questi giovani e ragazze, non è difficile astenersi dall'uso della televisione, mentre è particolarmente difficile bandire ogni forma di ansietà su di sé e sul proprio futuro. La ritengono la regola più dura. Ciò significa che il nostro cuore è insicuro, siamo continuamente bisognosi di rassicurazioni su di noi e sul domani che ci attende, sulle nostre relazioni, sulle nostre capacità, sul fatto che non commetteremo sbagli troppo gravi nello scegliere lo stato di vita.
Il Salmo 23, da questo punto di vista, è una medicina salutare, consolante, divina, efficace per tutte le ansietà del cuore umano. E una splendida preghiera da ripetere nella fede, davanti a Gesù: Signore, io non manco di nulla davanti a te; tu sei con me, mi rassicuri, mi fai abitare nella tua casa. Si tratta di uno straordinario esercizio di fede e di speranza.
+ Nel desiderio di approfondire il messaggio, di scavare di più nel nostro cuore, ci chiediamo: quando pronuncio le parole del salmo, quando lo recito in preghiera, sono davvero sincero?
Credo che tutti dobbiamo confessare che le cantiamo, ma con un po' di superficialità; talora ci muovono alla preghiera, se stiamo vivendo momenti buoni, se non ci sono all'orizzonte dei crucci e dei problemi. Tuttavia, allorché entriamo in una valle oscura, allorché avvertiamo davanti a noi l'ombra della morte (un insuccesso, la solitudine, un fiasco nella vita, il dolore fisico o morale...), diventa assai difficile dire: cammino in una valle oscura, ma sono in pace perché tu, Signore, sei con me.
Pur se sono vere, pur se sono salutari, le parole del salmista sono difficili da pronunciare con il cuore.
+ Che cosa fare, dunque, quando ci si trova in una valle oscura, nella valle di morte, nell' ombra, nell' abisso? Dobbiamo fare quello che ha fatto Gesù. Egli è entrato nella oscura valle del Getsémani, è entrato nel buio dell'agonia sulla croce, si è sentito abbandonato e ha gridato: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Però in quel momento ha rivolto al Padre delle parole che risuonano affini a quelle del Salmo: So che tu, Padre, sei con me, nelle Tue mani affido il mio spirito.
Gesù, contemplato nel Getsémani e sulla croce, è il modello da seguire, è colui che ci assicura dicendo: malgrado tutto, avrete la forza di pregare il Salmo 23, anzi l'avete già ora perché ve la dono io.
Mi viene in mente quanto scrive san Bonaventura a proposito di Francesco che, nell'estate del 1219, andò in Palestina e fu ricevuto dal sultano d'Egitto, attraversando così le linee militari musulmane. In quel momento di gravissimo pericolo, di paura, quasi di follia (avrebbe potuto rinunciare alla visita, evitando un percorso tanto rischioso), Francesco continuava il viaggio ripetendo: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerò alcun male, perché tu, Signore, sei con me».
3. Nella contemplatio, affidata a ciascuno personalmente, si cerca di andare al di là del Salmo per toccare il volto di Gesù presente dietro a ogni pagina e in ogni pagina della Scrittura. Magari si parte da un'invocazione, da una preghiera nella quale esprimo al Signore i sentimenti provati ascoltando le parole di uno o di un altro versetto, ma improvvisamente la preghiera non è più esercizio della mente, bensì lode, silenzio davanti a Colui che mi si è rivelato, che mi parla come amico, come medico, come salvatore. La contemplatio è una sorta di esperienza stupenda, misteriosa, nella quale intuiamo con il cuore che il Risorto è in mezzo a noi come Signore della nostra vita e Signore della storia.

 
3.
IL PECCATO
Il rifiuto del disegno di Dio
«Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?". Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto". Riprese: "Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell' albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?". Rispose l'uomo: "La donna che mi hai posta accanto mi ha dato dell' albero e io ne ho mangiato". Il Signore Dio disse alla donna: "Che hai fatto?". Rispose la donna: "Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato". Allora il Signore Dio disse al serpente: "Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. lo porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno"» (Genesi 3, 9-15).
Questo dialogo serrato tra Dio e l'uomo fa emergere la confusione, l'oscurità, la vergogna del peccato dell'uomo. Quattro volte parla il Signore e i primi tre interventi sono domande precise: dove sei? chi ti ha fatto sapere che eri nudo? che cosa hai fatto?
E le tre domande perentorie sono seguite da una terribile profezia che indica uno stato di inimicizia e di divisione all'interno dell'esperienza umana e della storia.
Alle quattro parole di Dio, tre volte rispondono gli uomini e con risposte timide, incerte, reticenti e, in parte, menzognere. Adamo afferma di avere paura, paura di Dio. Denuncia così un rapporto falsato con quel Dio d'amore in cui non sa più riconoscere il Padre, il Misericordioso di cui non scopre più il volto. E aggiunge, accusando Eva: la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell' albero e io ho mangiato. Denuncia quindi anche un suo rapporto irresponsabile con la compagna della sua vita, ributtando su di lei la colpa che gli rimorde nella coscienza.
Da parte sua la donna, in timore e confusione, risponde: il serpente mi ha ingannata, mostrando un rapporto irresponsabile con se stessa, con la sua colpevolezza personale, con la chiarezza delle sue responsabilità.
Nell'insieme, Adamo ed Eva, con le loro parole, sottolineano la divisione, l'oscurità, la confusione che derivano all'uomo dallo stato di peccato, cioè di lontananza da Dio.
Dio, al principio, sogna una terra di pace e di benevolenza, in cui il lavoro non è opprimente e la convivenza non è guerra; a tale sogno l'uomo si ribella e lo splendore, l'immenso valore della libertà donatagli da Colui che l'ha creato e amato, si trasforma, nelle sue mani, in strumento di negazione, in un progetto alternativo a quello che gli era stato proposto.
Ma la domanda rivolta dal Signore ad Adamo: «Dove sei?» è la domanda che Dio rivolge a ciascuno di noi che non abbiamo affidato pienamente la nostra vita al suo disegno di amore: dove siamo, a causa della non fiducia o della poca fiducia in lui?
Adamo è l'uomo di tutti i tempi, che non accetta l'amore di Dio, che rifiuta la condizione di creatura e di figlio, che non vuole essere figlio adottivo di Dio, che si ribella a un Dio che lo serve.
La sua paura ha segnato tutta la storia, ha segnato l'umanità che teme Dio immaginandolo come un tremendo punito re, che ha paura della morte, della sofferenza, di ogni forma di privazione o di pericolo. Rifiutando Dio, noi e la nostra società non andremo lontano e le conquiste del progresso potranno essere addirittura la nostra babele e la nostra morte.
Nelle risposte che Adamo ed Eva danno al Signore noi troviamo che manca, in realtà, l'unica parola adeguata, l'unica parola che stenta a salire dalle labbra di ogni uomo, proprio perché si è perso di vista il vero volto di Dio: «Ho peccato contro di te!». E la risposta semplice di Davide, nel Salmo 50.
In un brano del vangelo di Luca possiamo leggere un altro dialogo, corrispondente a quello avvenuto nel giardino dell'Eden tra Dio, Eva, Adamo e il serpente. E il racconto dell' Annunciazione:
«L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". A queste parole, ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L'angelo le disse: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell' Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine". Allora Maria disse all'angelo: "Come è possibile? Non conosco uomo".
Le rispose l'angelo: "Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell' Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio...". Maria disse: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto"» (cfr. Luca 1 26-38).
Il testo della Genesi prevedeva che la maledizione contro il serpente si allargasse a una lotta incessante tra paura e speranza, tra rifiuto del progetto d'amore di Dio e piena accoglienza, prevedeva la vittoria definitiva del bene.
Maria accoglie la Parola, il disegno di Dio ed è l'aurora della salvezza definitiva. Così una donna è la destinataria dell' annuncio di un inizio nuovo e, di fronte a questa inattesa principalità di una donna che entra a far parte del progetto redentivo, ci domandiamo se davvero abbiamo compreso a fondo la rilevanza di questo evento che fa da eco a quel: «Porrò inimicizia tra te e la donna». Vuol dire che c'è un principio riconciliatore di Maria e, in lei, di ogni persona che partecipa al suo mistero. Un potere riconciliatore che il mondo non ha ancora riconosciuto e che la storia della Chiesa è destinata a esprimere.
Anche il saluto: «piena di grazia», significa molte cose. Maria è bellissima, di una bellezza ontologica, è amata da Dio con amore gratuito e redentivo. Tale principalità della grazia che si china sull'umanità peccatrice e la riabilita è il fondamento della "buona notizia" ed è costitutivo, non contingente come lo è il peccato. La principalità del peccato era pervasiva, invadente, onnipresente, ma incapace di pervenire davvero al fondo dell'uomo: il peccato cioè attacca l'uomo fino in fondo e però non a fondo.
La grazia, invece, risana fino in fondo e a fondo, ricostituendo nell'intimo l'uomo e l'umano.
Contemplando questa nuova Eva ciascuno di noi - nonostante i peccati, le negligenze, le infedeltà, i timori - ritorna a credere nel chiarore delle origini, ritorna a inseguire la gioia e lo splendore di quei giorni in cui Dio scendeva nella brezza della sera a passeggiare nel giardino. Ritorna, ciascuno di noi, a essere motivo di speranza per il mondo.
Altre tipologie di peccato nella Bibbia
Ancora nei primi capitoli della Genesi, la Bibbia ci presenta altre tre tipologie del peccato. Esse mostrano come i tre rapporti fondamentali che costituiscono la pienezza dell'uomo, l'ideale dell'umanità - il rapporto con Dio, il rapporto tra gli uomini e il rapporto con la terra - venga disconosciuto e pervertito.
Il racconto di Caino e Abele
«Dopo un certo tempo, Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo"» (Genesi 4, 3-7).
Che cosa ha fatto Caino? Probabilmente la sua offerta era imperfetta o avara, non dettata da riverenza e amore verso il Signore. Tuttavia il peccato prende in lui forza e violenza quando egli si rattrista e non riesce ad accettare che il fratello sia migliore di lui, non riesce a vivere in pace con uno che ha un destino diverso dal suo.
Caino non realizza quell'unità dei diversi che costituisce l'umanità e, anziché sentirsi spronato a salire al livello di Abele, vorrebbe che il fratello scendesse al suo. Vive la tristezza dell'invidia, che è una delle cause più gravi dello scatenarsi di guerre, di conflitti sociali, delle forme di razzismo che devastano l'umanità. Forme drammatiche ai nostri giorni e cresceranno di violenza in Europa a mano a mano che aumenterà il numero di persone di altre razze, di altre culture perché faremo grande fatica a vivere la fraternità con gli africani, con gli arabi, con gli asiatici, a vivere la dimensione dell'accoglienza dell' altro, a cercare lo scambio, a rallegrarci del bene dell' altro.
Caino ha perduto il senso, il valore del rapporto con il fratello e giunge a uccidere. In tale situazione, non è più in grado di ascoltare la voce di Dio, tanto è vero che Caino la banalizza, se ne prende gioco. «Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?"» (v. 9).
Il racconto dei figli di Dio e delle figlie degli uomini
«Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: "li mio spirito non resterà sempre nell'uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni". C'erano sulla terra i giganti a quei tempi - e anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi» (Genesi 6, 1-4).
Il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile dire quale sia stato il contenuto vero. Lo scrittore sacro però ritiene questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali.
Il primo è di nuovo sul tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: «ne presero per mogli quante ne vollero». Leggiamo qui l'inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un "tu" con cui avviene uno scambio unico e indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell'uomo.
C'è un altro aspetto che oggi sentiamo vivamente ed è dato dalla menzione un po' oscura dei giganti, quasi che l'umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini.
Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia: prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze di umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l'uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo il rapporto equilibrato dell'uomo con la terra.
È quindi la perdita dell' armonica relazione uomo-terra, uomo-corpo, dell' attenzione ai ritmi dell' esistenza, che certamente sono in continua evoluzione e l'uomo deve saper dominare, ma che non possono essere impunemente distrutti.
Il racconto della torre di Babele
«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall' oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". li mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. li Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9).
È un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell'umanità; in questo senso è esemplare. Dice non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può avvenire, che avviene.
Che cosa è accaduto? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole».
A un certo punto però si scopre il mattone. Mentre prima si costruiva con il legno, o mettendo le pietre una sull' altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l'uomo comincia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di poter arrivare addirittura in cielo.
Di per sé siamo di fronte a un fatto tecnico che non è né buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l'entusiasmo, la presunzione, l'ambizione che viene dalle scoperte; un po' come oggi la scoperta del computer con cui posso imitare l'intelligenza e tenere il mondo m mano.
«Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (v. 4). Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un'impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l'autosufficienza umana, la capacità che l'umanità ha di edificare se stessa in assoluto. Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laicamente, è rotto il contatto con Dio. Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l'uomo.
Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell'uomo al Signore del cielo e della terra.
Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: «"Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (vv. 7-9).
Noi siamo in pieno dentro tale tentazione, molto più che nei secoli passati: le continue scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover dipendere più da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi. Quanto più assumiamo responsabilità sociali, civili, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spinge a vivere situazioni che vanno dall'esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, di amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non capire più nulla.
Quello della torre di Babele è il racconto di una colpa collettiva; mentre il rifiuto del disegno di Dio da parte di Adamo ed Eva era espresso in termini individuali, il rifiuto della gente di Babele è narrato in termini collettivi.
La radice di questo peccato è la pretesa dell'uomo di essere il centro di tutto, di non avere bisogno di Dio, di staccarsi dalla dipendenza creativa, magari senza negarla, ma agendo per proprio conto. E il fenomeno odierno di guazzabuglio culturale: idee, pensieri, progetti, filosofie che contrastano tutte con l'idea di servire l'uomo.
La vastità del regno del male
Alla luce dei racconti biblici e delle riflessioni a cui ci inducono, può sorprendere la domanda che spesso fa la gente: ma da che cosa ci ha salvati il Signore? che bisogno abbiamo di essere salvati?
E alla risposta: ci ha liberati dal male, dalla schiavitù del peccato, obietta: ma che cos'è il male, che cos'è concretamente il peccato?
Credo che la coscienza di essere salvati diventi in noi reale allorché ci rendiamo conto della vastità del regno del male. In altre parole, ne cogliamo le risonanze quando sperimentiamo da che cosa siamo stati salvati e continuiamo a esserlo, quando cl accorgiamo di come e quanto operano in noi, in me, le forze di schiavitù, di demolizione, di annientamento interiore, di deprivazione degli orizzonti.
Camminando verso la maturità umana, avvertiamo che in noi e attorno a noi ci sono forme di distruzione sempre all'opera, sperimentiamo che l'egoismo prevale sull' altruismo, che l'orgoglio è avido di potere e di successo, che la smania di protagonismo corrode il cuore, che la fragilità umana è in se stessa insuperabile; allora intuiamo l'assoluta necessità di una salvezza dall' alto.
Anche camminando sulle strade del Vangelo, avvertiamo il peso della nostra debolezza, l'inconsistenza dei nostri propositi, l'incapacità a programmare le nostre giornate come desidereremmo, percepiamo con forza la grandezza dell' amore di Dio che solo ci salva dalla nostra dispersione.
San Paolo ha mirabilmente descritto, con toni accorati, l'invincibilità del male che è in noi, in ciascuno di noi:
«Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. lo non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Romani 7, 14-19).
Si tratta di un'impotenza umana storica: l'uomo desidera il bene e però si accorge di non realizzarlo. Condizionato dalle vicende, dalle tensioni, dalle difficoltà, dalle opposizioni che deve superare, si indurisce e, indurendosi, si rinchiude in sé contro le difficoltà, si rinchiude nel possesso e nell' autodifesa e così rifiuta la dipendenza da Dio, dalla sua Parola, dalla sua misericordia.
Nei casi peggiori, resta travolto e nega la trascendenza di Dio. Nei casi migliori, arriva a vivere il dualismo per cui nei momenti buoni gli sembra di essere teso all'ascolto della Parola, ma poi, nell'incalzare delle circostanze, specialmente avverse - delusioni, amarezze, torti che subisce e che ha voglia di ritorcere - si difende a ogni costo, si oppone agli altri e, soprattutto, non fa più riferimento alla Parola di Dio.
Paolo ha toccato con quel «peccato che abita in me» la profonda miseria dell'uomo, difficile a capirsi, e tuttavia sperimentabile negli effetti, nelle conseguenze, nelle situazioni storiche.
Per comprendere ancor meglio da che cosa il Signore ci ha salvati e ci salva, occorre tenere presenti alcune realtà incombenti su di noi.
I peccati personali
La prima realtà incombente sono i nostri peccati personali, le nostre fragilità psichiche e morali, la nostra pigrizia, invidia, ambizione, vanità, sensualità.
Scrive in proposito l'apostolo Paolo:
«Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi. le compie non erediterà il regno di Dio» (Galati 5, 19-21).
Siamo al livello dei peccati singoli, personali: è un elenco impressionante dei quattordici atteggiamenti negativi dell'uomo, che Paolo trae dall' esperienza sua e del suo tempo. Una visuale molto realistica e insieme pessimistica dell'uomo che si muove nell' ambito dei propri interessi.
Un altro testo di Paolo riprende questo quadro con nuove pennellate, facendo una lista di ventuno atteggiamenti negativi:
«Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, d'omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Romani 1, 28-31).
È una descrizione che sembra persino retorica tanto è gonfiata nelle parole.
L'Apostolo sa benissimo come ciò che descrive abbia radice anche in lui, secondo la parola di Gesù nel vangelo di Marco: «Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (7,21-23). Non soltanto dal cuore di un uomo che per caso è nato in una situazione disgraziata, drammatica, ma dal cuore di ogni uomo.
La stoltezza è propria di chi fa dei progetti senza Dio, dei progetti sicuri, tranquilli, nei quali può navigare bene, senza pensare come egli è un fuscello nella storia e basta un niente per travolgerlo.
La superbia è affine alla stoltezza: è la pretesa di salvarsi da soli, di conquistare la libertà vera con i propri sforzi, rifiutando di fare i conti con Dio.
La calunnia è la conseguenza del fatto che non riusciamo a sopportare il bene del prossimo, per cui. proviamo il bisogno di distruggere almeno un poco l'altro mediante qualche piccola frecciata, qualche accenno conflittuale che ristabilisce, a nostro parere, la nostra integrità.
I peccati personali toccano tutti noi e li percepiamo nei loro effetti di ingiustizie, di divisioni, di rivalità; sono in noi con le loro radici nelle propensioni negative che abbiamo e da cui non possiamo liberarci da soli.
Sapere che sono dentro di noi ci spinge a prenderle sul serio e a riflettervi con attenzione. Pensiamo per esempio all' invidia, tema ricorrente sia nella lista di Paolo (Romani 1, 29) sia in quella di Gesù (Marco 7,22).
Clemente Romano scrive che Paolo è stato ucciso per invidia: non è stata la persecuzione, la cattiveria dei pagani, ma l'invidia di alcuni che, essendo suoi rivali, lo hanno denunciato. Ciò vuol dire che la comunità cristiana era soggetta a dissensi, rivalità, divisioni, fazioni che a un certo punto si avvalevano dei pagani per le proprie manovre e le proprie vendette. C'era certamente l'autorità pagana che portava avanti la persecuzione ma non sarebbe arrivata a tanto, nei riguardi di Paolo, se i cristiani fossero stati più uniti.
La stessa morte di Pietro viene attribuita a invidia, a delazioni e a spinte venute dall'interno del gruppo dei credenti giudeo-cristiani, o di gruppi rivali.
Se pensiamo ad altre parole di quella lista della Lettera di Paolo ai Romani - diffamatori e maldicenti -, ci accorgiamo che spesso lo siamo anche noi nel modo di parlare degli altri.
Ciò che più colpisce è che Paolo, seguendo l'insegnamento di Gesù, considera il peccato fondamentale che sta alla base di tutti gli altri: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di un'intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Romani 1, 28).
L'intelligenza depravata riguarda il cuore, perché ciò che viene meno è l'intelligenza del cuore, ossia la capacità orientativa dell'uomo di vedere tutte le realtà nella globalità del disegno di Dio.
Ci sono in noi delle forze dispersive e distruttive e, al fondo di tali inclinazioni, c'è una radicale diffidenza di Dio, una resistenza ad accettare una visione della vita subordinata al primato, all'iniziativa di Dio. È importante capire questo per riconoscere la peccaminosità dell'uomo. I più grandi santi si dicevano e si sentivano peccatori, perché avevano compreso bene tale insegnamento.
E chiaro che le forze dispersive non sempre operano in maniera palese, per vari motivi - spesso è semplicemente la pressione sociale che inibisce -. A volte emergono delle tragedie che erano state represse per tanto tempo e che circostanze drammatiche fanno venire fuori improvvisamente, rivelando che cosa c'era nel cuore dell'uomo.
È il peccato che veramente ha bisogno di essere curato nell'uomo, affinché sia curata la radice delle opere della carne. Ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia non sono semplici fragilità e debolezze, ma derivano da Un'origine più profonda.
I peccati strutturali e sociali
La seconda realtà incombente ,è quella del male presente nella società e nella storia. E importante ampliare la riflessione ai tanti peccati strutturali e sociali che gravano su di noi.
I peccati strutturali e sociali non sono evidentemente soltanto la somma dei peccati personali, delle malizie individuali, bensì quelli inseriti nei sistemi di vita, nella mentalità, nelle idee ricevute. E un modo di essere e di vivere che la sacra Scrittura chiama "mondo" in senso negativo, in cui, al di là delle belle parole, prevale il tornaconto, il bisogno di sopraffare altri, di contrattaccare, di sottomettere.
Non possiamo negare che la condizione umana sia molto drammatica; è una condizione conflittuale a cui non sfuggiamo. Quando esaminiamo la storia del passato e ci meravigliamo che si siano compiute alcune scelte, anche nella storia della Chiesa - come la tortura e la guerra -, dovremmo comprendére che quella gente viveva secondo idee ricevute. Era praticamente impossibile sottrarsi a una mentalità che poteva portare a commettere ingiustizie.
Ogni uomo, ogni donna è condizionata dai mali sociali. E quando ci rendiamo conto dei legami e delle schiavitù di peccato nelle quali viviamo e di far parte di un mondo ingiusto, violento, cattivo, che ci fa corresponsabili almeno psicologicamente di situazioni ripugnanti, comprendiamo da che cosa dobbiamo essere salvati.
Pensiamo, per esempio, al male che si è manifestato nelle grandi guerre mondiali, nell' antisemitismo, nei lager, nella morte di milioni e milioni di ebrei, una morte senza ragione, senza senso. Questo è il peso del peccato che incombe su di noi, un peso che grava ancora nel presente per ciò che accade in Bosnia, in Burundi, in Rwanda, in tante altre parti del mondo dove centinaia di migliaia di innocenti muoiono, dove le persone sono trascinate a diventare crudeli, violente, sono costrette a uccidere.
La salvezza che Dio offre all'uomo è il ritrovare, nella pienezza dell'incontro con Cristo, la potenzialità di quell'apertura originaria, voluta da Dio, che crea la mentalità del bene, la cultura positiva.
A proposito del peccato strutturale e del modo con cui ci avvolge, troviamo un esempio nella vita di Gesù. E l'episodio che prelude alla passione:
«Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l'unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono tra di loro: "Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest' olio a più di trecento denari e darli ai poveri!". Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: "Lascia tela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un'opera buona"» (Marco 14) 3-6).
Si tratta di un giudizio su un' azione particolare. Gesù e la donna si trovano soli e coloro che li circondano, agendo per motivi istintivi, condannano quel gesto, non lo sanno capire. È un caso tipico della forza della mentalità che si comunica dall'uno all' altro e non permette l'apertura alla verità di un gesto che ha un significato profetico. Agendo con le convinzioni ordinarie, con quello che sembra il comune buon senso, tutti si mettono contro Gesù che rimane solo.
È vero che i peccati sociali e strutturali non possono essere imputati a noi dal punto di vista morale, e tuttavia sono parte della nostra schiavitù. L'uomo è incapace di creare un ordine sociale giusto, dove non ci siano la fame, la povertà, la miseria, le sopraffazioni. Nemmeno le organizzazioni internazionali create per sovvenire ai bisogni dei più deboli riescono a operare in modo che il bene di alcuni non sia il male di altri. E così la storia dell'umanità va avanti di peccato in peccato, di guerra in guerra, di oppressione in oppressione.
Forse ci toglierebbe il fiato la percezione lucida, chiara, del negativo che incombe su di noi collettivamente e il Signore, nella sua infinita bontà, permette che ci pensiamo poco; comunque, allorché vi riflettiamo, sale spontaneo dal cuore il grido: "Salvaci, Signore, dona al mondo la tua salvezza".
I peccati collettivi razionalizzati
Non è ancora tutto. Ai peccati personali e alle nostre fragilità psichiche e morali, ai peccati sociali e alle ingiustizie con cui ogni uomo è connivente per il solo fatto di esserci, va aggiunta una terza realtà: il peso dei peccati collettivi assurti a dottrina. Sono ideologie, filosofie, devianze delle religioni, filoni culturali di ogni tipo, che chiamano bene il male e lo razionalizzano, lo giustificano conferendogli durata e persistenza. Di qui nascono le catastrofi che rovesciano le società e sconvolgono periodicamente il corso della storia. Possono assumere l'aspetto di una catastrofe lenta, quasi una peste che a poco a poco distrugge dall'interno una civiltà. Non si tratta semplicemente di strutture organizzate di male, di peccato, ma di strutture di pensiero che producono male.
Ci troviamo davanti a una realtà diabolica proprio in quanto il male viene considerato bene per ragioni di stato, di interessi economici; tali deviazioni sociali confondono la mente, annebbiano la vista, impediscono di giudicare rettamente.
La salvezza di Dio, il suo farci passare indenni attraverso questo immenso oceano di male è un miracolo, equivale a essere chiamati, come Lazzaro, fuori dalla tomba, a uscire, come gli Ebrei, dall'Egitto guadando il Mar Rosso.
L'idolatria ieri e oggi
Etimologicamente idolatria vuol dire culto degli idoli, adorazione di oggetti fabbricati dall'uomo, che hanno un significato religioso, oggetti che possono raffigurare un uomo, una donna oppure anche un animale (serpente, vitello, aquila...). A essi si presta onore, si attribuiscono poteri divini, magici, superiori, si prestano riverenza e adorazione offrendo sacrifici.
Non è facile capire perché l'uomo si comporta così: dovremmo entrare in discussioni complesse di antropologia e di psicologia religiosa.
- La motivazione più immediata, che forse valeva per gli antichi, va cercata nel fatto che pensavano a una forza misteriosa insita in determinati oggetti.
- Probabilmente però c'era dell' altro: pensavano a una forza divina della persona o della realtà raffigurata. Non possiamo quindi vedere l'idolatra sempre come qualcuno che scambia l'oggetto per Dio; piuttosto, egli crede nel suo riferimento a una personalità divina oppure a una forza astrale, mitica.
Anche l'idolo può avere un valore relativo e perciò la sua adorazione può indicare un certo atto religioso verso ciò che l'uomo non riesce bene a immaginare. Chi onora l'idolo può voler onorare in un segno visibile una forza divina invisibile. Era questo che intendevano fare gli Ebrei costruendosi nel deserto il vitello d'oro: non pensavano di sostituire a JHWH un altro dio, bensì di rendergli culto in maniera tangibile, di avere un simbolo della potenza propria di JHWH che li aveva condotti fuori dall'Egitto.
- Naturalmente pure in tal caso, che è quello più genuinamente religioso di idolatria, ci si potrebbe chiedere: la forza divina a cui si vuole rendere culto è una forza veramente trascendente oppure è una idealizzazione di una realtà umana? Se gli Ebrei nel deserto avevano quasi certamente la volontà di adorare JHWH, nei culti di Baal, invece, veniva adorata la forza della fecondità, della natura con i suoi cicli riproduttivi di morte e di vita, di vita che nasce dalla morte, della primavera che nasce dall'inverno. Gli adoratori di Baal esprimevano un senso religioso di riverenza e di dipendenza verso le grandi forze che reggono il mondo: l'amore, il sesso, la natura, la fertilità.
È dunque difficile entrare a fondo nei meandri del cuore umano.
Comunque noi sappiamo che la Scrittura è contrarissima a ogni atteggiamento che risenta anche minimamente di idolatria. La Bibbia non ammette che si riduca la divinità a qualcosa di umano, di tangibile, nemmeno se si tratta di un simbolo, di un riferimento a una realtà più alta.
