giovedì 20 settembre 2012

Rosh Ha-Shanah 5773, Yom Kippur e Sukkot




CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 20 settembre 2012 -  Di seguito il testo del telegramma che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato al Rabbino Capo di Roma, Dott. Riccardo Di Segni, nella ricorrenza di Rosh Ha-Shanah 5773, di Yom Kippur e di Sukkot(*):
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Illustrissimo dott. Riccardo di Segni
Rabbino Capo di Roma
Comunità Ebraica di Roma - Tempio Maggiore
Lungotevere Cenci - 00186 ROMA
In occasione delle festose ricorrenze di Rosh Ha-Shanah 5773 e Yom Kippur e Sukkot, rivolgo un sentito auguro di pace e di bene a Lei e all'intera Comunità ebraica di Roma, invocando dall'Altissimo copiose benedizioni per il nuovo anno e auspicando che ebrei e cristiani, crescendo nella stima e nell'amicizia reciproca, possano testimoniare nel mondo i valori che scaturiscono dall'adorazione del Dio unico.
BENEDICTUS PP. XVI

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(*): ROSH HA SHANA’ (17 e 18 settembre 2012; vigilia 16 settembre)
YOM KIPPUR (26 settembre 2012, vigilia 25 settembre)
SUCCOT (dall’1 al 7 ottobre 2012, vigilia 30 settembre)

16-18 settembre 2012: 1° e 2° giorno di Tishri, Rosh haShana Capodanno 5773.
È la festa di Rosh ha Shanah, Capodanno ebraico. Ricorda la creazione dell'uomo. In questo giorno, Dio giudica il mondo e vengono passate al vaglio tutte le azioni compiute dagli uomini; per questo è anche chiamato “Giorno del Giudizio”. Il giudizio diviene definitivo dopo dieci giorni, nel “Giorno dell'Espiazione” (Yom Kippur), un lasso di tempo sufficiente alla maggioranza degli esseri umani che stanno in bilico per fare un profondo esame di coscienza per ravvedersi. Nella sinagoga si suona il corno d'ariete (shofar) per ricordare al popolo di ritornare a Dio. Nel pomeriggio è tradizione andare in riva a un corso d'acqua e recitare preghiere svuotandosi simbolicamente le tasche, per chiedere a Dio di gettare le nostre colpe nel più profondo dei mari. 

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Di seguito il testo dell'augurio di Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma:

 "La radice da cui deriva la parola shanà, l’anno, ha significati diversi e talvolta opposti. C’è l’idea della ripetizione (shnaym significa due) e quindi dello studio (da qui Mishnà); ma c’è anche il concetto di differenza (shinnuy); ” hu shonè” può significare che “lui è diverso” o che “lui studia, ripete, riferisce insegnamenti”. Shnaym, due, in matematica è il doppio di uno; ma per Qohelet (4:9) “è meglio di uno”, la prospettiva etica supera la ripetizione delle cose uguali. La shanà può essere quindi ripetizione e/o rinnovamento. Che questo Rosh Hashana sia l’inizio di una ripetizione di cose buone, o di un rinnovamento, se le cose buone non ci sono state" .
Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma

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PER APPROFONDIRE
Rosh Hashanà           

Il nome più noto della festa è sicuramente Rosh HaShanà, capodanno.
Rosh... la memoria della conclusione della creazione del mondo: il venerdì della creazione compiuta nella dimensione materiale (manca il sabato). Facendo memoria della creazione dell'uomo, si contempla il vero inizio del tempo nella sua percezione umana, cioè il momento "zero" dell'esistenza dell'uomo nella realtà. 
Per noi che vogliamo vivere questo ricordo significa "tornare in una situazione nella quale il peccato non c'è". In realtà noi siamo esseri fortemente temporali; è una valenza positiva, ma ci condiziona il fatto che è difficile scardinare l'oggi: "sono così perché ieri ero così". Invece questo tornare al momento 0 rompe il legame del nesso logico di causa-effetto; il che impedisce che diventiamo il prodotto di un determinismo spaventoso che ci fa rimanere schiavi di ciò che siamo stati e rende vana la redenzione.
Il procedimento non è semplice e non esauribile in toto in un solo momento; ma esso dura tutta la vita e fa sì che il passato, pur restando presente, cambi di segno.
Questo nome della festa dipende da vari motivi. Innanzi tutto, è il momento dell'anno in cui Dio inizia a giudicare l'uomo per le proprie azioni, come afferma il Talmùd Babilonese: Nel capodanno ogni uomo passa davanti a D-o come gli animali del gregge davanti a un pastore. Ossia, così come un pastore fa sfilare le sue pecore una per una davanti a sé per farle entrare nell'ovile, così Dio, guardando il destino di ogni uomo, fa passare davanti a Sé le azioni compiute da ogni persona. In questo modo Egli può giudicare l'operato di ogni persona per sapere in quale libro scrivere il suo nome. Disse, infatti, rabbi Kruspedaì a nome di rabbi Yochanàn:
Tre libri sono aperti davanti a Dio nel giorno di Rosh Hashanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim Dio attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh Hashanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte.
Il giudizio implica il peso delle azioni umane, che vale sia per il singolo che per la collettività e, in definitiva, per l'intera umanità. Giudizio rigoroso, che si dipana nei giorni successivi della teshuva.
Ciascuno, cambiando il peso delle proprie azioni, può cambiare il mondo. 
Norme rabbiniche precise per la celebrazione di Rosh Hashanà prescrivono il suono dello shofar (corno di ariete) che non a caso ricorre anche a Kippur. L'ariete ricorda la legatura di Isacco. (cfr. approfondimenti in Yom teruà, infra)
Vi riconosciamo l'aspetto collettivo di chiamare alla riunione e invitare al pentimento tutta la comunità ed ogni persona.
Ma lo shofar è anche una citazione della creazione: il primo vero shofar è Adamo (quando Dio gli ha inalato la ruah), il primo che suona lo shofar è D-o. Vi leggiamo la riproposizione delle modalità di rapporto tra materia e spirito. Noi prendiamo da dentro il fiato da insufflare, Dio lo prende da sé. Lo shofar ricorda l'impasto costitutivo dell'essere dell'uomo.



Yom Kippur                        
Il giorno di Kippùr, chiamato comunemente Yom Kippùr o Yom Hakippurìm, è il giorno destinato dalla Torah per espiare i peccati commessi nel corso dell'anno sia nei confronti di Dio che nei confronti degli uomini.