Qualcuno si stupirà della rigidità della sacra Scrittura. Se si pensa, infatti, ad altre religioni, potrebbe sembrare legittimo esprimere un certo valore religioso attraverso degli oggetti, almeno come tentativo di affermare un Essere supremo che bisogna adorare. Come mai, quindi, l'idolatria viene rigettata anche nelle sue forme più spirituali, più alte?
La ragione, a mio avviso, la troviamo nella definizione che il profeta Elia dà di sé: «Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto» (1 Re 17, 1). Per la vita del Signore, «Vivit Dominus», secondo la versione latina. Questa è la chiave per capire la lotta di Elia contro gli idoli e la lotta della Bibbia contro tutto ciò che, sia pur minimamente, appare come idolatria. JHWH è un Dio vivo.
Nel contesto che ci interessa, significa che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo. Ecco l'enorme differenza tra la concezione del vero Dio e ogni altra forma di religiosità. Perché l'idolo, anche se con esso si intende personificare e venerare la giustizia, la verità, la santità, non è ancora il Dio imprevedibile, il Dio vivo. L'idolo è sempre, in qualche modo, controllato dall'uomo che può prevederne le esigenze e che, avendo una sua idea della giustizia, della santità, della verità, può tenerlo, in certo senso, in mano.
Invece JHWH è libero, non si lascia disporre dalla sua creatura, non si lascia incapsulare nei nostri ragionamenti e nelle nostre previsioni. Noi non sappiamo come Dio si comporterà perché è una personalità vivente e trascendente; da lui tutto dipende e non deve rendere conto a nessuno. Al contrario, come dicevo sopra, un valore umano personificato rende conto a me del concetto che io ho di lui e posso, se voglio, esorcizzarlo. JHWH agisce come vuole, si rende presente come e dove vuole, non è un principio astratto, ma ama, suscita e distrugge, premia e castiga, eleva e abbassa, e lui solo sa il perché.
Questo è il Dio vivo, e perciò la Bibbia non ammette che si possa restringerlo in una rappresentazione, in un concetto, neppure in una definizione perché è «Colui che è» (cfr. Esodo 3, 14), si rende cioè presente dove e come vuole, agisce dove e come vuole, ama l'uomo perché lo vuole amare e lo salva nel modo che lui sa.
In fondo, il nome di Elia è la sintesi di quanto andiamo dicendo: «Il mio Dio è JHWH», il mio Dio non me lo sono immaginato io, non me lo sono costruito, magari con la mia ragione, con la mia filosofia, con la mia concettualizzazione; JHWH è lui, l'imprevedibile, il Dio che mi coinvolge, che mi attrae.
Ai nostri giorni vi sono molte forme di superstizione che ricordano quelle del passato; tanta gente usa i talismani, gli amuleti, la divinazione, le carte, gli oroscopi. Ma possiamo affermare che nel nostro mondo occidentale l'idolatria non ha nulla a che fare con l'antica idolatria.
Molti hanno una certa idea di un Essere superiore, e non sono così numerosi come si potrebbe credere gli atei convinti, razionali. Anche le statistiche religiose riferiscono che persone non credenti nel Dio della Chiesa cattolica sono pensose sul tema dell' aldilà.
Tuttavia pochi, forse, pur tra i battezzati, sono giunti alla conoscenza del Dio vivo, così come ce la presenta la Scrittura e come ce la presenta Gesù. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese, proprio perché è vivo.
La riprova che non sempre abbiamo la giusta idea di Dio è che talvolta siamo delusi: mi aspettavo questo, mi immaginavo che Dio si comportasse così, e invece mi sono sbagliato. In tal modo ripercorriamo il sentiero dell'idolatria, volendo che il Signore agisca secondo l'immagine che ci siamo fatta di lui.
È soltanto nella rivelazione della Scrittura, che ha il suo culmine in Gesù, che noi possiamo conoscere il Dio vivo, Colui che né la carne né il sangue ci rivelano, né i ragionamenti, né le abitudini, né le deduzioni della nostra mente. Certo, noi possiamo giungere a dire che c'è qualcuno al di là di noi, al di là di tutto, ma non lo riteniamo mai così superiore a noi da poterci «deludere» e sorprendere. Istintivamente lo riduciamo alla nostra misura, mentre l'adorazione del Dio vivo, l'adorazione dello zelo forte, instancabile, ardente fmo alla crudeltà, di Elia è per il Dio a cui nessuno può dire nulla, che è al di là di ogni immagine e pensiero nostro, che si rivela per amore e con amore sconvolge sempre e ancora una volta le idee umane. Tutto il vangelo è una manifestazione della fatica compiuta dagli uomini per accettare il Dio di Gesù, a cominciare dagli apostoli, perché lo attendevano diverso. E quando il Dio di Gesù annuncia che si rivelerà nella croce, si scandalizzano accorgendosi che non è il Dio che pensavano.
Quali sono gli idoli che ci impediscono la conoscenza del Dio vivo? Sono tanti, personali e sociali.
Personali: l'orgoglio, l'ambizione, tutte le pretese che mi porto dentro.
E poi sociali, esterni a me e che tuttavia mi impediscono la conoscenza del Dio vivo: gli idola tribus, gli idola fori, gli idola theatri. Nel linguaggio moderno: la razza, la cultura di una gente, che in parte è un valore e in parte può imprigionare la mentalità mettendo gli uni contro gli altri; la paura di ciò che pensa la gente, dell' opinione pubblica, lo stare sempre soltanto a ciò che è la media del pensiero comune; infine, gli idola theatri, tutto ciò che mi rende schiavo delle attese altrui. Si tratta di piccoli idoli, come quelli che le mogli dei patriarchi si portavano dietro, nascosti, per non perdere del tutto il loro legame col passato. Piccoli idoli sono i legami alle opinioni, alle abitudini degli altri, alle false abitudini della cultura, che alla fine mi tolgono la libertà e la purità del cuore.
L'idolatria nel Nuovo Testamento non è necessariamente adorazione di idoli; è piuttosto l'adorazione del successo, del godimento, del denaro, del potere a ogni costo. Le grandi città moderne sono mosse da questi "dèi". E un atteggiamento speculare all' abbandono di Dio: rifiutare Dio come Signore è in pari tempo riconoscere come signori della propria vita il potere politico, mondano, la ricchezza.
Da una simile idolatria nasce la disumanità, il non commuoversi per le sofferenze dell'altro, l'usare dell'altro, l'opprimere e disprezzare i poveri. Pensiamo a come la gente si sdegna di fronte alla violenza, all' oppressione, all'ingiustizia. Anche la cultura laica coglie nella disumanità il volto più comprensibile del peccato.
Tuttavia la città secolare spesso non si rende conto che il disprezzo del fratello, l'odio per l'altro, hanno come radice l'idolatria, cioè l'adorazione di sé, del proprio progetto, l'adorazione del denaro e del successo.
Se non si comprende che è male la cOlrsa all' autonomia, al piacere sfrenato, alla droga, alla ricchezza, alla carriera, al potere, se non si coglie come, da tutto questo, derivi una tremenda disumanità, non si porrà mai fine all' oppressione e alle sofferenze di milioni e milioni di persone.
Oggi poi c'è un fatto nuovo della sto da umana.
La libertà è un valore assolutamente richiesto dalla dignità della persona umana. La suprema dignità della persona umana è nel suo essere e nella sua vocazione ineliminabile; nasce da uno speciale intervento di Dio, causa prima e principale dell' essere dell'uomo; si manifesta partecipando, in modi differenti e misteriosi, alla sovranità del Creatore sulle cose; si esprime nella propria capacità di relazione, di amore con Dio e con gli altri. Ed è nella libertà che l'uomo può volgersi al bene.
Ma fino a che punto può giungere l'innata libertà del soggetto umano, fino a che punto può esprimersi?
Il fatto nuovo della storia umana è la crescita a dismisura del senso della libertà: libertà dai condizionamenti naturali e biologici, libertà dalle leggi e dalle consuetudini. Mai l'uomo ha avuto tanta libertà, mai è stato più emancipato e disancorato da forme di riferimento che apparivano ovvie, obbliganti, scontate, evidenti. Le norme, le regole, le tradizioni, le convenzioni di riferimento sono attualmente un valore relativo, non un assoluto; valgono nella misura in cui sono contrattabili in virtù di un utile, di un fine; tutto è negoziabile e opinabile, tutto può essere scelto, purché ci sia una ragione contingente.
D'altra parte dobbiamo constatare che, con il crescere tumultuoso del senso prepotente della libertà (che avvince i ragazzi, i giovani, la gente semplice dei paesi e dei luoghi più remoti attraverso i messaggi che giungono soprattutto dalla televisione, tesi a convincere che l'impossibile di oggi sarà possibile domani), la stessa libertà non è mai stata tanto manipolabile. I grandi strumenti del consenso sociale l'addormentano o la guidano mediante la tecnica applicata al controllo della vita delle persone, mediante i mezzi informatici che permettono di seguire la gente anche negli atti più semplici dell'ambito privato. Tale controllo evidenzia come la libertà cui l'uomo è assurto non è mai stata tanto grande e insieme tanto fragile.
Sullo sfondo di questo quadro possiamo vedere le ripercussioni, in un certo senso l'esito di quei rapporti armonici infranti - dell'uomo con Dio, con i fratelli, con la terra - di cui abbiamo letto nei racconti della Genesi.
Idolatria è oggi ogni separazione arbitraria tra libertà e verità per costruire ideali assoluti (o nella linea della libertà o nella linea della verità) a cui sacrificare l'equilibrio delicato dell' esistenza creata. Non bastano ad esempio gli appelli etici per fermare le sperimentazioni nel campo genetico e le pressioni che da molti vengono fatte per la libertà giuridica di uccidere vite umane a partire dalla fase del concepimento fino all' eutanasia o dolce morte. Siamo di fronte a prospettive inquietanti e da affrontare con risposte pertinenti e globali, smascherando le idolatrie che nascondono e lasciando emergere quelle istanze di verità e di responsabilità a cui esse fanno appello.
È quindi urgente e necessario cogliere il fascino ingannatore di questo idolo primario del nostro tempo, che è il culto sovrano della libertà fine a se stessa. Solo l'annuncio del Vangelo va al cuore della libertà e la restituisce alla sua verità e pienezza.
Gesù di fronte al male del mondo
- «Gesù, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: "Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata"» (Luca 19, 41-44).
- C'è un secondo brano di Luca, che riporta una parola pronunciata da Gesù mentre è ancora in viaggio verso la città:
«Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Luca 13,34-35).
I due testi sono strettamente collegati. In ambedue si parla di Gerusalemme e la realtà che in uno è chiaramente espressa con la parola «via della pace» nell' altro è detta metaforicamente: «Quante vo1te ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali». Il cantico di Mosè ha già un'immagine simile: Come un' aquila vola sulla sua nidiata, così il Signore protesse questo suo popolo (cfr. Deuteronomio 32, 1055.).
Sono anche collegati per una sottolinea tura negativa, drammatica: «La via della pace è nascosta. ai tuoi. occhi», dice Gesù in Gerusalemme; «Voi non avete voluto lasciarvi raccogliere sotto le ali», afferma durante il suo cammino verso la città.
E il collegamento lo vediamo pure nell'identica profezia di una rovina della città, espressa più plasticamente al c. 19 - i nemici, le trincee, l'abbattimento di Gerusalemme e dei suoi figli, il non restare pietra su pietra - e in maniera misteriosa al c. 13 - «Non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore» -.
Infine, i due brani sono strettamente collegati perché il «non mi vedrete più fino al tempo in cui direte...» si avvera in parte proprio nel momento in cui Gesù, al c. 19, sta piangendo e la folla grida: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (cfr. v. 38).
- Ci sono altre pagine del Nuovo Testamento che possono essere richiamate. Infatti, la parola minacciosa di Gesù su Gerusalemme ritorna al c. 21 di Luca, dove leggiamo: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta... Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina... sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (Luca 21, 6. 20. 24). Noi sappiamo che tutto questo è storia drammatica, non letteratura.
Il lamento di Gesù ritorna al c. 23, mentre sale al Calvario e alcune donne piangono su di lui: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su di voi e i vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato...» (Luca 23, 28 55.).
Vediamo dunque che la tematica del pericolo della città, del rapporto tra il rifiuto della città di accettare la visita e la sua devastazione, ricorre più volte nel vangelo. E tale ripetizione mostra l'importanza attribuita da Gesù, dagli evangelisti, dalla Chiesa primitiva anche, al retto giudizio sui fatti sociali e politici, alla connessione di questi fatti con gli atteggiamenti religiosi e alla comprensione delle conseguenze, spesso drammatiche, di una mancata risposta all' appello di pace alla città.
Il piangere di Gesù non è un gesto consueto, quotidiano, come non lo è generalmente il piangere di un adulto.
Soltanto un'altra volta, al c. 11 del vangelo secondo Giovanni, si dice che Gesù abbia pianto, a proposito di Lazzaro, l'amico morto. Tuttavia, nel testo greco il verbo non è quello che troviamo in Luca, ma significa propriamente: «Versò lacrime».
Nel c. 19 di Luca Gesù «scoppia in pianto», in un pianto dirotto, come la Maddalena che trovandosi di fronte al sepolcro vuoto scoppia in singhiozzi, o come Pietro che accorgendosi di aver rinnegato tre volte il Signore, scoppia in pianto.
Il pianto dì Gesù è un gesto profetico, simile alle grida che i profeti antichi lanciarono al tempo della prima distruzione di Gerusalemme, allungo silenzio di Ezechiele, al pianto del veggente nell' Apocalisse.
Il pianto di Gesù non è un atto che si riferisce semplicemente alla sua psicologia personale, ma ha un significato dì manifestazione di un mistero di Dio. E un atto pubblico perché piange sulla città ed è necessario capire che cosa vuol dire, per un ebreo, Gerusalemme: è la città santa, la città desiderata da lontano nei pellegrinaggi, la città eretta sul monte, costruita come città salda e compatta, la città a cui i profughi giungono dopo tanti sacrifici.
Viene subito in mente il bellissimo Salmo 121:
«Quale gioia, quando mi dissero:
Andremo alla casa del Signore!
E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme...
Là salgono insieme le tribù,
le tribù del Signore,
per lodare il nome del Signore...».
Per entrare nell' animo di Gesù dobbiamo cercare di comprendere quel complesso dì tradizioni, di culture, di storia, di affetti, di rivelazioni, che Gerusalemme significa. Forse potremmo interrogarlo chiedendogli: Perché piangi, Signore? piangi soltanto per la rovina religiosa della città, sulle singole anime che si perdono, oppure piangi sulla città come tale, su questo corpo vivente, organizzato, che ha una storia, un destino, un avvenire, una speranza? Perché piangi, Signore? per i valori religiosi perduti oppure anche per i valori umani, che fanno della città la sua storia, la sua gloria, il suo prestigio, la sua missione?
Credo che Gesù, da buon ebreo, ci risponderebbe che egli fa fatica a distinguere le due cose perché sono una nell'altra; non c'è il corpo senza l'anima, non c'è l'anima senza il corpo, non esiste la sola salvezza spirituale che non sia incarnata in una realtà storica, vissuta,
vivente. Il destino del singolo è strettamente legato al destino del gruppo.
Il pianto dì Gesù, che vede la rovina prossima di Gerusalemme, riguarda tutto l'insieme dei valori che ha, naturalmente, il suo culmine nel tempio e però comprende un'intera organizzazione civile, sociale, culturale, politica, artistica. E questo è tanto vero che i commentatori sono incerti nell'interpretazione della parola parallela a questa dì Luca 19, cioè Luca 13, 35: «Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta!». Alcuni ritengono che la casa è il tempio e si riferiscono alla visione dì Ezechiele che contempla la gloria dì Dio mentre abbandona il tempio dì Gerusalemme (cfr. Ezechiele 11,22-25). Ma è chiaro che, abbandonato il tempio, cade la città e quindi altri commentatori dicono che la casa è la città nel suo insieme, non nel suo aspetto religioso o, comunque, le due realtà sono collegate.
La pace di Gerusalemme è connessa con la fede di Gerusalemme e la pace, nella mentalità ebraica, vuol dire benessere, libertà dai nemici, sicurezza, prosperità, amicizia, pace con Dio, gioia, canti nel tempio, esultanza, battere di tamburi, processioni, ricchezza delle celebrazioni sacre. Questo è l'insieme della pace: contemplare il volto di Dio nella terra dei viventi, avanzare tra i primi verso la casa di Dio (cfr. Salmo 42-43).
Gesù ha veramente desiderato la pace della città e piange perché non può esserle concessa, perché non ha conosciuto la via della pace: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace!» (Luca 19,42). Si suppone qui, ovviamente, un rapporto tra 1'accoglienza della parola del Signore e la pace della città, come viene più chiaramente espresso nell' altro brano: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali» (Luca 13,34). Ci pare di poter intuire un progetto messianico di Gesù, che ha pure una valenza sociale e, a suo modo, politica; non certamente per sostituirsi, per rovesciare le autorità legittime, costituite, bensì per suscitare un raduno di popoli sotto il segno della mitezza, della non violenza, dell' amore mutuo, così da realizzare un nuovo modo di vivere insieme, un nuovo modo di essere città.
Per la Bibbia il progetto «messianico» ha sempre una valenza socio-politica ed esprime quegli atteggiamenti nuovi di un popolo per cui l'aratro e la falce prendano il posto della spada, per cui il fanciullo possa giocare con la vipera, e l'orso pascolare insieme c°tl i buoi, e il leone con la pecora (cfr. Isaia 2; 11,6-8). E l'ideale concreto, non utopico, di un'umanità pacifica, anche se diviene di fatto, quando non è accolto, un ideale conflittuale con l'ordine esistente: «Ma ormai la via della pace è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee. ..».
La non accettazione delle beatitudini della pace e della mitezza porta alla conseguenza opposta: il non lasciarsi «raccogliere» secondo il grande disegno che percorre tutto l' Antico Testamento, secondo la premura di Dio verso il suo popolo.
Gesù tuttavia non abbandona questo ideale, non abbandona la città, anzi vi entra per morirvi. Egli sa che a prezzo della sua vita, della testimonianza del suo amore inerme - rifiutato dalla città - giungerà alla vittoria, anche se il frutto della sua vittoria non verrà raccolto da tutti.
È importante sottolineare soprattutto il fatto che Gesù ci salva, ci fa uscire dal male non mettendoci al riparo da esso, bensì insegnandoci a entrarvi con lui per trarne il bene. Forse occorre un'intera esistenza per imparare questo fondamentale mistero cristiano, perché è totalmente al di là del nostro comune modo di pensare che vorrebbe eliminare il male una volta per sempre, vorrebbe vincerlo come si vincono i nemici in battaglia.
La Chiesa primitiva aveva compreso profondamente tale mistero, lo aveva sperimentato in sé e perciò poteva cantare inni alla gloria di Dio quale espressione di ciò che viveva.
Poiché «Egli ci ha salvati», io posso entrare nel male del mondo e uscirne con la libertà, con la gioia, con la certezza che questo male è stato vinto almeno in me e può essere vinto nella Chiesa; la Chiesa non è una società dove la vittoria sul male è già ottenuta, ma è la comunità di coloro che hanno accettato di entrare con Cristo nella morte per uscirne nella sua risurrezione.
I primi cristiani hanno visto che Gesù non ha cambiato le sorti del mondo; è morto lui stesso ed è risorto, ha vinto il male con il bene.
Di qui il meraviglioso inno di san Paolo nella Lettera ai Filippesi:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti
che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l'ha e
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre»
(2,5-11).
La contemplazione della gloria di Gesù nella sua morte e risurrezione è la sola che ci dona una visione concreta della realtà. Ci insegna che il male esiste ed è inutile fingere di non vederlo, ma che la vera libertà cristiana è chiamata a lottare contro questo male del mondo in e con Gesù, per trame il bene vivendo lo spirito delle Beatitudini evangeliche e il mistero della croce.

 
4.
RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE
Verso la conversione del cuore: il Salmo "Miserere"
Il riconoscimento del proprio peccato segna l'inizio della conversione interiore. L'interiorità, luogo decisivo per l'uomo nel cammino verso la verità, è la capacità di rientrare in se stessi, di comprendere il senso delle azioni compiute e che si compiono, perché soltanto nell'intimo si possono valutare e giudicare.
E l'esperienza attesta che c'è un nesso inscindibile tra la conversione del cuore e la riconciliazione sociale e politica. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni senza conversione del cuore; come pure non c'è conversione del cuore senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.
Il tema è particolarmente importante e per comprenderlo è molto utile riflettere sul Salmo 50 (o 51 secondo l'enumerazione ebraica, che inizia con l'invocazione: "Miserere", abbi pietà. Il Salmo è di una ricchezza inesauribile e attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, contemplato da Gregario Magna; è divenuto segnale di ardente difesa dell'immagine di Dio nelle infuocate, celebri prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d'Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi.
Il "Miserere" è il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti. come Bach, Mozart, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l'hanno ripensato in musica. illustri pittori l'hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il Salmo che ha accompagnato le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita; e appartiene alla storia dell'umanità, non solo alla storia dell'Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell'uomo e nel cuore della storia dell'umanità.
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo mi insegni la sapienza.
Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia;
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.
Nel tuo amore fa' grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto e l'intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare».
La prima parte del Salmo è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all'indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, nell'intimo mi insegni la sapienza.
La seconda parte («Purificami con issòpo...») esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all'imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.
La terza parte («Insegnerò agli erranti...») è il progetto per f avvenire e i verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà, gradirai.
Il punto di partenza
I primi versetti ci introducono con queste parole:
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato».
Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è dunque l'iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
I vocaboli che la traduzione italiana usa per indicare ciò che l'uomo ha fatto - peccato, colpe - non rendono adeguatamente il senso originale. Il testo ebraico, infatti, ha tre parole diverse che andrebbero lette così: «...cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, tirami fuori da ogni mio smarrimento». Tutte parole già impiegate per spiegare in che consistevano gli sbagli raccontati nel libro della Genesi. Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell'uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.
Ai vocaboli che indicano lo sbandamento dell'uomo fanno riscontro tre appellativi divini: «Pietà... misericordia... amore». C'è il peccato dell'uomo - pur se declinato con termini diversi - e ci sono tre attributi di Dio. Questo mette in luce che l'insistenza non è sull'uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi tutti siamo, ma è sull'infinità di Dio.
«Pietà di me, o Dio»; in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, o Dio». Si chiede a Dio che sia per noi grazia, che premia interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà. E l'esperienza di Maria di Nazaret che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai riempito della tua grazia»(cfr. Luca I) 48).
Dio è l'essenza della gratuità e quando diciamo che Egli non può avere alcun interesse a pensare a noi, a occuparsi di noi, riveliamo di avere un'idea falsa di Dio. Dio gode l1el poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso; vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.
«Secondo la tua misericordia». È interessante osservare che l'espressione è appunto: secondo la tua misericordia, non "nella tua misericordia" o "perché sei misericordioso". Il salmista indica la proporzione infinita della misericordia divina, che l'uomo intuisce senza comprenderla. In ebraico il termine è hésed, e ha una lunga storia ricca di significato: è l'atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell' attenzione e nell'amore. Si potrebbe tradurre con "gentilezza", nel senso di tenerezza che non si smentisce, che non svanisce mai. Noi traduciamo hésed con misericordia perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, e forse pensiamo che Dio ha ragione a non ricordarsi di noi.
«Nel tuo grande amore». In çbraico si dice rahammìm, cioè "il cuore, le viscere". E un vocabolo profondamente materno che designa la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria. Questo attributo di Dio può essere un poco capito da chi ha amato un'altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: «secondo la tua grande passione per l'uomo, abbi misericordia, o Dio».
I tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50 che è un inno a incontrare Dio così com' è; ci invita anzitutto ad avere una giusta idea del volto di Dio.
Il riconoscimento di una situazione
«Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato;
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto.
 ...Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo mi insegni la sapienza».
Dopo aver considerato i tre attributi di Dio, ci fermiamo sui tre soggetti che vengono presentati in azione.
Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l'io. lo riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.
Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l'uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.
Il terzo soggetto dell' azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu.
C'è quindi l'io che riconosce, c'è una determinazione generale della situazione di colpa, c'è il Tu che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu nell'intimo mi insegni la sapienza.
Nel testo ebraico l'espressione «Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell'oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l'uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.
«Tu mi insegni sapienza nel segreto». La sapienza è una delle realtà più alte e più profonde dell' Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.
Ecco la chiave della prima parte del Salmo; Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell'oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato a essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia.
La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell'anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all'autenticità di quello che veramente sono.
Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano poco sopra: «Contro di te, contro te solo ho peccato». Ho fatto ciò che non va davanti a te.
A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l'emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore.
Eppure l'insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conoscèva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che glielo rinfaccia.
Tuttavia, quando gli vengono apertamente dichiarati gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.
Peccando contro l'amico con il tradimento, con l'infedeltà e con l'adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua.
Ricordiamo che il re Davide era un uomo profondamente buono, incapace di voler male ai nemici; era profondamente leale, anzi la sua integrità e la sua lealtà sono rimaste proverbiali nella storia di Israele. Al momento del suo incontro con Betsabea, moglie di Urla, era un uomo maturo, non privo di esperienze affettive e, a questo punto della sua vita, aveva già avuto quello che voleva, conosceva i suoi limiti, la debolezza umana. Tuttavia, attraverso una serie di piccole circostanze insignificanti, l'eroe Davide diventa sleale, infedele, traditore. E nel secondo Libro di Samuele, alla fine del capitolo Il, uno dei capolavori della letteratura, leggiamo la seguente affermazione:
«Ma l'azione che Davide aveva commesso dispiacque al Signore» (v. 27). Allora Dio incarica il profeta Natan di andare da Davide e di raccontargli la storia di due uomini, uno ricco e l'altro povero. Questa parabola a poco a poco ricostruisce la verità in Davide che confessa: «Ho peccato contro il Signore».
«Contro di te, contro te solo ho peccato». L'espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Luca 15, 11-32).
L'uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l'immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.
Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro a ogni uomo, a ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell'uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità.
Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato». La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell'uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente di colpa.
Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori.
Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l'esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l'analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l'uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell'uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.
Come è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti» giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito» dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l'uomo totalmente diverso: «Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!»; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un esistenza nuova.
Il dolore dei peccati
Il dolore dei peccati è espresso nel v. 6b: «Sei giusto quando parli, / retto nel tuo giudizio».
La parola «dolore» può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione.
Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolore nel corpo, malgrado non lo voglia.
Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierci il sonno.
Che cos'è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?
Parto da qualche riflessione generale.
Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire.
Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.
Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l'ho fatto e non l'approvo.
Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.
Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C'è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se siamo portati ad accusare gli altri e a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.
E d'altra parte è vero che il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra.
Più di frequente il pentimento è bloccato pèrché non siamo per nulla convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero. In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi, che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?
È chiaro che il cammino da compiere è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi a una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.
Torniamo al versetto 6b del Salmo:
«Sei giusto quando parli, / retto nel tuo giudizio».
Noi lo interpretiamo spontaneamente mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Urìa, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio:
Tu sei retto quando giudichi.
Questa interpretazione non è cogente. Essa pone DIO come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello.
La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda.
Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono.
Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.
È
propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell'uomo: l'uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano des1ra della sua fiducia.
Se noi chiediamo in che maniera l'offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell'Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce parte lesa e inizia la sua azione contro l'oppressore con queste parole: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infa1ti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Esodo 3, 7-8).
Ci risponderà ancora il vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico... non l'avete fatto a me» (cfr. Matteo 25,31-46).
C'è un brano del vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l'esperienza del dolore del peccato che abbiamo colto nelle parole di Davide.
È l'episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: «In quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito, pianse amaramente» (Luca 22,54-62).
Perché Pietro scoppia in pianto?
Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po' annebbiata, di avere fatto un cosa sbagliata, di essersi disonorato, di avere tradito un amico.
Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest'uomo e lui va a morire per me!
È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l'ha demeritata, che fa scattare il contrasto.
Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall'incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l'uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.
La rivelazione della colpevolezza del cristiano viene dall'incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l'infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso.
Penso che la riflessione su alcuni versetti del "Miserere" sia sufficiente anche per comprendere la seconda parte del Salmo, quella della supplica, del grido che sale dal cuore, e la terza parte che descrive i propositi, il progetto per l'avvenire.
La gioia del sacramento della Riconciliazione
Per riconoscersi peccatori davanti a Dio e per ottenere il suo perdono è previsto, nella Chiesa, il sacramento della Confessione o Riconciliazione. La pratica di questo sacramento, che fa tanto problema all'uomo contemporaneo e agli stessi cristiani, ci immette in un rapporto personale con Dio Padre che colma di gioia e apre in noi la forza del perdono.
Se non lo viviamo così diventa un peso, una formalità, da adempiere per eliminare certe macchie di cui abbiamo un po' disagio, disgusto, vergogna; diventa semplicemente la ricerca di una migliore coscienza. Anche allora il sacramento fa del bene, ma a poco a poco ce ne allontaniamo avvertendo che è triste, faticoso, pesante.
In realtà è un incontro gioioso con Dio, è un ripetere come ha esclamato Giovanni sulla barca in mezzo al lago: «È il Signore!» (Giovanni 21) 7).
«È il Signore!», e tutto è cambiato. «È il Signore!» e tutto di nuovo risplende. «È il Signore!» e tutto di nuovo ha senso nella vita: è una ricostituzione del significato di ogni pezzo della mia esistenza.
Quindi va vissuto con serenità e gioia; la stessa penitenza, la purificazione, l'espiazione diventano apertura a un rapporto.
Come vivere questo sacramento quale momento di un cammino in cui cerchiamo di capire chi siamo, cosa siamo chiamati a essere, in che cosa abbiamo sbagliato, che cosa avremmo voluto non essere, che cosa chiediamo a Dio?
Suggerirei di viverlo come un colloquio penitenziale.
Il colloquio penitenziale è la confessione ordinaria, con la differenza, però, che le stesse cose cerchiamo di distenderle un poco di più.
Il colloquio si può descrivere secondo tre momenti fondamentali. Infatti, la parola latina "confessio" non significa solo andarsi a confessare, ma significa pure lodare, riconoscere, proclamare.
Confessione di lode
Il primo momento lo chiamo "confessio laudis", cioè confessione di lode.
Invece di cominciare la confessione dicendo "ho peccato così e così", si può dire: "Signore, ti ringrazio", ed esprimere davanti a Dio i fatti, ciò per cui gli sono grato.
Abbiamo troppo poco stima di noi stessi. Se provate a pensare vedrete quante cose impensate saltano fuori, perché la nostra vita è piena di doni. E questo allarga l'anima al vero rapporto personale.
Non sono più io che vado, quasi di nascosto, a esprimere qualche peccato per farlo cancellare, ma sono io che mi metto davanti a Dio, Padre della mia vita, e dico per esempio: "Ti ringrazio perché in questo mese tu mi hai riconciliato con una persona con cui mi trovavo male. Ti ringrazio perché mi hai fatto capire cosa devo fare, ti ringrazio perché mi hai dato la salute, ti ringrazio perché mi hai permesso di capire meglio in questi giorni la preghiera come valore importante per me .
Dobbiamo esprimere una o due cose per le quali sentiamo davvero di ringraziare il Signore.
Quindi il primo momento è una confessione di lode.
Confessione di vita
Segue quella che chiamo "confessio vitae".
In questo senso: non elenco semplicemente dei peccati, bensì pongo la domanda fondamentale: "Dall'ultima confessione, che cosa nella mia vita in genere vorrei che non ci fosse stato, che cosa vorrei non aver fatto, che cosa mi dà disagio, che cosa mi pesa?".
Allora entra molto di noi stessi. La vita, non solo nei suoi peccati formali, "ho fatto questo, mi comporto male...", ma più ancora l'andare alle radici di ciò che vorrei che non fosse.
"Signore, sento in me delle antipatie invincibili... che poi sono causa di malumore, di maldicenze, di dispetti. Vorrei essere guarito da te. Signore, sento in me ogni tanto delle tentazioni che mi trascinano; vorrei essere guarito dalle forze di queste tentazioni. Signore, sento in me disgusto per le cose che faccio, sento in me pigrizia, malumore, disamore alla preghiera; sento in me dubbi che mi preoccupano...".
Se noi riusciamo nella confessione di vita a esprimere alcuni dei più profondi sentimenti, emozioni che ci pesano e non vorremmo che fossero, troviamo anche le radici delle nostre colpe, cioè ci conosciamo per ciò che realmente siamo: un fascio di desideri, un vulcano di emozioni e di sentimenti alcuni dei quali buoni, immensamente buoni... altri così cattivi da non poter non pesare negativamente:. Risentimenti, amarezze, tensioni, gusti morbosi che Don ci piacciono, li mettiamo davanti a Dio, dicendo: "Guarda, sono peccatore, Tu solo mi puoi salvare. Tu solo mi togli i peccati".
Confessione di fede
Il terzo: la confessione della fede, "confessio fidei".
Non serve a molto uno sforzo nostro. Bisogna che il proposito sia unito a un profondo atto di fede nella potenza risanatrice e purificatrice dello Spirito, nella misericordia infinita di Dio.
La confessione non è soltanto deporre L peccati, come si depone una somma su un tavolo. La! confessione è deporre il nostro cuore nel Cuore di Cristo, perché lo cambi con la sua potenza.
La "confessio fidei" è dire al Signore: "Signore, so che sono fragile, so che sono debole, so che posso continuamente cadere, ma Tu per la tua misericordia cura la mia fragilità, custodisci la mia debolezza, dammi di vedere quali sono i propositi che debbo fare per significare la mia buona volontà di piacerti".
Da tale confessione nasce la preghiera di pentimento: "Signore, so che ciò che ho fatto non è soltanto danno a me, ai miei fratelli, alle persone che sono state disgustate, strumentalizzate, ma è anche un'offesa fatta a Te, Padre, che mi hai amato, mi hai chiamato".
È un atto personale: "Padre, riconosco e non vorrei mai averlo fatto... Padre, ho capito che...".
Una confessione così concepita non ci annoia mai, perché è sempre diversa; ogni volta vediamo emergere altre radici negative dal nostro essere: desideri ambigui, intenzioni sbagliate, sentimenti falsi.
Alla luce della potenza pasquale di Cristo ascoltiamo la voce: "Ti sono rimessi i tuoi peccati... pace a voi... pace a questa casa... pace al tuo spirito...".
Nel sacramento della Riconciliazione avviene una vera e propria esperienza pasquale: la capacità di aprire gli occhi e dire: «È il Signore!».
La penitenza
Il sacramento della Riconciliazione prevede il momento cosiddetto della "penitenza" o "soddisfazione". Si tratta di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della conversione.
Devo però ammettere che quando, come confessore, penso alla "penitenza" sento emergere in me qualche disagio, perché mi domando: quale penitenza è veramente adeguata al cammino della persona che ho davanti? Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, di un suo momento di grazia? Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico
Di solito il confessore sfugge a tale difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo.
Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall' abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.
D'altra parte sono convinto che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. E vero che gli è vicina in ogni tappa del sacramento: nell' esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del dolore suggerendo le parole; invitando al proposito con l'esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore.
Nel momento però di suggerire la «penitenza» la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.
Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti degni di penitenza», segno di un cuore che si vuole rinnovare.
Tenendo presente la difficoltà che la «penitenza» pone al sacerdote che amministra il sacramento, vorrei meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Luca 19, 1-10).
Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l'uomo e Gesù: è un racconto storico che sottolinea una realtà permanente. In questo incontro, l'uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne che sono alcune la premessa, e altre la conseguenza della parola di perdono di Gesù.
- L'azione interna di Zaccheo è il suo desiderio di vedere Gesù. Un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare «estatico», che fa uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, a imporgli di fare le cose che sta facendo! E un profondo desiderio che lo muove dal di dentro ed è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un'azione esterna.
- L'azione esterna è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato, si metta a correre per la strada e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario, E una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria.
Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua».
Una parola di familiarità che sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.
- L'azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
- L'azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria. «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. E il frutto di «penitenza» della sua riconciliazione.
Mi colpisce molto la gioia con cui Zaccheo compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi diremmo sconsideratamente, generoso al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l'altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall' amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è il lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione.
Il primo frutto del!' incontro penitenziale è allora la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.
La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuol fare e Gesù l'approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.
Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di «penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). E la sua personale, storica, precisa penitenza. Gesù l'approva e gli dice: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa».
Tornando alla domanda che si pone il confessore sulla «penitenza» da dare, mi sembra che la risposta suggerita dal brano evangelico sia molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare il sacerdote, invertendo le posizioni. Invece di chiedere che cosa deve fare come penitenza, si interroga su quale sia l'opera, il gesto di giustizia, di misericordia che corrisponde al suo cammino.
Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto, suggerire che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito santo di purificazione, invocandolo con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo... non privarmi del tuo santo Spirito, rendimi la gioia di essere salvato...».
Purificazione del cuore e religiosità vera
Tra i tanti possibili, scelgo due testi evangelici, uno di Marco e l'altro di Matteo, che sono esemplari per il cammino verso la purificazione del cuore e verso una vera religiosità.
- Il primo racconta l'episodio di un uomo ricco che si avvicina a Gesù:
«Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a Gesù, gli domandò: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?". Gesù gli rispose: "Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre". Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Marco 10,17-22).
Questo uomo, che da sempre ha adempiuto tutti i comandamenti, avrebbe mai pensato di non avere il cuore puro? Ecco il mistero della pagina evangelica: anche chi osserva i comandamenti, tutti, può non avere il cuore puro.
Egli, pur compiendo la giustizia umana, non sa entrare nel disegno divino che è misericordia, solidarietà(«vendi ciò che hai e da' il denaro ai poveri»), che è speranza in una vita senza fine («così avrai un tesoro nel cielo»), che è conformazione a Gesù («vieni e seguimi»).
Il suo concetto del piano è razionale, è proprio di una religiosità umana buona, che non è ancora la purezza del cuore. Spesso noi ci inganniamo pensando di non avere nulla sulla coscienza mentre non siamo giunti a quella limpidità del cUQre che ci permette di cogliere il piano divino in Gesù Cristo e quindi di scegliere secondo le scelte di Cristo, di prendere delle decisioni, rispetto alla vita della Chiesa, dei singoli, che rispondono allo spirito evangelico di povertà, di misericordia, di solidarietà, di sequela.
Non tutti comprendono questo; infatti gli stessi apostoli si spaventano mostrando la loro fatica a passare dalla giustizia razionale all' accettazione del progetto di Dio su di loro.
«Beati i puri di cuore» perché non avendo legami nascosti, legami inconsci, sono pronti a capire il piano di Dio in Gesù Cristo.
L'uomo ricco credeva di essere disponibile («che cosa devo fare per avere la vita eterna?»), di essere libero, eppure non lo era.
Pensiamo a quante decisioni nella vita religiosa, nella vita sociale e civile, vengono prese senza avere il cuore libero e disponibile, anche se magari si rispettano alcuni diritti immediati e si suppone quindi di non fare nulla di male.
Il segnale indicatore della nostra mancanza di libertà nel cuore è la tristezza, l'amarezza, la pesantezza della vita: «Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto». Capita a tutti di vivere momenti tristi quando vediamo intorno a noi tutto oscuro, tutto negativo, tutto sbagliato, senza sapere il perché.
Prosegue il testo di Marco: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!". I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: "Figlioli, com' è difficile entrare nel regno di Dio! E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio".
Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: "E chi mai si può salvare?". Ma Gesù, guardandoli, disse: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio"» (vv. 23-27).
Gesù dunque insegna che la libertà del cuore è difficile e, accennando alla fiducia che alcuni pongono nel denaro, intende anche parlare di fiducia nel proprio potere, nella propria capacità, nei propri progetti, nella propria responsabilità.
L'espressione «quanto è difficile per i ricchi entrare nel regno dei cieli!» può essere tradotta, per esempio, «quanto è difficile per i politici entrare nel regno dei cieli». Perché il politico è un uomo che ha molto potere, che dispone di molte situazioni, che fa molte scelte e, pur supponendo che voglia essere onesto, si trova legato a tante attese, a tante realtà che lo condizionano.
Le attese della gente, il successo, il bisogno di far carriera, lo vincolano impedendogli la libertà del cuore.
Allargando il discorso, «quanto è difficile per coloro che hanno responsabilità di altri entrare nel regno dei cieli». Quanto è difficile per i Vescovi, per i parroci, che devono rispondere a persone che chiedono, che aspettano, che desiderano, che vogliono; devono rispondere alle attese della stampa, dei fedeli, di coloro che hanno una certa ideologia e di coloro che ne hanno un' altra. La fatica dell' equilibrio è davvero grande; come dice Gesù, la libertà del cuore è cosa molto difficile.
E noi, come gli apostoli, rimaniamo stupefatti: «"E
chi mai si può salvare?". Ma Gesù, guardandoli, disse: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio!"». Significa che la purezza e la libertà del cuore è dono di Dio solo, che non possiamo pretendere di arrivarvi, ed è già tanto se giungiamo a confessare: sono purtroppo condizionato da molte cose e faccio fatica a trovare la via giusta. È una prima intuizione della nostra impurità di cuore e di spirito, e il Signore vuole che la mettiamo a fuoco con serietà, ponendo la nostra fiducia in Dio cui nulla è impossibile.
«Nulla è impossibile a Dio», sono le parole che vengono dette dall'angelo a Maria (Luca 1,37). Questo ci fa pensare che, come Maria non poteva immaginare una concezione verginale senza l'aiuto dall' alto, così noi, analogamente, non possiamo immaginare di essere liberi in mezzo alle responsabilità di questo mondo, senza una forza straordinaria, senza una grazia dello Spirito santo.
- Il secondo brano evangelico sottolinea la differenza tra ipocrisia e religiosità vera:
«In quel tempo Gesù parlò dicendo: "Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? Ebbene, chi giura per r altare giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura
per il tempio e per Colui che l'abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso"» (Matteo 23, 13-22).
Queste parole di Gesù sono tra le più difficili di tutto il vangelo e ci sorprendono tanto sono taglienti, minacciose, sconvolgenti.
Esse ci danno un'immagine della violenza verbale, della forza polemica, della capacità di smascherare l'avversario, con cui Gesù giunge a esprimersi, che è in contrasto con la dolcezza, la delicatezza, la misericordia, la pazienza che ordinariamente troviamo in altre sue parole del vangelo.
D'altra parte, dobbiamo cercare di capire questa pagina a partire dal contesto. L'evangelista Matteo la colloca immediatamente dopo le controversie di Gesù con i suoi avversari, a Gerusalemme: ormai l'opposizione è cresciuta e sta per arrivare alle estreme conseguenze, ormai si sta tramando il tradimento e la morte.
Le controversie erano state provocate da domande poste a Gesù sul tributo a Cesare, sulla risurrezione affermata dai sadducei, sulla legge. Si cercava, in fondo, un modo per circuirlo, per metterlo con le spalle al muro.
Gesù aveva ribattuto con forza e, a questo punto, passa all' attacco. Rivolge cioè una serie di invettive - sono i sette "guai" - contro uomini di Chiesa e di cultura, contro uomini della burocrazia ecclesiastica del suo tempo, e per noi acquistano una forza particolare.
Che cosa viene rimproverato a queste persone? L'ipocrisia, che è il fondamentale ritornello delle parole di Gesù. Al terzo "guai" diventa "guide cieche", ma subito dopo ritorna il termine "ipocriti".
Secondo l'etimologia della parola greca, ipocriti significa attori, gente che recita, che si mette sul viso la maschera.
I predicatori non autentici sono ipocriti perché magari sanno recitare bene riscuotendo l'attenzione di chi ascolta, ma c'è una sostanziale dissonanza tra la vita e le cose che dicono.
Gesù dice che gli ipocriti - i predicatori non autentici - non solo si fanno ridere dietro, ma fanno anche del male: «Chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini», siete talmente preoccupati della vostra recita formalmente esatta da non interessarvi se dalle vostre parole la gente riceve uno stimolo per il cammino verso il Regno, anzi lo impedite, lo chiudete. L'accusa è certamente terribile.
La seconda accusa attacca l'esteriorità: «Percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito». Gesù ci fa comprendere che è possibile un' espressione esterna accurata dei sentimenti religiosi e però collegata con una falsità di vita che si manifesta in un proselitismo affannato, che non ha nulla a che fare con la missionarietà, con la comunicazione della Parola, che non coinvolge nella gioia profonda che si è vissuta. Si cerca il prestigio attraverso l'accrescimento numerico del proprio gruppo. Si tratta quindi di forme di prestigio mondano che si sostituiscono alla predicazione che dona la Parola liberamente e, attraverso il dono, può suscitare il consenso. Forme imperiose, subdole della propaganda, del ricatto morale, spirituale.
La terza invettiva è pure terribile: «Guai a voi guide cieche». Le guide cieche non sanno il cammino, non conoscono il termine del cammino, non hanno la chiarezza della via di Dio. Non sapendo dove si va, si predica a vanvera, confusamente, pur se in maniera gradita, scambiando l'essenziale con l'accessorio, insistendo su precetti periferici e trascurando quelli fondamentali, pervertendo quindi il senso religioso e morale di coloro che ascoltano.
Nel testo viene dato un esempio di questa perversione attraverso le diverse sottigliezze giuridiche che permettono di svicolare dalle promesse fatte, abbandonando persone bisognose, e di sostituirle con opere che soltanto apparentemente sono di misericordia.
È una invettiva senza pietà e senza misericordia, che affonda il coltello nella carne dell'ipocrisia religiosa, morale, della falsa spiritualità.
Leggiamo tuttavia una parola positiva, che attiene al tema della sapienza del cuore, della vera religiosità, nell'affermazione di Gesù riferita ad alcune realtà cultuali e naturali: «Chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita; e chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso».
Tutte le realtà - naturali, storiche, soprannaturali, cultuali e culturali - rivelano il mistero di Dio, e tutte lo nascondono. Nelle parole di Gesù c'è una profonda visione sapienziale.
La vera religiosità sa cogliere, al di sopra di tutto, al di là di tutto, al fondo di tutto, il mistero ineffabile dell'amore di Dio, la dolcissima presenza di un Dio che ci ama e che in tutto ci comprende, ci viene incontro, ci accoglie, ci stimola, ci sorregge, ci consola.
È la sapienza del cuore, che emerge anche nei momenti della più dura polemica di Gesù, perché è una polemica che parte dalla verità, dall' amore, dalla luce di Dio, dalla profonda illuminazione interiore, e riconduce così anche queste pagine alle stesse altezze spirituali di tutte le altre del vangelo.
La forza del perdono
La forza del perdono può essere contemplata in due situazioni descritte, questa volta, nel vangelo secondo Luca: la guarigione del paralitico e la donna che entra nella casa di Simone.
- «Un giorno Gesù sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: "Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi". Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: "Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?". Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: "Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico - esclamò a gran voce rivolto al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: "Oggi abbiamo visto cose prodigiose"» (Luca 5, 17-26).
La situazione è piuttosto strana. Ci sono degli uomini che rischiano il ridicolo: scoperchiano il tetto della casa, calano giù il paralitico, senza sapere se Gesù lo vuole ricevere. Farà o non farà il miracolo? e se il malato tornasse a casa più affranto e più umiliato di prima?
Non è cosa da poco sperare in un miracolo: se non avverrà si copriranno di ridicolo, la gente li prenderà m giro.
Siamo dunque di fronte a un atto di coraggio, a un esempio di non calcolo, a un'iniziativa non pienamente ragionevole nella quale i portatori e il paralitico sono stati trascinati da una fiducia illimitata verso questo Gesù di cui conoscevano poco.
E la conseguenza è che grazie all' atteggiamento di coraggio e di fiducia, la situazione viene completamente rovesciata: i peccati dell'uomo sono perdonati, la sua malattia è guarita.
Gesù appare come colui che perdona e risana; il vangelo, possiamo dire, è forza di perdono e di risanamento per coloro che vi si affidano, che osano un passo coraggioso, che vi si buttano. TI coraggio che le trasformazioni operate da Gesù richiedono, mi colpisce molto perché appartiene proprio alla maturazione dell'uomo che scopre come soltanto in un momento di coraggio, di uscita da sé, riesce a raggiungere ciò che profondamente desidera.
Giorni fa, passeggiando tra le montagne, notavo delle meravigliose cascate dove l'acqua scendeva a picco per decine e centinaia di metri e in alcuni punti spumeggiava. L'immagine della cascata mi è rimasta impressa perché cercavo, contemplando quella scena, di immedesimarmi nell' acqua e dicevo: se avessi paura di buttarmi, che cosa farei? Resterei là, non seguirei questo istinto che l'acqua ha di buttarsi verso il basso, mi fermerei nella paura, non prenderei nessuna iniziativa, non sarei ciò che devo essere.
Sono ciò che devo essere nella misura in cui seguo la tendenza a fidarmi. Da questa tendenza insita nell'uomo ad andare al di là di sé, attraverso un atto di fiducia in altri uomini, nasce la società, nasce l'amicizia, nascono l'amore e la fraternità. Se nessuno mai rischia non nasce niente. È nel fidarsi della parola di Gesù che nasce la possibilità di salvezza.
- «Uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quélla città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.
A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice". Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da dirti". Ed egli:"Maestro, di' pure". " Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?". Simone rispose: "Suppongo quello a cui ha condonato di più". Gli disse Gesù: "Hai giudicato bene". E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai .dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco". Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi peccati". Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: "Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?". Ma egli disse alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va' in pace!"» (Luca 7, 36-50).
La situazione presentata da Luca è ambigua.
C'è un uomo, Simone, che si crede importante, che ha in mano la situazione, e che non ha rischiato niente: ha ricevuto Gesù, ma col minimo della cortesia perché, così, pensa di riuscire a contentare tutti. Ricevendo Gesù si dimostra uomo aperto, capace di affrontare le nuove idee, un uomo che ha una certa intelligenza e una certa apertura di spirito; non rendendogli però tutti gli onori dovuti può sempre dire di averlo tenuto a bada, di averlo sorvegliato per vedere ciò che diceva.
Questo salvarsi con tutti senza impegnarsi, è esattamente l'immagine dell'agire politico che sempre ci minaccia: sì, facciamo una cosa, ma in maniera che nessuno possa criticarci e così navighiamo, con estremo equilibrio, tra due parti, senza comprometterci. E vero che può essere talora necessario, e la necessità della vita lo esige, ma certamente l'uomo che vive così non vive, cioè vive la situazione di Simone il quale prepara un banchetto a Gesù e lascia che l'atmosfera sia tesa, guardinga; Gesù si sente osservato per cui, probabilmente, non parla con molto entusiasmo e con serenità; gli altri si sanno osservati a loro volta e anch'essi azzardano discorsi soltanto generici, che non compromettono nessuno.
Ed ecco entra una donna che rompe tutte le convenzioni creando un enorme disagio: tutti si guardano, girano gli occhi, si fanno cenni, chiedono, si tirano indietro e ciascuno dà all' altro la colpa di averla invitata, ciascuno non vuole ammettere di conoscerla. La donna, intanto, avanza imperterrita e, in un gesto di confessione pubblica, compie verso Gesù quei segni di affetto, di riconoscenza, di venerazione che nessuno aveva saputo compiere.
Questa è la situazione. Nessuno di coloro che sono lì intorno rischia; la donna ha invece rischiato molto: che cosa farà Gesù, di chi prenderà le parti?
Ammiriamo ancora una volta la capacità di Gesù di rovesciare le posizioni: non rimprovera immediatamente, sa bene che in questi momenti cruciali bisogna agire con una certa prudenza e attenzione. Con un' opportuna parabola raccontata a Simone e con una domanda finale, fa riconoscere a Simone stesso che la situazione, nella realtà di Dio e nella realtà anche della sincerità umana, è esattamente l'opposto di quello che sembrava a tutti. L'imbarazzato, l'intruso, colui che non ha saputo agire è Simone; la persona che si è comportata in maniera degna della situazione, vera, reale, umana è la donna: è lei che ha capito, è lei che ha vissuto questa realtà.
Gesù ha condotto la donna al riconoscimento della colpa, alla via della purificazione non attraverso i rimproveri amari che mettono la persona in stato di difesa, ma suscitando in lei il coraggio, l'energia, la libertà di cuore. Tutto questo la rende una perfetta immagine dell'uomo e della donna che percorrono la via della purificazione e ottengono da Dio il perdono in un atto di amore e di trasformazione della loro esistenza.
La parola amore viene messa al centro: «le è molto perdonato perché ha molto amato».
I quattro volti della conversione
Conversione significa molto semplicemente "svolta", cambiamento di rotta, cambiamento di mentalità e di orizzonti. Dal punto di vista della fede, la conversione è un evento fondamentale per l'uomo. Cristiano è chi si converte dagli idoli a Cristo Gesù rivelatore del Padre e vive la sua esistenza in modo nuovo, quel modo nuovo di guardare la realtà tipico di colui che si riconosce peccatore, ma salvato, figlio di Dio, amato e perdonato.
Sarebbe assai interessante riflettere sul posto che la conversione (in ebraico teshuvà) ha nella religione ebraica. I Sapienti insegnavano che la teshuvà è la seconda delle «sette cose» che furono «create prima della creazione del mondo» (b Pesachim 54a).
Noi la consideriamo però nel Nuovo Testamento, dove si presenta con tre caratteristiche:
- la conversione cristiana è interiore;
- la conversione cristiana è sempre attuale, non si compie una volta sola nella vita, ma comporta un cammino lungo, paziente, mai finito;
- la conversione cristiana è discreta, non clamorosa, non spettacolare, perché la si vive nel silenzio e nella quotidianità.
Spesso la gente è invece spinta a cogliere gli aspetti più vistosi della conversione. Ancora oggi esistono gruppi che incitano al fanatismo della conversione; per esempio, le sette operano con la tensione a gesti esteriori clamorosi, e il popolo rimane impressionato da tale meccanismo operativo, che rischia di introdursi anche nella conversione cristiana esigendo gesti o producendo realtà di cammino elitario che solo pochi possono di fatto seguire.
Proprio perché la conversione implica un cammino, ciascuno di noi sperimenta - a partire dalla prima decisione di ritornare a Dio riconoscendo di essersi allontanato da lui e dalla sua Parola - diversi momenti o avvenimenti particolari della vita che costituiscono un ulteriore passo verso una più profonda conoscenza di Dio e del suo mistero, una nuova intuizione della nostra condizione di figli peccatori, salvati, amati e perdonati.
Se poi esaminiamo più da vicino l'evento della conversione, ci accorgiamo come esso comporti vari volti, aspetti che storicamente si presentano talora separati. In questo senso, è possibile parlare di conversione religiosa, di conversione morale, di conversione intellettuale, di conversione mistica.
Vorrei allora richiamare quattro figure di personaggi noti a tutti noi, quattro figure di santi - Agostino, Ignazio di Loyola, Newman, Teresa d'Avila - per cogliere in ciascuno uno di quegli aspetti. Tenendo ovviamente presente che questo aspetto o volto, in loro, non è l'unico. Ogni cristiano, infatti, dopo la prima conversione - quella battesimale o quella della riscoperta del battesimo - dovrebbe giungere gradualmente anche alle altre.
Conversione religiosa
Agostino ci mostra chiaramente il passaggio dalla non conoscenza del Dio della Bibbia alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo.
Egli era molto confuso sull'idea di Dio e pensava addirittura a una duplice divinità, al principio del Bene e del Male. Dunque, prima ancora di una conversione morale e di una conversione mistica, Agostino ebbe una radicale conversione religiosa, grazie al contatto con Cicerone.
La racconta nelle Confessioni, quando parla della sua lettura dell' Ortensio:
«Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a Te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a Te».
Il ritorno, il cambiamento di direzione del cammino, è l'inizio della conversione religiosa.
«Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a T e, pur ignorando cosa volessi fare di me» (III, 4. 7-8).
Era ancora incerto sul futuro, viveva ancora un'esistenza disordinata, però aveva intuito che in ogni caso Dio è tutto, è al di sopra di tutto, che Dio ha il primato.
Se ci domandiamo dove questo è espresso nelle tappe della predicazione evangelica e dei vangeli scritti, rispondiamo che si trova indubbiamente nel libro di Marco: esso proclama la «Buona notizia di Gesù Cristo, figlio di Dio» (I) 1) e chiama l'uomo a una scelta irrevocabile del Padre di Gesù Cristo, di questo Dio di Gesù morto sulla croce.
Il vangelo di Marco rappresenta il livello della conversione religiosa cristiana.
Conversione morale
Ignazio di Loyola ci permette di vedere un secondo volto della conversione. Credeva in Dio, era stato educato alla fede cristiana, si dedicava a qualche pratica religiosa, ma gli piacevano le vanità del mondo e la sua vita era piuttosto disordinata.