La data in cui cade Yom Kippùr, il 10 di tishrì, non è ovviamente casuale.
Dopo aver rotto le Tavole della Legge a causa del peccato del vitello d'oro, Moshé ascese al monte Sinai per riprendere delle nuove tavole mentre il popolo ebraico si dedicava alla preghiera e al pentimento. Dopo quaranta giorni Hashèm accettò la teshuvà (penitenza) del popolo ebraico e permise a Moshé di portare ai figli di Israèl i precetti appresi e poi trascritti sul Sinai. Moshé scese dal monte proprio il 10 di tishrì; per questo motivo questa data fu scelta da Hashèm come il giorno della teshuvà, cioè il giorno in cui Egli accetta il pentimento del popolo ebraico.
A questo proposito il Midràsh racconta: «Rabbi Eli'ezer ben Beterà disse: "Quaranta giorni rimase Moshé Rabbenù sul monte Sinai. Questi quaranta giorni gli servirono per commentare e spiegare ogni passo della Torà. Poi, Moshé prese ciò che aveva scritto, cioè i Dieci Comandamenti e scese il 10 del settimo mese, ossia il giorno di Kippùr, e portò le Tavole della Legge al popolo ebraico"».
La mitzvà principale di Yom Kippùr è quella della teshuvà che ha il potere di annullare le colpe dell'uomo in quanto annulla le pene divine e cancella le trasgressioni commesse.
Una forza particolare risiede nella teshuvà dei bambini. Si racconta che il Maghìd di Dubna dicesse ai bambini: «Da voi che siete giovani dipende la vita del popolo ebraico, così come quella dei vostri genitori. I genitori hanno il dovere di educare i figli, ma poi saranno questi ultimi a portare la vita ai genitori grazie all'educazione ricevuta». Se nel giorno di Kippùr i figli riescono a pregare con sentimento, se i bambini riescono anche loro a fare un po' di teshuvà per le cose che hanno fatto, se sanno recitare un po' di tefillà, significa che hanno ricevuto una buona educazione ebraica dai genitori, per i quali si apriranno le porte della misericordia divina. È come se Hashèm osservasse questi bambini e dicesse: «Se i figli riescono a pregare significa che veramente i genitori hanno dato loro qualcosa di positivo».
Per cui, anche se i bambini sono esentati dall'osservare le mitzvòt fino a tredici anni, i maschi, e dodici anni, le femmine, è bene che anch'essi imparino a fare teshuvà fin da piccoli e a pentirsi per le azioni negative commesse. È importante, soprattutto, insegnare loro a pentirsi di una cosa: della loro mancanza di rispetto nei confronti dei genitori.
Secondo un'opinione presente nel Midràsh e nella Qabbalà, quando arriverà Mashìakh tutte le feste ebraiche scompariranno e non verranno più rispettate; solo Yom Kippùr (secondo alcuni anche Purìm) rimarrà in eterno. È infatti scritto: e questa sarà per voi come regola eterna (ibid. 31).
Preghiera di penitenza e digiuno sono il cuore dell'osservanza storica dello Yom Kippur. Vengono praticate cinque restrizioni o afflizioni: non bere né mangiare (eccetto in caso di pericolo per la salute), non ungere il corpo con olio, non lavarsi e profumarsi, non indossare scarpe di pelle e non avere rapporti sessuali. Il testo biblico prescrive "vi affliggerete, affliggerete le vostre persone...". In realtà le prescrizioni sopra enunciate non sono scritte da nessuna parte; ma vengono praticate attraverso una tradizione orale ubiqua geograficamente e costante nel tempo (la tradizione integra ciò che è scritto con la trasmissione orale).
La tradizione rabbinica, attraverso tecniche esegetiche, integra il testo col non mangiare e non bere, ecc.. Significa ritorno al grado "zero", al livello embrionale, distanziamento dalla totale dimensione della materialità che passa dal cibo e dalla sessualità.
Il sommo sacerdote in persona presiedeva al Tempio a nome del popolo, compiendo la purificazione del santuario con un’aspersione di sangue (era la sola occasione in cui il sommo sacerdote penetrava nel Santo dei Santi) e con l’invio nel deserto del capro espiatorio che portava su di sé tutte le colpe di Israele (Lv. 16, 22). 
Solo in quel giorno e nel momento della confessione delle colpe il Sacerdote pronunciava il Nome
Solo l'uomo nella condizione indotta dalle prescrizioni vissute con interiorità profonda e dalla teshuva, può arrivare al livello di dire il Nome, che significa conoscerne il senso. Si può chiamare Adonai, il Signore, con il Suo Nome nella sfera dell' Essere e della Vita (in ebraico io ero, sono e sarò), solo se è in moto un meccanismo di spiritualizzazione. L'uomo può pronunciare "io sono" solo se sa veramente chi è, se tenta (e lavora per) di sapere veramente chi è.
Sempre secondo il Midràsh, un'altra particolarità di questa ricorrenza è che essa è l'unico giorno dell'anno in cui il Satàn (l'angelo del male) non può nuocere al popolo ebraico. Infatti, il valore numerico (ghematrìa) della parola Satàn è 364, come i giorni dell'anno solare meno uno - appunto - Yom Kippùr.
Il Midràsh racconta che Dio disse al Satàn: «"Tu non sei autorizzato a toccare il popolo ebraico, ma ciononostante va' a vedere in che cosa è impegnato". Il Satàn quindi andò e trovò che tutto il popolo ebraico era a digiuno e pregava. Vide che tutti erano vestiti di colore bianco ed erano avvolti nel tallìt come sono avvolti gli angeli serafini. Subito il Satàn tornò pieno di vergogna alla Presenza Divina. Hashèm gli disse: "Cosa hai visto?" ed egli rispose: "Ho visto che tutti loro sono come degli angeli serafini e io non posso fare nulla". Allora, immediatamente, Hashèm lo annullò e annunciò al popolo ebraico: "Vi ho perdonato"».
È significativo che, subito dopo Kippur, nello stesso mese di tishrì, comincia sukkot, la festa delle capanne = 7 giorni + 1. Si risiede nelle capanne costruite con elementi tutti vegetali. Delle 4 pareti la codificazione rabbinica ne prescrive due intere + una terza anche parziale. Il tetto, da cui si può vedere il cielo, rappresenta D-io, la Provvidenza e ricorda, la nube, la gloria, che precedeva il popolo nel deserto, aiuta a percepire la Presenza di Dio su di sé. La stessa forma della sukkà è un abbraccio. E allora è agevole riconoscere la relazione verticale con Dio e orizzontale con gli altri e con l'ambiente naturale. È per questo che dopo kippur si comincia a costruire la sukkà. Infatti la correlazione tra kippur e sukkòt è la ricomposizione delle relazioni frantumate. Ed è per questo che sukkòt è il tempo della nostra gioia. Il culmine della festa di Sukkot, Simchat Torah, è evidentemente collegato a questa consapevolezza.

È nel giorno di Hosha’anà Rabbà (l'ultimo di sukkòt) che il giudizio presente in Rosh Hashanà e Kippur diventa definitivo e inappellabile, sulla base del comportamento, delle preghiere e della teshuvà che sicuramente porteranno ognuno a essere giudicato favorevolmente. Come si legge nel siddùr (il libro di preghiere): la teshuvà, la tefillà (preghiera) e la tzedakà (carità) cancellano il decreto negativo e ristabiliscono l'armonia nel cuore dell'uomo e nel cosmo intero.