Trovandosi infermo a seguito di una ferita alla gamba, si mise a leggere una Vita di Cristo e alcune biografie di santi, che lo posero a confronto con se stesso. Riflettendo seriamente sul suo passato, comprese che pur riconoscendo già il primato di Dio, per essere degno dell' amore di Gesù, morto per salvarci, doveva cambiare modo di comportarsi. Da quel momento incomincia un cammino che lo porterà a essere un vero uomo di Chiesa, profondamente obbediente alla realtà e all'istituzione ecclesiastica.
La sua è una conversione morale anche negli aspetti sociali, perché sfocia nel servizio alla comunità ecclesiale.
A tale aspetto della conversione richiama il vangelo di Matteo rivolto in particolare a quei fedeli che, avendo già accettato Cristo come la pienezza della legge e il predetto dai profeti, devono convertirsi alla Chiesa quale corpo di Cristo, devono accoglierla nella sua disciplina, nelle sue regole, nella sua struttura dogmatica.
Conversione intellettuale
La conversione intellettuale è sottile e difficile da definire. La leggiamo nella figura di Henry Newman.
Egli credeva profondamente in Dio e in Gesù, era moralmente molto retto, di grande austerità e santità di vita. Intellettualmente, però, era molto confuso. Non sapeva quale Chiesa rappresenta veramente la Chiesa istituita da Gesù. Ed è interessante vedere, nella sua autobiografia, la fatica mentale che ha dovuto compiere. Non dunque una fatica morale, e nemmeno religiosa, ma proprio la fatica di cogliere tra i diversi ragionamenti, le diverse argomentazioni, le molteplici teologie e filosofie, quella giusta.
A un certo punto del suo cammino, riflettendo attentamente sulle eresie del IV secolo, su come la Chiesa ave. va superato l'arianesimo e il donatismo, intuì il principio di unità e la centralità di Roma. In proposito, Newman parla di «illuminazione» che cambiò la sua vita.
Si tratta di una conversione intellettuale; tocca, infatti, l'intelligenza che, dopo aver vagato attraverso opinioni e punti di vista confusi, diversi, contraddittori, finalmente trova un principio per il quale riesce a decidersi e a operare, non sotto l'influenza dell' ambiente o del parere degli altri, bensì per una illuminazione chiara e profonda.
Mi preme sottolineare che la conversione intellettuale è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più comodo, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell'influenza dell'ambiente anche buono.
Tuttavia il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segnato da bufere di opinioni contrastanti.
In altre parole, la conversione intellettuale è propria di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a cogliere la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare altri.
L'opera di Luca - vangelo e Atti - rappresenta quello stadio dell'itinerario cristiano in cui una persona, dopo la decisione religiosa di essere tutta del Dio di Gesù Cristo, dopo quella morale di vivere un'esistenza secondo la disciplina e gli insegnamenti della Chiesa, vuole a ogni costo cogliere il cammino cristiano nel mondo, nell'insieme delle filosofie e delle teologie tra loro diverse, con una chiarezza che deriva appunto dall'aver imparato a orientarsi in mezzo a un contesto difficile.
Luca insegna a orientarsi nel mondo pagano, a paragonare le tradizioni religiose pagane con quelle ebraiche, a mantenere la fedeltà al Dio di Israele, al Dio creatore e in Gesù redentore, pur vivendo al di fuori del popolo ebraico. La comunità primitiva si trovava di fronte a gravi problemi intellettuali e teologici; per esempio: bisogna imporre le forme religiose ebraiche, anche disciplinari, ai pagani oppure occorre opera re una nuova sintesi? Il grande merito di Luca consiste nell' aver affrontato in maniera diretta ed esplicita il problema della cultura religiosa, della conversione intellettuale, quindi anche dell' evangelizzazione delle culture.
E la sua opera deve esserci particolarmente cara oggi, dal momento che viviamo in un universo culturale scomposto e confuso. Anche al tempo di Luca erano venute meno le ideologie e si assisteva a una mescolanza di vecchie e di nuove filosofie, di riti che venivano dall'Oriente, di religioni misteriche; la gente era perplessa, inquieta, aveva bisogno di orientamento, di certezze, di imparare a cogliere l'unità del disegno divino.
Vorrei inoltre osservare che la stessa grande teologia di Paolo è uno sviluppo delle intuizioni di Luca. L'Apostolo costruisce una teologia che non si limita a rinnegare gli errori; essa tiene conto dei concetti buoni del rabbinismo sulla giustizia di Dio e delle riflessioni dello gnosticismo sull'unicità del cosmo. Per questo è molto importante leggere il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli nell' approfondimento teologico di Paolo, in particolare nelle Lettere ai Romani, ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi.
Luca è riuscito a operare una sintesi tra visione giudaica del mondo, a partire da Abramo e dalle profezie, e una visione cosmica che poteva anche essere compresa dai pagani, partendo dal Dio creatore e dal primo uomo, considerando quindi tutta la successione dell'umanità chiamata a un unico disegno.
Lasciamoci perciò scuotere dal messaggio lucano verso una conversione intellettuale, nel desiderio di utilizzare la nostra intelligenza per valutare i fenomeni e gli eventi che si verificano intorno a noi, per non esserne emarginati o intimoriti.
Conversione mistica
Il vangelo di Giovanni delinea il quarto volto della conversione cristiana, quella mistica che è bene esemplificata in Teresa d'Avila.
Teresa credeva in Dio, viveva una vita buona, ma lei stessa scrive che il monastero non l'aveva aiutata a compiere veramente un salto di qualità.
Dopo più di vent'anni di «mediocrità» ella entra, per grazia, in quello stato di semplificazione nel quale contempla il Signore presente in lei, in ogni membro del suo Corpo mistico, in ogni persona e in ogni situazione, e contempla tutta la realtà in lui.
La conversione mistica è infatti quella condizione che ci permette di cogliere immediatamente la presenza di Dio ovunque. E lo stadio contemplativo del quarto vangelo, il più consono per chi ha responsabilità di altri.
Il responsabile di Chiesa è l'uomo della sintesi, l'uomo capace di vedere sempre lo Spirito in azione nella storia. Deve saper cogliere l'unità nei frammenti, l'unità nelle disparate attività, e non può fado se non è giunto alla conversione mistica.

 
5.
IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE
Le vie dell'avversario
Tutta la storia del mondo è vista nella Scrittura come una grande lotta, un vero e proprio combattimento spirituale, e lo conferma l'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse:
«Scoppiò una guerra nel cielo; Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli» (12, 7-9).
Possiamo leggere questa lotta come un conflitto di mentalità: Dio al centro oppure l'uomo al centro. Sullo sfondo c'è appunto un avversario che continuamente insidia l'uomo mascherandogli la verità.
Il sostantivo "avversario" traduce il termine ebraico satan; genericamente lo chiamiamo "intelligenza del male", perché il male non è frutto semplicemente di ignoranza, di errori o di trascuratezza. E, piuttosto, opposizione a Dio. E le "vie" dell' avversario sono i mezzi che usa per venire a noi: i suoi disegni, i suoi intenti. Tutto questo non deve sembrare un'idea strana e peregrina. Meditando attentamente la Scrittura ci rendiamo infatti conto che si tratta di un principio importantissimo di interpretazione della realtà.
La molteplicità di nomi che troviamo nella Bibbia indica da una parte la difficoltà di definire tale intelligenza del male e, dall' altra, la multiformità dell'azione dell'avversario.
Un primo nome, a partire dal capitolo 3 della Genesi è il serpente; vuole significare furbizia, capacità di ingannare, di circuire, di accalappiare con ragionamenti speciosi.
Poi il tentatore, colui che cerca di buttare l'uomo nella fossa da cui non riesce più a uscire.
Il nemico, colui che vuole il male dell'uomo, che lo vuole deprimere, umiliare, degradare.
Omicida sin dall'inizio è il nome che Gesù dà all'avversario per sottolineare che si compiace della degradazione umana.
La storia registra esempi terribili di queste forme di crudeltà umana, ma l'uomo non ne sarebbe capace se non fosse istigato da un disegno misterioso.
L’accusatore o il calunniatore, colui che mette sempre in rilievo il male, il negativo, colui che porta alla depressione, all'autoaccusa e all' autolesionismo. E chiaramente l'opposto del «Paraclito» che difende, consola, dà coraggio, fa vedere la mèta, suggerisce le possibilità che l'uomo ha con la grazia. Con questa denominazione di «accusatore» si intende tutta la realtà interiore negativa che dice all'uomo: non ce la farai, non ci arriverai, hai sbagliato strada.
Il divisore, colui che mette divisioni tra le persone, che provoca malintesi. Succedono malintesi a partire da una semplice anfibologia verbale, che possono giungere a lotte di famiglie e di gruppi.
Il mentitore, colui che dice menzogne in maniera così astuta da renderle credibili. A volte capita di sentire calunnie o di vedere espressioni della menzogna umana tali da farci pensare che è all' opera una forza diabolica.
In tutte queste realtà non è necessariamente implicato personalmente satana: ci troviamo però davanti (ecco l'analogia biblica) a quella complessa sfera del male di cui satana è il responsabile.
Le vie del male, quindi, rappresentano la molteplicità di atteggiamenti che intendono disprezzare l'uomo, deprimerlo, degradarlo, scoraggiarlo, traducendosi poi in teorie di scetticismo, di nichilismo, di indifferentismo che arrivano anche a godere del male altrui. I diversi nomi con cui la Scrittura denuncia la presenza dell' avversario, si concretizzano in delitti, suicidi, in forme di gravi vizi e di mutua soppressione e opposizione tra persone.
Le intenzioni dell'avversario
Ci sono alcuni brani degli Atti degli Apostoli che permettono di comprendere ancora meglio l'intento dell'avversario nei confronti di Dio e del cammino dell'uomo verso la Verità.
- Anzitutto consideriamo la requisitoria di Pietro contro Anania:
«Anania, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno?» (Atti 5,3). Notiamo le due frasi in parallelo: «satana si è impossessato del tuo cuore» e «hai mentito allo Spirito santo». Pare che Pietro voglia dire che l'uomo è incapace di mentire allo Spirito santo se non c'è qualcosa che lo stravolge interiormente.
Il testo greco ha un' espressione più pregnante: «Perché ha riempito satana il tuo cuore?». E la parola che viene usata per indicare la pienezza di grazia: come il dono di Dio riempie il cuore e lo fa traboccare di gioia, di entusiasmo, di creatività, di voglia di donarsi, così l'avversario tende a riempire il cuore di amarezza, di paura, di calcolo, di disgusto e di continuate menzogne.
Si svela così l'intenzione dell'avversario: impadronirsi del cuore prima che delle azioni. Gesù ha insegnato che: «dal cuore nascono le azioni cattive» (Marco 7, 22 ss.), come dal cuore nasce l'amore, la bontà, la dedizione. Satana ha di mira il cuore e nessun cuore umano è esente dal suo attacco. Ciascuno di noi sperimenta attacchi di amarezza, di scetticismo, di disgusto, che si aggiornano e diventano a livello e a misura della realtà che stiamo vivendo. Non c'è un tempo nella nostra vita in cui possiamo sentirci fuori dal pericolo dell'avversario: per questo la parola evangelica insiste sulla vigilanza continua.
Una seconda osservazione. L'espressione di Pietro: «ha riempito satana il tuo cuore» ricorda da vicino la descrizione del tradimento di Giuda: «Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo...» (Giovanni 13) 2).
Questa lettura appare strettamente parallela alla nostra e sembra dire: come poteva Giuda tradire Gesù se non vi fosse stata una forza dell' avversario?
In realtà, il brano di Giovanni è più complesso e quella traduzione tiene conto di una tradizione testuale che non è delle più antiche. I codici più antichi (Sinaitico, Vaticano e la stessa Volgata) hanno: «quando già il diavolo aveva messo nel suo cuore» (nel proprio cuore) «che Giuda Iscariota lo tradisse».
È molto interessante perché ci rivela un altro aspetto dell'avversario e lo pone in antitesi con Gesù. Gesù, per così dire, si è già messo nel cuore che deve passare al Padre e vuole amare i suoi sino alla fine. Satana ha messo nel proprio cuore un'altra cosa: che Giuda deve tradire Gesù. Ha visto che Giuda è il più debole, che è un po' amareggiato e scontento, che è al limite della definitiva rottura, che ha fatto dei passi in questa linea e allora si impegna contro di lui.
La lavanda dei piedi diventa così la lotta tra Gesù e satana per salvare Giuda: Gesù compie un gesto di umiltà per riuscire a smuovere l'animo di Giuda che sta per essere invaso dalla tentazione satanica del tradimento. Gesù lotta per l'uomo: lotta per Giuda, non soltanto per Pietro e per gli altri discepoli. Vuol far vedere a Giuda, con un gesto simbolico, che lo ama fino in fondo, che vuole morire per lui, che lo stima, che gli è vicino, che gli è sottomesso quasi come servo. Cerca di conquistarne il cuore, di strapparlo alla forza dell' avversano.
In questa interpretazione leggiamo meglio lo stile drammatico, contrappositivo dell' esperienza cristiana secondo il Nuovo Testamento: la lotta tra Cristo e satana, la lotta tra la luce e le tenebre per il cuore dell'uomo.
- La requisitoria di Paolo, chiamato qui ancora Saulo, contro il mago Elimas che cerca di distogliere il proconsole dalla fede, facendo cioè un'azione tipicamente diabolica. E la via dell'avversario contro la via di Dio.
«Allora Saulo, detto anche Paolo» (nel momento in cui assume la sua funzione profetica contro l'avversario comincia a essere chiamato Paolo), «pieno di Spirito santo» (che gli colma il cuore di consolazione e lo illumina di chiarezza sui disegni di Dio), «fissò gli occhi su di lui e disse: "Uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore?"»(Atti 13) 9-10).
La potente invettiva di Paolo ci dà il vocabolario dell'avversario e delle sue intenzioni. Soprattutto interessante è l'espressione: «sconvolgere le vie diritte del Signore». Il Signore ha delle vie per le quali Egli vuole venire all'uomo e che l'uomo venga a Lui. C'è però qualcuno, ci sono delle forze, delle realtà che poi diventano situazioni, persone, gruppi, culture e mentalità, che cercano di sconvolgere le vie del Signore.
È necessario - come dicevo – comprendere bene le analogie bibliche e tutto il tema dell' avversario nella Scrittura. A noi spesso capita di demonizzare subito le persone, le istituzioni o i gruppi. E un errore di fondo che conduce praticamente alla caricatura del discorso sul demonio e alla derisione di un tale modo di interpretare le cose.
La Bibbia, invece, con la sua comprensione dell'uomo, sa che non si tratta di personificare satana in gruppi o istituzioni: ordinariamente è la realtà del male che invade i cuori degli uomini e si manifesta or qui or là, senza che noi possiamo con certezza identificarla.
Se imparassimo ad attenerci alla delicatezza, alla ricchezza, alla molteplicità analogica della Scrittura, comprenderemmo gli atteggiamenti e le situazioni, talora personali, da cui traspare malignità, invidia, gusto del male altrui che superano la media dell'umana debolèzza mostrando così che il male del mondo è all' opera con intelligenza implacabile.
- Un altro passo degli Atti, dove non si nomina direttamente satana ma è richiamata la sua realtà, è il racconto di Simon mago. Pietro e Giovanni sono andati in Samaria e, con l'imposizione delle mani, hanno effuso lo Spirito santo. Allora: «Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l'imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro, dicendo: "Date anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito santo"» (8, 18-19).
Siamo di fronte a una forma di agire che tocca gravemente la sostanza del Vangelo ed è perciò segno della presenza di una intelligenza del male. È interessante fare un paragone tra il potere che Simon mago desidera avere e il potere che satana offre a Gesù: «Ti darò tutto questo potere» (exusia) «e la gloria di questi regni perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio»(Luca 4) 6). Satana rivendica per sé la «exusia», la conquista di potere sulle cose e sulle persone. Simone chiede un potere assoluto che supera il potere di singoli uomini: il potere di disporre dello Spirito santo. Si tratta dello stesso contesto di prevaricazione. «Ma Pietro rispose: "Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare ,di acquistare con denaro il dono di Dio. Non v' è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Pèntiti dunque di questa tua iniquità e prega il Signore che ti sia perdonato questo pensiero. Ti vedo, infatti, chiuso in fiele amaro e in lacci d'iniquità» (Atti 8, 20-23).
L'atmosfera è descritta molto bene: Simone si sente rivelare il suo stato interiore di amarezza, di chiusura, di gusto morboso del potere che lo blocca e lo chiude nella sua personalità e c'è come una lotta per strappare questo uomo dalla realtà del male che sta per conquistarlo definitivamente.
«Rispose Simone: "Pregate voi per me il Signore, perché non mi accada nulla di ciò che avete detto"» (v. 24).
Mentre Giuda se ne va con il suo boccone amaro, Simone ha la forza di chiedere preghiere, riconoscendo di essere entrato, al di là forse delle sue stesse intenzioni immediate, in una situazione che sta per travolgerlo. Voleva avere successo, prestigio e invece è entrato a turbare direttamente l'opera di Dio.
Concludendo: il cammino del Vangelo è una lotta di natura sua contrastata. Contrastata nel cuore dell'uomo e contrastata da tutto ciò che come sviluppo storico e mondano delle vie dell' avversario, diventa, secondo le parole di Giovanni, il dominio del mondo, della carne, della concupiscenza. La crescita del Vangelo comporta una lotta alterna in cui bisogna stare sempre all'erta per superare un avversario più forte e più intelligente di noi; perciò è necessario affidarsi alla potenza e alla forza dello Spirito.
Spesso i nostri programmi, le nostre analisi, i nostri risultati non tengono conto dell' opposizione che lavora nel cuore di ogni uomo, a partire dal nostro. Ci muoviamo come se si trattasse di diffondere una dottrina, una conoscenza, un sapere di cui conta soprattutto l'accortezza, la preparazione, la molteplicità dei mezzi, la vastità della risonanza, senza tener conto della lotta corpo a corpo che esige il pagare di persona. La Chiesa, invece, si sente pienamente se stessa quando lotta, soffre e paga di persona: per questo la sua sofferenza è luminosa e splendente.
Due esempi dell'azione dell'avversario nel mondo
- Oggi più che in altri tempi l'umanità comprende che senza una certa unità non può sopravvivere e gli stessi problemi gravi della fame, del sottosviluppo, delle guerre sono segni di un'interdipendenza economica, sociale, culturale, politica. Essa spinge alla comunione tra gli uomini, tra i popoli, evidenzia l'obbligo di fare unità.
Un altro segno di tale tensione inerente alla storia è costituito dai giovani che sentono profondamente l'esigenza di superare ogni barriera, di abbattere le divisioni dovute alle differenze di razza, lingua, cultura e vogliono trovarsi ovunque a loro agio.
Oso dire che l'unità storica verso cui l'umanità va irresistibilmente, pur tra le molteplici agonie e con alterne vicende, è l'ombra, il riverbero della celeste Gerusalemme in questo mondo. Unità da costruire su tutti i terreni come vera missione dell'uomo, perché ha relazione con la realtà eterna della celeste Gerusalemme, da costruire nella forza della carità che unifica il mondo.
Qui, unità come ansia del genere umano e carità come gemito dello Spirito nei cuori si fondono, anche senza identificarsi: tutto ciò che si opera a livello civile e sociale in favore dell'unità viene svelato, purificato e sostenuto, nelle sue tensioni più profonde, a livello della carità che è la forza unitiva dell'umanità.
Tuttavia constatiamo che l'unità, quale ansia del genere umano, è conflittuale, continuamente attaccata, messa in pericolo, è instabile, fragile, sottoposta a prove drammatiche. Non procede tranquillamente e necessariamente, ma corre il rischio della confusione totale e occorre molta fatica per vederla. Ci vuole appunto uno spirito sostenuto dalla fede per coglierla con chiarezza nelle divisioni umane.
Credo dunque che le forze avverse all'unità abbiano la loro spiegazione nell'azione del maligno, di colui che tende a dividere. Non è utile nominare tanto spesso il diavolo, perché il fraintendimento può essere tale da non permettere di cogliere davvero ciò che si vuole di re; ritengo però che la realtà drammatica dell' opposizione all'unità della famiglia umana, e le sue manifestazioni - violenze, soprusi, sfruttamenti, genocidi -, vada indubbiamente compresa come una componente spirituale della storia. In caso contrario non si riuscirebbe assolutamente a spiegare come mai il mondo tende all'unità e intanto viene sempre ributtato nella divisione.
Dobbiamo avere la consapevolezza che le due realtà convivono: bisogno di unità e continui tradimenti di essa. Cogliendo infatti l'intelligenza del male che cerca di separare e dividere, possiamo meglio comprendere di vivere in una permanente conflittualità sapendo che proprio in questa lotta si gioca la fede. Di qui la necessità di discernere le forze unitive e pacificanti che lavorano per l'unità della storia a livello sociale, culturale, politico, ecclesiale, religioso.
La croce di Cristo, momento culminante della lotta, è il luogo in cui l'unità del genere umano viene realizzata nel momento della massima disgregazione e oscurità. La Croce è il punto più significativo del cammino verso l'unità e della drammatica opposizione dove la rabbia disgregatrice e divisiva si scatena contro ogni tentativo di reale unità dei cuori e delle vite. Questa è la città umana, questo il senso dell' esistenza affermato dal cristianesimo. Cercando, al di fuori del mistero della Croce, la purificazione e il raggiungimento della pace propria e con gli altri, nell'ambito di un'inesorabile conflittualità, non si può giungere a una vera comprensione della storia.
- Un secondo esempio lo vediamo nell'incapacità umana a comunicare.
L'uomo è fatto per comunicare e per amare, secondo il disegno creativo di Dio. E ciascuno di noi vive l'immensa nostalgia di poter comunicare a fondo e autenticamente; nessuna persona umana sfugge a questo intimo desiderio che penetra in tutte le nostre relazioni, rimane anche là dove tutto il resto sembra depravato e corrotto. Persino negli abissi della più cupa disperazione e disgusto di sé affiora, come una stella alpina sull'abisso, la voglia comunque di comunicare davvero con qualcuno, di trovare una persona che in qualche modo ci capisca e ci accetti. Questo stigma che portiamo dentro per sempre è un riflesso di Colui che ci ha creati e insieme testimonia le storture che noi abbiamo imposto a tale desiderio, a tale diritto sano.
Il racconto della discesa dello Spirito santo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste e della conseguente loro capacità di esprimersi e di farsi capire in tutte le lingue (cfr. Atti 2) 1-47) è una delle icone più efficaci del dono del comunicare che Dio ci elargisce. Lo Spirito suscita una straordinaria capacità comunicativa, riapre i canali di comunicazione interrotti a Babele e restituisce la possibilità di un rapporto facile e autentico tra gli uomini nel nome di Gesù Cristo crocifisso é risorto. Suscita la Chiesa come segno e strumento della comunione degli uomini con Dio e dell'unità del genere umano.
Ma il dono della comunicazione può essere rifiutato e uno dei motivi che determina questo rifiuto è certamente quello della mancanza di fiducia nella gratuità e sincerità dell' atto comunicativo. Ancora una volta, alla radice del rifiuto c'è l'avversario, il satana che aveva già inculcato il sospetto nel giardino dell'Eden. Aveva infatti detto a Eva: Ma è proprio vero che Dio vi ha comandato di non mangiare da nessun albero del giardino? (cfr. Genesi 3) 1). La frase del tentatore, nella sua paradossalità(come è possibile che Dio abbia proibito ogni frutto?), ha un sottinteso: ci sarà pure una ragione di convenienza personale per cui Dio vi ha proibito almeno uno dei frutti... forse il suo agire non è disinteressato!
È un sospetto, una tentazione che continua ogni giorno nella storia e pervade ogni ambito; si stroncano le amicizie, si separano le famiglie, si rompono i contatti, si violano i patti sacri tra le Nazioni, ci si divide, viene falsata la comunicazione sociale, sono drogate o esagerate le notizie. La comunicazione sbagliata, imperfetta, fuorviante, ha alla base blocchi e rotture comunicative tra le persone e i gruppi: la colpa non è dei mass media in quanto tali.
Di conseguenza occorre in primo luogo risanare i canali comunicativi interpersonali, di gruppo e sociali. La via del risanamento è la via indicataci da Gesù: riconoscere nel suo volto e nelle sue parole l'autocomunicazione di Dio all'uomo. Tutto il mistero creativo e redentivo è un grande atto del comunicare divino, che ci manifesta un Dio unico in Tre persone che possono essere anche designate come Silenzio fecondo da cui nasce la Parola mediante la quale si realizza l'Incontro. Se vogliamo imparare a comunicare, dobbiamo contemplare la Croce, lasciarci folgorare dal Figlio crocifisso e ciò suppone un combattimento spirituale, una vita di fede seria e matura.
La vita di Gesù come tentazione e lotta
Tutta la vita di Gesù è stata una formidabile lotta, una presa di posizione decisa nel grande combattimento contro l'avversario.
Gesù tentato nel deserto
Gli evangelisti Matteo, Marco e Luca descrivono anzitutto l'episodio di Gesù tentato nel deserto.
«Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. TI tentatore allora gli si accostò e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, di' che questi sassi diventino pane". Ma egli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede". Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo".
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: "Tutte queste cose io ti darò se, prostrandoti, mi adorerai". Ma Gesù gli rispose: "Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto".
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si accostarono e lo servivano» (Matteo 4, 1-11; cfr. Luca 4, 1-13).
La pagina sulle tre tentazioni diaboliche che Gesù ha vinto per noi, per ogni uomo e donna della terra, è densa di significato e su di essa hanno fissato lo sguardo anche gli artisti, i letterati, i poeti. Scrive Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov:
«Se si potesse immaginare, solo a modo di ipotesi, che queste tre domande del terribile spirito fossero cancellate senza traccia dai testi, e che bisognasse escogitarle di nuovo e formularle, per inserirle ancora una volta nella Scrittura, e all'uopo si radunassero tutti i sapienti della terra, sommi sacerdoti, eruditi, filosofi... e si dicesse loro: Escogitate tre domande, ma tali che non solo corrispondano alla grandezza dell' evento, ma esprimano in tre parole, in tre sole frasi umane tutta la storia del mondo e dell'umanità, pensi forse che tutta la sapienza della terra riuscirebbe a escogitare qualcosa di paragonabile, per forza e per profondità, a quelle tre domande che realmente furono proposte, quel giorno, dal possente e penetrante spirito del deserto?... In queste tre domande è come riassunta in blocco e predetta tutta la futura storia umana».
Esse sono infatti un simbolo di tutte le tentazioni umane, delle crisi, delle sofferenze dell'umanità.
Gesù si avvia nel deserto per lasciarsi tentare da satana e inizia un periodo di quaranta giorni di digiuno. Quaranta giorni evocano la marcia eroica, al limite delle forze, estenuante, del popolo di Israele che cammina nel deserto. TI deserto è il luogo della solitudine, dello smarrimento, della fame, ed è pure il luogo del silenzio e della preghiera. Gesù si rifugia nella solitudine e vive il digiuno, la penitenza, l'austerità, la fatica, la preghiera, il silenzio.
Ma il deserto è anche un luogo in cui si compiono delle scelte, perché l'uomo viene posto di fronte alle domande esistenzialmente più drammatiche.
Gesù sta per iniziare la sua vita pubblica e, in occasione di questo lungo ritiro in silenzio e in solitudine vuole decidere il suo programma: non penserà a sé, non si preoccuperà del suo corpo, non approfitterà del suo potere miracoloso, ma sarà il Messia umile, obbediente, ascoltatore della parola di Dio.
Risponde quindi al tentatore in tre modi:
- appoggiandosi alla parola di Dio: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Deuteronomio 8, 3);
- rifiutando la via facile dei miracoli spettacolari ed entrando nella via nascosta e semplice del dovere quotidiano: «Non tentare il Signore Dio tuo» (Deuteronomio 6, 16);
- rifiutando ogni potere terreno, ogni successo mondano, ogni ricchezza, per proclamare il primato assoluto di Dio, primato che è la radice di tutto ciò che è giusto e retto: «Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto» (Deuteronomio 6, 13). La negazione di tale primato è la radice marcia di una cultura incapace di difendere i valori più sostanziali dell' onestà e di promuovere la vita là dove essa è maggiormente minacciata.
Gesù ha vinto per noi scegliendo la via giusta contro le lusinghe e lasciando la via sbagliata. Egli vive nella sua carne le tentazioni, ma per bruciare le eventuali sicurezze provenienti dalle prerogative e dai privilegi che gli potevano essere attribuiti come "Re messianico", da tutte le convenienze che la fama di taumaturgo poteva procurargli.
Il testo di Luca termina così: il diavolo, «dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Luca 4, 13). Gesù è tentato al principio della vita pubblica come profezia di quanto avverrà alla fine, nell'ultima grande tentazione sulla croce. La sua vita si svolge tra due tentazioni, ma è tutta posta sotto il segno della prova.
È pure molto interessante il brevissimo episodio dell'evangelista Marco sulle tentazioni di Gesù nel deserto, un po' diverso dai racconti di Matteo e di Luca:
«Subito dopo, lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano» (Marco 1, 12-13). Due versetti scarni, misteriosi, e tuttavia ricchi di simboli e di allusioni.
Il primo personaggio è Gesù, posto al centro della narrazione; il secondo è lo Spirito che lo sospinge (non solo lo conduce); il terzo è satana; il quarto sono le fiere e il quinto gli angeli.
Dunque, in poche righe vengono descritti il cielo, la terra, l'inferno, ed è raro che nei testi evangelici ci sia una simile ricchezza di personaggi terrestri, infraterrestri, uomini, animali.
Ai cinque personaggi va aggiunto chiunque ascolta queste parole, chiunque le vive, e perciò siamo anche noi personaggi del racconto.
Abbiamo già considerato la circostanza temporale dei quaranta giorni e il luogo dove il fatto avviene, il deserto.
C'è però un'espressione assai significativa: Subito dopo. Marco usa spesso questo avverbio: «Subito dopo, uscendo dall'acqua, Gesù vide aprirsi i cieli» (1,10); Simone e Andrea, chiamati da Gesù «subito, lasciate le reti, lo seguirono» (1,16); Gesù vide Giacomo e Giovanni e «subito li chiamò» (1,20); «e subito era nella sinagoga» (1, 23); «e subito, usciti dalla sinagoga, entrarono nella casa di Simone» (1,39).
La versione italiana della Bibbia CEI ha per lo più trascurato tale avverbio, che invece è chiarissimo e puntualissimo nel testo greco. Che cosa significa "subito"? Certamente indica una modalità temporale: immediatamente, senza perdere tempo, senza por tempo in mezzo, repentinamente, in fretta. Ed essendo tanto ripetuta vuole sottolineare pure il modo dell'azione: una successione di azioni rapide compiute da qualcuno che agisce con decisione, con energia, con forza; non azioni fiacche, trascinate, stentate.
Un tale modo di agire è caratteristico delle azioni fatte sotto l'impulso dello Spirito santo, ed è ciò che l'evangelista intende esprimere.
Infatti dice che lo Spirito lo sospinse. L'originale greco ha una parola più pregnante: «Lo Spirito lo gettò fuori nel deserto». Il «gettar fuori», per chi ha familiarità con la Scrittura come l'aveva Marco, ricorda Adamo cacciato dal giardino, buttato fuori nella steppa del luogo incolto. Gesù dunque ripercorre, nella forza dello Spirito, il cammino faticoso dell'umanità per redimerla, per rendersi solidale con l'uomo cacciato dall'Eden, quasi volesse dire all'uomo: lo sono con te, nel luogo della tentazione, della prova, nel luogo del silenzio dove si gusta e si ritrova Dio.
«Stava con le fiere» è un'altra parola misteriosa. Nel contesto della Bibbia sta a significare un armonioso convivere con le forze brute della natura e con gli animali cosiddetti feroci, ossia l'aver riconquistato quell'armonia dell'uomo con la natura che si era perduta con il peccato. Celebre in proposito il brano di Isaia: «Il lupo dimorerà con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto... il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi...» (cfr. Isaia 11, 6 ss.).
Gesù, avendo superata la prova delle tentazioni, ha riconquistato l'armonia, la concordia con tutto quello che, esternamente e interiormente, è distruttivo per l'uomo e fa spavento.
«Gli angeli lo servivano» è l'affermazione che abbiamo già trovato nel racconto parallelo di Matteo (4, 11). È la pienezza di comunicazione tra cielo e terra, in cui al centro c'è Gesù. Scrive l'autore della Lettera agli Ebrei: «Quando Dio introduce il primogenito nel mondo, dice: "Lo adorino tutti gli angeli di Dio"» (1, 6).
Gesù nel deserto viene servito dagli angeli come il Figlio, il primogenito; colui che si è umiliato sotto la tentazione è riconosciuto Figlio di Dio, entra in armonia con il cosmo e per questo gli angeli lo servono.
Qui Gesù è simbolo di ogni uomo che, avendo attraversato il crogiolo della prova, è riconosciuto figlio e riacquista il dominio di sé, delle forze oscure della natura e delle forze oscure della propria psiche, delle forze distruttive che si agitano in lui, e convive armoniosamente con esse, in familiarità con Dio, con gli altri uomini, con gli angeli.
Le tentazioni di Gesù sulla croce
L'ultima grande prova di Gesù ci aiuterà ancora meglio a capire la prima.
Gesù è sulla croce: «TI popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell' aceto, e dicevano: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". C'era anche una scritta, sopra il suo capo: "Questi è il re dei Giudei". Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!"» (Luca 23,35-39).
Notiamo il ritorno del numero tre: tre le tentazioni nel deserto, all'inizio - ripeto - della vita pubblica di Gesù, e tre le provocazioni che rappresentano la voce di satana, rivolte a Gesù quando ormai sta per morire.
- «Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto"» (v. 35).
- «Se tu sei il re dei Giudei» - gridano i soldati - «salva te stesso» (v. 37).
- E il malfattore: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (v. 39).
È facile intuire l'acutezza, la drammaticità di tali provocazioni. Nel deserto il diavolo aveva cercato di farlo desistere dal suo programma di Figlio obbediente pienamente al Padre; ora viene tentato nella sua stessa missione, nel programma che aveva scelto, viene invitato ad approfittare del suo potere per non morire: Forza, approfitta del tuo potere! Mostra se lo hai davvero, se vuoi che ti crediamo, se vuoi che crediamo al tuo Vangelo, sàlvati!
Gesù è tentato in ciò che più gli sta a cuore, è tentato nella sua opera che consiste nel dare la fede. Se accetta di scendere dalla croce, la gente griderà al miracolo e crederà in Dio!
Terribile questo sospetto che satana vuole insinuare in Gesù.
Ma se scende dalla croce, come mostrerà l'immagine di un Dio che sceglie la morte per amore dell'uomo? Darà, è vero, l'immagine di un Dio potente, un Dio del successo, un Dio di cui ci si può servire per nutrire le proprie ambizioni; tuttavia non rivelerà più l'immagine - inedita in tutta la storia delle religioni e che l'uomo da solo non riuscirà mai a pensare - del Dio che serve, che ama l'uomo fino a spogliarsi di tutto per suo amore e ad accettare l'annientamento di sé.
E Gesù, naturalmente, non scende dalla croce. Così vince, anzi vince fin dal primo momento delle tentazioni nel deserto, quando aveva citato i passi della Scrittura che enunciano l'assoluto primato di Dio e della sua Parola.
Tempo di lotta nello Spirito
Gesù ha vissuto e ha vinto le tentazioni per insegnarci che la vita cristiana è, di per sé, una lotta seria, pericolosa e il suo esito è incerto.
Per questo la Chiesa, durante il tempo liturgico che viene chiamato Quaresima, vuole fare recuperare il senso della vita come difesa dalla tentazione, invitandoci alla vigilanza. Nel Nuovo Testamento ritorna frequentemente l'esortazione: «Siate vigilanti!». Concretamente vigilanza significa sobrietà, astinenza, capacità di rinunciare a quelle cose che rendono ottusi e sordi alla parola di Dio ponendoci in balìa delle tentazioni.
Il periodo della Quaresima, infatti, è tutto teso al mistero centrale della Pasqua, mistero al quale si è stati associati con il Battesimo e che si può penetrare sempre più profondamente mediante la quotidiana conversione.
Le opere suggerite dalla Chiesa per il cammino della Quaresima, le opere che esprimono la vigilanza, lo stare in guardia dal nemico, sono la preghiera, il prolungato ascolto della Parola soprattutto nella liturgia, il silenzio e il raccoglimento, il digiuno e l'ascesi.
Noi percepiamo una certa difficoltà sentendo la parola digiuno, una difficoltà che forse trova un appoggio in un testo del profeta Isaia:
«Non digiunate più come fate, oggi,
così da fare udire in alto il vostro chiasso.
E forse come questo il digiuno che io bramo,
il giorno in cui l'uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene. inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato,
nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?»
(58, 4b-7).
Il profeta avverte che il Signore vuole il digiuno della carità.
Indubbiamente scopo del digiuno è l'amore, la carità verso tutti i fratelli perché carità è la pienezza della vita cristiana e il suo esercizio è un modo splendido di prepararsi alla Pasqua.
Tuttavia il digiuno corporeo, fisico, ha un'importanza reale, pur se subordinata.
Sant'Ambrogio, poco più di 1600 anni fa, scriveva: «Verrà per noi il giorno della festa e già si avvicina (probabilmente si era all'inizio di una Quaresima)... Nostra vittoria è la croce di Cristo, nostro trionfo è la Pasqua del Signore Gesù. Ma Cristo prima ha combattuto per vincere, non perché avesse bisogno di combattere ma per insegnarci il modo di combattere. La nostra lotta è il digiuno. Anche il Salvatore digiunò... e mise innanzi il digiuno per spezzare i lacci del tentatore». E poi continua, esaltando il significato ascetico cristiano del digiuno: «Grande è la forza del digiuno! E una lotta tanto meravigliosa che il digiunare piacque allo stesso Cristo; tanto efficace da innalzare gli uomini fino al cielo... Che cosa è infatti il digiuno se non la sostanza e il ritratto della vita celeste? Il digiuno è ristoro dell' anima, cibo spirituale, vita degli angeli, morte del peccato, annientamento dei delitti,
mezzo
di salvezza, radice della grazia, fondamento della castità» (dal trattato Elia e il digiuno, nn. 1.2.4).Di fronte a questa esortazione noi ci chiediamo: che significato ha esattamente per noi e in che cosa consiste il digiuno quaresimale che siamo chiamati a vivere più intensamente, benché la Chiesa abbia nel nostro tempo ridotto le esigenze rigorose del passato?
Noi già comprendiamo il significato caritativo e sociale del digiuno: dobbiamo digiunare anzitutto per i fratelli che hanno fame, perché, sottraendo qualcosa a noi, si provveda alle tante e gravi necessità di nazioni e popoli in povertà. TI motivo caritativo suscita le grandi collette quaresimali della carità per le missioni, per la fame, per i poveri.
L'aspetto sociale del digiuno ha poi un suo senso di dignità e di misura: in un mondo segnato dalla miseria, non è giusto esagerare nell'uso di cibo e delle comodità. Dobbiamo però recuperare l'utilità del digiuno per noi, l'utilità propriamente ascetica per l'esercizio della nostra santificazione.
Come è possibile, in una società come la nostra, parlare ancora di pratiche penitenziali come il digiuno?
Per rispondere, occorre riflettere che il digiuno fisico ha una vasta applicazione e, con un po' di buona volontà, possiamo fargli posto nella nostra esperienza quotidiana.
Il digiuno del cibo o della lingua può riguardare evidentemente i pasti, rinunciando ogni tanto a un pasto o riducendolo al minimo. Se ci pensiamo bene, esso riguarda pure le molte cose voluttuarie a cui ci siamo fin troppo abituati: le tante soste al bar senza un motivo reale, ad esempio; il fumo, i gelati; i frequenti caffè durante la giornata. Se in questo campo facciamo qualche rinuncia non ci farà male e ci ricorderemo che stiamo vivendo un cammino con Gesù verso la croce e verso la Pasqua.
Il digiuno degli occhi o delle immagini: è un'altra forma di digiuno assai importante per il nostro benessere spirituale.
Durante la Quaresima, dovremmo saper reagire a una certa epidemia di quella malattia che si chiama «videodipendenza». E la mania di voler vedere tutto; è la televisione aperta per ore e ore in tutte le case, senza alcun rispetto del silenzio, della tranquillità, senza tener conto dei ragazzi e dei bambini. Talora mi capita, visitando qualche malato o in occasione di una visita pastorale, di entrare nelle case e di trovare la televisione accesa mentre nessuno se ne accorge: sembra così ovvio l'accenderla che non viene nemmeno l'idea di spegnerla per l'arrivo di un ospite!
Tutti noi siamo convinti che l'uso indiscriminato della televisione, specialmente nei riguardi dei ragazzi e dei bambini, è assolutamente fuori misura, è una forma di indigestione, di diseducazione alla quale dobbiamo reagire, imparando a scegliere e a discernere. Se cominceremo a farlo, sfuggendo alla tentazione di pensare che sia troppo strano o troppo. puerile, ci accorgeremo che ha un'incidenza sulla nostra vita, sulla preghiera, sui nervi, sulla disciplina dei sensi, della fantasia e dell'immaginazione, assai più grande di quanto crediamo. Si tratta di piccole cose da cui però dipendono le grandi, da cui dipende la capacità delle famiglie di saper educare i figli, e non semplicemente concedere tutto, senza discriminazione.
Il digiuno può essere applicato quindi a molti elementi della nostra vita quotidiana e può essere vissuto con semplicità da ciascuno di noi.
Se poi aggiungeremo dei momenti di raccoglimento, di solitudine, di preghiera più intensa, vedremo che tutte queste cose si collegano e gradualmente creano quella disciplina dello spirito che è l'ambiente, il contesto necessario per una vita davvero spirituale.
Allora la carità, l'amore del prossimo saranno vissuti a partire da un certo rigore dello spirito che darà maggiore verità ai nostri gesti di amore; li renderà più duraturi, più sinceri, più forti, più capaci di superare le difficoltà e di oltrepassare i momenti di noia o di stanchezza perché nasceranno da una disciplina interiore coltivata con assiduità e con coraggio.
Una disciplina che tempra l'uomo interiore e lo rende pronto alla lotta della vita, a fare della vita un atto reale di servizio e di disponibilità che arriva, nella Chiesa, fino alla persecuzione e al martirio.
La conflittualità permanente della vita cristiana
- Una parabola evangelica ci presenta, a proposito della lotta spirituale, la concorrenza spietata tra il buon grano e la zizzania:
«In quel tempo Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per chiedergli: "Spiegaci la parabola della zizzania nel campo"» (Matteo 13,36).
Era una parabola che aveva messo in difficoltà i discepoli i quali speravano ancora in un Gesù trionfatore e restauratore politico, perché diceva: «TI regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco, apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: "Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?". Ed egli rispose: "Un nemico ha fatto questo". E i servi gli dissero: "Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?". "No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio"» (Matteo 13, 24-30).
Gesù, dunque, su richiesta dei suoi, la spiega:
«Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del Regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come quindi si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!» (Matteo 13, 37-43).
Grano e zizzania tendono ambedue a vivere e la zizzania tenta di soffocare il buon grano. L'esistenza cristiana non va intesa come un semplice cammino educativo che procede da luce in luce sempre maggiore; è conflittuale, è una lotta incessante tra luce e tenebre, tra bene e male, una lotta dura e faticosa che mette a prova la nostra fede, speranza e carità.
Nello stesso tempo la parabola ci insegna che non sta a noi giudicare, bensì accettare tale situazione pazientando, resistendo, sopportando. Resistere al male richiede un combattimento non da poco.
Agostino d'Ippona ha commentato spesso la parabola della zizzania per difendersi dall' accusa di certi zelanti che denunciavano la sua comunità di essere tiepida, neghittosa. In quell'epoca la religione cristiana, terminate le persecuzioni, era non solo tollerata, ma addirittura protetta e perciò la gente aveva convenienza a farsi battezzare. Incominciavano cioè le difficoltà di una Chiesa di massa, che raccoglie tutti: i maturi nella fede, i deboli, gli sprovvisti, gli entusiasti e gli zelanti, i tiepidi e i lenti.
Gesù però ci avverte fin dall'inizio che anche questa è la comunità cristiana. E vero che in altri passi del vangelo di Matteo ci dirà che a mali estremi occorre provvedere con estremi rimedi; quando, per esempio, il fratello non ascolta né in privato, né di fronte a due testimoni, né di fronte all' assemblea, bisogna allontanarlo (cfr. Matteo 18) 15-17). Resta comunque altrettanto vero che la Chiesa arriva alla scomunica soltanto per motivi gravissimi, in casi assolutamente straordinari. Altrimenti sopporta, ed è dura la sopportazione.
Un terzo insegnamento della parabola: dobbiamo sentire il dramma della lotta tra Dio e satana che si sta svolgendo nella storia. Un combattimento senza esclusione di colpi, per il quale Cristo muore sulla croce.
Non c'è tregua, non c'è armistizio tra luce e tenebre: si affrontano notte e giorno, dal mattino alla sera e dalla sera alla mattina. Quando ti alzi, la lotta è già presso il tuo letto, e non ti abbandona neppure di notte; si svolge anzitutto dentro di noi che siamo il primo campo dove sono seminati il buon grano e la zizzania, e a essa dobbiamo prepararci ogni giorno con cuore rinnovato. Non c'è tentazione, non c'è prova che venga risparmiata a chi vive il Vangelo.
- Il termine "prova" ha un vocabolario ricchissimo nella versione greca del Nuovo Testamento e questo fatto è già significativo.
Peirasmos, che vuol dire anche «tentazione», viene tradotto spesso con «prova»: «Avete perseverato con me nelle mie prove» dice Gesù agli apostoli in Luca 22) 28. Di per sé il vocabolo sottolinea che siamo tentati in noi e fuori di noi, dalla nostra sensualità, avarizia, vendicatività, da circostanze esterne oppure dal maligno che cerca di confonderci e di travolgerci.
Un altro vocabolo assai frequente è thlipsis, cioè «tribolazione», «oppressione», l'essere schiacciati tra due pesi fino a soffocare.
Ancora, nel Nuovo Testamento occorre il vocabolo diogmos, «persecuzione» dove il riferimento è a una potenza esterna che perseguita, incalza, dà la caccia.
Infine, asthéneia che significa tutte le forme pesanti di debolezza che rendono difficile il proseguimento del cammino.
Debolezze morali, per esempio il peccato: «Mentre eravamo ancora peccatori», in greco asthenon, deboli, «Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito» (Romani 5, 6). Debolezze fisiche, come malattie, talora durissime. Tutte le debolezze psichiche, palesi o nascoste, che ci opprimono, ferite interiori piccole e grandi che ci turbano impedendoci di vivere quietamente, che interferiscono nei rapporti con le persone, guastandoli. Tutte le forme di debolezze sociali, ossia il fatto di non avere potere e di dover dipendere da chi lo ha.
Infine, poiché abbiamo considerato la parabola del buon grano e della zizzania, vorrei ricordare un altro particolare interessante: la parola peirasmos è connessa molte volte con la parola upomoné, cioè pazienza, perseveranza. Spesso nella prova non si può che resistere, rimanere (ménein) sotto (upo), ed è già una vittoria.
- Potremmo pensare alle tante prove vissute da Gesù, oltre alle tentazioni proprie del diavolo.
- Prove personali. I farisei domandano un segno dal cielo e Gesù «gemendo dal profondo dell' anima, disse: "Come mai questa generazione domanda un segno?"» (Marco 8) 12). Quando viene portato a Gesù l'epilettico indemoniato che i discepoli non hanno potuto guarire, egli esclama: «Generazione incredula... fino a quando sarò in mezzo a voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?» (Marco 9) 19). E strano sentirgli dire: Ne ho abbastanza di voi. Il brano più sconvolgente è in Marco 14) 33-34, quando Gesù si avvia verso il monte degli Ulivi, giunge in un luogo chiamato Getsémani, prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e poi «cominciò a provare paura e angoscia. E disse loro: "La mia anima è triste da morirne; restate qui e vegliate"». Gesù è entrato nel momento in cui si vorrebbe abbandonare tutto e domanda a noi, attraverso la richiesta fatta a Pietro, Giacomo e Giovanni, di non lasciarlo solo, ma di condividere in qualche modo la sua prova.
- Prove politiche e sociali. Gesù ha avuto contro tutte le autorità. Nessuna lo ha capito veramente e fin dall'inizio i capi politici e religiosi hanno avvertito nei suoi confronti almeno del disagio. Egli non ha nulla contro l'autorità, non si avvale mai della sua popolarità per mettere la gente contro di essa, non disobbedisce alle leggi. La malevolenza nei suoi riguardi e che porterà i capi alla decisione di crocifiggerlo è inspiegabile, e va vista alla luce del piano divino di salvezza. Comunque Gesù non si lascia fermare dalle autorità; per esempio, allorché, al termine del suo difficile discorso nella sinagoga di Cafarnao, viene cacciato fuori dalla città e condotto sul monte per essere gettato dal precipizio, «passando in mezzo a loro, andò per il suo cammino» (Luca 4, 30).
- Prove familiari. I fratelli e i parenti di Gesù non lo capiscono e non gli danno appoggio né consolazione. Quando sentono dire che, a causa della grande folla che lo cercava, non aveva neppure il tempo per mangiare, vanno a prenderlo pensando che fosse fuori di senno (cfr. Marco 3, 20-21).
Una prova più dura per Gesù è dovuta all'incomprensione dei discepoli, di coloro che aveva scelto perché stessero con lui. Marco 14, 18 ss. descrive bene l'insuccesso dell' amicizia, sperimentato da Gesù. Prima il traditore, Giuda, poi la fuga degli altri apostoli e il rinnegamento di Pietro. Gli amici più cari, i più amati, l'hanno lasciato solo, non hanno fatto nulla per alleviargli la prova.
Gesù dunque ha vissuto due profondi dolori: lo scacco nella predicazione e quello nell' amicizia. I suoi, gli apostoli, i discepoli non avevano assimilato col cuore il messaggio del Cristo ed era necessario che ,desse la vita per loro. E questo il centro del Vangelo: bisognava che il Figlio di Dio donasse la vita affinché gli uomini potessero capire l'amore del Padre.
Come affrontare il combattimento spirituale
Per affrontare e vivere nella quotidianità il combattimento spirituale proprio di una fede adulta, occorre anzitutto accogliere fino in fondo il discorso di Gesù sul regno di Dio, e accoglierlo come logica divina, non semplicemente come nudo fatto. Scrive san Paolo alla C9munità di Corinto: «La parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, è potenza di Dio» (1 Corinzi 1, 18). E una parola capace di dividere la gente, di far sì che certe persone alzino le spalle e la rifiutino, mentre altre giungano ad assimilare il messaggio evangelico.
Ci lasciamo aiutare dalla figura di Pietro che non accetta il mistero della croce. Pietro è colui che all'inizio alza le spalle e che solo dopo la morte di Gesù lo comprenderà diventando apostolo, martire, roccia della Chiesa. La fatica vissuta da Pietro è simbolo di tutte le nostre fatiche nei confronti del combattimento, della lotta spirituale. Una fatica provata anche da Paolo: quando cominciò a predicare, si limitò a parlare di Gesù come un uomo straordinario, che faceva del bene, che risanava, ma trascurava il discorso della croce. Infatti ad Atene, luogo di cultura raffinata, si, esprime in modo saggio, filosofico, senza nominare mai le difficoltà della vita cristiana, l'impegno a entrare nel mistero della croce. Il suo discorso, però, è un grande fallimento; lascia Atene, si reca a Corinto con il cuore amareggiato e deluso e finalmente intuisce di aver sbagliato nell' emarginare il centro del Vangelo. Così, la sua prima Lettera ai Corinzi è uno splendido inno alla sapienza della croce.
Sempre a proposito di Pietro, leggiamo in Marco:
«Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: "Chi dice la gente che io sia?". Ed essi gli risposero: "Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti". Ma egli replicò: "E voi chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.
Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini"» (Marco 8, 27-33).
L'episodio è diviso chiaramente in due parti: la prima comprende le domande di Gesù ai discepoli; la seconda, il discorso della croce fatto da Gesù e la reazione negativa di Pietro.
- Il contesto geografico del brano di Marco ci è dato rapidamente: Gesù parte, con i discepoli, verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo. Una zona che non è nominata altrove nei vangeli, e abitata, almeno sembra, da pagani. Gesù non è conosciuto in quei luoghi e nessuno si accorge di lui. Per questo può tranquillamente occuparsi dei suoi discepoli dedicandosi alla loro formazione.
- L'interrogazione. Gesù li forma non solo attraverso insegnamenti, ma con esercizi pratici, facendo emergere da ciascuno degli apostoli qualcosa di importante. Qui, fa una domanda decisiva: «Chi dice la gente che io sia?» (v. 27).
- La risposta evoca alcune figure di uomini di Dio, persone che parlano in nome del Signore, come appunto Giovanni Battista, Elia, altri profeti. La gente interpreta giustamente Gesù, secondo una categoria religiosa e profetica: è un uomo che è tra noi in nome di Dio.
- La replica. Egli tuttavia insiste: «Ma voi chi dite che io sia?» (v. 29). Fin dove giunge, cioè, la vostra conoscenza di me? Possiamo pensare che alla nuova domanda segua un silenzio un po' imbarazzato, timoroso, da parte degli apostoli. A un certo punto, però, c'è la folgorazione di Pietro: «Tu sei il Cristo». Gli altri sono profeti parziali, mediatori per tempi contingenti della storia; tu sei il mediatore assoluto, tu sei la chiave della storia, sei colui che riassume in sé tutta la storia precedente e spiega quella che verrà.
La risposta di Pietro è altissima, è un grande atto di fede. Gesù però non è soddisfatto. Non nega l'affermazione, ma vuole che non si parli di lui prima che abbia chiarito bene che cosa si deve intendere dicendo: "il Cristo". Viene alla mente il discorso della Montagna: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel
regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7) 21). Chi mi proclama Cristo non può pensare di essere salvo, se non comprende il significato di tale parola.
- «Cominciò a insegnare che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire» (v. 31).
Si entra nella seconda parte del brano e Gesù inizia un insegnamento nuovo, mai fatto prima e che continuerà in seguito.
Nel cuore degli apostoli si crea smarrimento, perché "Figlio dell'uomo" è un titolo tratto da una famosa pagina del profeta Daniele, in cui il Figlio dell'uomo appariva dalle nubi del cielo, come il termine glorioso del cammino del popolo di Dio, come la risoluzione di tutte le tragedie storiche in una glorificazione dell'opera divina (cfr. Daniele 7, 13-14).
Secondo Gesù, invece, questo Figlio dell'uomo «doveva molto soffrire». La parola è dura, anche se rimane vaga, ed evoca dolore; il Cristo non ha anzitutto un destino di successo, di capacità di rovesciare tutto a suo favore.
E la sofferenza viene specificata: soffrirà nel senso che sarà riprovato. E brutto per un uomo essere respinto; possiamo avere delle malattie dolorose e però gli altri ci stanno vicini, ci accettano. La sofferenza di Gesù è più dolorosa perché si tratta di sperimentare la divisione, l'ostracismo, il rifiuto della gente.
Un rifiuto non da parte dei peccatori, di persone svagate che non conoscono Dio, ma da parte di tre categorie di uomini: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In termini a noi comprensibili, da parte del potere politico, religioso, intellettuale e culturale. Verrà messo al bando da tutto ciò che rappresenta il prestigio, la responsabilità pubblica e civile.
- E «poi venire ucciso». Gesù viene addirittura eliminato, e la sua missione si chiude così.
«E, dopo tre giorni, risuscitare». Ora il discorso è difficilissimo e travalica tutte le esperienze possibili. Perché soffrire tanto per poi risuscitare? Che cosa vuol dire risuscitare?
- Gesù «faceva questo discorso apertamente» (v. 32). Le parole riversate nei cuori smarriti dei discepoli, fanno loro intendere che forse il Maestro aveva già accennato velatamente al tema. Cominciano a capire, ad esempio, le parabole precedenti: il regno di Dio è come un seme che viene calpestato dalla gente, soffocato dalle spine, beccato dagli uccelli. Gesù parlava della Parola, ma parlava anche di sé, della sua via alla croce. Il Regno dei cieli è come un granello di senapa, che nessuno considera, che si butta via, e a un tratto cresce, inaspettatamente. Gesù parlava di sé (cfr. Marco 4, 1-7.30-32).
Il discorso del regno di Dio si va chiarendo: è il discorso di Cristo, Messia, Signore, Salvatore, che passa attraverso la povertà e l'insignificanza spiegate in riferimento al Regno.
Gesù riprenderà continuamente, nel resto della sua vita, questo tema e lo riprenderà dopo la sua morte, in particolare nel vangelo di Luca parlando ai discepoli di Emmaus: «O stolti e tardi di cuore a credere a quanto avevano detto i profeti! Non bisognava che il Cristo soffrisse ed entrasse nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca 24,25-27).