La Teshuvà                
Nel contesto della festa si inserisce la teshuva come tempo dedicato alla riflessione che può assumere qui l'aspetto di "pentimento". In ogni caso possiamo anche definirla come "autocoscienza", che permette di definire, identificare gli atteggiamenti interiori, le prospettive personali rispetto alla situazioni negative del passato per non ripeterle. Tutto ciò è essenziale, ma non sufficiente. Teshuva può avere un senso ancor più completo da ricercare nella somma dei significati di pentimento - ritorno - risposta. In parte è necessario tornare indietro, ma altrettanto rispondere alle domande di Dio, non solo con l'intenzione maturata dalla riflessione, ma soprattutto nella traduzione pratica, concreta delle azioni quotidiane.
Per chiunque va la di là delle sue misure, si passa sopra i suoi peccati. Le misure... il modo in cui reagiamo alla provocazioni, a ciò che gli altri compiono nei nostri confronti, ciò che ci disturba. Chiunque riesce a soprassedere a come si comportano gli altri nei suoi confronti, Dio soprassiede. Cogliamo come sia fondamentale l'elemento relazionale: io-gli altri-Dio, che diviene elemento fondante della teshuva continua, grazie alla quale l'uomo tenta di sapere veramente chi è. Discesa al Sé che è ritorno alla richiesta di Dio, che è nel nucleo più profondo dell'uomo. Invito all'autocoscienza, non banale, che ci spinge discendere nel nostro Sé profondo (anì shebà anì) per capire qual è il nostro modo di servire D-o; invito che si rinnova ogni giorno. Il pensiero corre al lech lechà (vai verso te stesso, alla ricerca di te stesso) detto da Dio ad  Abramo e che diventa il suo percorso, come pure quello di ogni credente.
C'è anche un'altra interpretazione, nella quale entrano in campo le middot, le misure, i comportamenti: "chi va al di là del proprio carattere, D-o soprassiede". Quindi, lavoro del superamento delle proprie caratteristiche nel percorso della teshuva. In questo senso è esatto il termine di "conversione del cuore" colto dalla tradizione cristiana: atteggiamento, impegno radicale di autoanalisi e trasformazione.
Rapporto tra uomo e Dio. Se vuoi che Dio soprassieda e che in Dio prevalga la misericordia nei confronti della giustizia:
  1. soprassiedi anche tu nei confronti del prossimo
  2. lavora sulle tue caratteristiche perché i caratteri positivi riescano ad avere la meglio sulle dimensioni negative: espiazione che passa attraverso la relazione con sé, con gli altri, con Dio.
Se c'è solo giustizia nessun uomo può reggere, quando la giustizia si unisce alla misericordia, la realtà può sussistere.
La teshuva, liberandoci progressivamente dalla schiavitù di ciò che siamo stati, ci introduce nel mondo della redenzione e porta la redenzione nel mondo. La tradizione rabbinica va ancora più avanti: "la teshuva cancella...": questa è una prospettiva; ma c'è n'è una ancora più estremista: "è grande la teshuva, perché le colpe volontarie diventano involontarie" o addirittura meriti. Avviene la trasformazione del passato: processo così impegnativo che, trasformando completamente l'uomo, ne trasforma il segno: la cifra c'è e rimane la stessa, ma cambia di segno. Ciò che era negativo diventa positivo.
È un'opera molto grande. Quasi parrebbe che chi l'ha compiuta (comunque mai definitivamente, perché il compimento è sempre ulteriore e si tratta di un processo dinamico, di un cammino che coinvolge tutta la vita) è giusto da sempre ed ha una marcia in più...
Possiamo avere degli indicatori sulla autenticità di questo processo interiore. La riprova più evidente della teshuva si ha quando ciò che abbiamo fatto di negativo ci si ripropone nello stesso modo e noi non ci comportiamo nello stesso modo. Quindi la conferma l'abbiamo proprio di fronte all'occasione concreta.
La teshuvà (pentimento e ritorno a D-o) costituisce il tema principale del libro di Giona e quello del digiuno di Kippùr (il giorno dell’espiazione). Per questa ragione la storia di Giona viene letta come haftarà (1) nella funzione pomeridiana di Minchà.
Il libro tratta un argomento profondo e coinvolgente concernente ogni ebreo, ne sia egli consapevole o no. La teshuvà è lo strumento che è stato donato a ogni uomo per consentirgli di unirsi a D-o, o, più esattamente, di riunirsi con Lui. L’uomo infatti può solo temporaneamente e superficialmente allontanarsi dalla sorgente divina. Nella vita di ogni ebreo prima o poi arriva il momento in cui si accende la scintilla interiore che pareva spenta e la persona riscopre il desiderio di ritornare alle proprie origini.
Se, al momento in cui si verifica, questa esigenza viene soffocata dalla paura di dover cambiare la propria vita, essa passerà senza aver avuto alcun effetto sulla persona. È però fondamentale non farsi ingannare da questi sentimenti: appena si accende la scintilla bisogna cogliere l’occasione di ritrovare la propria identità ebraica e di riscoprire le proprie radici e le tradizioni tramandate da secoli con sacrificio e difficoltà.
Se nei periodi più duri della storia, mettendo a rischio la vita, l’ebreo non ha mai desistito nell’osservanza delle mitzvòt (i precetti), a maggior ragione dovremmo farlo quando viviamo in un’era di prosperità e quando non rischiamo di essere perseguitati per il solo fatto di professare una fede piuttosto che un’altra.
La teshuvà non riguarda solo coloro che hanno mantenuto le distanze dall’ebraismo e coloro che desiderano pentirsi delle trasgressioni commesse. Bisogna infatti essere consapevoli del fatto che la vita dell’ebreo è una costante ascesa spirituale e un avvicinamento progressivo alla divinità; un percorso in salita, fatto di piccoli gradini, ognuno dei quali rappresenta una tappa fondamentale. In questa ottica, la teshuvà rappresenta il continuo miglioramento e il progresso.
Anche il più grande tzadìk, che non ha commesso gravi peccati da cui redimersi, fa teshuvà. Per tale ragione quello della teshuvà è un aspetto fondamentale dell’ebraismo e della vita quotidiana di ogni ebreo: essa è un potente strumento nelle mani dell’uomo, la forza che gli consente di crescere e di aderire al divino in un mondo effimero, che offre continue tentazioni materiali alle quali talvolta, per debolezza o per indifferenza, si finisce involontariamente per cedere.
L’uomo non si rende forse neppure conto del potere della teshuvà, non sempre è consapevole che può salvare non solo il singolo ma anche la collettività, il popolo intero e tutta l’umanità. D-o accoglie in qualsiasi momento un ebreo che decide di tornare sulla retta via e di riavvicinarsi al creatore.
Vi sono però periodi dell’anno particolarmente favorevoli. Si tratta soprattutto dei giorni compresi tra la neomenia di elùl e Hosha’anà Rabbà (ultimo giorno di Sukkòt, la festa delle capanne), passando per il giorno di Kippùr. Rosh Hashanà (il capodanno) è il giorno in cui D-o giudica ogni uomo e ne decide il destino per l’anno a venire. Il giudizio viene sigillato, dapprima a Kippùr e poi a Hosha’anà Rabbà, sulla base del comportamento, delle preghiere e della teshuvà che sicuramente porteranno ognuno a essere giudicato favorevolmente, come si legge nel siddùr (il libro di preghiere): la teshuvà, la tefillà (preghiera) e la tzedakà (carità) cancellano il decreto negativo.
È chiaro che è indispensabile giungere al momento del giudizio spiritualmente preparati e purificati. Durante il periodo che precede questi giorni carichi di significato, l’uomo interroga se stesso, la propria coscienza e fa un bilancio dell’anno che sta volgendo al termine, valutando le mete raggiunte e gli scopi spirituali a cui è riuscito ad arrivare.
Parlare alla propria anima e parlare a D-o sono praticamente la medesima cosa, poiché D-o è dentro ciascuno di noi, l’anima divina è parte di noi. Egli ascolta e presta attenzione alle invocazioni e alle suppliche del cuore, e come dice il versetto: è tempo che si aprano le porte della misericordia divina.
Teshuvà, Ritorno Al Vero Io secondo gli hassidim