Non è dunque un discorso di poche parole: soffrire, essere respinto, venire ucciso, risorgere. E sintetico e si può allargarlo richiamando l'insegnamento di Mosè e dei profeti. E il discorso cristiano per eccellenza: tutta la Bibbia è da leggere come riassunta in Gesù crocifisso e risorto. «"Queste erano le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno"» (Luca 24,44-46). Ecco il modo in cui le Scritture presentano Gesù. Ecco che cosa significano le parole: «Faceva questo discorso apertamente».
La Chiesa primitiva lo riprenderà, Paolo lo ripeterà, e costituisce l'affermazione centrale del Credo: «Per noi si fece uomo, patì sotto Ponzio Pilato, morì, fu sepolto, risuscitò secondo le Scritture».
Quando noi diciamo: Gesù è la soluzione di tutti i problemi umani, forse non comprendiamo davvero. Gesù risolve i problemi umani mediante la sua sofferenza, la sua morte, la sua risurrezione, e solo se lo seguiamo su questa strada con fiduciosa dedizione possiamo dire con verità quella espressione.
- «Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo». Che Gesù venga rimproverato da un apostolo è un caso unico nei vangeli. Un episodio simile accade nella casa di Betania, quando Marta rimprovera il Maestro perché la sorella non l'aiuta; ma Marta, in quel momento, è nervosa, irritata e butta fuori ciò che le viene in mente al primo colpo. Pietro, invece, no; Pietro ha fatto una professione chiarissima di fede. Tuttavia non fino a quel punto.
Che cosa avrà detto Pietro nel rimproverarlo? Penso ad argomenti che possiamo trovare, per esempio, nel libro di Giobbe: «Perché mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio m'avesse mai visto!»(Giobbe 10, 18). Oppure alle parole dei discepoli di Emmaus: Credevamo che costui redimesse Israele, che ci desse vittoria, trionfo, successo, e invece niente di tutto questo (cfr. Luca 24,21).
Pietro avrà avvertito Gesù che stava perdendo gli amici, che parlando così non si sarebbe fatto conoscere, che stava presentando un'immagine di sé e di Dio che gli apostoli non avrebbero accettato. Dio, diceva Pietro, è il Dio della gloria, il Dio della capacità di rovesciare i nemici, mentre tu parli di essere respinto, di perdere.
Siamo al momento drammatico del discorso della croce, perché l'uomo, anche l'uomo ecclesiastico come Pietro, vuole un Dio che sia solo successo, trionfo, e non accetta il seme che cade nella terra e muore, non accetta il lievito nella pasta, non accetta il granello di senapa.
- «Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me, satana!"» (v. 33).
È inaudito che nei vangeli il Signore chiami qualcuno "satana". Non l'aveva mai fatto, neanche con i più grandi peccatori, neanche con gli scribi e i farisei. La sua è una parola incredibile, tagliente.
Che cosa intende dire? Intende dire che Pietro, respingendo il discorso della croce, rifiuta di aprire all'umanità le vie della vita. Proprio come satana che non vuole il bene dell'uomo, perché è dal principio omicida, invidioso, è colui che apre all'uomo le vie della morte.
C'è di più: tu, Pietro, - continua Gesù - credi di interpretare Dio, ma il mio Dio, il mio Padre ama l'uomo fino a dare il suo Figlio nella morte. Dio Padre ama tanto l'uomo da dare il suo Figlio anche se l'uomo lo respinge, ama tanto l'uomo da offrirgli ugualmente il perdono.
Qui è in gioco l'immagine stessa di Dio; un'immagine che in Pietro è ancora un po' falsata, caricaturata, confusa, e che pure in noi, di fatto, è un po' falsata portandoci spesso a conclusioni sbagliate sulla vita.
Noi, che professiamo nel Credo «Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra», non abbiamo la vera immagine di Dio fino a quando non abbiamo fatto questo passo cristiano-evangelico dell' accoglienza della via della croce.
- «Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Viene richiamata la grande parola di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55, 8).
Pietro vuole distorcere le vie di Dio, gli dice come deve essere, come si aspetta che sia Dio. Ma è Dio che si rivela all'uomo: lo sono per te, sono con te, io sono Gesù crocifisso e risorto.
Dio si identifica con la figura del Crocifisso risorto, non con un qualunque idolo vittorioso, con un qualunque simbolo di benessere, con una qualunque promessa pseudo-messianica. Dio si identifica solo con Gesù, crocifisso, morto e risorto.
Il salto di qualità nella fede, richiesto a Pietro, è proposto a ciascuno di noi. L'esistenza cristiana non significa offrirsi allo scacco, all'insuccesso, per un certo gusto masochistico della sofferenza. Esige invece una completa disponibilità del cuore, che accetti di essere rifiutata dagli altri e sia perseverante fino all'ultimo. Ne deriva che il cristiano non è coinvolto nella passione di Gesù per il mondo solo perché aiuta chi soffre, perché serve, perché è efficiente nella lotta contro l'ingiustizia, ma perché è disposto a lasciarsi mettere in questione come persona, a lasciarsi travolgere dalla vocazione evangelica fino a diventare egli stesso Parola rifiutata, messa a tacere.
Il massimo servizio che il cristiano può compiere è quello di Gesù: offrire la disponibilità di Dio per l'uomo, vivere la disponibilità dell' ascolto e dell' amore accettandone tutte le conseguenze. In altre parole, il sacrificio cristiano è lasciarsi versare in libagione come scrive Paolo nella seconda Lettera a Timoteo (4,6) -, è l'offerta della propria vita e del proprio impegno. Questo paradosso, difficile da esprimere, e delle cui formulazioni non dobbiamo mai abusare per facili ragionamenti, non è frutto dei nostri sforzi, ma è suscitato in noi dallo Spirito. E va però chiesto nella preghiera, nella supplica, nella quale soltanto giungiamo a comprendere qualcosa della passione di Gesù), della sua vita attraversata da tentazioni e da prove. E la tappa decisiva della conversione, che ci permette di entrare nella passione del mondo, dando un senso alle fatiche dell'uomo per migliorare il cammino dell'umanità. È il frutto del quotidiano combattimento spirituale.
L'armatura di chi lotta
La fragilità e la vulnerabilità della creatura umana sono tali da rendere necessaria un' armatura per chi vuole impegnarsi nella lotta contro il nemico di Dio, l'avversario del Vangelo.
Consideriamo un testo fondamentale di san Paolo nella Lettera agli Efesini:
«Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell' armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.
Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere» (6, 10-20).
È una pagina molto densa e con diverse metafore e bisogna capire quali realtà voleva annunziare attraverso di esse alla comunità di Efeso, una comunità entusiasta per quanto Paolo aveva detto nei capitoli precedenti della Lettera e che si chiedeva: come fare per vivere davvero secondo il piano di amore salvifico di Dio?
- Paolo allora inizia a rispondere con due esortazioni: fortificatevi nello Spirito e rivestitevi dell' armatura di Dio.
L'esortazione ad armarsi la troviamo anche in altre due lettere paoline (Romani 13, 12 e II Corinzi 10,4), ma qui viene svolta maggiormente la metafora della panoplia, dell' armatura completa del servo di Dio, di colui che vuole lottare come e con Gesù.
- Nella seconda parte del testo, ci viene spiegato, il motivo delle due esortazioni. Dobbiamo armarci appunto perché la nostra lotta è una lotta spirituale, contro i principati, le potestà, gli spiriti maligni. Possiamo tradurre facilmente queste espressioni in una realtà comprensibile perché essa è di evidenza quotidiana. Dobbiamo vivere in un' atmosfera lo spazio tra terra e cielo invasa da elementi maligni, contrari al Vangelo, nemici di Dio. L'atmosfera in cui viviamo è satura di potenze contrarie a Cristo e quindi la lotta si annuncia difficile. Questa mentalità, questa atmosfera che è frutto in parte della potenza del male e in parte dell'uomo soggiogato dalla potenza del male, crea una situazione nella quale siamo immersi e che ci minaccia da ogni lato.
- In una terza parte, l'armatura viene descritta con sei meta/ore: la cintura, la corazza, i calzari, lo scudo, l'elmo, la spada. Prima di esse però c'è un'altra esortazione: «State in piedi», in atteggiamento di prontezza, come una persona pronta alla battaglia.
La prima metafora è la cintura della verità. Quale verità è arma per noi? Per capire bene bisogna notare che questa metafora e pure le altre sono attinte largamente dall'Antico Testamento. Chi scriveva questo brano conosceva a memoria interi passi e ne supponeva la conoscenza nei suoi lettori.
Soprattutto due brani sono utilizzati per la descrizione: il primo è tratto da Isaia 11, il germoglio di J esse, del quale viene descritta la veste, il modo di presentarsi e di combattere; il secondo è tratto da Isaia 59, in cui si descrive, a un certo punto, l'armatura di Dio. Nell' Antico Testamento, quindi, è l'armatura di Dio stesso, oppure dell'inviato, del prediletto di Dio, a essere descritta. .
Qui l'armatura di Dio è trasferita al servo di Dio, a colui che segue Gesù. Dice Isaia 11, 5: «Cintura dei suoi fianchi è la fedeltà» (trad. della CEI); nella Bibbia dei LXX il vocabolo usato è alétheia, la verità, e il testo greco lo riporta esattamente.
La verità di cui si cinge come di una veste stabile colui che combatte è la coerenza; quella fedeltà che è coerenza piena, stile coerente di vivere e di agire.
Per poter combattere contro l'atmosfera maligna, l'atmosfera pestifera nella quale viviamo, occorre essere
armati di una profonda coerenza tra ciò che proclamiamo e ciò che dobbiamo internamente sentire e vivere tra noi.
È vero che un profondo confronto tra coerenza interiore ed esteriore farà talora riconoscere di essere lontani da ciò che diciamo, ma l'umiltà del riconoscerlo è già un aspetto della coerenza, è un modo di mostrare che desideriamo averla.
La metafora seguente è la corazza della giustizia. In Isaia 59, 17 si descrive l'armatura di Dio. Dio si è rivestito di giustizia come di una corazza.
La giustizia è espressa come l'attività di Dio che salva i poveri e umilia i peccatori. Dio che impetuosamente compie le sue opere, che è salvezza e punizione. Nella nostra situazione, dovremmo tradurla come il partecipare allo zelo di Cristo per la giustizia del Padre. Questa corazza che ci cinge completamente, che ci difende, è il rivestirci di quei sentimenti che fanno gridare a Cristo per le strade di Palestina: «A Dio ciò che è di Dio»; che gli fanno proclamare la giustizia del Padre e, come giustizia, l'opera di salvezza per chi si pente e il castigo per chi non si pente. Per noi, il partecipare all'intimo zelo di Cristo per la giustizia del Padre, è la corazza che ci cinge, ci avvolge, ci difende dai nemici.
La terza metafora: calzati i piedi di alacre zelo per il Vangelo della pace, descrive una situazione. Pronti a partire per l'annuncio del Vangelo della pace. La realtà della metafora è la prontezza a portare il Vangelo: «Come sono belli i piedi del messaggero che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza...» (Isaia 52, 7).
Fuori di metafora viene indicato l'ardore, il desiderio di predicare il Vangelo, sapendo che è benefico per gli uomini e che porta loro la pace. Quindi anche la gioia di chi ha trovato il tesoro (la donna che ritrova la dramma e chiama le vicine piena di gioia: Luca 15, 8 ss.). È una caratteristica importante del ministero del Vangelo, soprattutto oggi, in cui il "pluralismo" quando diventa pluralismo filosofico, culturale, religioso - sembra in qualche modo togliere l'ardore di annunziare il Vangelo della pace.
Qualcuno vorrebbe addirittura sostituire e correggere l'imperativo di Matteo: «Andate e predicate a tutte le genti» (Matteo 28) 19) con l'esortazione: «Andate e imparate da tutte le genti», perché ci sono valori ovunque e - si dice - non conta tanto portare il messaggio quanto ascoltare umilmente ciò che gli altri hanno da dirci. Così si rischia di perdere l'ansia di predicare il Vangelo della pace.
Ci chiediamo se ci sia una soluzione a tale difficoltà. La soluzione c'è e non è certamente quella di abolire il pluralismo. Credo anzi che quanto più cresce il dialogo, tanto più deve crescere l'approfondimento della vita evangelica. Se le due realtà crescono insieme, allora è possibile ed è facile conciliare un immenso rispetto per tutte le culture, razze, valori, con un immenso ardore di portare il Vangelo, che è una proposta trascendentale, non commensurabile con nessun altro valore ma capace di illuminarli e trasformarli tutti.
Quarta metafora: in tutte le occasioni, impugnate lo scudo della fede. I dardi infuocati lanciati dal maligno (l'espressione è presa dal Salmo 11) sono la mentalità del mondo di peccato che, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, ci circonda e ci invita a interpretare cose e situazioni della nostra vita con metri esclusivamente psicologici, sociologici, economici, assalendoci da ogni parte per toglierci il tesoro della fede.
Lo scudo per opporsi a tale mentalità è lo scudo della fede, cioè la considerazione evangelica di tutta la realtà umana, continuamente richiamata.
Quinta metafora: l'elmo della salvezza, anzi l'elmo dell'opera salvifica, come dice il testo greco. L'espressione è presa da Isaia 59, 17, e in Isaia vuol dire che Dio è pronto a salvare. Il greco ha un verbo, déxasthe, che vuol dire accettare l'elmo della salvezza: accettate l'azione salvifica di Dio in voi come unica vostra protezione, unica vostra speranza; vi protegge il capo perché essa è la cosa più essenziale.
Sesta metafora: la spada dello Spirito che è la parola di Dio. Cos'è la spada dello Spirito? Isaia 49, 2 parla di «bocca come spada»; Ebrei 4, 12 parla di «spada come parola»; infine Isaia 11, 4 dice che «con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio».
La parola di Dio non è qui il logos, cioè la predicazione, ma il rema, cioè gli oracoli divini.
Penserei come «spada dello Spirito» non tanto la predicazione di Gesù, ma la sua lotta contro satana, quando si difende citando gli oracoli di Dio: «Sta scritto...»; gli oracoli di Dio furono per lui, e sono per noi, difesa.
Allorché siamo assediati dalla mentalità del mondo che ci vorrebbe fare interpretare tutte le cose in maniera puramente umana, dobbiamo ricorrere ai grandi oracoli di Dio nella Bibbia per avere una parola di chiarezza su queste cose e respingere le interpretazioni sbagliate della storia del mondo e della nostra esistenza.
- Nella parte finale del brano si legge un' esortazione intensissima alla preghiera. Abbiamo detto che la caratteristica specifica della preghiera cristiana consiste nel fatto che essa parte da Cristo ed è mossa, guidata dallo Spirito. Bisogna pregare incessantemente, di continuo; il termine "preghiera" sta a indicare tutto il nostro rivolgerci a Dio e comprende anche la preghiera di domanda; il termine "supplica" nel Nuovo Testamento ricorre unito all' esperienza del digiuno, e sottolinea i momenti più intensi, più sofferti, più attivi, più sentiti da colui che prega.
Occorre inoltre vigilare nella preghiera affinché non sia abitudinaria o una sorta di monologo con se stessi, ma consapevolezza di essere davanti a Dio. E va fatta con perseveranza perché è una vera lotta da affrontare con coraggio e con costanza.
Interessante l'invito di Paolo a pregare per tutti i santi,cioè a sentirsi solidali con tutti coloro che combattono insieme a noi per la fede.
Mi sembrano utili, a questo punto, quattro osservazioni.
- Anzitutto che noi ci troviamo in una situazione rischiosa; è rischioso e pericoloso vivere il Vangelo fino in fondo. Avere il senso del rischio, delle difficoltà è realismo, un realismo che ci permette di vedere le vie dell' avversario, le vie attraverso le quali il mondo è portato al male, ma sentendoci pieni della forza di Dio. Una profonda analisi e sintesi del mistero della perversione, fatta con l'aiuto della sacra Scrittura, ci mette davanti alle avversità senza paura perché sappiamo cogliere, insieme alla vastità del male, la potenza di Cristo che opera continuamente nella storia.
- Seconda osservazione: si tratta di una lotta che non ha né sosta, né quartiere, contro un avversario astuto e terribile che è fuori di noi e dentro di noi. Questo, oggi, lo si dimentica spesso, vivendo in un'atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle fratture della storia umana, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi i quali minacciano proprio chi non se l'aspetta, cullato in una visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio.
- La terza osservazione: solo chi si arma di tutto punto potrà resistere, dal momento che il nemico si aggira attorno a noi per scoprire se c'è almeno un varco aperto, se c'è almeno un elemento mancante nell' armatura così da farci cadere nel combattimento.
- L'ultima osservazione, assai importante: tutte le armi, tutti gli elementi dell'armatura vanno continuamente affinati nell' esercizio della preghiera che non li supplisce - non supplisce lo zelo, l'impegno, lo spirito di fede, la capacità di donarsi -, ma è la realtà nella quale tutti sono avvolti e vengono ritemprati per la lotta.

 
6.
LA PASQUA DI CRISTO
Verso la passione e la risurrezione di Gesù
Che cos'è la Pasqua?
La Pasqua, come tutti sappiamo, è una festa ebraica, la cui origine si perde nella notte dei tempi; dapprima è stata semplicemente una festa di pastori per l'inizio della nuova stagione, e si celebrava quando si scorgeva la luna piena per la prima volta dopo il solstizio di primavera. In quella occasione si soleva sacrificare qualche animale del gregge e in questo senso la festa ci ricorda le origini nomadiche del popolo ebraico.
Ciò che la rende però la festa caratteristica degli Ebrei è la celebrazione della liberazione del popolo dall'Egitto, della liberazione dalla schiavitù del faraone, avvenuta verso il 1800-1700 a.c. Proprio nel plenilunio che segue il solstizio primaverile, si faceva memoria dell'evento sacrificando un agnello. Così la Pasqua diviene il grande momento che ricorda la nascita del nuovo popolo per l'azione potente di Dio che lo libera. Come tale, questa festa fino a oggi rimane il grande riferimento religioso e nazionale degli ebrei; non la si celebra più con i riti antichi, dal momento che il tempio è stato definitivamente distrutto nel I e poi nel II secolo d.C.; la si celebra con un pasto, con una cena.
Assume la sua natura di principale festa cristiana perché nella giornata precedente il plenilunio che segue il solstizio di primavera, Gesù Cristo, a Gerusalemme, viene ucciso sulla croce e, dopo tre giorni, nel primo giorno della settimana dopo il sabato, risorge. Quella stessa data che era e rimane la data della liberazione degli Ebrei dal popolo egiziano, diviene, per il popolo cristiano, la storia della liberazione dalla morte, quindi della redenzione. E il mistero cristiano per eccellenza, il nucleo della fede cristiana. 1600-1700 anni dopo l'esodo, la Pasqua è vissuta dai cristiani prima nella tragedia della croce e poi nella proclamazione del Risorto: il Cristo è veramente risorto ed è apparso a Pietro, ai Dodici, è apparso alle donne. La Pasqua cristiana è la festa delle feste, e cristiano è colui che afferma: il Signore è veramente risorto.
Il cristianesimo non è, come talora si pensa, una dottrina morale, per esempio sul primato dell'amore; non è nemmeno una dottrina su Dio. Esso nasce e si sviluppa da questa fondamentale proclamazione: Gesù Cristo crocifisso è davvero risorto.
Se studiamo i testi del Nuovo Testamento, i testi più antichi scritti nel I secolo della nostra era, ritroviamo tale certezza: il Cristo crocifisso è risorto, noi l'abbiamo visto, noi l'abbiamo incontrato. Ma se Gesù è risorto, è perché Dio Padre l'ha risuscitato; se è risorto, è lui che dona lo Spirito santo all'uomo; dunque Dio è Padre Figlio e Spirito santo. Se Cristo è risorto, l'uomo è liberato dai propri peccati, e il cristianesimo è redenzione, liberazione dal peccato. Se Cristo è risorto, lo è per tutti gli uomini.
Dalla risurrezione di Cristo deriva perciò tutto il resto del messaggio cristiano; senza la risurrezione, il messaggio sarebbe semplicemente una dottrina religiosa, non sarebbe ciò che è, un evento, un fatto che comporta una concezione di Dio e dell'uomo, di Dio Trinità e dell'uomo amato e redento e chiamato alla vita per sempre.
Il Natale, che nel mondo occidentale è celebrato tradizionalmente con grande solennità per motivi storici e folkloristici, segna l'inizio della vita di Gesù sulla terra, vita che ha il suo culmine nella croce e nella risurrezione. La festa della Pentecoste fa memoria del dono dello Spirito santo che viene effuso dal Crocifisso risorto. E anche le feste della Madonna e dei santi non sono che riflessi di questo grande mistero centrale.
Giustamente la Pasqua è il contenuto stesso della fede cristiana, èil cuore della vita della Chiesa, perché ci dice chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi siamo noi.
È la gloriosa manifestazione di un Dio amante della vita, che vuole la vita e non la morte, di un Dio che anche dalla morte fa scaturire la vita.
La Pasqua rivela chi è Gesù di Nazaret, il Cristo Figlio unico del Padre; proclama che in lui, morto e risorto, converge la storia di Israele e la storia dell'umanità.
La Pasqua fa scoprire chi è l'uomo, chi siamo noi, chiamati a risorgere con Gesù, a superare con lui il dramma della morte, per essere con lui nella vita per sempre.
La Pasqua è il nodo risolutivo, il perno attorno a cui gira tutto il piano di Dio riguardante l'uomo e il cosmo; è il centro a cui tutto guarda e da cui tutto riparte.
La liturgia della Chiesa vive la Pasqua nell' arco di un'intera settimana: essa inizia con la Domenica cosiddetta delle Palme, quando si acclama Cristo quale vincitore e re e ha il suo momento forte nel Triduo del giovedì, venerdì, sabato e domenica di risurrezione. Nel giovedì santo contempliamo Gesù nell'ultima cena, dove presenta il pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per l'uomo; il venerdì santo è il giorno della morte di Gesù; nel sabato santo si fa memoria del sepolcro in cui Gesù si lascia rinchiudere per sigillare il suo amore per il mondo. Finalmente, nel giorno di Pasqua risuona il grido dell'alleluia, della vittoria definitiva del bene sul male, un grido già nascosto e implicito nei riti delle giornate precedenti.
La Domenica delle Palme
Nella Domenica delle Palme viene letta una pagina tratta dal vangelo secondo Giovanni:
«La grande folla che era venuta per la festa» - la festa della Pasqua ebraica - «udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: "Non temere, figlia di Sion! / Ecco, il tuo re viene, / seduto sopra un puledro d' asina". Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto» (12, 12-16).
Può sembrare strano cominciare con un'acclamazione a Cristo come vincitore e come re, ma la liturgia non conosce la malinconia. L'evento della passione è di fatto una vittoria, perché ormai Gesù ha vinto la morte e ne ha superato la paura. Ciò spiega perché lo contempliamo mentre entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che trama contro di lui.
L'episodio riportato dal vangelo di Giovanni indica chiaramente la circostanza: la folla è venuta a Gerusalemme per la festa ebraica di Pasqua che si celebrerà tra pochi giorni.
I soggetti del racconto sono tre: la folla, appunto, Gesù, i discepoli.
- La folla, assai grande, è composta di gente buona, semplice, devota; gente che si è recata nella città santa in anticipo proprio per "purificarsi", cioè per vivere la Pasqua con purità cultuale, rituale e morale.
Questa gente soffre per i mali di sempre, per i mali di tutti i tempi: le malattie, la povertà, la disoccupazione, i drammi delle famiglie. Soffre inoltre a causa dell' oppressione politica del proprio paese, dell' oppressione fiscale eccessiva, delle tante corruzioni e ruberie che contaminano la terra. E la sofferenza la porta ad aspettare qualcosa di più e di meglio, a guardare a ogni evento nuovo con speranza; perciò è pronta a entusiasmarsi.
La notizia - riferita nel vangelo di Giovanni al capitolo Il - che Gesù ha risuscitato l'amico Lazzaro non può non riaccendere i sogni messianici e la voglia di rivedere Gesù che da qualche tempo si era ritirato e non si mostrava in pubblico.
E, a un tratto, la folla viene a sapere che Gesù salirà a Gerusalemme per la festa. Altre volte era stato nella città santa, ma questa sua venuta, che sarà l'ultima, costituisce un gesto ardito, audace, carico di pericoli. Pochi giorni prima l'apostolo Tommaso, sentendo che Gesù intendeva recarsi a Betania che si trova sulla strada verso Gerusalemme, aveva esclamato: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Giovanni 11, 16), perché comprendeva che la vicina città era gravida di minacce per il Maestro. Eppure Gesù arriva, sfidando l'ordine dato dai sommi sacerdoti e dai farisei di denunciare la sua presenza così che potessero prenderlo.
Egli dunque accetta il pericolo, e la folla al vederlo si commuove, gli corre incontro con entusiasmo e con rami di palma. La palma, fin dall'antichità, è segno di vittoria, e veniva agitata in qualche festa ebraica per acclamare Dio, il Dio del cielo e della terra, il Dio che salvava il suo popolo.
Ora questa festa è improvvisata dalla gente lungo le strade, in onore di Gesù che ha fama di essere il rappresentante di Dio: «Osanna!», che significa: «Dona, Signore, la tua salvezza, la tua vittoria»; e poi: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
L'accoglienza fatta a Gesù, l'acclamarlo come re e Messia, non è una semplice esaltazione religiosa; è un preciso riferimento alle attese culturali e sociali della gente che non ha paura di osannarlo pubblicamente, nella capitale, sotto gli occhi delle autorità perché è ormai stanca di una politica fatta sulla sua pelle da uomini lontani; vuole qualcuno a cui poter dare piena fiducia.
- Che cosa fa Gesù? Non si sottrae a questa manifestazione, come invece si era sottratto in Galilea, dopo la moltiplicazione dei pani, quando erano venuti per proclamarlo re. .
Egli esprime un gesto di umiltà, senza parlare, senza dire nulla: invece di entrare in città a piedi, sceglie di montare sopra un asino, l'animale più umile che ci sia, un animale di servizio, per far capire che la sua non è una regalità di guerra o di dominio, bensì di servizio.
- I discepoli però «non compresero». Da un lato Gesù non spegne l'entusiasmo della folla, come loro potevano pensare avendolo già visto altre volte fuggire; dall'altro lato Gesù non si concede a tale entusiasmo. Forse qualche discepolo sperava che cogliesse l'occasione per mettersi a capo di un movimento popolare e restaurare il regno di Israele contro i nemici.
Gli apostoli intuiscono, in modo generico, che nella vita di Gesù ci sono due parti: nella prima agisce, compie gesti di liberazione dell'uomo, guarisce, opera miracoli, vince le potenze avverse. E la parte che piace anche a noi, che ci avvince e che ci sembra di capire. In una seconda parte - che inizia con la Domenica delle Palme - Gesù non fa nulla per l'uomo, non compie miracoli, non pronuncia discorsi, non si difende.
Infatti, egli accetta il senso religioso dell' entusiasmo della folla che lo acclama, non il senso politico, e opera un attento discernimento che gli apostoli non comprendono. Soltanto più tardi capiranno che entrando a Gerusalemme quel giorno Gesù si era mostrato Re messianico, Signore della storia, però Signore umile e servitore dell'umanità.
È molto importante osservare che Gesù entra in Gerusalemme come un uomo libero, disteso, sciolto, sereno. Libero perché non ha condizionamenti umani, non teme nessuno, nemmeno la morte; la sua è quella sovrana libertà che tutti vorremmo avere. Essere liberi di essere davvero ciò che siamo, nella verità di noi stessi: non avere paura per ciò che altri possono dire o fare di noi. Soltanto un' esistenza libera è capace di amare, di dedicarsi e di donarsi.

Il mistero di Gesù che si va svelando, mistero di umiltà, di sofferenza e poi di gloria, è anche il mistero della nostra vita, se lo accogliamo e quindi lo sperimentiamo a poco a poco.
È il mistero - come dice san Paolo - «nascosto a tutti i potenti di questo mondo; altrimenti non avrebbero crocifisso il re della gloria».
È il mistero - come dice l'evangelista Matteo - «rivelato ai piccoli e ai semplici», a coloro che si trovano in situazione di sofferenza e di oppressione e che percepiscono qual è il vero volto di Dio.
Ma il discorso della passione e della croce, realtà inevitabile nella vita di ciascuno, non costituisce né il primo né l'ultimo passo: sta in mezzo a due momenti positivi di inizio e di conclusione, di creazione e di definitiva salvezza. La croce non è l'ultima parola e per questo è possibile essere nella sofferenza e contemporaneamente nella gioia.
Il primato della coscienza
Tra i tanti racconti biblici che la liturgia della Chiesa ci propone nei giorni precedenti il triduo del giovedì, venerdì, sabato santo e domenica di risurrezione, ne scelgo anzitutto uno dell' Antico Testamento, tratto dal Libro di Tobia.
Tobi è un ebreo che, nel tempo della distruzione della città di Gerusalemme, viene deportato insieme con altri suoi connazionali in oriente, a Ninive, nelle pianure del Tigri e dell'Eufrate, e là vive come esule una vita modesta e però ricca di speranza.
«Sotto il regno di Assarhaddon ritornai a casa mia e mi fu restituita la compagnia della moglie Anna e del figlio Tobia. Per la nostra festa di pentecoste, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola: la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi a mio figlio Tobia: "Figlio mio, va' e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. lo resto ad aspettare che tu ritorni". Tobia uscì in cerca di un povero tra i nostri fratelli. Di ritorno disse: "Padre!". Gli risposi: "Ebbene, figlio mio". "Padre, rispose, uno della nostra gente è stato strangolato e gettato nella piazza, dove ancora si trova". Allora mi alzai, lasciando intatto il pranzo; tolsi l'uomo dalla piazza e lo posi in una camera in attesa del tramonto del sole, per poterlo seppellire. Ritornai e, lavatomi, presi il pasto con tristezza, ricordando le parole del profeta Amos su Betel: "Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri canti in lamento". E piansi. Quando poi calò il sole, andai a scavare una fossa e ve lo seppellii. I miei vicini mi deridevano dicendo: "Non ha più paura! Proprio per:. questo motivo è già stato ricercato per essere ucciso. E dovuto fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i morti"» (Tobia 2, 1-8).
Il testo continua poi con la lunga storia delle sofferenze di Tobi, uomo fedele, caritatevole, pieno di attenzione agli altri, che entra in una grande prova dalla quale uscirà soltanto attraverso una serie di eventi tutti raccontati nel Libro.
Il messaggio che giunge a noi attraverso il brano della Scrittura è quello del primato della coscienza. C'è un uomo povero, esiliato, che potrebbe giustamente aver paura di essere nuovamente ricercato e imprigionato; tuttavia, posto di fronte a un fatto che tocca il suo prossimo, un fratello ucciso che nessuno vuole più toccare, egli, obbedendo alla coscienza, lo seppellisce affrontando ,tutte le possibili conseguenze del suo gesto.
È dunque un gesto che sottolinea il primato della coscienza, il primato di ciò che l'uomo sente dentro inderogabilmente come valore. Sarebbe bello poter seguire questo cammino fino alla descrizione della storia della passione, nel momento in cui Gesù di Nazaret, trovandosi di fronte al sinedrio e interrogato sulla sua identità, obbedisce alla testimonianza della propria verità e si dichiara apertamente Figlio di Dio, affrontando così la morte. Sono sempre elementi dell'identico primato della coscienza. E un aspetto assai importante sul quale mi pare opportuno intrattenerci brevemente perché ritorna vivo nella condizione contemporanea.
Talora abbiamo della coscienza una concezione riduttiva e se ne parla in termini scettici, un po' deprezzativi, confondendola con il puro soggettivismo: agisco secondo quello che a me sembra giusto, che a me piace o che mi torna utile.
In realtà la coscienza ci fa conoscere quella legge che trova il suo compimento nell' amore di Dio e del prossimo. Una legge fondamentale, messa da Dio nei nostri cuori. La coscienza non è ciò che mi viene in mente; è il principio supremo allargato a misura divina (potremmo chiamarlo il principio della solidarietà, il principio del rispetto dell' altro, il principio dell' onore, del dovere, il principio della coerenza). E Dio stesso come amore, come fedeltà, come garante ultimo di ogni verità, che entra nell'intimo dell'uomo e diviene sorgente di azione e di discernimento. Per questo la coscienza è qualcosa di inviolabile, e tuttavia non è qualcosa di fantasioso, di strano, di imprevedibile. E il riconoscimento del grande comandamento dell' amore di Dio e del prossimo, il riconoscimento dei grandi valori - verità, onestà, giustizia, carità - in quanto sono intuiti, compresi e diventano fonte di vita, di giudizio e di azione, in dialogo con Dio e di fronte a Dio.
Scrive il Concilio Vaticano II: «Nella fedeltà alla coscienza, i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale» (Gaudium et spes, 16). La coscienza non soltanto non è fenomeno di dispersione, ma opera l'unità; in nome della stessa coscienza, credenti e non credenti si mettono insieme per cercare come oggi si possono realizzare valori quali il servizio, l'onore, la lealtà, il rispetto del prossimo.
Spesso si interpreta la coscienza semplicemente come la voce che ci ricorda una legge già fatta, che basta applicare. Ci viene invece detto che la vita dell'uomo presenta situazioni inedite, problemi nuovi, per i quali non è sufficiente appellarsi a una legge astratta, bensì occorre cercare, sulla base del principio fondamentale dell' amore di Dio e del prossimo e di tutti i valori che ne derivano, quel modo di agire che meglio promuove la vita, serve l'unità tra i popoli, crea relazioni pacifiche; in una costante armonia e in un costante dialogo e scambio tra tutte le persone di buona volontà.
Possiamo allora comprendere perché, per esempio, Giovanni XXIII cominciò a indirizzare alcune sue encicliche, oltre che ai vescovi e ai cristiani, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Perché tutti gli uomini hanno in comune questa coscienza, questa percezione di valori.
Di qui la necessità di educare le nuove generazioni a compiere certe scelte e a evitarne altre, a guardarsi da certi comportamenti e ad acquisirne altri. Soprattutto è importante formare la coscienza dei giovani attraverso tutte le istanze di valore autentico della persona (silenzio, preghiera, raccoglimento, riflessione...). Le istanze di massificazione, di frastuono, di considerazione anonima della persona, invece, ottundono la coscienza, impediscono di prendere coscienza di sé, escludono la possibilità di sentirsi e di ascoltarsi.
Noi siamo a una svolta della civiltà occidentale e della civiltà mondiale in cui l'avvenire sarà nella chiarezza delle coscienze.
Ho sovente ripetuto che il futuro del mondo è nella interiorità. Infatti, poiché il futuro sarà sempre più affidato alle informazioni, alla buona gestione delle informazioni, e poiché tutte le decisioni umane saranno prese a partire da scelte sempre più coscienti e capaci di programmare il futuro, la sorte di questo futuro sarà nella coscienza, nell'interiorità, nella capacità di riconoscere il valore. Se un tempo si poteva pensare di guidare masse con slogan generici, di poterle tenere sottomesse semplicemente con delle imposizioni, oggi abbiamo visto il crollo di sistemi che duravano da decenni; la gente ha ritrovato il senso della libertà, della propria entità e si è ribellata a delle imposizioni puramente esteriori.
Dunque, tutto ciò che migliora l'uomo in forma permanente deve passare per la convinzione interiore, per la coscienza, che si educa, ripeto, attraverso momenti di silenzio, di raccoglimento, di riflessione, e con tutti quei rapporti umani in cui prevalgono la ragionevolezza, l'atteggiamento di vera stima della pt"rsona, la promozione dei valori e, da parte di chi esige tali comportamenti, la coerenza, la fedeltà, la lealtà. La coscienza si propaga per contagio. Attraverso personalità di forte coscienza vengono formate persone di coscienza.
Nei giorni che ci avvicinano alla Pasqua, la Chiesa compie certamente un grande lavoro di formazione della coscienza, in quanto invita ciascuno a guardare la coscienza di Cristo, che è la più alta realizzazione dell'interiorità, della coerenza di una morte, della chiarezza dei fini, dell' ampiezza di visione umana e divina dei destini dell'uomo.
La coscienza di Gesù è la più limpida, la più leale, fino al sacrificio della vita; è quella nella quale il mistero di Dio, dell' amore di Dio si traduce in linguaggio umano in maniera inequivocabile.
La coscienza oscura di Caifa
Dopo il brano del Libro di Tobia, è interessante vedere un brano del vangelo secondo Giovanni che, di fatto, precede quello dell' entrata di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla. La liturgia però lo fa leggere nei giorni successivi alla Domenica delle Palme, perché esprime la forte decisione di uccidere Gesù.
«I sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: "Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione". Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: "Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera". Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni 11, 47-54).
I sommi sacerdoti e i farisei erano molto preoccupati per il fatto che Gesù aveva risuscitato Lazzaro e perciò riuniscono il Sinedrio, la più alta magistratura giudaica, istituita alla fine del II secolo avanti Cristo. Siamo davanti a un testo teologicamente molto denso, forse uno dei più densi di teologia della storia.
- La reazione dei capi del popolo è allarmante, disorientata: che cosa facciamo? se continua così dove andremo a finire?
Prevale quindi l'emotività, la paura; la reazione è priva di analisi oggettiva della situazione. Non c'è nessun ascolto dell' altro, nessun tentativo di rimettere in ordine gli avvenimenti. C'è soltanto l'insorgere di timori che si accavallano, che rimbalzano dall'uno all' altro durante la riunione.
Le reazioni emotive si caricano reciprocamente fino a lasciare tutti smarriti: « Verranno i Romani, distruggeranno il nostro, luogo santo e la nostra nazione» (Giovanni lt 48). E il caso tipico dell'impazzimento di un consiglio, di un parlamento, di una sessione pubblica, dove, perso il controllo e il contatto con la situazione reale, le emozioni rimbalzano l'una sull'altra.
In tale situazione interviene il suggerimento di Caifa.
- Le parole di Caifa, apparentemente, tendono a chiarire la situazione, a dare la chiave di ciò che sta succedendo: voi non capite nulla, ve lo spiego io! C'è qui una luce, una soluzione semplice che emerge da tutto questo.
Il suggerimento di Caifa può essere letto e riletto, perché è gravido di contenuti, alla luce della storia precedente del popolo di Israele.
Viene anzitutto in mente il consiglio di Achitofel nella storia di Davide (cfr. II Samuele 17). Achitofel consiglia ad Assalonne, figlio di Davide, qualche cosa di simile: la situazione è tale che uno deve morire per tutti. In realtà, colui che deve morire, secondo il consiglio di Achitofel, è lo stesso padre di Assalonne! C'è già una proiezione messianica: uno dovrebbe morire per tutti affinché il popolo abbia pace.
Risalendo più indietro nella storia biblica, possiamo percepire la natura diabolica del consiglio di Caifa, confrontandolo con la suggestione del serpente nel paradiso terrestre. li serpente parla a Eva partendo da una falsa ipotesi: Dio vi ha comandato di non mangiare di nessun albero. Pone quindi un elemento di emozione, di ripulsa. E ne deriva una falsa tesi: In realtà, se voi mangiaste di questo frutto diventereste come dèi.
Analogamente, il ragionamento di Caifa parte da una falsa ipotesi, da un falso dilemma: bisogna sacrificare o uno solo o tutto il popolo.
Comprendiamo quanto questo dilemma abbia di vergognoso ricatto, perché pone di fronte a quelle situazioni in cui qualunque cosa si scelga si va a cadere nell' angoscia mortale. Preferisci che muoia uno o tutto il popolo?
Come si fa a rispondere a una simile drammatica domanda?
La diabolicità del consiglio sta proprio nello spingere in un vicolo cieco, per cui, per uscirne, bisogna alla fine avere l'apparenza di scegliere il minore male.
Dal falso dilemma si giunge alla falsa tesi: Se ucciderete quest'uomo, non verranno i Romani!
Il suggerimento di Caifa si colora di aperture politiche, di necessità di stato, di necessità di sopravvivenza, e coinvolge passionalmente la gente così legata al proprio popolo, ricattandola in ciò che ha di più vivo.
Pur se i rappresentanti non sono forse molto degni, è certo che amano il popolo, la nazione e non vogliono assumersi la responsabilità di andare contro all'avvenire, al futuro della loro gente. Ma sono appunto intrappolati in un diabolico ragionamento: se volete salvare il popolo, sarà necessario sacrificare Gesù.
Siamo di fronte alle vie di satana, che ci muove verso vicoli ciechi, ci confonde con emozioni improprie, ci impedisce di prendere contatto con la realtà e di considerarla sobriamente, e alla fine ci pone davanti ad azioni che appaiono sì non buone, ma inevitabili per ragioni più alte.
- Dopo il drammatico consiglio di Caifa, ci stupiamo ancora di più per il commento dell'evangelista.
Giovanni non lo fa in senso morale, come noi ora cerchiamo di fare (è un consiglio malvagio, ricattatorio). Il suo è un salto teologico, dottrinale inatteso e insperato: «non da se stesso... profetizzò».
C'è un piano di azione che è quello delle contingenze umane, dove avvengono cose vergognose, innominabili; parallelamente e non prescindendo da esso, corre il piano della provvidenza di Dio.
Per questo dicevo che un simile brano è una delle più dense elevazioni di teologia della storia.
Lungo il piano delle contingenze umane, anche errate, corre il piano della provvidenza salvifica, del disegno divino. Accanto al consiglio diabolico c'è il consiglio di salvezza. È con un tale legame che addirittura il consiglio umano di Caifa assurge al rango di profezia, pur se il termine ha, in certo senso, un significato ironico, quasi sarcastico, ma reale. «Non da se stesso disse queste cose», bensì in virtù del suo ufficio, della sua capacità di capo del popolo.
C'è un grande rispetto per le funzioni gerarchiche, una grande attenzione all' ordine delle situazioni, che la potenza di Dio non rovescia immediatamente e utilizza per il suo fine.
«Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Giovanni 11,51-52).
Non si potrebbe esprimere con parole più forti il senso dell' agire di Gesù e la teologia della redenzione.
«Morire per la nazione» è l'espressione che nel «Credo» è stata trasmessa: «Per noi morì», per la nostra salvezza.
E lo fece «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi». Dovremmo meditare a lungo su queste parole, partendo dal termine greco: congregare, mettere in unità.
Vengono alla mente altre parole di Gesù: «Gerusalemme, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raduna i suoi pulcini e non mi avete ascoltato» (Matteo 23,37; Luca 13,34). Oppure la parabola della rete misteriosa gettata nel mare, che raduna tutti i generi di pesci per la pienezza dell'ultimo giorno (Matteo 13,47). O ancora: «Dove sono due o tre radunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20).
Gesù tende a mettere insieme le persone, a radunarle in unità, e questo è il suo disegno, che potremmo chiamare storico, non soltanto teologico o spirituale: radunare tutti i popoli in unità, fare una sola cosa di tutti. Tale disegno ha le sue radici nella visione di unità che parte dall'Antico Testamento, per esempio il cap. 31 di Geremia: «Ecco, io li riconduco dal paese del settentrione, li raduno dall'estremità della terra» (v. 8). Già la versione greca dei LXX aveva aggiunto, di questo brano famoso del profeta: «Li raduno dalle estremità della terra nella festa di pasqua». Nella tradizione greca il radunare i dispersi aveva un legame con la festa di pasqua.
Noi comprendiamo perciò lo sfondo teologico, messianico, salvifico, nel quale vengono pronunziate e raccolte dall' evangelista le parole di Caifa: la Pasqua è prossima e, nel momento in cui si consuma un delitto politico, civile, sociale Dio raduna il suo popolo secondo la promessa, nel suo Figlio, nell'unità della sua vita e della sua morte, in un'unità che sarà come quella del Padre col Figlio. «Così che essi siano una cosa sola, come tu, Padre, in me e io in te» (Giovanni 17, 21).
- Come risposta alla visuale altissima dell' evangelista, c'è una frase drammatica che ci richiama alle parole del prologo: «Venne tra i suoi ma essi non l'hanno accolto» (Giovanni l, 11). Qui si dice: «Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Giovanni 11,53).
La luce e le tenebre, la vita e la morte, l'unità e la divisione, la volontà di comunione e l'opposizione totale a questo desiderio di unità.
- La frase con cui termina il brano (Giovanni 11, 54) ci insegna che, alla vigilia di eventi drammatici che lo riguardano strettamente, Gesù sente il bisogno, ancora una volta, di ritirarsi in silenzio, per un momento di familiarità con i suoi, così da affrontare con pienezza di coscienza i giorni che lo attendono.
Noi pure abbiamo bisogno di silenzio e di raccoglimento per capire se siamo davvero dalla parte di Gesù o dalla parte di coloro che, confusi e smarriti dalle esigenze della fede, non riescono più a riconoscere e a vivere la verità.
L'Eucaristia
L'istituzione dell'Eucaristia
Nel giovedì precedente la sua morte, Gesù si siede a tavola con i suoi apostoli per consumare con loro l'ultima cena e, nello svolgersi di essa anticipa profeticamente, attraverso dei gesti e delle parole, la consegna di sé all'uomo, che opererà definitivamente sulla croce.
Egli infatti voleva suscitare un gesto, uno strumento che attuasse l'efficacia universale della Pasqua, l'energia, la forza di riconciliazione e di comunione sprigionata nella sua Pasqua storica; questo gesto è l'Eucaristia che, nella liturgia della Chiesa, si presenta appunto come la maniera sacramentale che rende perenne in ogni tempo il sacrificio pasquale di Gesù dischiudendo all'umanità l'accesso alla vita senza fine. Nell'Eucaristia è presente non soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza, ma Gesù stesso.
Cerchiamo di leggere due brani del Nuovo Testamento che narrano quanto avvenne nell'ultima cena.
- «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: "Prendete e mangiate; questo è il mio corpo". Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: "Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell' alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. lo vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio"» (Matteo 26, 26-29).
- Il secondo brano lo troviamo nella I Lettera di Paolo ai Corinzi: «lo ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (11,23-26).
Questo passo della lettera di san Paolo è parte di una lunga esortazione da lui tenuta alle assemblee cristiane di Corinto. Nelle assemblee c'erano problemi, disordini, malumori e Paolo, per chiarire e mettere ordine, si richiama alla tradizione più antica che si conosca sull'Eucaristia, una tradizione che gli ,è stata consegnata a pochi anni dalla morte di Gesù. E la prima testimonianza in assoluto che noi possediamo sulla celebrazione dell'Eucaristia e notiamo che c'è una triplice dimensione: un riferimento al passato («fate questo in memoria di me»); una proclamazione per il presente (oggi è qui il corpo e il sangue del Signore); un orientamento al futuro («finché egli venga», nell'attesa del ritorno del Signore).
- Memoria del passato. La stessa cena pasquale ebraica era ed è vissuta come una memoria che attua lizza i fatti della liberazione del popolo dall'Egitto. Nell'Eucaristia la relazione non è soltanto con un fatto passato, bensì con una persona, con Gesù salvatore crocifisso e risorto. In ogni Eucaristia viene annunciata la sua morte, che ha distrutto la malvagità umana scatenatasi contro di lui perdonandola e ha vinto la paura della morte, e viene annunciata la sua risurrezione.
- Per quanto riguarda il presente, il Corpo e il Sangue di Cristo è veramente dato a noi nell' oggi, la nuova alleanza nel Sangue di Gesù si realizza adesso creando o rafforzando il rapporto dell'uomo con Dio, rapporto di figliolanza e di amicizia. Tutta la storia umana si concentra nel momento straordinario della celebrazione eucaristica.
- Inoltre, l'Eucaristia proclama il futuro dell'uomo e dell'umanità, preannuncia quel giorno senza tramonto nel quale la nostra vita sarà uno stare a mensa con Dio, un vivere con lui una familiarità immediata.
L'Eucaristia è dunque obbedienza e fedeltà a un comando preciso di Gesù, è comunione con Dio e tra gli uomini, è apertura a tutte le genti, anticipazione e segno della gloria futura.
Il significato dell'Eucaristia
Dei due racconti di Matteo e di Paolo, che ho ricordato, vorrei soffermarmi su alcune parole che ci aiutano a comprendere meglio il mistero.
- La prima è comune a entrambi i testi: «il mio sangue dell' alleanza». Gesù si colloca sullo sfondo dell' alleanza di Dio con il popolo d'Israele, alleanza che lo faceva appunto popolo di Dio: il dono del sacrificio di Gesù ha come fine la creazione del nuovo popolo, che non toglie nulla al primo, ma si estende a tutta l'umanità.
Dire "alleanza" equivale a dire l'instancabile amore con cui Dio, a partire dalla creazione, ha trattato l'uomo come un amico, ha promesso una salvezza dopo il peccato, ha liberato Israele dall'Egitto, l'ha accompagnato nel cammino attraverso il deserto, l'ha introdotto nella terra promessa segno dei misteriosi beni futuri, l'ha aperto alla speranza con la promessa del Messia. Collegando l'istituzione dell'Eucaristia con l'alleanza, Gesù vuole significare che essa dona a noi la forza di lasciarci totalmente attrarre nel movimento dell' amore misericordioso di Dio annunciato nell' Antico Testamento, celebrato definitivamente nella Pasqua e culminante nella pienezza del suo ritorno: «finché egli venga», nell' attesa della sua venuta.
- La seconda parola è riportata solo da Paolo: «nella notte in cui veniva tradito». Il riferimento è a Giuda ed è a tutti noi. Il Signore dona il suo corpo e il suo sangue a coloro che lo tradiranno, fuggiranno, lo rinnegheranno. I nostri tradimenti, le fughe, le infedeltà degli uomini, non possono che esaltare la grandezza del suo amore, come la profondità della valle fa vedere l'altezza del monte.
Dio ci ama in questo modo. L'unica misura del suo amore smisurato è il bisogno della persona amata: il povero, l'infelice, il peccatore, il perduto sono amati persino più degli altri. Come una madre che ama il figlio perché è suo figlio e, se è disgraziato, lo ama ancora di più sapendo che potrà diventare più buono sentendosi tanto amato.
E Dio, che ci è più padre di nostro padre e più madre di nostra madre, che ci ha tessuto nel grembo materno, fa della misericordia la realtà che ci avvolge dall' alto e dal basso, dall'oriente all'occidente. Nella sua misericordia noi siamo ciò che siamo e la nostra miseria diventa il recipiente e la misura su cui riversa la sua misericordia.
L'Eucaristia non è quindi un dono offerto a persone elette, giunte alla perfezione.
- La terza parola, ricordata da Matteo, è infatti: «il mio sangue è versato per molti», cioè per tutti gli uomini e per gli uomini di tutti i tempi, «in remissione dei peccati». Nella notte della disperazione, della prigionia, del nostro egoismo, dell' aridità, della freddezza del cuore, Gesù si dona a noi per strapparci dalle tenebre, per invitarci a credere in un Dio che non ha il volto rabbuiato, stizzito, amareggiato, deluso dalle nostre in corrispondenze, ma che ha il volto pieno di tenerezza, di fiducia, di passione per ogni creatura, il volto mitissimo del Crocifisso.
L'Eucaristia nella vita dei cristiani
Per noi cristiani è fondamentale capire che il "sì" totale e fedele di Gesù al Padre e agli uomini, che celebriamo nell'Eucaristia, significa il nostro "sì" al Padre e il nostro "sì" a tutti i fratelli e le sorelle, compresi coloro che ci criticano, non ci accettano, ci disprezzano, si oppongono a noi. L'Eucaristia sarebbe un segno vuoto se in noi non si trasformasse in forza di amore per gli altri, perché le parole: «Fate questo in memoria di me», non sono magiche. Pronunciandole, Gesù ci chiede di donare corpo e sangue, di offrire la nostra vita per tutti, di consegnarci.
E consegnarsi vuol dire avere una mentalità nuova, che prende il posto della vecchia mentalità propria di chi pensa soltanto a se stesso senza occuparsi degli altri. Per questo la «cena del Signore» che la Chiesa celebra ogni giorno, non tollera di essere messa a servizio di interessi mondani, ma esige un cuore indiviso dal momento che è destinata a formare nel tempo un unico corpo di Cristo. Essa deve accettare e assecondare l'agire misericordioso di Dio. Spesso, troppo spesso, ci avviciniamo all'Eucaristia senza la seria volontà di interrogarci lealmente sul senso della nostra vita; intendiamo fare un gesto religioso, ma siamo ben lontani dal lasciare mettere in questione la nostra esistenza dal dono totale di Gesù.
Eppure nella Messa Gesù ci raggiunge con la sua Pasqua e, se ne prendiamo seriamente coscienza, pone in noi ogni volta il dinamismo dell' amore, la forza di quella carità che è riverbero dell' essere stesso di Dio. Perché l'Eucaristia ci accoglie dalle oscure regioni della nostra lontananza spirituale, ci unisce a Gesù e agli uomini e ci sospinge con Gesù e con gli uomini verso il Padre; è come un sole che attira a sé l'umanità e con essa cammina per raggiungere un termine misterioso, ma certissimo.
Il cibo eucaristico configura nel tempo un popolo che esprime a livello sociale, non solo individuale, la forza dello Spirito di Cristo che trasforma la storia. In tale prospettiva è importante una riflessione sull'unità concreta che la vita umana trova nell'Eucaristia. Bisogna certo evitare artificiosi conformismi tra la trascendente, misteriosa unità, attuata dall'Eucaristia e le forme di unificazione create e realizzate dagli sforzi umani nei diversi ambiti di convivenza.
Ma tra la prima e le seconde esistono delle relazioni. I cristiani, che vivono nell'Eucaristia una singolare esperienza di attrazione di tutta la loro esistenza nel mistero unificante dell' amore di Dio, devono sentirsi impegnati non solo a ricavarne le conseguenze per i rapporti entro la comunità cristiana, bensì anche a favorire l'irraggiamento di questo mistero in ogni ambito di convivenza.
D'altro canto, ogni passo compiuto con buona volontà verso un dialogo tra le persone, verso un costume di comprensione e di collaborazione, verso l'intesa su un'immagine di uomo di ampio respiro, costituisce un segno e una preparazione dell'unità degli uomini in Cristo. Sarà così possibile portare all'interno della celebrazione la ricchezza di tutti gli sforzi umani di unificazione.
Cristo muore crocifisso
Il tremendo mistero del venerdì santo, del momento cioè in cui Gesù muore, è tale da farci temere di incrinarlo pronunciando parole proprio quando la Parola tace.
Possiamo però lasciarci guidare dai testi biblici che vengono letti nella liturgia della Passione.
- I primi due brani sono tratti dal profeta Isaia:
«Il Signore mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola», cioè una lingua propria di chi ascolta cose sconosciute per poterle manifestare ad altri. «Il Signore mi ha aperto l'orecchio e io non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso» (50,4-7). Isaia sta parlando di un personaggio misterioso, il Servo di JHWH, che accetta dolori e persecuzioni fidandosi di Dio. Di un Servo che prefigura in sé i segni e le vicende della Passione di Gesù. E continua:
«Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 53,3-5).
Queste parole, che ci colpiscono, ci sgomentano e che affermano come un messaggero respinto sia capace di salvare l'umanità intera, sono una chiave interpretativa della storia di Gesù e raggiungono il loro massimo di intensità nella morte di Cristo.
Esse ci aiutano a cogliere il significato del fuoco della croce, la dimensione interiore dell' evento della Passione. Gesù è il misterioso Servo del Signore che si offre, con piena e libera obbedienza, a un destino di sofferenza e di morte.
Il Cristo sofferente, di cui leggiamo nel racconto evangelico di Matteo (cfr. 27, 1-55), è colui che prega il Padre e gli si affida. Questo profondo affidamento di Gesù, che traspare da alcuni momenti e parole del vangelo, è bene illustrato dalle letture profetiche.
Il Servo sofferente che si affida al Padre non è soltanto un segno luminoso dell' amore di Dio per tutti gli uomini, bensì diventa il rappresentante degli uomini davanti a Dio. E l'uomo vero, obbediente, riconciliato con il suo Signore; l'uomo che soffre per la tragedia del peccato, che dischiude agli altri uomini il cammino del ritorno a Dio.
Ancora, il Servo di JHWH appare solidale con tutto il popolo, prende su di sé tutti i peccati, coinvolge gli uomini nello stesso cammino di amore doloroso ed espiatore.
- Del lungo racconto della passione di Gesù, tratto dal vangelo di Matteo, racconto che bisognerebbe leggere per intero e con grande attenzione, considero soltanto l'ultima parte:
«Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono... Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: "Davvero costui era Figlio di Dio!"» (Matteo 27,50-54).