Il filo della Teshuvà è intrinseco nel tessuto della Torà. La Teshuvà è tanto varia quanto lo è l'uomo. Fu l'angosciante risveglio di Adamo e Caino. Più tardi la seria conseguenza della melanconica adorazione del vitello d'oro.
A volte non avvenne, nonostante le severe richieste, le disperate esortazioni dei profeti ad un popolo caparbio ed indulgente ad abbandonare i loro proposti distruttivi. La Teshuvà può essere maestosa nella grandezza ed nel potere attribuitale dai saggi del Talmud. Dall'alba dell'umanità fino all'era spaziale, la Teshuvà è l'incoraggiante rovescio della medaglia della follia e del male.
La parola stessa è generalmente tradotta « pentimento » ma « ritorno » è preferibile, dipingendo l'anima che torna indietro al D-o accogliente dal quale aveva deviato.
Che un mortale possa fallire non costituisce una brillante rivelazione. Ma la conseguenza di questo luogo comune non dovrebbe essere cinismo. I difetti dell'uomo anche se intenzionati o malevoli - non lo condannano né lo rendono incapace.
Questa dottrina ella Teshuvà può far superare la disperazione, trasformare abitudini radicate, opporre resistenza a debolezze confermate.
Un impressionante letteratura sulla Teshuvà si è sviluppata nei secoli. Nel Talmud, Kabbalà e Mussar, per il giurista, il mistico ed il moralista, Teshuvà fa parte del lessico. Nei primi tempi di Habad (2) molti di questi lavori facevano parte della preparazione richiesta al giovane aspirante Hassid.(3) La tradizione hassidica vuole che gli aderenti dell'allora nuovo movimento si chiamassero Baalei Teshuvà, pentiti, prima che il nome Hassid fosse accettato universalmente.
Nel 1783 poco dopo che Rabbi Shneur Zalman assunse la guida del Hassidismo nella Russia Bianca-Lituania, egli si protrasse in approfonditi dibattiti con gli oppositori della Hassidut; i formidabili eruditi del Talmud di Vilna e di altre 'eccellenze' dello studio del Talmud. Un incontro decisivo ebbe luogo a Minsk dove furono presentate al Rebbe due obiezioni alla dottrina Hassidica. La seconda, sulla Teshuvà, è di nostro immediato interesse.
Il Baal Shem Tov, fondatore del movimento Hassidico, aveva insegnato che uno dotto ed un santo devono anch'essi fare Teshuvà. Gli oppositori sentenziarono che ciò sminuisce l'onore della Torà e degli eruditi. La Teshuvà ovviamente connota rimorso per il peccato. Che questo sia il servizio Divino di un vero santo e « figlio di Torà» sarebbe un insulto gratuito.
Il Rebbe replicò a lungo ripetendo la discussione del Baal Shem Tov riguardo il cespuglio rovente attraverso il quale l'angelo di D-o si rivolse a Moshè. Il cespuglio è simbolo dell'umile, della persona ordinaria, in contrasto con l'albero alto e rigoglioso che il Talmud descrive come il simbolo dell'erudito. Il cuore ardente, la brama dell'umile, è il mezzo per la rivelazione di D-o, anche per il più grande dei profeti, lo stesso Moshè.
La reazione di Moshè fu « devo voltarmi » e come Rashi: commenta, « devo girarmi da qui per avvicinarmi lì ». Ora poteva riconoscere l'unica qualità del popolo semplice, il loro possesso del « cuore di fuoco » e questo lo portò a fare Teshuvà. Ma per questo santo senza alcuna macchia, Teshuvà aveva un significato completamente diverso. Per lui Teshuvà significava insoddisfazione per ciò che lui era, Teshuvà era una spinta irresistibile per « girare da qui e avvicinarsi lì ». In questo senso si può parlare di "conversione".
Il Baal Shem Tov insegnò chiaramente che il servizio dello Tzadik, il Giusto, deve essere un avanzamento costante. Oggi deve essere un gradino più alto di ieri nel servire D-o e domani deve sorpassare oggi. Questa è la Teshuvà.
Teshuvà ha significati di vari livelli dal letterale pentimento per il male palpabile alla crescita dello spirito dello Tzadik. Habad in generale e Igeret Hateshuvà in particolare si rivolgono all'ebreo, ciascuno secondo il suo stato, umile o esaltato, illetterato o erudito che sia.
I successori di Rabbi Shneur Zalman, i Rebbe di Habad per le sei successive generazioni fino alla venuta del Mashiah, scrissero libri e rilasciarono innumerevoli discorsi (maamorim) sul tema della Teshuvà. Alcuni di questi sono profondi e reconditi; altri nel vernacolo Yiddish per l'illetterato.
I motivi hassidici caratterizzano il loro approccio alla Teshuvà come ad altri soggetti trattati nella Hassidut. L'origine dell'anima umana, la scintilla divina dentro di lui, il suo infinito potenziale, la sua vicinanza a D-o, la sua abilità a controllare il suo destino - la possibilità di trasformarsi secondo la sua volontà - questo è il grano per i mulini del Hassidut, lo sfondo per la Teshuvà.
L'attuale Rebbe una volta descrisse la Teshuvà come il ritorno al vero « io ». I tratti e gli atti indesiderabili dell'uomo sono una facciata artificiale, un celare del suo vero essere. Poco tempo viene trascorso concentrandosi nel male stesso, il macabro non trova ospitalità nella Hassidut.
Un'altra dottrina Habad è qui implicita, che l'uomo è un essere ragionante e non deve essere soggetto ad incontrollati ed errati capricci anche se a buon fine. Altrimenti il ruolo dell'uomo sarebbe passivo, un invisibile gioco di fortuite emozioni. Habad insegna che le emozioni devono essere governate dall'intelletto, ed anche la Teshuvà, che sembra comportare il minimo sforzo intellettuale e ragionato è legata alla mente, ed in particolare per quanto riguardo le avanzate forme di Teshuvà.
Con questo Habad non indica distacco, non emozione, ma che le emozioni abbiano il proprio posto nella fisionomia spirituale dell'uomo. Appassionato culto è un ideale Habad, ma segue studio e meditazione. Sentimenti sublimi, Habad insegna ulteriormente, ed emozioni commoventi non sono sufficienti in sé. Rimorso intenso per il passato, irremovibile determinazione per il futuro e serio desiderio di ritornare a D-o, deve essere tradotto in atti corrispondenti. La prova del pentimento, e la sua sincerità e profondità è l'effetto nella vita attuale.
La sfida è lanciata, la certezza sussiste, la Teshuvà rientra nella presa dell'uomo.



Yom Teruà o Zikhròn Teruà        
Questo diverso nome della festa deriva da uno dei momenti significativi: il suono dello shofar.
Lo shofàr (strumento rituale ricavato da un corno di ariete), che viene suonato a Rosh Hashanà e a Kippùr, è un richiamo all’esame di coscienza e un risveglio per coloro che, come li definisce Maimonide, “dormono spiritualmente”. Non si tratta solo di elencare e confessare a D-o i peccati commessi di cui ci si pente, bensì di condurre un dialogo con la propria coscienza, di dare una prova di onestà e autenticità verso se stessi.
Sul motivo per cui di Rosh HaShanà si suona lo shofàr i Maestri e i pensatori si sono soffermati molto. Noi indichiamo alcuni  motivi. Innanzi tutto lo shofàr ricorda il sacrificio di Yitzkhàk, o meglio, la legatura di Yitzkhàk. Secondo ciò che la Torà ci racconta nel cap. 22 di Bereshìt, Dio volle mettere alla prova la fede di Avrahàm chiedendogli di portare in sacrificio il figlio Yitzkhàk. Giunti che furono sul monte Morià, Avrahàm legò il figlio; mentre stava per ucciderlo un angelo lo fermò e gli impedì di fargli del male. Avrahàm, allora, sacrificò un montone al posto di Yitzkhàk e, secondo il Midràsh, chiese a Dio di ricordare ogni anno la prova alla quale si era sottoposto senza protestare e grazie a essa salvare i suoi discendenti, nel momento del giudizio nel giorno di Rosh Hashanà. Ecco perché ancora oggi si suona un corno di montone.
"Collegato a Zichron Teruà è il ruolo dello Shofar di indirizzare, di richiamare, di ricucire. Rabbi Moshè Chajm Luzzatto nel suo Maamar HaChochmà dice: "E c'è un altro grande elemento in questo giorno ed è quanto ci è stato comandato circa lo Shofar. E questo perché il tesoro dello Shofar nel suo essere suonato di sotto e la forza della sua radice di sopra è di rafforzare il bene (Zikronot-Ricordi) e piegare il male (Malkuiot-Regalità). E guarda che dal peccato di Adam HaRishon ecco che il bene si è mischiato al male ed è stato conquistato da esso. Ed all'epoca del dono della Torà è uscito il bene dal male, si è rafforzato e si è reso dominatore. Ma nonostante ciò non è giunto al punto da conquistare il male sotto di esso ma è piuttosto giunto ad uscire dalla sua prigionia e rafforzare se stesso, mentre il male è rimasto, separato da esso, che se ne sta per conto suo. Ma in futuro questa riparazione sarà completa ed il bene conquisterà il male completamente ed il bene dominerà da solo. E comunque il primo rafforzamento che è stato fatto al bene (ed a piegare il male) è stato fatto attraverso lo Shofar che ha accompagnato il dono della Torà e questo è quanto è detto 'La voce dello Shofar va e si rafforza" (Esodo XIX, 19). Ed il completamento di questa riparazione in futuro quando il bene vincerà una vittoria definitiva, anche questo sarà attraverso lo Shofar, e questo è quanto è detto 'Verrà suonato il Grande Shofar' (Isaia XVII, 13). E siccome questa riparazione sarà completa come non era in precedenza viene chiamato il Grande Shofar. Ed ecco che siamo stati ordinati di suonare lo Shofar il giorno di Rosh Hashanà per rafforzare la riparazione fatta già con il dono della Torà e per invitare quella futura che avverrà nel futuro."
Rav Friedlander spiega così la struttura della benedizione delle Shofarot. Questa comincia con dei versi legati al suono dello Shofar del dono della Torà, passa ad occuparsi dello Shofar del giudizio e della gioia che caratterizzano la nostra condizione presente e si conclude con lo Shofar del Messia. Il processo di ricordo quindi ha una chiarissima direzione." (4)
Secondo un altro commento, il corno di animale e il suono che da esso deriva, simile a un mugghio, stanno a simboleggiare che l'uomo spesso è come un animale e che le azioni negative che egli compie non sono dovute alla sua cattiveria, ma agli istinti che non sa controllare. In pratica, attraverso il suono dello shofàr noi ricordiamo a D-o i nostri limiti e gli chiediamo di avere compassione nel momento del giudizio.
Ma il motivo che maggiormente ci affascina è quello che ci ricollega al momento peculiare della Creazione, quello in cui Dio soffia il suo alito vitale (la sua Ruah) nell'uomo, che di rappresenta quindi il primo grande shofàr, capace di emettere il suono, la Parola di Dio che è anche parola umana; ma il vero grande suonatore di shofàr è D-o.
Un ultimo commento ritiene che il suono dello shofàr rappresenti una preghiera senza parole, per permettere anche a coloro che non sanno pregare di esprimere i loro sentimenti a Dio e chiedere misericordia nel giorno di Rosh Hashanà.
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(1) Brano tratto dai Libri dei profeti
(2) Shneur Zalman di Lyady (1745-1813) è il fondatore del gruppo, la cui filosofia viene spesso chiamata Habad, parola formata dalle iniziali ebraiche di Hokhmà, Binà, Daat (saggezza, intelligenza, e conoscenza)
(3) Le grandi persecuzioni cui furono sottoposti gli ebrei a partire dal diciassettesimo secolo e l’estrema indigenza che ne conseguì creò presto un baratro tra la massa dei lavoratori e gli studiosi, presenti in numero via via decrescente nelle scuole rabbiniche. Da tale contrasto nacquero aspre polemiche tra gli eruditi delle yeshivòt e il popolo che rifiutava sempre di più l’aridità scolastica e la sterilità di cui vedevano permeati gli studi rabbinici tradizionali. La crisi coinvolse in modo particolare le province della Volinia, della Podolia e della Galizia orientale. È dunque comprensibile che nelle regioni della Polonia meridionale si sia diffuso il chassidismo, a parziale rimedio contro l’avvilimento in cui erano cadute le popolazioni ebraiche. Esso seppe risvegliare i sensi per la capacità che ebbe di agire sull’entusiasmo e sulla spontaneità popolare, talora in apparente contrasto con le rigide regole dell’autorità rabbinica tradizionale.
(4) Jonathan Pacifici, dalla Parashà di Pinchas 


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SUKKOT O LA FESTA DELLE CAPANNE

Il Nuovo Testamento non è la distruzione ma il compimento dell'Antico. Le feste liturgiche sono l'esempio più notevole di questo principio. Le grandi solennità del giudaismo, la Pasqua e la Pentecoste, sono rimaste quelle del cristianesimo, caricandosi solamente di un senso nuovo. Vi è tuttavia un'eccezione a questa legge, almeno apparentemente, che è quella della Festa dei Tabernacoli, la Scenopegia dei Settanta, che si svolgeva in settembre. Non ne sussiste che un vestigio, la lettura del testo del Levitico che la riguarda, il sabato delle Quattro Tempora di settembre.

La festa ha certamente lasciato delle tracce nella liturgia e nell'esegesi cristiana 1. Ci chiediamo quindi il significato che essa rivestiva al tempo di Cristo.

La prima origine della festa dei Tabernacoli è da ricercarsi nel ciclo delle feste stagionali. È la festa della vendemmia, come la Pentecoste era la festa della mietitura 2. Lo indica lo stesso testo del Levitico che ne prescrive la celebrazione (XXIII, 39). Anche Filone sottolinea questo aspetto (Spec. leg., II, 204). È a questa festa stagionale che si ricollegano i riti caratteristici della festa: l'abitazione per sette giorni nelle capanne costruite di ramaglie (skenai), le libagioni di acqua destinate ad ottenere la pioggia, la processione intorno all'altare l'ottavo giorno, tenendo in una mano il mazzo (lulab) fatto con tre specie di ramoscelli (salice, mirto e palma) e nell'altra un frutto di limone (etrog) 3.

Ma, come per le altre feste che hanno la stessa origine, il pensiero ebreo ha iscritto il ricordo di un avvenimento della sua storia nel quadro ciclico della festa stagionale. Così la Pasqua, festa delle prime spighe e dei pani azzimi, è divenuta la festa dei primogeniti risparmiati (pessah) dall'Angelo sterminatore. La Pentecoste è stata associata alla comunicazione della Legge sul Sinai.

Così è per la festa dei Tabernacoli. Già il Levitico spiega che essa è destinata a rammentare agli ebrei il ricordo del loro soggiorno nelle tende (skenai) del deserto al tempo dell'Esodo (XXIII, 43). Questa interpretazione si ricollega alla tradizione sacerdotale e si ritroverà in Filone (Spec. leg., II, 207), nella tradizione rabbinica 4, presso i Padri della Chiesa 5.

Ma a partire dai Profeti, e sopratutto nel periodo dopo l'esilio, gli avvenimenti passati della storia d'Israele, e in particolare l'Esodo, non sono ricordati che per nutrire la speranza del popolo negli avvenimenti futuri, in cui la potenza di si manifesterà in modo ancora clamoroso in favore dei suoi. Gli avvenimenti dell'Esodo diventano la figura delle realtà escatologiche. È il fondamento della tipologia. Questo è vero per la Pasqua e l'uscita dall'Egitto, che appaiono come la figura della liberazione escatologica del popolo di Dio, ed è ancor più vero per la festa dei Tabernacoli, che assume più di qualsiasi altra festa un significato escatologico. Forse si può trovarne una ragione in un tratto che ci indica Filone, cioè che essa chiude (teleiosis) il ciclo agrario dell'anno (Spec. leg., II, 204) 6.

Vi è però una ragione più antica e più profonda. La festa pare avere difatti un legame molto speciale con le speranze messianiche. Le origini di questo legame sono oscure, ma sembra che la festa dei Tabernacoli sarebbe in relazione sia con la festa annuale dell'instaurazione reale, sia, come pensa Kraus, con il rinnovamento dell'alleanza da parte del re davidico. È questa festa, con i suoi resti disintegrati, che sussisterebbe nelle tre grandi feste ebraiche di Tischri, Rosh-ha-shana, Kippur e Sukkoth (skenaí) 7. Questa festa avrebbe preso nel giudaismo un carattere messianico, cioè sarebbe stata messa in rapporto con l'attesa di un re futuro. Non si tratta qui della prima origine della festa, che sembra collegarsi ai riti stagionali, ma di una trasformazione che avrebbe subito all'epoca regale e che vi avrebbe introdotto elementi nuovi.

Ciò che è sicuro, ad ogni modo, è che molti testi ci documentano l'importanza assunta dalla festa nel giudaismo post-esilico in rapporto con l'attesa messianica. Il primo è il capitolo finale di Zaccaria. Si vede prima "posare i suoi piedi sul Monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme sul lato dell'Oriente" (XIV, 5). Poi si dice che "delle acque vive usciranno da Gerusalemme" (XIV, 8). Ma soprattutto noi vediamo "tutte le nazioni salire a Gerusalemme per celebrare la festa dei Tabernacoli" (XIV, 16).

Così la festa dei Tabernacoli appare come una figura del regno messianico. Gli altri due tratti sembrano farvi riferimento: il dilagare delle acque vive è in rapporto con i riti della festa e il Monte degli Ulivi è il luogo ove si raccoglievano i rami per le capanne 8. Quest'ultimo punto sarà interessante quando dovremo accostare l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, proveniente dal Monte degli Ulivi, e la festa dei Tabernacoli.

D'altra parte possediamo un salmo che appartiene alla liturgia post-esilica della festa, il cui carattere messianico è evidente: è il Salmo 117. Era cantato durante la processione solenne in cui, l'ottavo giorno, gli Ebrei si muovevano attorno all'altare portando il lulab. È a questa processione che allude il versetto: Constituite diem solemnem in condensis usque ad cornu altaris. Ora questo salmo indica il Messia come colui che deve venire: Benedietus qui venit in nomine Domini. E invoca la sua venuta con il grido dell'Osanna : 0 Domine salvum me fac. Il salmo contiene anche un altro testo messianico, che il Nuovo Testamento applicherà al Cristo. È il versetto: "La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo" (CXVII, 22). Tutti questi passi ci mostrano che la liturgia dei Tabernacoli era un luogo privilegiato dell'attesa messianica.

Questa interpretazione messianica della festa è proseguita nel giudaismo fino ai primi secoli cristiani. San Girolamo, commentando Zaccaria, XIV, 6, espone che gli Ebrei vedono nella festa dei Tabernacoli "attraverso una fallace esperienza, l'immagine delle cose che accadranno nel regno millenario" (III, 14; P. L., XXV, 1536 A). Essi interpretano nello stesso modo il dilagarsi delle acque vive e la ricostruzione di Gerusalemme (1529 A-C). Così per gli Ebrei la festività dei Tabernacoli, in cui ognuno mangiava e beveva con la sua famiglia nella propria capanna adornata di rami vari, appariva come una prefigurazione delle gioie materiali nel regno messianico. Le speranze messianiche che la festa alimentava possono spiegarci perché questa sia stata l'occasione di una certa agitazione politica e perché i Padri della Chiesa pongono particolarmente in guardia i cristiani contro di essa 9.

Ma il testo di Girolamo riveste un altro interesse, ossia quello di mettere la festa in rapporto con i Mille anni. Sappiamo infatti che l'espressione ha un significato paradisiaco. Mille anni è l'età che avrebbe vissuto Adamo se fosse rimasto fedele, e che i suoi discendenti non hanno mai più raggiunto a causa del peccato originale 10.

Così la festa dei Tabernacoli si carica di un nuovo simbolismo, che ritroveremo più in là nei Padri e che d'altronde ci è attestato nel giudaismo. Il suo quadro arborescente evoca il giardino originale. Le sue festività annunciano l'abbondanza materiale del regno messianico. Gerusalemme restaurata è il Paradiso ritrovato. L'acqua viva è quella della sorgente paradisiaca, che si espande nelle quattro direzioni. L'etrog portato in mano alla fine della festa è il simbolo dell'Albero della Vita (Girolamo, loc. cit., 1357 A). Del resto si sa quanto i temi messianici ed i temi paradisiaci siano uniti nel giudaismo.

Che Girolamo testimoni di una tradizione antica, ne abbiamo la prova nel fatto che questa interpretazione millenarista della festa dei Tabernacoli si trova già in Metodio. Questi, interpretando in un senso escatologico la fuga dall'Egitto, scrive: "Essendomi messo in cammino anch'io ed essendo uscito dall'Egitto di questa vita, giungo dapprima alla risurrezione, alla vera festa dei Tabernacoli. Là, avendo costruito il mio tabernacolo il primo giorno della festa, quello del giudizio, io celebro la festa con il Cristo durante il millenario del riposo, chiamato i sette giorni, il vero sabbat. Poi, mi metto in cammino verso la terra promessa, i cieli" (Conv., IX, 5; G. C. S., 120).

La festa dei Tabernacoli significa dunque il regno terrestre del Messia, prima della vita eterna. L'interesse di questo testo sta nel fatto che ci mostra che questa concezione millenarista della festa esisteva anche presso alcuni cristiani, come d'altronde Girolamo dichiara (1529 A). Sappiamo del resto che Metodio si ricollega alla teologia asiatica, ed è in questa, nell'Apocalisse di Giovanni e in Papia che appare il millenario contemporaneamente alla prima simbolica escatologica cristiana dei Tabernacoli. I cristiani la prendevano dagli Ebrei e questo ci permette dunque di risalire, attraverso questi, ai tempi apostolici.

D'altra parte i dati archeologici ebraici ci portano una conferma decisiva di questo. Basta leggere l'opera di Erwin Goodenough 11 sul simbolismo giudaico all'epoca greco-romana, per constatare che i terni più frequentemente rappresentati sono in relazione con la festa dei Tabernacoli. Questo è evidente per il lulab e l'etrog. Ma la questione si può porre anche per la menorah. Si sa che la festa dei Tabernacoli era una festa delle luci. Il sophar si ricollega alla festa di Rosh-ha-shana, che fa parte dello stesso simbolismo; ugualmente il sacrificio di Isacco. Almeno per una parte, questi simboli sono in rapporto con la speranza escatologica. Se questa speranza sia messianica o riferita all'aldilà, è un quesito che affronteremo trattando del senso di questi differenti simboli.

Un caso particolarmente interessante è quello della sinagoga di Dúra-Europos. Molti affreschi che essa contiene sono messi in rapporto con la festa dei Tabernacoli, come per l'affresco W. B. I, secondo il parere di Mesnil du Buisson. Ma questa opinione non sembra poter essere condivisa 12. Per contro Kraeling ritiene che alcuni dei tratti dell'affresco S. B. I, che rappresenta la dedica del Tempio, sono improntati alla festa dei Tabernacoli. Infatti la dedica del Tempio sotto Salomone ebbe effettivamente luogo durante la festa. Un aspetto interessante è la presenza di fanciulli, che noi ritroviamo all'ingresso di Cristo in Gerusalemme. Se questo affresco ha un significato messianico, così come lo pensa Kraeling 13, la festa dei Tabernacoli, legata all'edificazione del Tempio, vi assumerebbe un'interpretazione di questo tipo.

Ma l'affresco senza dubbio più interessante per il nostro argomento, è l'insieme che attornia la nicchia della Torah e che ha dunque un'importanza capitale. Nella parte inferiore, noi abbiamo al centro una rappresentazione schematizzata del Tempio, contornata a sinistra dal candelabro a sette braccia (menorah), con il lulab e l'etrog, e a destra dal sacrificio di Isacco. Tutto ciò si riferisce alle feste di Tischri. La parte superiore, nella sua forma più antica, presenta, secondo Kraeling, l'Albero della Vita contornato da un tavolo e da un trono, avendo tutti questi simboli un senso messianico.

Ci possiamo quindi giustamente chiedere se non sia lo stesso per il Tempio, per il lulab e l'etrog, per la menorah. Per l'appunto Rachel Wischnitzer non esita ad accostare questa rappresentazione a Zaccaria, XIV, 16, ed a vedere, nel tempio, il Tempio escatologico 14. E conclude l'insieme del suo studio: "La sola festa indiscutibilmente designata con i simboli del culto, il lulab e l'etrog, è la festa dei Tabernacoli. Ma è concepita simbolicamente come una festa messianica e associata con la pittura centrale del Tempio messianico e l'idea di salvezza" 15.

Da questa prima indagine risulta che la tradizione ebraica, dal tempo dei Profeti fino al IV secolo dopo Cristo, ha dato alla festa dei Tabernacoli un'interpretazione messianica. Quanto abbiamo mostrato per la festa nel suo insieme, dobbiamo riprenderlo adesso per i diversi elementi che la compongono. Da un lato vi troveremo una conferma di ciò che abbiamo anticipato, e d'altra parte saremo condotti a chiarire i diversi simbolismi escatologici che questi elementi hanno ricoperto nel giudeo-cristianesimo durante il periodo che ci interessa. Ci riferiremo, alla fine, ai dati letterari ed archeologia ebraici, ma anche ai dati giudeo-cristiani, che appaiono semplicemente l'eco di un simbolismo anteriore.

Un primo elemento è quello delle capanne di fogliame, le skenai, i tabernacoli. È senza dubbio uno degli elementi il cui significato messianico risale a più lontano. È forse a essi che Isaia (XXXII, 18) allude, rappresentandoci la vita dei giusti nel regno messianico come un'abitazione nei tabernacoli, raffigurati dalle tende del soggiorno nel deserto: "Il popolo sarà assiso nel riposo (anapausis) e nella pace e dimorerà con fiducia nei tabernacoli (skenai)"

È a partire da questo tema che, come lo ha visto Harald Riesenfeld, un significato messianico sarà dato alla festa dei Tabernacoli: "Le capanne furono concepite non soltanto come reminiscenza della protezione divina nel deserto, ma anche come prefigurazione dei sukkoth, nei quali i giusti abiteranno nei secoli a venire. Così appare che un significato escatologico molto preciso era collegato al rito più caratteristico della festa dei Tabernacoli, così come era celebrata ai tempi del giudaismo" 16.

È in questa stessa prospettiva che si deve senza dubbio spiegare, nel Nuovo Testamento, "i Tabernacoli eterni" (aionioi skenai) di cui si parla in Luca, XVI, 9. Ugualmente l'espressione skenai è frequente nell'Apocalisse per designare l'abitazione dei giusti nel cielo (VII, 1 5; XII, 12; XIII, 6; XXI, 3). Ora noi vedremo che l'Apocalisse è piena di allusioni alla festa dei Tabernacoli. Ma sopratutto sembra proprio che possiamo, con Riesenfeld, vedere nella simbolica escatologica delle capanne, la chiave di un episodio capitale del Nuovo Testamento, quello della Trasfigurazione. Un certo numero di elementi orientano infatti verso un rapporto fra l'episodio e la festa dei Tabernacoli.

Il primo è cronologico: Marco e Matteo dicono che la Trasfigurazione ebbe luogo "sei giorni più tardi" (Matteo, XVII, 1; Marco, IX, 2), mentre Luca la fissa "pressappoco otto giorni più tardi" (IX, 28). La fluttuazione stessa indica che si tratta di una circostanza dell'anno in cui l'intervallo da sei a otto ha una portata speciale. Ora questo va bene particolarmente per la festa dei Tabernacoli, che durava otto giorni, e in cui l'ottavo giorno aveva una speciale importanza.

Un secondo elemento, geografico, è quello della Montagna. Orbene, noi abbiamo rilevato il legame particolare fra la festa e il Monte degli Ulivi. In Zaccaria, la gloria di appare sul Monte degli Ulivi: così il Cristo si manifesta nella sua gloria sulla Montagna non identificata della scena. La nube è in rapporto con il culto del Tempio. Essa è qui l'espressione dell'abitazione di tra i giusti nel mondo a venire. Riesenfeld indica ugualmente che l'espressione: "È bello per noi stare qui" (Luca, IX, 37) potrebbe essere l'espressione del riposo dell'anapausis escatologica, di cui abbiamo visto prima in Isaia il collegamento con l'abitazione nei Tabernacoli 17.

Adesso un ultimo elemento, il più misterioso, si chiarisce: quello delle capanne (skenai) che Pietro propone di costruire per il Messia, Mosè ed Elia. Sembra proprio, infatti, che si debba vedere in queste capanna un'allusione alla festa dei Tabernacoli. La manifestazione della gloria di Gesù appare a Pietro come il segno che i tempi messianici sono giunti. Ora uno dei caratteri dei tempi messianici era l'abitazione dei giusti nelle capanne, che prefiguravano le capanne della festa dei Tabernacoli. Il gesto di Pietro si spiega dunque molto chiaramente: esprime la sua fede nel compimento attuale dei tempi messianici sotto la forma dei riti della festa dei Tabernacoli 18. Il passo si comprende ancora meglio se la scena ha avuto effettivamente luogo all'epoca della festa dei Tabernacoli. È comunque un punto sul quale torneremo più in là.

Rimane un'ultima osservazione da fare sul significato escatologico delle capanne: quella del loro simbolismo. Metodio vi vede il simbolo dei corpi risuscitati durante il millenario (Conv., IX, 9; G. C. S., 120). Il confronto del corpo con un tabernacolo si trova in Sapienza (IV, 1 5), in II Corinzi (IV, 2-8), in Il Pietro (1, 13). Ma il problema del suo rapporto in questi testi con la festa dei Tabernacoli, è discusso; anche qui, vi ritorneremo.

Uno dei testi biblici più antichi, ove i cristiani avevano associato l'idea della risurrezione a quella di un tabernacolo innalzato, è Amos, IX, Il: "Rialzerò (anastesomai) la tenda di Davide". Il testo si trova nelle Testimonia utilizzate da Ireneo (Dem., 38 e 62) come profezia della risurrezione di Cristo. E si trovava già nelle Testimonia di Qumrán, ma senza riferimento alla risurrezione (C. D. C., VII, 14-19). Non appare dunque che il rapporto delle capanne della festa con i corpi risuscitati sia anteriore al cristianesimo.

Di contro noi incontriamo nel giudaismo un altro simbolismo che concerne non le capanne stesse, ma gli ornamenti che le ricoprono. Riesenfeld nota, infatti, che l'idea che l'addobbo dei padiglioni futuri sia in rapporto con le azioni dell'uomo durante la sua vita terrena, è familiare ai Midrashim 19. Questo orienta verso un simbolismo che ritroveremo per il lulab e l'etrog.

È per noi interessante notare che questo simbolismo dei padiglioni si ritrova nella tradizione cristiana, che qui dipende certamente da un simbolismo rabbinico. Metodio dice: "lo festeggerò Dio solennemente [durante il millenario] avendo ornato il tabernacolo del mio corpo [= il corpo risuscitato] di belle azioni. Esaminato il primo giorno della risurrezione, io porto ciò che è prescritto per me se sono ornato dei frutti della virtù. Se la Scenopegia è la risurrezione, ciò che è prescritto per l'ornamento delle capanne sono le opere della giustizia" (Conv., IX, 17; G. C. S., 116, 23-27). Dal canto suo Ephrem scrive: "Ho visto (in Paradiso) le tende (o"vaí) dei giusti irrorate di profumi, coronate di frutti, inghirlandate di fiori. Quale è stato lo sforzo dell'uomo, tale sarà il suo tabernacolo" (Hymn. Parad., V, 6; Beck, Studia anselmiana, 26, pag. 41). Beck nota espressamente che i tabernacoli sono in rapporto con l'omonima festa (ibid., pag. 3).

Questo ci conduce a una seconda serie di simboli, il cui significato messianico ed escatologico nel giudaismo contemporaneo del Cristo è certo, il lulab e l'etrog. Qui ci troviamo in presenza dei soggetti più frequentemente rappresentati sui monumenti ebrei. Goodenough ha consacrato loro un lungo studio (IV, pp. 145-166). Si rileverà innanzitutto il loro rapporto con la speranza messianica. Riesenfeld ha attirato l'attenzione su un passaggio del Testamento di Nephtali (V, 4). Si tratta di una visione di Nephtali, che ha per luogo il Monte degli Ulivi e dove Levi, avendo trionfato sul sole, diviene egli stesso brillante come il sole. Gli vengono allora consegnate dodici palme. Se ci ricordiamo dei collegamenti della festa dei Tabernacoli e del Monte degli Ulivi con l'attesa messianica, l'apparizione del Messia alla festa dei Tabernacoli sul Monte degli Ulivi non può vedersi qui che come un sole levante, e le palme sono allora il segno della sua vittoria20. Come non accostare l'episodio della Trasfìgurazione del Cristo sul Monte degli Ulivi con il suo ingresso trionfante? È sempre in tal senso che si deve interpretare il lulab e l'etrog nel pannello centrale di Dúra.

Ma accanto a questo senso messianico ve ne è uno molto più importante, che concerne la speranza escatologica nell'aldilà, e in effetti è questo che spiega la frequente presenza del lulab e dell'etrog nei monumenti funerari. Goodenough ne cita innumerevoli esempi. Qui il simbolismo non è quello della vittoria, ma della risurrezione 21, ed è rimarchevole che la palma si trovi su una stele giudeo-cristiana, di cui il P. Testa mi ha inviato una riproduzione. È in questa prospettiva che assume un suo senso la presenza delle palme nelle mani dei martiri, vincitori della morte, tale quale la troviamo già nell'Apocalisse (VII, 9).

Si potrebbe obiettare che, sia in questo passo che sui monumenti, si tratta di palme e non del lulab propriamente detto. Ma Goodenough osserva che la palma era l'elemento più caratteristico e rappresentativo del lulab, e simbolizza qui la speranza dell'immortalità 22.

Si deve anche osservare un altro simbolismo del lulab, che si aggiunge a quanto dicevamo a proposito dei rami che ornavano le capanne: è quello che indica le buone opere che saranno ricompensate all'ultimo giorno. Durante un rito della festa, il primo giorno gli Ebrei dovevano presentare il loro lulab affinché si potesse controllare se i rami che lo componevano erano in buono stato 23. Sembra che un passo del Pastore di Erma, il cui carattere giudeo-cristiano è noto e nel quale il rapporto con la festa dei Tabernacoli mi appare evidente, ci fornisca il simbolismo di questo rito. Vi si vede l'Angelo glorioso distribuire dei rami di salice alla folla, e poi richiederli a ognuno; egli consegna delle corone a coloro i cui rami sono coperti di germogli e rimanda indietro quelli i cui rami sono secchi. L'Angelo ci spiega quindi che i rami sono la Legge, e coloro i cui rami sono secchi sono quelli che l'hanno trascurata (Sim., VIII, 2, 1-4). Abbiamo modo di vedere il persistere di questo simbolismo presso i cristiani.

Fin'ora abbiamo parlato solo del lulab, ma l'etrog condivide la stessa simbolica escatologica, accompagnando frequentemente il lulab sui monumenti funerari con l'identico significato di immortalità. I Padri della Chiesa ravviseranno nell'etrog il simbolo del frutto dell'Albero della Vita paradisiaca ed a loro volta molti testi ebraici o giudaico-cristiani vedono nel frutto dell'Albero della Vita l'espressione della vita eterna 24

Ma vi è già nel giudaismo una relazione fra questo simbolismo e quello dell'etrog 25? A questo proposito, è interessante confrontare Ezechiele, XLVII, 12, e Zaccaria, XIV, 16, in quanto i due capitoli sono evidentemente dipendenti l'un dall'altro. Si parla dell'acqua viva che scenderà dalla nuova Gerusalemme attraverso il Monte degli Ulivi (Ezechiele, XVII, 8 e Zaccaria, XIV, 4 e 8): sulla sponda di questo torrente Ezechiele ci mostra degli alberi della vita.

Lo stesso tema sarà ripreso nell’Apocalisse, XXII, 2, ed a ciò corrisponde in Zaccaria la festa dei Tabernacoli. In entrambi i casi si tratta del Monte degli Ulivi, la cui relazione con la festa dei Tabernacoli ci appare ora chiara ed evidente.

Possiamo quindi concludere che la festa dei Tabernacoli, si rivela come una immagine del Paradiso in cui l’etrog simbolizza il frutto dell’albero della vita.


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1. "Les Quatre-Temps de semptembre et la fête des Tabernacles", La Maison Dieu, 46 (1956), pp. 114-136; "La fête des Tabernacles dans l'exégèse patristique", Stud. Patrist., I, Berlino 1957, pp. 262-279

2. J. Pedersen, Israël, II, Londra 1940, pp. 418-425; H. J. Kraus, Gottesdienst in Israël, Studien zur Geschichte des Laubhüttenfestes, Monaco 1954, J. Van Goudoever, Biblical Calendars, Leyde 1959, pp.30-36

3. Cfr. Strack-Billerbeck, Kommentar zum N.T., II, pp 774-812

4. Ibid., II, 778

5. Teodoreto, Quaest. Ex. 54; P.G., LXXX, 276 B-C; Gerolamo, In Zach, 3, 14; P.L. XXV, 1536

6. Teodoreto la chiama festa della consumazione (sunteleias) alla fine dell'anno (Quaest. Ex. 34; P.G. LXXX, 276 B)

7. N. H. Straith, The Jewish New Year Festival, Londra 1947, pp. 75-80

8. Cfr. Neemia, VIII, 15: "Andate sulla montagna e riportate dei rami per fare i tabernacoli"

9. Cfr. M. Simon, Verus Israël, Parigi 1948, p. 338

10. Cfr. Jean Daniélou, Theologie du Judéo-christianisme, Parigi 1959, pp. 353-358

11. Jewish simbols in Greco-Roman Period, 8 vol., New York 1953-1959

12. C. H. Kraekling, The Excavations of Dura Europos, Final Report, VIII, I, New Haven 1956, pp. 118 e seguenti

13. Op. Cit., p. 117

14. The Messianic Theme in the Painting of the Dura Sinagogue, Chicago 1948, p.89

15. Rachel Wischnitzer, op. cit., p. 101

16. Jésus transfiguré, Coopenhagen 1947, p.189. Cfr. J. Bonsirven, Le Judaisme palestinien au temps de Jésus-Christ, 11, Parigi 1945, p. 522; R. Sahlin, Zur Typologie des Johannesvangeliums, Upsala 1959, p. 54

17. Op. Cit., p. 258

18. B. Zielenski, "De sensu Transfigurationis", Verb. Dom., 26 (1948), pag. 342

19. Op. Cit., pag. 197

20. Cfr. Strack-Billerbeck, 11, pp. 789-790

21. Riesenfeld, op. cit., pag. 24

22. Cfr. Goodenough, op. cit., pag. 165

23. Cfr. Starck-Billerbeck, 11, pp. 792-793

24. I Hén., XXV, 4-5; Test. Lev., XVIII, 11; Apoc., II, 7; XXII, 2

25. Cfr. Riesenfeld, op. cit., pp. 24-25


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[*] Tratto da J. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, Edizioni Arkeios