Il velo che si squarcia, la terra che si scuote, le rocce che si spezzano, i sepolcri che si aprono sono il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di un'immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Fin dall'inizio la storia umana è storia di peccato, è segnata dal succedersi di tanti mali personali, sociali, cosmici. A un certo punto tutto il male si condensa nella passione di Gesù. Egli è schernito, deriso, oltraggiato, percosso, flagellato perché vuole vivere l'angoscia dell'umanità, la solitudine dell'uomo, vuole sentire su di sé le violenze, le crudeltà, i soprusi, gli inganni, le maldicenze che si compiono nel mondo. Gesù vuole anzi vivere l'abbandono del Padre come il dolore più grande dell'uomo, per espiare tutti i peccati. È il suo amore per noi che lo porta al confine della desolazione umana così da riscattarla in se stesso e da ricondurre l'uomo all' amore del Padre.
Per questo muore, arrestando per così dire la morte che diventa il trionfo dell' amore di Dio.
Cerchiamo di immedesimarci nello stato d'animo del centurione romano che, di fronte allo sconvolgimento cosmico avvenuto dopo la morte di Gesù e, soprattutto, avendo visto di persona l'atteggiamento di inermità e di mitezza con cui Gesù muore, esclama: «Davvero costui era Figlio di Dio!». È la prima professione di fede davanti alla croce; una strana professione se pensiamo che viene da parte di un uomo incaricato ufficialmente di condurre a morte il Signore.
Eppure noi stessi, come quell'antico soldato, siamo implicati nella morte e nel calvario di Gesù; noi stessi siamo protagonisti e non solo spettatori di questo evento.
E, come il centurione, sentiamo di non avere le disposizioni adatte a comprendere ciò che sta accadendo.
È probabile che all'inizio il centurione abbia preso parte quasi sbadatamente a quella serie di avvenimenti, per un ordine puramente formale che aveva ricevuto.
Certamente si sarà stupito sentendo la folla che gridava: «Vogliamo Barabba!» e avrà notato l'assurdità della scelta: da una parte, un uomo di aspetto sereno, quasi regale, che veniva condannato e, dall' altra parte, un uomo che al centurione, pratico com'era di questa gente, appariva chiaramente per ciò che era, un malfattore e che però veniva messo in libertà.
Tutto questo l'avrà indotto a riflettere. In seguito, lungo il calvario, avrà visto i maltrattamenti che i soldati infliggevano a Gesù e probabilmente, essendo abituato a vedere tali crudeltà, non avrà capito molto. Ma forse la pazienza di Gesù avrà incominciato a penetrargli nel cuore.
Via via che la croce, portata prima da Gesù e poi da Simone, saliva verso il luogo della crocifissione, qualcosa si muoveva già nell' animo di questo soldato testimone.
In ogni caso, ci fu un momento in cui il suo sguardo incominciò a fissarsi su Gesù in maniera nuova e sorprendente, per giungere quindi all'intuizione di una misteriosa grandezza di questo condannato.
Il suo, in fondo, è il cammino di tutti noi che contempliamo il Crocifisso, compresi coloro che non fossero pienamente partecipi della vita della Chiesa o, addirittura, venissero da sponde lontane, proprio come il centurione pagano.
Il venerdì santo è destinato a ogni uomo, a ogni persona di questo mondo e ciascuno di noi, anche se cristiano, deve rifare il cammino di contemplazione della croce, guardando negli occhi Gesù. Perché ciascuno di noi, oggi, può maturare nel cuore questa esclamazione, quasi fosse la prima volta: Tu sei, Gesù, il Figlio di Dio!
Come il centurione, guardiamo il volto di Gesù e vediamo i passanti che scuotono il capo e che non credono alla sua divinità.
Sono tanti i nostri contemporanei che vanno frettolosamente, senza fermarsi davanti a lui.
Forse hanno altri impegni, altre mete da raggiungere, e l'evento Gesù sembra marginale per loro. Per alcuni,
la Settimana santa e la Pasqua sono semplicemente date del calendario, che hanno riferimento alla primavera, alle vacanze, alle feste.
Forse, persino in noi c'è qualcosa di superficiale; per un verso, ci scopriamo un poco passanti che vanno frettolosi davanti a Gesù che muore. Forse abbiamo nel cuore pensieri, desideri, impegni, preoccupazioni, che sono al di fuori della salvezza che oggi ci viene donata.
Gesù però ci invita a sostare e a guardarlo crocifisso, a fare come il centurione che non passa oltre ma si ferma a fissarlo, si pone di fronte a lui e diventa in tal modo capace di vivere quel grande venerdì santo di salvezza. L'antico soldato finisce con il comprendere anche gli eventi che accadono intorno a Gesù - le tenebre, il terremoto - come legati alla sublime maestà di colui che muore con amore e per amore.
Perché è questo amore che il centurione pagano ha colto, ben al di là dei fatti straordinari che avrebbero potuto spaventarlo soltanto.
Egli, invece, rimane inchiodato davanti al crocifisso e intuisce il mistero dell' amore di quell'uomo che va incontro alla morte come mai nessun altro uomo ha fatto.
Lo intuisce da tante piccole circostanze: il modo con cui Gesù raccoglie le offese, i brevi gesti e segni del capo verso chi gli allunga la spugna con l'aceto, la preghiera gemente e santa al Padre, il grido potente con cui,passa dalla vita alla morte.
È davvero troppo grande il mistero di amore che la persona di Gesù rivela in ogni suo palpito dalla croce,. perché chiunque abbia il coraggio di sostare un momento in silenzio davanti a lui non se ne senta coinvolto nel profondo dell' essere.
Da questo punto, non conta tanto chi siamo, chi pensiamo di essere; conta ciò che guardiamo, conta il sublime mistero del Crocifisso.
Il centurione diventa un simbolo della verità del credente: avendo posto i suoi occhi su Gesù crocifisso, il resto si è offuscato, non conta più, ed egli rimane solo con colui che è salvatore di tutti.
- Il messaggio di Gesù crocifisso è molto chiaro. Dio, che avrebbe potuto annientare il male annientando tutti i malvagi, preferisce entrare in esso con la carne del suo Figlio, in Gesù, proclamando il perdono e il ritorno e subendo su di sé le conseguenze del male per redimerlo nella propria carne crocifissa. E la legge della croce, il principio secondo cui il male non viene eliminato, ma trasformato in bene sull' esempio e per la forza della morte di Cristo. In questo modo la croce diviene la suprema legge dell'amore e chi vuol far parte del cammino di rigenerazione inaugurato da Gesù deve entrare nel male del mondo per trame il bene della fede, della speranza, della carità, dell' amore per i nemici. La legge della croce è formidabile, ha un' efficacia sovrana nel regno dello spirito ed è applicabile a tutte le vicende umane; è il mistero del regno di Dio, è il mistero del Vangelo. Non è una legge accettabile dalla semplice intelligenza umana naturale, non la si può dimostrare prescindendo da Cristo. L'intelligenza umana naturale la rifiuta, non riesce a coglierla fino a quando non si è decisa per la fede.
Tuttavia il Signore crocifisso è centro di attrazione per ogni uomo e donna che viene in questo mondo, centro di attrazione per la storia, centro di attrazione per tutte le religioni del mondo. Ogni religione trOva in questa croce il suo punto di arrivo, il suo termine, la fine di un suo eventuale mandato prowisorio; perché tutto culmina nella regalità universale ed eterna di Cristo Gesù, nell'alleanza di Dio con l'umanità, per sempre.
Nel cuore del crocifisso, tutto ciò che è "no" può diventare "sì" e dal tradimento può nascere l'amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall' odio l'amore, dalla menzogna la verità. Questa è la forza di Gesù nella e dalla croce.
La nuova azione di Dio nel mondo
L'evento della risurrezione di Cristo
Allo straziante grido di derelizione risuonato sulla bocca di Gesù in croce - «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» -, grido che riassume tutte le situazioni di afflizione dell'umanità, risponde nella notte del sabato santo e nel giorno di Pasqua, un gioioso grido di fede e di speranza: Cristo è risorto!
Di fede perché annuncia ciò che per sempre è accaduto in Cristo; di speranza perché annuncia ciò che attende tutti gli uomini e le donne della terra quando lo vedranno risorto nella pienezza della sua sfolgorante gloria.
La risurrezione di Gesù, infatti, non è come quella di Lazzaro (raccontata nel vangelo di Giovanni al capitolo 11) che era tornato per poco in mezzo ai suoi; è una nuova azione di Dio, che non riusciremo mai a immaginare con la nostra mente, con la nostra fantasia, come non possiamo immaginare la stupenda realtà che Dio farà di noi alla nostra morte e al momento della nostra risurrezione. Un'azione di Dio su Gesù e su di noi, tale che la morte non avrà più alcun potere.
La certezza di quel grido di gioia proclama che ogni abisso di male del mondo è stato inghiottito da un abisso di bene, che ogni morte ha già il suo contrappeso di vita, che ogni crisi ha già il suo superamento e ogni tristezza ha già la sua gioia.
La nostra esistenza umana è incline a rimpicciolire le speranze, a ridurle di giorno in giorno di fronte alle delusioni, e la nostra tristezza ci porta sovente a rifiutare parole di conforto, perché non abbiamo un'idea esatta della liberazione portata da Gesù risorto.
Il Risorto ha davvero inaugurato un mondo nuovo, che entra in mezzo a noi in quanto la Pasqua è una ri-creazione, una nuova creazione dell'umanità.
La risurrezione di Gesù è un fatto storico, di significato cosmico, è l'inizio della trasformazione globale del mondo; è un evento di significato epocale perché trasforma il senso della storia e ne indica la vera direzione. Un evento unico e insieme un evento che rivela un' attesa costante e universale, scritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.
- Un evento unico: non è mai accaduto un fatto simile di fede nella risurrezione definitiva e gloriosa di un uomo di cui è stata documentata la vita, la morte e la sepoltura. Non è accaduto in nessuna altra religione, benché vi siano state premesse somiglianti a quelle presenti nella vita terrena di Gesù: capi religiosi da tutti stimati, dottrine spirituali elevate. Sono tanti gli uomini, nel corso dei secoli, dei quali si sarebbe voluto sperimentare che vivevano ancora. Eppure soltanto di Gesù di Nazaret i discepoli, e anche gli avversari, hanno affermato di averlo incontrato risorto e hanno creduto che egli vive ora nella pienezza della vita divina mentre resta vicino a noi con la potenza del suo Spirito.
- Un evento straordinario, ma che manifesta una legge universale.
Esso rivela che la risurrezione di Cristo risponde alle intuizioni, alle speranze di un destino umano aperto al futuro, viene incontro al nostro desiderio che la morte non sia l'ultima parola della vita, che la posa di una pietra tombale non sia l'ultimo atto della nostra esistenza.
Tale segreta premonizione, tale irrinunciabile speranza appartiene alla storia degli uomini, è nel cuore di tutti e di ciascuno; ogni persona umana, a prescindere dalla fede religiosa, vive una sorta di atto di speranza nella propria durata oltre la morte, e lo vive e lo compie o nel modo della libera accettazione, della fiducia oppure del libero rifiuto, della sfiducia, dello scetticismo. Ma l'atto di fiducia nella propria sopravvivenza, anche quando è posto, rimane un protendersi verso un avvenire ignoto; e quando è negato fa rinchiudere in se stessi, lascia insoddisfatti, quasi disperati.
È lo scoppio storico della notizia che Gesù è risorto ed . è apparso ai suoi, che trasforma le trepide attese umane in una luce sfolgorante permettendoci di vedere in lui la primizia della nostra risurrezione, la certezza in una vita che non verrà mai meno. Nel Risorto è glorificato un frammento di storia, di cosmo, quale segno e inizio del destino del genere umano e dell'intero cosmo, dell'uomo e della donna chiamati a formare il grande corpo dell'umanità risorta in Cristo.
La risurrezione di Gesù ha quindi il senso di un definitivo essere salvata dell' esistenza umana, a opera di Dio e davanti a lui.
È vero che nel nuovo orizzonte derivato dalla risurrezione di Cristo è ancora presente la sofferenza, l'ostilità, la fatica, la violenza, le guerre, per cui ci si domanda: Ma dov'è il cambiamento che avrebbe operato il Risorto? La risposta è semplice: la Pasqua di Gesù non ci trasferisce automaticamente nel regno dei sogni; ci raggiunge nel cuore per farci percorrere con gioia e speranza quel cammino di purificazione e di autenticità, di verifica del nostro comportamento, che ha come traguardo la certezza di una vita che non muore più. La Pasqua non ci restituisce a un mondo irreale, bensì a un' esistenza autentica, un' esistenza di fede, di speranza, di amore: una fede che è fonte di gioia e di pace interiore, una speranza che è più forte delle delusioni, un amore che è più forte di ogni egoismo. Il Risorto è con noi e insieme a lui siamo in grado di vincere il male con il bene, di trarre dal male il bene più grande. Questa è la forza e la novità della Pasqua.
Il racconto delta risurrezione di Gesù
Nessuno è stato testimone della risurrezione di Gesù; nessuno era presente nel momento in cui è uscito dal sepolcro. L'evangelista Marco racconta come Gesù, dopo la sua morte, fu sepolto in una tomba scavata nella roccia. A questa tomba si recano, passato il giorno del sabato, delle donne che vogliono imbalsamare il corpo del Signore. Giungono al sepolcro allevare del sole, ma scoprono con sorpresa che il grande masso posto all'entrata della tomba era stato già rotolato. Entrano ed ecco un giovane seduto sulla destra, vestito di una veste bianca, che dice loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto. Ora andate, dite ai discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (Marco 16, 6-7).
Come gli altri evangelisti, Marco si preoccupa di riferire i fatti e le parole; non aggiunge nulla di suo. Qualcuno tuttavia potrebbe obiettare: ma sarà vero quello che ha detto? la risurrezione di Gesù non potrebbe essere una leggenda?
Le apparizioni del Risorto
In realtà noi abbiamo delle testimonianze storiche inconfutabili che attestano le apparizioni di Gesù risorto.
I quattro vangeli - di Matteo, di Marco, di Luca, di
Giovanni - descrivono gli incontri con il Risorto proprio per sottolineare che egli vive ancora in mezzo a noi, cammina con l'umanità lungo tutti i secoli.
Matteo riferisce l'incontro di Gesù con delle donne (28, 9-10) e con gli undici apostoli (28, 16-20), Marco l'incontro con Maria di Magdala, con due discepoli e con gli undici apostoli (16) 9-18); Luca riporta l'incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus e con gli apostoli (24, 13-53); Giovanni l'incontro con Maria Maddalena, con gli apostoli, con l'incredulo Tommaso e con i discepoli sul lago di Tiberiade (20, 11-29; 21, 1-23).
Luca, nel Libro degli Atti, scrive che Gesù apparve ai suoi per quaranta giorni, parlando del regno di Dio (1) 1-8).
Il più antico documento che possediamo della fede cristiana nella risurrezione, è un passo della I Lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Pietro e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta; la maggior parte di essi vive ancora. Inoltre apparve a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo tra tutti apparve anche a me» (15, 3-8).
Notiamo che dei quattro verbi attribuiti a Cristo tre sono, nel testo originale greco, in un tempo che indica un fatto avvenuto nel passato (morì, fu sepolto, apparve); il quarto invece, «è risuscitato», nel testo greco ha un tempo che indica il permanere di un evento accaduto in passato, ma che continua ad avere effetti nel presente, nell' oggi.
Dunque Gesù non solo è risorto, bensì vive ancora adesso per noi e per il mondo intero. Potremmo dire che, se la risurrezione è il momento culminante della pienezza della vita e di amore di Dio che si comunica agli uomini in Cristo Gesù, tale pienezza continua a crescere attraverso l'accoglienza della grazia del Risorto, che viene fatta dall'umanità nel suo cammino.
E il Risorto appare ricostituendo una serie di rapporti: con singole persone, con gruppi, con la folla, donando a tutti la capacità di vivere relazioni autentiche, di perdonare, di superare le conflittualità presenti nelle famiglie, nella società, nelle nazioni.
+ Fermiamoci allora sull' episodio dell' incontro di Gesù con Maria di Magdala:
«Maria stava all'esterno del sepolcro e piangeva, Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato deposto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto", Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa "Maestro!", Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto» (Giovanni 20) 11-18).
- Maria Maddalena è giunta al sepolcro di buon mattino, ha visto con sorpresa la tomba vuota e resta presso il sepolcro a piangere perché il suo amico e Maestro è morto; si accontenterebbe di sapere dove l'hanno messo.
Ella rappresenta l'umanità sempre alla ricerca di un salvatore, ma con una speranza inibita e ristretta, che non osa. La sua ricerca di Gesù è ancora molto umana: cerca Gesù tra i morti, dove non c'è. Sovente noi cerchiamo Dio dove non c'è, attraverso modelli di efficacia umana, di successo, di potere, di soddisfazioni facili.
La ricerca di Maria Maddalena è anche l'immagine di una società afflitta e smarrita, che desidererebbe almeno riflettere un poco, per comprendere le ragioni dei suoi mali, per vedere quali sono gli errori che ha commesso.
- Gesù non è irritato dalla ricerca sbagliata e imperfetta della donna perché sa che in lei c'è molto amore e un profondo anelito. E, a un tratto, Maria Maddalena vede con i suoi occhi colui che non credeva più di vedere, ascolta una voce intensa che non avrebbe mai più pensato di udire, si sente chiamare per nome: «Maria! ».
È significativo che Gesù si riveli a lei non annunciandole l'evento che lo riguarda: "sono risorto, sono vivo", ma pronunciando il nome: "Maria!". Si tratta di una rivelazione personale, esistenziale, che infonde non solo la certezza che Cristo è vivo, bensì la coscienza di essere da lui conosciuta veramente, nella sua pienezza e dignità. Quello di Gesù è un appello discreto di libertà, espresso con il nome che indica meglio l'interiorità.
Così Gesù vuole incontrare ogni uomo: avvicinandosi, correggendo le ricerche incerte, confuse, maldestre, rivelando il suo amore e chiamando per nome. Ciascuno di noi può fare l'esperienza del Risorto, scoprirne i segni pur se sente nel cuore poca speranza e se sul suo volto scendono lacrime.
È nell'interiorità che possiamo scoprire l'amore di Dio; è dentro di noi che possiamo sentirci chiamati e restituiti alla nostra identità profonda, alla nostra vocazione di figli di Dio.
Dunque l'evangelista Giovanni ci trasmette che la prima creatura a scoprire i segni del Risorto è stata una donna piena di sensibilità, di affetto, di tenerezza. Una donna colma di quell'anelito, di quel desiderio di andare al di là della morte e della finitudine umana, che sperimenta ogni persona quando, per esempio, nelle sue giornate prende delle decisioni coraggiose e oneste, senza che da esse gli venga alcun vantaggio per la vita presente, traendone anzi perdita e talora danno. E in occasione di simili atti che comprendiamo di dover compiere in maniera assoluta, senza ritorni umani e senza costrizioni esterne, che affermiamo, almeno implicitamente, l'esistenza di qualcosa al di là, che magari non riconosciamo ancora in parole o in concetti religiosi e tuttavia guida ogni azione onesta e disinteressata facendoci intuire come i conti che quaggiù non tornano, alla fine torneranno.
Questa forza interiore e questa speranza sono un grido verso il Risorto, sono la ricerca coltivata da Maria presso la tomba: la sua ricerca confusa e incerta è preziosa, è esperienza ineliminabile di una persona umana giunta a un minimo di autenticità e di onestà con se stessa e con la vita.
La forza interiore e la speranza sono l'antidoto di cui abbiamo bisogno contro il decadimento sociale, morale, civile e politico, un decadimento che tende a mandare in frantumi l'unità culturale e civile di un popolo, che tende a far perdere il senso delle ragioni per stare insieme e lavorare per lo stesso scopo, nella stessa direzione.
Per uscire dal cerchio infernale del degrado sociale e politico occorre che il cuore appesantito, come quello di Maria Maddalena che piange, sia mosso da una grande e concreta speranza, non legata a circostanze contingenti, a rimedi di corto livello sui quali siamo fin troppo portati allo scetticismo.
Gesù che appare alla donna ci invita a cambiare modo di pensare e di vedere, ad accettare che l'amore di
Dio dissolve la paura, che la grazia rimette il peccato, che l'iniziativa di Dio viene prima di ogni sforzo umano e ci rianima, ci rigenera interiormente.
- Un'altra apparizione del Risorto può essere ricordata: l'incontro con due discepoli:
«In quello stesso giorno - quello della scoperta della tomba vuota, la domenica della risurrezione - due discepoli erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo tra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?". Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?"» (Luca 24, 13-32).
Possiamo cogliere in questo racconto quattro esperienze umane fondamentali: il camminare, l'ospitalità, la frazione del pane, l'apertura degli occhi.
- Tutto si svolge durante un cammino, cioè nell'esperienza dell'itineranza, dell'andare verso un luogo: «due di loro erano in cammino». L'evangelista Luca parla spesso di Gesù come "colui che fa cammino", che è in cammino. Anche il particolare che quando Gesù pone la domanda, i due si fermano e poi riprendono a camminare, rivela che viene data molta importanza a questa esperienza sotto la quale può essere vista la storia di ogni uomo. La vita umana è un dinamismo, va in avanti, è protesa verso una direzione e Dio viene incontro all'uomo per accompagnarlo e per camminare con lui.
- L'ospitalità, l'accoglienza è un altro simbolo primario e antichissimo dell'uomo che supera l'istintivo timore del viandante che bussa alla porta. Qui è espressa con parole meravigliose: «Rimani con noi», dicono i due a Gesù, non andartene, vogliamo stare insieme. La loro diffidenza iniziale verso lo sconosciuto si scioglie lentamente sino a diventare fraternità: vieni a casa mia, che tu sia mio ospite. In oriente l'ospitalità è uno dei pilastri del costume, è il modo di essere uomini veri: saper accogliere chiunque, a qualunque ora, in qualunque tempo, senza mai irritarsi, preparando subito tutto con gioia, è un preciso dovere dell' orientale. Ed è un simbolo che ci interpella, che interpella gli abitanti delle nostre grandi città che, vivendo magari nello stesso caseggiato, con gli appartamenti sulle stesse scale, si ignorano per anni, non avvertono il bisogno di frequentarsi, di conoscersi, di accogliersi.
- Anche la frazione del pane ha una sua simbologia umana e storica: «Mentre si sedevano con lui, prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro». La partecipazione del medesimo pane è più dell' ospitalità, è la condivisione della mensa che rende veramente fratelli, è come una cerimonia di alleanza, di amicizia: metto in comunione con te il pane che è un mio bene.
Luca, con la frase, «spezzò il pane» ha in mente l'Eucaristia, vuole sottolineare che Gesù, ormai Risorto e vivo, si dona ai due manifestandosi nella carità perfetta dell'Eucaristia. Ma la condivisione è, di fatto, un simbolo umano e per questo Gesù l'ha scelto come simbolo eucaristico, come segno del dono della sua vita all'uomo.
- L'apertura degli occhi è in opposizione al tema della chiusura degli occhi: «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo», erano come accecati. Anche Maria di Magdala, in un primo momento, aveva scambiato Gesù per il custode del giardino. Come mai, pur conoscendo bene il suo volto, pur essendo suoi fedeli discepoli, non capivano che era Gesù? Gli occhi di Maria erano chiusi dalle lacrime, dal dolore, dalla ricerca sbagliata; i due di Emmaus sono accecati dall' aver perso ogni speranza, dal non aver compreso le parole di Dio contenute nella Scrittura. A un tratto «si aprirono i loro occhi e lo riconobbero».
L'uomo, immerso nella quotidianità pesante, non vede le meraviglie dell' amore di Dio che lo circondano, non sa leggere la Scrittura in modo retto, teme che il Dio di Gesù Cristo, di cui sente parlare, gli impedisca di essere felice, di vivere come intende vivere. Quando invece, nel suo cammino di ricerca faticosa, apre gli occhi, per la grazia del Risorto, allora scopre con stupore e con gioia che Dio gli è amico, gli è Padre, che Gesù gli è fratello, che la fede è chiave di vita veramente umana.
I due discepoli conoscevano le Scritture, ma non ne avevano colto il significato più profondo. Gesù gliele spiega, spiega il mistero dell'uomo, della storia, degli avvenimenti, delle vicende ed ecco che il loro cuore arde: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto... quando ci spiegava le Scritture?». TI fuoco che brucia produce scuotimento, sconvolgimento interno, emozione forte; è l'esperienza che nasce dall' ascolto vero della Parola di Dio. Ora hanno capito che ogni pagina della Bibbia, dal primo all'ultimo Libro, contiene quella Parola vivente che è Gesù morto e risorto.
Ne consegue un insegnamento prezioso: è fondamentale conoscere la Scrittura per scoprire l'amore di Dio per l'uomo e la sua lunga storia d'amore per noi che si è dispiegata nella storia della salvezza.
Nell'insieme, l'apparizione di Gesù ai due discepoli ci ricorda che l'uomo è un essere in cammino e bisognoso di significato; che in questo cammino è chiamato a riconoscere la Parola di Dio che lo incalza, lo interpella continuamente sulla direzione del suo viaggio per spiegargliene il senso; che la libertà e la felicità dell'uomo consiste nell' accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell' aprire gli occhi e il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del suo Figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo e operante in mezzo a noi.
Il Risorto crocifisso e l'eternità nel tempo storico
L'evento della Pasqua - che si rinnova in ogni celebrazione eucaristica - chiede ai cristiani di essere persone capaci di dire all'umanità: Non temere, donna, non piangere! Ora sai dove conduce il cammino della vita, ora sai che il tuo Signore è con te.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che il Risorto è per sempre il Crocifisso e sta davanti al Padre come colui che è passato per amore attraverso la passione e la morte di croce. TI Risorto, infatti, allorché apparve agli apostoli «mostrò loro le mani e il costato» trafitti, come sappiamo dal vangelo di Giovanni, al capitolo 20,19-29. E tornando da loro dopo otto giorni, all'apostolo Tommaso, che alla prima apparizione di Gesù non era presente e si rifiutava di credere che era ancora vivo, disse: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente!».
Il mistero pasquale comprenderà dunque per tutta l'eternità, inscindibilmente, morte e risurrezione perché Dio ha scelto di salvarci così, si è manifestato amico dell'uomo attraverso l'amore crocifisso del Figlio, si è spogliato nel Figlio diventato povero per rendere credibile il suo amore per noi.
Alla domanda antica e nuova dell'uomo - che cosa sarà di me dopo la morte? -la fede cristiana non risponde quindi assicurando semplicemente che tutto continuerà dopo la fine del tempo, che tutto ci verrà restituito; sarebbe una risposta incompleta. La fede cristiana afferma che l'eternità, la vita nuova, vera e definitiva è già entrata con la Pasqua di Cristo nella mia esperienza, è da me vissuta qui e adesso nella indistruttibilità dei gesti che io pongo - di fedeltà, di pace, di amore, di perdono, di amicizia, di onestà, di libertà responsabile.
Sono gesti in cui, nel tempo, l'uomo supera il tempo raggiungendo l'eternità, nella misura in cui si affida alla vita e all' eternità del Crocifisso Risorto che ha vinto la morte.
La Risurrezione di Gesù non è soltanto ciò che ci attende dopo la morte; è un fatto pasquale presente, che si attua giorno dopo giorno in colui che crede e che spera, che soffre e che ama, che si lascia guidare dalla Parola nel quotidiano per seguire Gesù il quale, mediante la passione e la morte, compie il passaggio da questo mondo al Padre.
Ogni volta che prendiamo coraggiosamente una decisione buona, eticamente rilevante, noi interiorizziamo l'eternità grazie all' eternità di Gesù entrata in mezzo a noi. Possiamo allora riscattare l'angoscia del tempo sapendo che i nostri atti di dedizione hanno un valore definitivo, depositato nella pienezza del corpo risorto di Cristo.
E riusciamo, in qualche modo, a cogliere anche il dramma di comportamenti non etici, perché pure in essi si attua l'irrevocabilità. Possono essere atti compiuti dall'uomo per leggerezza, per incoscienza e allora vengono riscattati dalle fatiche e dai dolori che ogni vita comporta. Possono essere invece atti che afferrano la persona nella sua totalità, che la "fissano" nel male, nel rifiuto di Dio e degli uomini. Da tali atteggiamenti globali negativi dell'uomo ci si salva solo per la strapotenza del Crocifisso Risorto. E se ci fossero situazioni di ribellione permanente e ostinata nei riguardi di Dio, il Risorto ci lascia comunque sperare, contro ogni speranza, che la misericordia divina è infinita.
Perché Dio è il Padre che ci ama per primo, che si dona a noi in Gesù ancor prima di ogni attesa e speranza umana, che ci perdona gratuitamente; Dio è Colui da cui tutto viene, tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna.